La giustizia costituzionale nel 2004

 

Relazione del Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida

20 gennaio 2005

Introduzione

1. Alcuni dati statistici

1.1. Il totale delle decisioni

Il totale delle decisioni (numerate) rese dalla Corte costituzionale nel 2004 è di 446, cui dovrebbero aggiungersi le ordinanze non numerate (quali, ad esempio, quelle che si pronunciano in merito all’ammissibilità di interventi di terzo).

Il valore si pone considerevolmente al di sopra delle 382 decisioni registrate nel 2003 (con un incremento del 16,75%), ma al di sotto di quelli dei cinque anni precedenti, in cui i dati sono oscillati tra i massimi degli anni 2000 e 2002, rispettivamente con 592 e 536 decisioni,ed i minimi del 1999 e del 2001, rispettivamente con 471 e 447 (la media complessiva del periodo si attesta a 485,60 decisioni annue). Sebbene il dato sia relativamente basso (escludendo il 2003, per trovare un numero di decisioni inferiore a quello del 2004, dobbiamo risalire alle 437 del 1996), ciò che pare da segnalare è come, dopo la netta flessione dell’anno precedente, si sia tornati su valori assimilabili a quelli medi degli ultimi anni (il dato di 485,60 decisioni annue per il periodo 1999-2003 viene sostanzialmente confermato da quello di 486,73 per il periodo 1993-2003).

Più del totale, a rivestire un particolare interesse ai fini dell’inquadramento dell’attività della Corte costituzionale è tuttavia la suddivisione delle pronunzie per tipi di giudizi. All’uopo, le 446 decisioni possono essere così suddivise: 286 nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale; 97 nel giudizio in via principale; 18 nel giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, che salgono a 19 includendo una ordinanza resa in sede di giudizio sulla sospensione dell’atto impugnato (i riferimenti statistici che seguono si basano su quest’ultimo dato); 41 in quello per conflitto tra poteri dello Stato, di cui 30 ordinanze emesse in sede di giudizio di ammissibilità; 1 in sede di ammissibilità di una richiesta di referendum abrogativo; le 2 restanti sono ordinanze di correzione di errori materiali.

Questi dati confermano la preponderanza numerica del giudizio in via incidentale, le cui decisioni coprono il 64,13% del totale; il giudizio in via principale occupa il 21,75%, mentre i due conflitti si assestano, rispettivamente, a quota 4,26% e 9,19%, dato, quest’ultimo, che scende al 2,47%, se si escludono le ordinanze in tema di ammissibilità del conflitto.

Già questo primo dato è indicativo di un trend che, avvertibile nel 2003, ha trovato nel 2004 piena conferma: il giudizio in via incidentale, che nel 2003 aveva toccato, in termini percentuali, il suo minimo storico (65,45%), subisce un’ulteriore, sia pur minima, flessione (pari all’1,32%). I dati dei venti anni precedenti sono assai lontani, in essi oscillando il giudizio in via incidentale tra il 75 ed il 90% del totale delle pronunce, attestandosi su una media dell’83,64% per il periodo 1983-2002 (quest’ultimo anno presenta un valore assai prossimo alla media: 84,29%), pari ad oltre il 130% rispetto al dato del 2004.

Discorso analogo ma inverso è da farsi per il giudizio in via principale, il quale, ancorato, per il periodo 1983-2002, ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una percentuale di 5,61), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo di 11,14% (nel 1988), ha conosciuto un notevole incremento nel 2003, giungendo al 14,92%, in relazione al quale il dato del 21,75% proprio del 2004 costituisce un incremento – invero ragguardevole – pari al 45,78%.

Meno significativi sono i valori relativi ai due giudizi per conflitto. In ordine al conflitto tra Stato e Regioni e tra Regioni, il 4,26% del 2004 segna una flessione rispetto al 2003, quando la percentuale sul totale delle decisioni aveva raggiunto il 6,02, in netta crescita rispetto al 2002 (2,24%), ma non troppo distante dalla media relativa al periodo 1983-2002, di 5,08% (con picchi del 2,19%, nel 2000, e dell’11,06%, nel 1988). Rispetto a questa media, il valore del 2004 si pone, dunque, leggermente al di sotto.

Per quanto attiene ai conflitti tra poteri dello Stato, escludendo le decisioni relative all’ammissibilità dei conflitti, il dato del 2,47% è superiore rispetto alla media degli undici anni precedenti (il ritardato sviluppo di questo tipo di contenzioso rende pleonastici i riferimenti a periodi anteriori al 1993), dell’1,87%, ma inferiore rispetto a quella dei cinque anni precedenti (nel periodo 1999-2003, la media è stata del 2,88%). Con precipuo riferimento all’anno precedente, il confronto vede prevalere il dato del 2004 rispetto al 2,09% del 2003.

Il dato aggregato derivante dalla somma delle decisioni sui conflitti interorganici e sull’ammissibilità (9,19%) denota, invece, per il 2004 una certa flessione rispetto al 2003, quando la percentuale era stata dell’11,51%.

L’estrema volatilità dei valori relativi al giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo sconsiglia valutazioni in termini di trend, mentre le 2 ordinanze di correzione di errori materiali (sul totale delle decisioni, lo 0,45%) possono essere validamente confrontate con le 3 ordinanze pronunciate ogni anno tra il 2001 ed il 2003.

1.2. Il rapporto tra decisioni ed atti di promuovimento

Per quanto il numero di decisioni non sia particolarmente elevato, l’anno 2004 sembra manifestare una inversione di tendenza nel saldo tra cause sopravvenute e cause definite. Dopo un 2003 reso difficile dal già ricordato sviluppo del contenzioso tra lo Stato e le Regioni, ma anche dall’alto numero di ordinanze di rimessione pervenute alla cancelleria della Corte, nel 2004 si è assistito all’inizio dello smaltimento di un arretrato che, pur senza assurgere a livelli di guardia, deve essere comunque tenuto sotto osservazione.

Le ordinanze di rimessione emesse dai giudici a quibus, che nel 2003 erano giunte a quota 1.196, sono rimaste molto elevate, ma si sono ridotte a 1.094 (con un saldo negativo pari all’8,53% rispetto all’anno precedente). Contemporaneamente, le cause sollevate in via incidentale decise sono passate dalle 435 del 2003 alle 1174 del 2004 (con un saldo positivo del 169,89% rispetto all’anno precedente), assicurando una differenza tra cause definite e cause sopravvenute di 80, ossia il 7,31% in rapporto alle cause sopravvenute (nel 2003, il saldo era di -761, e la percentuale era del -63,63%).

In ordine al giudizio di legittimità costituzionale in via principale, i risultati sono meno positivi, quanto meno qualora vengano letti in termini assoluti: a fronte delle 116 sopravvenienze, sono 115 i ricorsi decisi, di cui peraltro 8 decisi soltanto parzialmente (in conseguenza della prassi seguita di separare le cause: di essa si dirà conto nella sedes materiae). Il saldo tra i ricorsi promossi ed i 107 interamente definiti è dunque di -9 (il 7,76% rispetto alla sopravvenienza); il dato negativo viene ad essere meno marcato se confrontiamo i ricorsi promossi con quelli anche parzialmente definiti: -1 (ossia il 0,87% rispetto alla sopravvenienza). Se si confrontano questi dati con quelli del 2003, un certo ottimismo si impone, poiché allora ai 98 ricorsi promossi hanno corrisposto 88 ricorsi decisi anche parzialmente, con un saldo di -10 (corrispondente al 10,20% rispetto alla sopravvenienza).

Indiscutibilmente positivi sono, invece, i dati relativi ai conflitti intersoggettivi, che hanno visto 16 ricorsi promossi e 22 ricorsi decisi, con un saldo positivo di 6 ricorsi (vale a dire il 37,50% della sopravvenienza); nel 2003, ai 15 ricorsi promossi avevano fatto riscontro 36 ricorsi decisi, con un saldo di 21 (il 140% della sopravvenienza).

Un ambito nel quale la sopravvenienza ha superato nettamente il numero di decisioni è stato quello dei conflitti tra poteri dello Stato: gli 11 ricorsi decisi sono infatti rimasti ben al di sotto dei 17 ricorsi promossi, con un saldo di -6 (ossia il 35,29% della sopravvenienza). I dati del 2003 erano, peraltro, ben più negativi, se è vero che a fronte di 22 ricorsi promossi, erano stati solo 8 i ricorsi decisi, con un saldo di -14 (il 63,64% della sopravvenienza).

Finalmente, deve ricordarsi che la pendenza inerente ai ricorsi per conflitto tra poteri dello Stato ancora da delibare in sede di giudizio di ammissibilità ammonta a 12 ricorsi (alla fine del 2003 erano 22).

1.3. La forma delle decisioni

Delle 446 decisioni, le sentenze sono state 167 e le ordinanze 279, pari, rispettivamente, al 37,44% ed al 62,56%.

Il dato, leggermente più elevato rispetto al 2003 (in cui le 134 sentenze rappresentano il 35,08% sul totale delle decisioni), lascia intuire un mutamento del trend rispetto agli anni 1994-2002, allorché la percentuale di sentenze, dall’iniziale 58,01 (picco massimo degli ultimi due decenni), era costantemente scesa (riducendosi, in un solo anno, dal 51,38% del 1997 al 36,94% del 1998) sino al 25,19%. L’inversione di tendenza è ancora lontana dal riportare il saldo percentuale delle sentenze sui livelli propri di buona parte degli anni novanta (tra il 1991 ed il 1997, la percentuale ha oscillato tra il 49,71% ed il 58,01%), assestandosi su livelli assimilabili a quelli degli anni 1987-1990, largamente coincidenti con la fase c.d. dello «smaltimento dell’arretrato» (i cui valori sono compresi tra il 40,50% del 1990 ed il 37,25% del 1989).

Al di là di queste considerazioni di ordine generale, una particolare attenzione meritano i dati del 2004 disaggregati per tipo di giudizio: nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, 63 sono le sentenze e 223 le ordinanze (percentuali: 22,03 e 79,97); nel giudizio in via principale, 81 le sentenze e 16 le ordinanze, di cui quattro rese in sede di sospensione dell’atto impugnato (percentuali: 83,51 e 16,49); nel conflitto tra enti territoriali, 14 le sentenze e 5 le ordinanze, di cui una resa in sede di sospensione dell’atto impugnato (percentuali: 73,68 e 26,32); nel conflitto tra poteri dello Stato, infine, 8 le sentenze e 33 le ordinanze, di cui trenta rese in sede di ammissibilità (percentuali: 19,51 e 80,49).

Più che la comparazione diacronica in termini percentuali (invero scarsamente significativa, a tal riguardo, potendosi constatare, con poche eccezioni, una sostanziale omogeneità dei dati rispetto agli ultimi anni), ciò che rileva è soprattutto il rapporto tra i tipi di giudizio. Avendo come riferimento le decisioni adottate con la forma della sentenza, deve sottolinearsi che, per la prima volta nella cinquantennale storia della Corte costituzionale, il giudizio nell’ambito del quale è stato reso il maggior numero di sentenze non è il giudizio in via incidentale. Già nel 2003 la distanza tra i due tipi di giudizi di legittimità costituzionale si era fortemente assottigliata (54 sentenze nell’incidentale contro 48 nel principale); nel 2004, il giudizio in via principale ha superato – e nettamente – il giudizio in via incidentale. In termini percentuali, le sentenze sono state rese nel 37,72% dei casi in sede di giudizio in via incidentale, contro il 48,50% del giudizio in via principale (nel 2003, le percentuali erano, rispettivamente, il 40,29% ed il 35,92%); a completare il quadro, le sentenze nei conflitti si assestano sull’8,38% per quello tra enti territoriali e sul 4,79% per quello tra poteri, mentre l’unica sentenza di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo copre lo 0,60% del totale.

Con riguardo alle ordinanze, il giudizio in via incidentale mantiene una assoluta centralità, coprendo il 79,93%, contro il 5,73% del giudizio in via principale, l’1,79% del conflitto intersoggettivo, l’11,83% del conflitto interorganico e lo 0,72% rappresentato dalle due ordinanze di correzione di errori materiali.

1.4. La scelta del rito

Nel corso del 2004, la Corte ha tenuto 38 adunanze (contro le 39 del 2003), di cui 18 udienze pubbliche (nel 2003 erano state 17) e 20 camere di consiglio (nel 2003 erano state 22).

Rispetto al 2003, si è assistito ad una consistente crescita della percentuale di pronunce adottate a seguito di udienza pubblica rispetto a quelle adottate a seguito di camera di consiglio: nel 2003, delle 382 pronunzie, 126 erano seguite ad una udienza pubblica e 256 ad una camera di consiglio (percentuali rispettive: 32,98 e 67,02); nel 2004, le 446 pronunzie si sono ripartite tra le 167 adottate dopo una udienza pubblica e 279 dopo una camera di consiglio (percentuali rispettive: 37,44 e 62,56).

Questi dati – con, in particolare, la crescita del 4,46% delle decisioni adottate a seguito di udienza pubblica – non sembra indicare mutamenti in ordine alla scelta del rito, ma appare piuttosto come il logico corollario della crescita in termini numerici dei giudizi diversi da quelli in via incidentale, ché è in quest’ultimo che, generalmente, si fa ricorso alla camera di consiglio.

In tal senso, possono validamente confrontarsi i valori relativi ai due giudizi di legittimità costituzionale per gli anni 2003 e 2004.

Nel 2003, le pronunce rese in sede di giudizio in via incidentale erano così ripartite: 44 a seguito di udienza pubblica e 206 a seguito di camera di consiglio, con percentuali, rispettivamente, del 17,60 e dell’82,40; analogamente, nel 2004, alle 47 pronunce successive ad una udienza pubblica hanno fatto riscontro le 239 successive ad una camera di consiglio, con percentuali che non si discostano in modo radicale rispetto all’anno precedente, attestandosi, rispettivamente, al 16,43 ed all’83,57.

Anche con riferimento al giudizio in via principale, le percentuali sono tendenzialmente assimilabili, giacché le pronunzie a seguito di udienza pubblica hanno coperto, nel 2003, il 94,74% e, nel 2004, il 92,78% (correlativamente, le pronunzie a seguito di camera di consiglio sono passate dal 5,26% al 7,22%); a mutare sono stati, però, i valori assoluti, di talché le decisioni adottate a seguito di udienza pubblica sono passate dalle 54 del 2003 (con 3 decisioni a seguito di camera di consiglio) alle 90 del 2004 (con 7 decisioni a seguito di camera di consiglio).

Al di là di questi riferimenti, che certo aiutano a spiegare i dati riscontrati, ciò che pare da sottolineare è quanto la crescita del peso dell’udienza pubblica rispetto alla camera di consiglio incida sul carico di lavoro della Corte costituzionale. In tal senso, può citarsi il dato – indubbiamente opinabile nella sua genericità, ma probabilmente non del tutto privo di rilievo – inerente alla media dei giorni che intercorrono tra la data della trattazione della causa e la data del deposito della decisione: per le cause di camera di consiglio la media è di 54,01 giorni, mentre per le cause di udienza pubblica la media sale ad 81,73 giorni.

In buona sostanza, il periodo che occorre, mediamente, per decidere una causa trattata in udienza pubblica è pari a circa una volta e mezzo (esattamente, al 151,32%) rispetto a quello necessario per decidere una causa trattata in camera di consiglio.

2. Un anno di attività

L’anno 2004 difficilmente può essere definito come un anno «di transizione»: molti sono, in effetti, gli elementi che contribuiscono a renderlo un anno importante.

Innanzi tutto, si segnala un duplice avvicendamento all’interno del collegio. Alla fine del mese di gennaio, il Pres. Riccardo Chieppa ha terminato il suo mandato ed è stato sostituito dal Pres. Alfonso Quaranta; alla metà di settembre, a subentrare al Pres. Gustavo Zagrebelsky è stato il Prof. Franco Gallo.

Nel 2004, la Corte è stata presieduta da tre diversi giudici: Riccardo Chieppa, poi Gustavo Zagrebelsky, infine Valerio Onida.

Durante la presidenza di Gustavo Zagrebelsky, è stata approvata, con deliberazione del 10 giugno 2004, anche la modifica di alcuni articoli delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. La riforma ha riguardato molteplici aspetti dei giudizi di fronte alla Corte costituzionale.

In particolare, si è inserita la previsione secondo cui, nel giudizio in via incidentale, eventuali interventi di soggetti terzi debbono seguire la forma e le modalità che sono proprie degli interventi del Presidente del Consiglio dei ministri o del Presidente della Giunta regionale (art. 4). Altre modifiche hanno riguardato la procedura di acquisizione degli atti al giudizio (art. 7), il potere presidenziale di convocazione (art. 8) e la pubblicazione delle decisioni della Corte (art. 20).

Per quanto attiene al giudizio di legittimità costituzionale in via principale, le modifiche sono consistite essenzialmente in «aggiornamenti» normativi resisi necessari a seguito del mutamento del quadro costituzionale (art. 23 e, con riguardo all’attività di pubblicazione degli atti di promuovimento, art. 24).

In riferimento al conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, si è introdotta la necessità di notificare il ricorso anche «all’organo che ha emanato l’atto, quando si tratti di autorità diverse da quelle di Governo e da quelle dipendenti dal Governo» (art. 27).

Altra modifica è stata quella relativa alla pubblicazione dei ricorsi per conflitto, che, nel caso dei conflitti tra poteri dello Stato, debbono essere pubblicati unitamente all’ordinanza che decide sulla ammissibilità (art. 29).

Infine, è stata introdotta la previsione secondo cui il deposito dei ricorsi «può essere effettuato avvalendosi del servizio postale» («in tal caso, ai fini dell’osservanza dei termini per il deposito,vale la data di spedizione postale»: art. 30).

Con precipuo riguardo all’attività giurisdizionale, può rilevarsi che, secondo una tendenza ampiamente radicata, vi è una pressoché costante congruenza tra giudici relatori e giudici redattori delle decisioni, nel senso che sono episodici i casi in cui si abbia una discrepanza. Nel 2004, si sono avuti, in particolare, tre casi: l’uno relativo alla decisione del giudizio promosso in via diretta avverso la deliberazione legislativa statutaria della Regione Calabria (sentenza n. 2); il secondo attinente ad una questione sollevata in via incidentale relativa ai soggetti esonerati dall’esame per l’iscrizione nel registro dei revisori contabili (sentenza n. 35); il terzo concernente una questione sollevata, di nuovo, in via incidentale, avente ad oggetto il procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (ordinanza n. 169).

Venendo ad alcune considerazioni di ordine più generale, dal quadro statistico che è stato sopra tratteggiato emergano alcuni dati che rendono l’attività svolta particolarmente interessante. Si è detto della consistenza del contenzioso tra lo Stato e le Regioni manifestatosi in sede di giudizio di legittimità costituzionale in via principale (assai più che in quella di conflitto intersoggettivo): l’avvenuta riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha continuato ad alimentare una conflittualità che, dalla fine del 2001, non accenna, almeno per il momento, a scemare, nonostante la (parziale) attuazione legislativa (segnatamente con la legge 5 giugno 2003, n. 131, c.d. La Loggia) ed il sedimentarsi di una giurisprudenza costituzionale ormai piuttosto articolata, che tra il 2003 ed il 2004 ha riguardato la gran parte delle novità costituzionali introdotte.

La crescita di questo tipo di contenzioso ha enfatizzato il ruolo arbitrale che la Corte costituzionale è chiamata a svolgere tra gli enti territoriali, alla stessa stregua dei suoi omologhi di altri Stati a struttura composta, dalla Supreme Court statunitense a quella canadese, dal Bundesverfassungsgericht tedesco al Tribunal Constitucional spagnolo, alla Cour d’arbitrage belga.

Il numero di ricorsi e di decisioni non è, di per sé, sufficiente a rendere ragione dell’importanza assunta da questo tipo di giudizi. È solo andando ad analizzare le questioni che la Corte si è trovata a risolvere che la comprensione diviene meno approssimativa: dallo scrutinio di legittimità costituzionale di molte disposizioni delle più recenti leggi finanziarie alla configurabilità (con i relativi limiti) di poteri sostitutivi delle Regioni nei confronti degli enti locali, dal controllo di costituzionalità del condono edilizio straordinario a quello sulla disciplina del servizio civile sostitutivo, dal giudizio su diverse disposizioni della legge La Loggia alla ricostruzione dei margini entro cui si svolge l’autonomia finanziaria degli enti territoriali autonomi, la Corte costituzionale è intervenuta su aspetti fondamentali dell’organizzazione della Repubblica ma anche, più in generale, degli istituti che reggono la società.

La funzione arbitrale non è stata declinata esclusivamente nell’ottica dei rapporti tra lo Stato e le Regioni, ché, anzi, non mancano – pur nella loro esiguità numerica – decisioni di grande rilievo rese nel quadro della garanzia degli equilibri tra i poteri dello Stato: a tal riguardo, oltre alle sempre importanti decisioni dei conflitti in tema di insindacabilità delle opinioni espresse da parlamentari, si segnalano, in particolare, il tema dei limiti che si pongono alla perquisizione nelle sedi di partito ed il c.d. «caso Cossiga», in cui la Corte ha affrontato il tema del potere di esternazione del Presidente della Repubblica.

Queste considerazioni, qualora assolutizzate, rischiano però di essere fuorvianti. Se è vero, infatti, che la Corte ha visto crescere l’importanza della sua funzione arbitrale, è altrettanto vero che la funzione che più la caratterizza ab origine, quella cioè di garante dei diritti individuali e dei canoni fondamentali della convivenza civile che animano la Costituzione, non è affatto venuta meno, ma, al contrario, ha conosciuto manifestazioni di particolare risonanza, soprattutto nell’ambito di giudizi di legittimità in via incidentale. Grande risalto, anche sugli organi di informazione, hanno avuto, tra le altre, le decisioni riguardanti la disciplina delle immunità per le alte cariche dello Stato e quella attuativa dell’art. 68 della Costituzione, in tema di immunità dei parlamentari; attenzione ed interesse hanno suscitato anche i giudizi sulle normative inerenti al reato di falso in bilancio, alle intercettazioni telefoniche, al riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi. Molto dibattute sono state poi le sentenze con cui la Corte ha preso posizione su alcuni aspetti della legislazione in materia di condizione giuridica degli stranieri, per tacere della questione sollevata in merito all’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche.

La funzione di garanzia, d’altra parte, non è stata esercitata soltanto allorché la Corte è stata investita di questioni di legittimità costituzionale in via incidentale. Molti giudizi in via principale, pur se radicatisi in chiave di controversia su attribuzioni costituzionali, hanno infatti avuto ad oggetto materie direttamente rilevanti per le situazioni giuridiche soggettive: si pensi, soltanto per citare qualche esempio, alla disciplina dei servizi pubblici locali, ai limiti che si frappongono alla ricerca scientifica, alla tutela della salute e dell’ambiente o alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.

Un cenno, infine, merita anche una prospettiva destinata a diventare, nel volgere di breve tempo, uno degli aspetti più importanti nella vita, non solo della Corte, ma di tutti gli attori istituzionali. Il 2004 è stato l’anno della firma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Questa Carta non potrà non avere incidenza anche sulla posizione e sulle funzioni della Corte costituzionale: la necessità e la volontà di disegnare per la Corte un ruolo nel contesto europeo che sia corrispondente alla propria storia ed alle proprie potenzialità hanno fatto da sfondo a tutta una serie di incontri e di attività che hanno impegnato i giudici costituzionali al fianco dei propri corrispondenti di altri Stati, oltre che dei membri delle corti europee di Strasburgo e di Lussemburgo.

Per queste ragioni, e per molte altre che sono state qui pretermesse, appare dunque ampiamente confortata l’idea che il 2004 sia stato per la Corte un anno nient’affatto «normale». L’esame compiuto della giurisprudenza che occupa le prossime pagine vuole esserne una dimostrazione ulteriore.


Parte I

Profili processuali

Capitolo I

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

1. Considerazioni introduttive

Il giudizio in via incidentale è stato, anche nel 2004, il giudizio che, sul piano puramente quantitativo, ha più impegnato la Corte costituzionale, nonostante la consistente diminuzione del numero di decisioni sulla quale ci si è soffermati in sede di introduzione.

Sul piano processuale, sono riscontrabili alcuni spunti di un certo interesse che saranno oggetto dei prossimi paragrafi.

2. La legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale

Nel corso del 2004, sono state decise per la prima volta questioni sollevate dal Consiglio di Stato in sede consultiva, nel quadro del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Con la sentenza n. 254 (poi confermata dalle ordinanze numeri 357 e 392), è stata negata la legittimazione del rimettente a porsi quale giudice a quo, sulla base della natura non giurisdizionale dell’organo. Rigettando gli argomenti in contrario addotti dal Consiglio di Stato (e segnatamente rilevando, da un lato, le diversità procedurali che caratterizzano il giudizio in via incidentale rispetto al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee e, dall’altro, la non assimilabilità – ai fini della legittimazione – della funzione consultiva del Consiglio di Stato a quella di controllo della Corte dei conti), è stato sottolineato come la Corte abbia più volte affermato «la natura amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, giudicando manifestamente infondata la questione di costituzionalità della normativa di cui al d.P.R. n. 1199 del 1971, concernente il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, prospettata per violazione, tra l’altro, degli articoli 76 e 77 Cost., proprio sul rilievo che, nonostante le peculiarità del suindicato ricorso, esso rientrava indubbiamente tra quelli amministrativi cui la legge di delega si riferiva». Una siffatta conclusione è stata ritenuta «ineludibile», alla luce del disposto dell’art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 1199 del 1971, il quale stabilisce che, ove il ministro competente intenda proporre (al Presidente della Repubblica) una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l’affare alla deliberazione del Consiglio dei ministri, provvedimento quest’ultimo, per la natura dell’organo da cui promana, all’evidenza non giurisdizionale.

Nessun problema di ammissibilità si è posto, invece, per la questione sollevata dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, chiamato a pronunciarsi – ai sensi dell’art. 43 della legge 25 maggio 1970, n. 352 – sulla richiesta di referendum proposta da un comune per il distacco da una regione e per la sua aggregazione ad un’altra (sentenza n. 334). Il giudizio in via incidentale ha costituito il secondo atto di una controversia giunta già alla cognizione della Corte, in occasione di un conflitto tra poteri dello Stato promosso da un privato cittadino («in qualità di “delegato effettivo” del Comune […] ai fini della presentazione della richiesta di referendum ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione»); nell’ordinanza n. 343 del 2003, che ha dichiarato il conflitto inammissibile, la Corte stessa ha rilevato come il procedimento di distacco di un comune da una regione e di aggregazione ad altra presentasse una fase giurisdizionale – quella, appunto, di fronte all’Ufficio centrale – atta a consentire l’instaurazione di un incidente di costituzionalità.

3. Il nesso di pregiudizialità tra giudizio a quo e giudizio di legittimità costituzionale

Nella giurisprudenza dell’ultimo anno trovano conferma gli orientamenti ormai consolidati della Corte in tema di pregiudizialità tra giudizio comune e giudizio in via incidentale.

In particolare, una eccezione di inammissibilità della questione per difetto del carattere incidentale, sull’assunto che l’eventuale pronuncia di accoglimento sarebbe venuta a concretare di per sé la tutela chiesta al giudice a quo, è stata respinta, una volta constatato che il petitum dell’azione proposta di fronte al rimettente era distinto e separato dalla questione di legittimità costituzionale, la quale concorreva a formare esclusivamente la causa petendi dell’azione stessa ed a consentirne l’accoglimento (ordinanza n. 361).

Eventuali illegittimità del giudizio a quo non si riverberano sulla questione di costituzionalità: nell’ordinanza n. 297 si è sottolineato, a tal riguardo, che l’asserito vizio dell’ordinanza di rimessione, emessa malgrado la pretesa illegittimità della estromissione dal giudizio di una delle parti, non incideva sull’ammissibilità del giudizio di costituzionalità.

Circa il momento nel quale la questione di legittimità costituzionale deve essere proposta, è stata dichiarata l’inammissibilità (manifesta) di questioni sollevate prematuramente, tanto da rendere la rilevanza «puramente ipotetica ed eventuale» (ordinanza n. 374; conformemente, ordinanza n. 434).

Del pari, sono state decise nel senso della manifesta inammissibilità le questioni sollevate tardivamente, quindi in difetto del carattere della pregiudizialità, in quanto il rimettente aveva oramai esaurito la sua cognizione in relazione alla disposizione oggetto di censura (ordinanze numeri 213, 268, 395 e 405).

La irrilevanza della questione è stata altresì pronunciata allorché la norma censurata non risultava applicabile nel caso di specie (sentenza n. 114, ordinanze numeri 88 e 266), in quanto – ad esempio – non in vigore al momento dei fatti da cui la causa originava (ordinanze numeri 289 e 318), oppure perché dalla ordinanza di rimessione si evinceva che nel giudizio a quo si procedeva per reati diversi da quelli contemplati nella disposizione impugnata (ordinanza n. 94).

Ad analogo esito hanno condotto le constatazioni che altro giudice rispetto al rimettente era l’unico legittimato a sollevare la questione (ordinanza n. 105) oppure che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma, nel senso voluto dal rimettente, non avrebbe avuto alcuna influenza nel giudizio a quo (ordinanza n. 276 e, in senso conforme, ordinanze numeri 127 e 375).

4. L’ordinanza di rimessione

Numerose sono le decisioni che si sono soffermate sulla forma e sui contenuti delle ordinanze di rimessione.

La Corte, in particolare, ha censurato le ordinanze di rinvio che non contenessero una precisa enunciazione dei termini della questione proposta, con riferimento, ad esempio, al contenuto della pronuncia richiesta alla Corte (ordinanza n. 60). Peraltro, si è escluso che l’erronea indicazione della norma censurata ridondi in un vizio dell’ordinanza quando dal contesto della motivazione sia agevolmente individuabile la norma effettivamente impugnata dal rimettente (sentenza n. 224); conseguentemente, anche se nel dispositivo dell’ordinanza non erano indicati la norma censurata ed i parametri costituzionali evocati, è stato sufficiente che tali elementi fossero desumibili dal contesto della parte motiva dell’ordinanza (ordinanza n. 201). Del pari, l’inesattezza nell’indicazione del parametro costituzionale non ha precluso l’esame della questione, dovendosi, quando i termini della stessa risultassero sufficientemente chiari, procedere a rettificare l’indicazione erronea (ordinanza n. 211).

Ad impedire una decisione di merito sono state in varie occasioni la carenza – assoluta o, in ogni caso, insuperabile – di descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo (ex plurimis, sentenza n. 257 e ordinanze numeri 122, 146, 149, 188, 189, 251, 252, 291, 373 e 393) o comunque il difetto riscontrato in ordine alla motivazione della rilevanza (ad es., ordinanze numeri 63, 79, 89, 99, 126, 143, 182, 339, 366 e 415) o della manifesta infondatezza (ad es., ordinanze numeri 81, 169 e 234) o di entrambe (ad es., ordinanze numeri 51, 53 e 164). Anche a proposito della motivazione, tuttavia, si è ritenuto sufficiente che essa fornisse – pur se succintamente – riferimenti sufficienti per cogliere il proprium della questione (ordinanza n. 141).

Altra ragione di inammissibilità della questione ripetutamente evidenziata è stato il mancato esperimento di un tentativo di interpretazione conforme alla Costituzione della disposizione censurata (sul punto specifico, v., peraltro, infra, par. 8).

Ordinanze di rinvio pur complete nei loro elementi indefettibili sono state – in base ad un orientamento consolidato – ritenute inidonee ad instaurare l’incidente di costituzionalità allorché esse erano motivate in maniera perplessa (sentenza n. 315 ed ordinanza n. 193), contraddittoria (ordinanze numeri 50, 81 e 94) o proponendo questioni di legittimità costituzionale in alternativa (sentenza n. 382 ed ordinanza n. 192).

Parimenti inammissibili sono state dichiarate quelle questioni promosse con ordinanze motivate per relationem, in quanto, secondo una giurisprudenza ormai nutrita di precedenti, la motivazione dell’ordinanza di rimessione deve essere autosufficiente, «non potendosi il giudice a quo limitare a richiamare per relationem il contenuto di altri atti o provvedimenti, anche se, in ipotesi, acquisiti agli atti del procedimento principale» (ordinanza n. 59): l’insufficienza della motivazione è stata in concreto riscontrata con riguardo ad una ordinanza di rimessione che, in ordine alla non manifesta infondatezza, si limitava a fare rinvio alle argomentazioni svolte da altro giudice (ordinanza n. 59) e con riguardo ad una ordinanza la cui parte motiva era costituita «da passi estrapolati dagli atti difensivi delle parti nel giudizio a quo» (ordinanza n. 156).

I vizi dell’ordinanza di rimessione non possono essere sanati attraverso un «atto integrativo» trasmesso alla Corte successivamente alla trasmissione degli atti del giudizio a quo. In tal senso, l’ordinanza n. 391 ha dichiarato la manifesta inammissibilità di una questione sollevata con ordinanza priva dei requisiti minimi indispensabili ai fini dell’individuazione della norma censurata e del fatto oggetto del giudizio, oltre che assolutamente carente di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, non producendo l’atto successivamente depositato effetti ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, «in quanto le “integrazioni” alla precedente ordinanza risulta[va]no effettuate quando il processo a quo era già stato sospeso e il giudice rimettente aveva quindi consumato il suo potere in ordine alla questione di legittimità costituzionale».

Da segnalare è, infine, la sentenza n. 76, che ha deciso nel merito una questione sollevata con ordinanza facendo propria una questione in precedenza sollevata, nel corso dello stesso giudizio, ma mai regolarmente pervenuta alla Corte a causa di un disguido postale.

5. La riproposizione della questione

In alcune occasioni, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su questioni riproposte da parte del giudice a quo nel corso del medesimo giudizio che aveva originato una prima ordinanza di rimessione (nel giudizio deciso con la sentenza n. 30, la riproposizione da parte dello stesso giudice era avvenuta nel corso di un giudizio diverso).

Per solito, tali riproposizioni hanno fatto seguito ad ordinanze della Corte con cui si restituivano gli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza (si vedano, ad esempio, i giudizi conclusi con le ordinanze numeri 183 e 263), sull’implicito presupposto della possibilità del giudice medesimo di risollevare la questione, se del caso, una volta operato il riesame.

Parzialmente diverso è il caso risolto con l’ordinanza n. 371, in cui erano state riproposte, nell’ambito del medesimo procedimento, due delle quattro questioni di legittimità costituzionale già dichiarate manifestamente inammissibili. La Corte ha in tale occasione rilevato che, per costante giurisprudenza, «non è precluso sollevare una seconda volta la medesima questione nel corso dello stesso grado del giudizio, allorché la Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimuovibili dal giudice a quo, poiché tale iniziativa non contrasta col disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., in tema di non impugnabilità delle decisioni della Corte stessa […]: ciò, peraltro, alla ovvia condizione che il giudice a quo abbia eliminato il vizio che in precedenza impediva l’esame nel merito della questione». Nella specie, è stato ritenuto che attraverso la riproposizione parziale si fosse eliminato il motivo di inammissibilità rilevato nella precedente decisione, inerente al carattere complessivamente contraddittorio del quesito sottoposto alla Corte.

Irriducibile alla categoria della riproposizione è, ovviamente, la proposizione, nell’ambito dello stesso giudizio a quo, di una seconda questione di costituzionalità, affatto diversa rispetto a quella già scrutinata dalla Corte. Tale è stato, ad esempio, il caso dell’ordinanza n. 88, in cui, a seguito di una prima decisione di manifesta inammissibilità, il giudice a quo ha proposto una ulteriore questione avente ad oggetto una disposizione legislativa altra rispetto a quella della prima ordinanza di rinvio.

6. L’oggetto della questione

Nel corso del 2004, alcuni giudizi sono stati definiti con una decisione processuale in conseguenza dell’inidoneità dell’atto oggetto della questione ad essere scrutinato ad opera della Corte costituzionale. Così, con l’ordinanza n. 66, la manifesta inammissibilità è stata motivata alla luce della circostanza che la censura aveva riguardo ad una norma regolamentare sottratta al sindacato di legittimità costituzionale di questa Corte.

La Corte ha altresì ribadito che «qualora nella disciplina di determinati rapporti sia stata adottata la tecnica del rinvio da una fonte normativa ad altra di per sé inapplicabile ai rapporti stessi, “il dubbio di costituzionalità si incentra sulla norma di rinvio piuttosto che su quella oggetto del rinvio, proprio perché è questa tecnica a determinare l’applicabilità di una disciplina al di fuori della materia e delle garanzie tipiche di essa” (v. sentenza n. 239 del 1997, nonché ordinanza n. 359 del 1997 e sentenza n. 26 del 1998)». Da tale principio è stato dedotto che alla normativa (contenuta in un atto di rango primario) applicabile in quanto disposizione richiamata (nel senso appena indicato) da un atto regolamentare, non va attribuita efficacia di legge nel giudizio a quo, con l’ulteriore conseguenza che la normativa stessa può (e deve) essere sottoposta al sindacato proprio dei giudici comuni (ordinanza n. 193).

Ad esiti analoghi si è giunti allorché non sussisteva tra le disposizioni legislative, da un lato, e le disposizioni regolamentari richiamate dal remittente, dall’altro lato, quel rapporto di integrazione e specificazione – ai fini dell’oggetto del quesito di costituzionalità proposto – che avrebbe consentito l’impugnazione delle disposizioni legislative «come specificate» dalle norme regolamentari, con il che la censura si appalesava come «il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretativo [della] Corte» (ordinanza n. 389).

Ad altro proposito, nella sentenza n. 76 si è rilevato che gli eventuali vizi da cui si facevano derivare le conseguenze pregiudizievoli lamentate non erano da imputare alle norme denunciate, bensì alla loro difettosa o mancata applicazione, che non avrebbe dunque potuto essere addotta come motivo di illegittimità costituzionale delle stesse norme legislative.

 

7. Il parametro

Con riferimento alle fonti che integrano il parametro di legittimità costituzionale, non si riscontrano novità di rilievo rispetto alla giurisprudenza degli anni precedenti. Possono segnalarsi, per la loro peculiarità, tre casi.

Nel primo, che ha dato origine all’ordinanza n. 78, il giudice rimettente censurava una disposizione legislativa, tra l’altro, perché essa avrebbe contraddetto una «prassi interpretativa» formata tra tutti gli Stati firmatari di una convenzione internazionale, affermando che tale prassi sarebbe stata «da ricondurre nell’ambito delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, alle quali, in virtù del principio contenuto nell’art. 10 della Costituzione, l’ordinamento giuridico deve conformarsi». La questione, identica ad altre sulle quali la Corte già si era espressa nel senso della manifesta inammissibilità, non è stata, tuttavia, decisa nel merito.

Con l’ordinanza n. 216, è stato affrontato il tema della distinzione tra norme-parametro e norme che pongono meri criteri ermeneutici della legislazione. In particolare, il giudice a quo qualificava (implicitamente) come norme interposte i principi enunciati negli articoli 1, 6 e 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente», all’uopo valendosi della disposizione dell’art. 1 della legge, ai sensi della quale «le disposizioni della […] legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». Rifacendosi alla qualificazione prevalente nella giurisprudenza di legittimità e nella dottrina, la Corte ha sottolineato come tali disposizioni, proprio in ragione della loro qualificazione in termini di principi generali dell’ordinamento, rappresentino (non già norme interposte, bensì) «criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente», con la conseguenza che esse non possono ritenersi parametri idonei a fondare il giudizio di legittimità costituzionale.

Giova menzionare, in terzo luogo, l’ordinanza n. 419, che ha rigettato una questione nella quale una disposizione costituzionale (quella di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione) era indicata quale tertium comparationis.

Infine, relativamente ai limiti entro cui la violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione sono invocabili, si rinvia a quanto verrà detto infra, parte II, cap. II, par. 2.5.

8. La questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi dei giudici comuni

Uno dei profili maggiormente caratterizzanti del giudizio in via incidentale è costituito certamente dai rapporti che intercorrono tra la facoltà di sollevare questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi propri dei giudici comuni e della Corte costituzionale. Nel corso del 2004 sono state molteplici, su questo tema, le prese di posizione della Corte, generalmente collocabili in linea di stretta continuità con il recente passato.

La Corte ha avuto occasione di censurare l’operato di giudici a quibus i quali avessero sollevato questioni che, formalmente definibili come di legittimità costituzionale, si traducessero, in concreto, in questioni di mera interpretazione (ex plurimis, ordinanza n. 290).

Parimenti censurate sono state le questioni sollevate senza aver previamente esperito un tentativo di interpretazione delle disposizioni impugnate in modo tale da renderle conformi al dettato costituzionale: ciò in quanto «il giudice deve privilegiare [in ogni caso] l’interpretazione idonea a superare i dubbi di costituzionalità» (ordinanza n. 214), in ottemperanza ad un canone esegetico che è stato definito come di portata «generale» (sentenza n. 44 ed ordinanza n. 433). Si sono quindi conclusi con una pronuncia in rito quei giudizi nei quali «i rimettenti, avendo omesso di verificare la possibilità di seguire una interpretazione diversa da quella da essi acriticamente accolta, [erano] venuti meno all’onere del giudice di esplorare eventuali interpretazioni conformi a Costituzione prima di sollevare questione di legittimità costituzionale» (sentenza n. 219). In applicazione di tale principio, è stata dichiarata la manifesta inammissibilità di questioni sollevate da rimettenti che, nel dubitare della legittimità costituzionale della norma, non avevano tenuto conto della integralità dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in materia, onde esplorare nuovi canali ermeneutici (ordinanze numeri 208 e 215). Ad esiti identici hanno condotto quei «palesati dubbi di incostituzionalità [che] si basa[va]no essenzialmente su un’apodittica affermazione dell’impossibilità di dare alla norma impugnata una diversa lettura» (ordinanza n. 235). Tale conclusione si è imposta – verrebbe da dire, a fortiori – anche allorché il giudice a quo, «pur consapevole della possibilità di una esegesi della norma diversa da quella risultante dal suo tenore letterale», avesse comunque omesso «di verificare se [fossero] consentite interpretazioni tali da porre la norma stessa al riparo dai prospettati dubbi di costituzionalità» (ordinanza n. 242).

Nella giurisprudenza del 2004, è stata inoltre ribadita l’inammissibilità di questioni sollevate da rimettenti che, magari anche consapevoli «dell’esistenza di due contrapposti indirizzi giurisprudenziali e convint[i] della maggiore plausibilità di uno di essi», chiedevano, nella sostanza, alla Corte «una pronuncia di incostituzionalità cui [sarebbe conseguita] la stessa disciplina risultante dalla tesi interpretativa accolta dall’altro indirizzo, senza né verificare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, idonea a sottrarre la norma al contrasto con i parametri evocati, né (in alternativa) motivare sull’impossibilità di essa» (ordinanza n. 305).

Immuni da questo tipo di vizi sono state, invece, quelle questioni che, «lungi dal risentire del mancato assolvimento da parte del rimettente dell’onere di tentare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle norme impugnate», si erano basate «proprio sulla motivata impossibilità di leggere» la disposizione in modo conforme alle previsioni costituzionali (così, tra le altre, l’ordinanza n. 350).

L’obbligo per il giudice di esercitare i propri poteri interpretativi implica che lo stesso non possa chiedere una «collaborazione» alla Corte costituzionale che si traduca sostanzialmente in un «avallo» dell’opzione ermeneutica prescelta (ordinanze numeri 92 e 142).

Un ruolo centrale nella ricostruzione dei rapporti tra la Corte costituzionale ed i giudici comuni in merito all’esperimento delle diverse opzioni interpretative è stato svolto, come nel passato, dal c.d. «diritto vivente» (id est, dall’interpretazione del diritto scritto consolidatasi nella prassi applicativa).

Sui margini entro i quali l’attività interpretativa del giudice rimettente può svolgersi, la sentenza n. 91 ha sottolineato che, «in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato che abbia acquisito i caratteri del “diritto vivente”, la valutazione se uniformarsi o meno a tale orientamento è una mera facoltà» del giudice, potendosi configurare in tal caso una parziale deroga al sopra menzionato dovere del giudice comune di ricercare la prospettiva ermeneutica che consenta alla disposizione di risultare conforme ai parametri costituzionali.

Sui presupposti in presenza dei quali può parlarsi di «diritto vivente», la sentenza n. 106 ha rilevato come essi non siano integrati da pochi precedenti giudiziari di merito, tanto più ove la dottrina dominante sostenga una soluzione interpretativa diversa; l’ordinanza n. 214, invece, registra un caso «classico» di «diritto vivente» allorché si riscontrino «numerose pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione» univoche nel tratteggiare un orientamento interpretativo recepito anche dal Consiglio di Stato.

La sussistenza di un «diritto vivente» non è di per sé esclusa neppure quando, «anche nella più recente giurisprudenza di legittimità, emergano “dubbi e perplessità” riguardo alla coerenza con l’ordinamento vigente dell’indirizzo interpretativo» prevalente (sentenza n. 206).

9. La riunione dei giudizi

L’istituto della riunione, previsto dall’art. 15, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi di fronte alla Corte costituzionale, ha avuto nel 2004 una assai frequente applicazione, come dimostra il dato di 94 decisioni, sulle 286 totali (pari, dunque, a quasi un terzo), che definiscono i giudizi instaurati da più di una ordinanza di rimessione.

La motivazione alla base della riunione è stata, nella maggior parte dei casi, quella della identità delle questioni (sentenze numeri 91, 168, 178, 207, 282, 339, ed ordinanze numeri 10, 11, 47, 52, 53, 55, 57, 59, 66, 90, 104, 108, 141, 143, 165, 188, 189, 194, 212, 235, 293, 299, 309, 317, 332, 351, 352, 363, 398, 399, 400, 401, 403, 404, 405, 406, 407, 411, 417, 420, 422, 442), in qualche caso veicolata anche dall’identità del giudice rimettente (si vedano, in particolare, le ordinanze numeri da 322 a 331). Sono state più volte riunite questioni che presentavano una sostanziale identità (sentenze numeri 120, 204, 281, 382, ed ordinanze numeri 201, 208, 418, 433), ma anche una solo parziale identità (ordinanza n. 94) oppure che erano in parte identiche ed in parte affini (ordinanza n. 110), in parte identiche ed in parte connesse (sentenza n. 5), in parte identiche ed in parte analoghe (ordinanze numeri 80, 214 e 396).

In questo ambito, merita una particolare segnalazione la sentenza n. 120, resa a seguito della riunione di questioni affidate, per l’istruzione, a due diversi giudici relatori: corrispondentemente, la sentenza è stata redatta congiuntamente da questi due giudici, recando le firme di entrambi.

Non mancano, poi, casi di riunione basati sulla (per lo più «evidente») connessione (sentenze numeri 114, 161, 222, ed ordinanze numeri 266, 310) o sulla semplice analogia dalle questioni (ordinanze numeri 79, 275, 302, 393, 402, 408 e 409).

In qualche caso, a condurre alla riunione è stata l’identità dell’oggetto (sentenze numeri 219, 223, 430, ed ordinanze numeri 197, 226, 268, 349), o anche la parziale identità (sentenza n. 426), nonché l’identità dell’oggetto e, per altra parte, la connessione delle questioni (sentenza n. 257). In un caso (sentenza n. 316), la riunione è stata disposta alla luce della sostanziale omogeneità delle questioni sollevate.

Oltre ai casi di riunione, deve ricordarsi l’unico caso di separazione della causa, verificatosi in relazione ad una ordinanza di rimessione che, ponendo diverse questioni, è stata all’origine dell’ordinanza n. 23 e della sentenza n. 24. La tecnica della separazione, ampiamente sperimentata a partire dal 2003 nel giudizio in via principale, ha dunque iniziato a trovare applicazione anche nel giudizio in via incidentale.

10. Il contraddittorio di fronte alla Corte (in particolare, l’intervento di terzi)

Nel 2004 è stata pienamente confermata la propensione all’intervento del Presidente del Consiglio «a difesa» delle disposizioni impugnate, analogamente a quanto constatabile per le Regioni le cui leggi fossero oggetto di una questione in via incidentale.

Da segnalare è un caso di intervento dell’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza «congiunta» del Presidente del Consiglio dei ministri e della Regione Siciliana, in un giudizio che aveva ad oggetto tanto disposizioni legislative statali quanto disposizioni di fonte regionale (sentenza n. 76).

Meno frequente, ma comunque cospicua nel numero, è stata la costituzione di fronte alla Corte (di alcune) delle parti dei giudizi a quibus. Quando la costituzione è avvenuta ritualmente, la causa è stata trattata in udienza pubblica, fatte salve relativamente poche eccezioni (si vedano, ad esempio, le ordinanze numeri 149 e 396).

Per quel che attiene all’intervento di soggetti diversi dalla difesa erariale o regionale e dalle parti del giudizio a quo, quattro sono stati i giudizi in cui ciò è avvenuto.

In quello concluso con la sentenza n. 281, l’intervento della Federconsumatori di Bologna è stato spiegato in uno dei giudizi a quibus, in relazione ad una ordinanza di rimessione che ha posto una questione rivelatasi inammissibile per «l’evidente, e perciò stesso assorbente, improponibilità della domanda» presentata nel giudizio principale.

Sono stati invece ammessi, con ordinanza letta in udienza pubblica, gli interventi di terzo spiegati nei giudizi conclusi con le ordinanze numeri 50 e 389.

Nel primo, relativo alla legittimità costituzionale della disciplina delle quote di prelievo sulle scommesse sportive spettanti al Comitato Olimpico Nazionale Italiano, è stato ritenuto ammissibile l’atto di intervento del Coni, in quanto, appunto, «destinatario per legge del provento della prestazione della cui costituzionalità si discute[va] e […] quindi […] titolare di una posizione giuridica specifica coinvolta nel giudizio» (ordinanza letta all’udienza pubblica del 25 novembre 2003).

Nel secondo giudizio, avente ad oggetto la legittimità costituzionale della normativa concernente l’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, sono intervenuti, con unico atto, il sig. Paolo Bonato, in proprio e quale genitore di un’alunna della stessa scuola, e il sig. Linicio Bano, in qualità di presidente dell’associazione italiana genitori di Padova. La Corte, con l’ordinanza letta all’udienza pubblica del 26 ottobre 2004, ha ammesso l’intervento limitatamente al primo, in considerazione del fatto che «la posizione sostanziale fatta valere nel […] giudizio dal sig. Paolo Bonato in proprio e quale genitore dalla minore Laura Bonato appar[iva] qualificata in rapporto alla questione oggetto del giudizio di costituzionalità».

Un ulteriore caso di intervento di terzo, pur se parzialmente sui generis (non fosse altro per il soggetto intervenuto), è quello verificatosi nella causa definita con l’ordinanza n. 99. In un giudizio in via incidentale avente ad oggetto una disposizione legislativa regionale, ha infatti depositato un atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di sostenere la fondatezza della questione di legittimità, all’uopo richiamando quanto già esposto in relazione ad altra questione riguardante il medesimo atto legislativo sollevata in via diretta dal Presidente del Consiglio dei ministri medesimo.

11. Le decisioni della Corte

11.1. Le decisioni processuali

A] Nel corso del 2004, tra le sentenze di inammissibilità adottate, alcune sono state motivate in ragione dell’irrilevanza della questione (sentenze numeri 85, 114, 120, 161, 281 e 316). Il difetto constatato nella motivazione dell’ordinanza è stato alla base delle inammissibilità di cui alle sentenze numeri 107 e 315, il mancato esperimento dell’interpretazione adeguatrice ha fondato la decisione contenuta nella sentenza n. 219, mentre l’erroneità del tertium comparationis invocato è stato il profilo centrale dell’argomentazione che ha condotto alla sentenza n. 206.

Inammissibile è stata altresì dichiarata la questione di legittimità costituzionale sollevata da un rimettente non legittimato ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (sentenza n. 254).

Infine, sono state ritenute inammissibili le questioni attraverso le quali i rimettenti, «postulando […] una operazione di “riempimento” dei contenuti della norma», giungevano ad una richiesta di modifica del diritto positivo che «si palesa[va] estranea, per il suo carattere apertamente “creativo”, ai poteri [della] Corte, rimanendo eventualmente affidata alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 382; analogamente, la sentenza n. 175 ha censurato l’«abnormità» della richiesta formulata dal giudice a quo).

B] Nel novero delle decisioni processuali, le più numerose sono peraltro state quelle di manifesta inammissibilità.

Un siffatto dispositivo è stato adottato in conseguenza del sussistere di vizi nell’ordinanza di rimessione, principalmente dovuti a carenze nella motivazione (sentenze numeri 161, 222, 257 e 382, ordinanze numeri 45, 50, 51, 53, 59, 60, 61, 63, 79, 81, 89, 96, 99, 122, 126, 127, 130, 133, 143, 146, 149, 156, 159, 164, 169, 170, 174, 182, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 194, 210, 234, 235, 251, 252, 262, 264, 268, 291, 294, 302, 309, 333, 336, 343, 349, 352, 361, 362, 365, 366, 370, 371, 385, 391, 393, 415 e 418).

Altre decisioni di manifesta inammissibilità sono state motivate dall’irrilevanza della questione (sentenza n. 223 e ordinanze numeri 23, 88, 94, 105, 130, 214, 265, 268, 271, 276, 289, 299, 305, 310, 318, 332 e 375) e dall’erroneo utilizzo dei propri poteri interpretativi da parte dei giudici a quibus (ordinanze numeri 92, 100, 142, 208, 215, 242, 279 e 305).

In altri casi, le ordinanze di manifesta inammissibilità sono state originate dal difetto di legittimazione del rimettente, derivante dalla natura dell’organo o dallo stadio del giudizio in cui si versava (ordinanze numeri 213, 357, 374, 392, 395, 405 e 434). Manifestamente inammissibili sono poi state dichiarate questioni viziate dall’inidoneità delle norme invocate a fungere come parametri (ordinanza n. 216) o dall’inidoneità delle norme impugnate ad essere oggetto di un giudizio di legittimità costituzionale di fronte alla Corte costituzionale (ordinanze numeri 66, 193 e 389).

Ancora, la manifesta inammissibilità ha colpito quelle questioni nelle quali si chiedeva alla Corte di esercitare la propria funzione attraverso soluzioni non definibili – con formula ormai classica – come «a rime obbligate» (ordinanza n. 359), o di incidere su sfere riservate alla discrezionalità legislativa (ordinanze numeri 121 e 368).

Infine, una identica sorte hanno avuto le questioni giunte allo scrutinio della Corte che fossero già «coperte» da precedenti decisioni di manifesta inammissibilità (ordinanza n. 78) o di incostituzionalità (ordinanza n. 19).

C] Cospicuo è stato anche il numero di decisioni di restituzione degli atti ai giudici a quibus, sostanzialmente riconducibili a tre categorie: la prima concerne la restituzione motivata da sopravvenienze legislative (sentenza n. 316 e ordinanze numeri 54, 64, 68, 79, 183, 184, 263, 293 e 299), la seconda l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate o di parte di esse (rispettivamente, ordinanze numeri 152, 266, 351, ed ordinanze numeri 47, 77, 93, 111, 197, 363), la terza i casi (tutti relativi alla medesima fattispecie, quella cioè relativa alla convalida dell’arresto per il reato di trattenimento dello straniero sul territorio italiano) in cui alla sopravvenienza della decisione della Corte costituzionale è seguito un intervento legislativo di modifica della disciplina della materia (ordinanze numeri da 322 a 332, da 398 a 404, da 406 a 411 e 445).

Da notare è, poi, che con l’ordinanza n. 125 si è pronunciata la restituzione degli atti per il sopravvenire, non solo di una nuova normativa, ma anche di una decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee.

D] Tra le decisioni processuali è sicuramente da annoverare anche l’ordinanza n. 165, con la quale sono state rinviate a nuovo ruolo alcune cause pendenti, in accoglimento della «richiesta di rinvio formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, in vista della decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee nelle cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02», a tale decisione essendosi giunti in considerazione de «la sostanziale coincidenza fra il quesito di costituzionalità, attinente all’asserito contrasto delle norme impugnate con il diritto comunitario, e quello che costitui[va] oggetto delle predette cause».

11.2. Le decisioni di rigetto

A] Le decisioni di rigetto sono state adottate, in grande maggioranza, con la forma dell’ordinanza di manifesta infondatezza. Tali pronunzie sono state motivate soprattutto attraverso il riferimento all’erroneo presupposto interpretativo o all’erronea ricostruzione del quadro normativo o, ancora, alla impossibilità di incidere su ambiti riservati alla discrezionalità del legislatore (ordinanze numeri 83, 95, 97, 101, 108, 110, 123, 124, 130, 132, 133, 144, 145, 150, 151, 153, 158, 201, 202, 211, 214, 264, 265, 275, 277, 289, 290, 294, 317, 344, 346, 358, 383, 386, 396, 417, 418, 419, 433, 438 e 439); in questo tipo di decisioni, sono state frequenti le occasioni in cui la Corte si è espressamente rifatta a rationes decidendi di sue precedenti pronunzie (ex plurimis, ordinanze numeri 46, 87, 94, 104, 109, 115, 138, 163, 181, 226, 248, 297, 300, 349, 350, 355, 421, 441 e 442).

Meno numerose, ma comunque non esigue, sono state le ordinanze di manifesta infondatezza che hanno fatto seguito a precedenti declaratorie di infondatezza (ordinanze numeri 41, 67, 80, 84, 121, 170 e 420) oppure di manifesta infondatezza di identiche o analoghe questioni (rispettivamente, ordinanze numeri 10, 20, 61, 65, 90, 102, 139, 141, 157, 171, 212, ed ordinanze numeri 11, 52, 55, 56, 57, 82, 128, 209, 292, 301, 302, 377, 387, 422, 443).

B] Delle decisioni di rigetto adottate nella forma di sentenze, soltanto cinque hanno presentato il dispositivo tipico delle decisioni interpretative (sentenze numeri 44, 62, 86, 148 e 413). Delle restanti sentenze, peraltro, molte si sono articolate attraverso una (re)interpretazione delle disposizioni impugnate, giungendo in tal modo ad esiti sostanzialmente analoghi a quelli propri di una decisione interpretativa di rigetto (si segnalano, ex plurimis, le sentenze numeri 28, 120, 230 e 231).

Nell’ambito delle decisioni di rigetto, merita una segnalazione la sentenza n. 155, con la quale la Corte, tornando ad occuparsi delle norme che prevedono la sospensione – e la proroga della sospensione – della procedura esecutiva per il rilascio degli immobili, ha ribadito, insieme con l’infondatezza, il monito al legislatore già espresso nella sentenza n. 310 del 2003, rilevando, in particolare, che ove le scelte legislative «dovessero ulteriormente seguire la logica fin qui adottata non potrebbero sottrarsi alle proposte censure d’illegittimità costituzionale […], anche in considerazione del vulnus che il protrarsi delle proroghe arreca al principio della ragionevole durata del processo e alla coerenza dell’ordinamento».

Un (ulteriore) invito al legislatore affinché intervenga al fine di modificare il diritto positivo è contenuto, invece, nell’ordinanza n. 377, che richiama alcuni precedenti statuizioni in tema di sanzioni disciplinari pecuniarie a carico dei notai.

11.3. Le decisioni di accoglimento

A] Nel corso del 2004, sono state pronunciate ventitré sentenze che contengono una o più declaratorie di illegittimità costituzionale. Di queste, sono soltanto cinque quelle che si pronunciano in senso caducatorio di una intera disposizione (sentenze numeri 24, 114, 204, 282 e 315). Per quanto peculiare, appare sostanzialmente riconducibile al genus dell’accoglimento tout court anche la sentenza n. 147, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, «ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all’art. 11 del codice di procedura penale».

Più numerose sono le decisioni manipolative, e segnatamente quelle additive, id est quelle che nel dichiarare l’incostituzionalità di una disposizione «nella parte in cui non prevede» un determinato contenuto, «aggiungono» ad essa significati normativi (sentenze numeri 35, 98, 113, 206, 222, 245, 253 e 367). Quasi equivalenti, sul piano numerico, sono state le decisioni di tipo ablatorio (o di accoglimento parziale), che cioè dichiarano l’incostituzionalità della disposizione «nella parte in cui prevede» un certo contenuto (sentenze numeri 135, 186, 223, 334, 335 e 339).

Sono state altresì rese alcune sentenze sostitutive, che censurano una disposizione «nella parte in cui prevede [un contenuto] anziché [un altro]» (sentenze numeri 204, 224 e 426); una decisione sostitutiva leggermente diversa rispetto al modello classico è quella contenuta nella sentenza n. 281, nella quale la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 34, commi 1 e 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, è stata pronunciata «nella parte in cui istituisce una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di edilizia e urbanistica, anziché limitarsi ad estendere in tale materia la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno».

B] Con precipuo riguardo agli effetti nel tempo delle pronunzie di illegittimità costituzionale, da segnalare, per la sua peculiarità, è la sentenza n. 426, la quale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 171-octies della legge 22 aprile 1941, n. 633.

Tale articolo è stato introdotto dalla legge n. 248 del 2000; originariamente, esso puniva con sanzione penale la condotta di chi, a fini fraudolenti, produceva, poneva in vendita, importava, promuoveva, installava, modificava, utilizzava per uso pubblico e privato apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato, effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica sia digitale. Il successivo decreto legislativo n. 373 del 2000, tuttavia, aveva previsto, limitatamente ai comportamenti attinenti alla commercializzazione dei dispositivi illeciti, non più la sanzione penale, ma la sanzione amministrativa, lasciando la sanzione penale per la sola utilizzazione dei dispositivi.

Questa situazione di distonia del sistema è poi stata eliminata dalla legge n. 22 del 2003, la quale ha previsto che ai comportamenti illeciti di cui all’art. 6 del decreto legislativo n. 373 del 2000 «si applicano altresì le sanzioni penali e le altre misure accessorie previste per le attività illecite di cui agli articoli 171-bis e 171-octies della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni».

È residuata, però, la situazione di distonia per i fatti commessi sotto la disciplina del decreto legislativo n. 373 del 2000 (che regola anche i fatti anteriormente puniti dall’art. 171-octies della legge n. 633 del 1941, introdotto dalla legge n. 248 del 2000, in quanto norma più favorevole ai sensi dell’art. 2 del codice penale) fino all’entrata in vigore della legge n. 22 del 2003. Per eliminare questa anomalia, la Corte costituzionale ha dunque reso una decisione i cui effetti nel tempo sono stati circoscritti al periodo anteriore alla modifica legislativa che aveva eliminato – ma solo pro futuro – l’incostituzionalità: l’art. 171-octies della legge n. 633 del 1941, è stato così dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui, limitatamente ai fatti commessi dalla [sua] entrata in vigore […] fino all’entrata in vigore della legge 7 febbraio 2003, n. 22 […], puni[va] con sanzione penale, anziché con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 6 del decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373 […], l’utilizzazione per uso privato di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica sia digitale».

C] Per quanto attiene alle dichiarazioni di illegittimità costituzionale consequenziali rese ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, consta, nel 2004, una sola decisione: la Corte, nella sentenza n. 24 ha dichiarato principaliter l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003, il quale, fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, disponeva la sospensione, dall’entrata in vigore della legge, dei processi penali in corso nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente della Corte costituzionale), in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime; in via consequenziale, sono stati dichiarati incostituzionali i commi 1 e 3 del medesimo art. 1, all’uopo rilevandosi che «la disposizione direttamente impugnata si inseri[va] in un contesto normativo le cui articolazioni, per quanto riguarda[va] i primi due commi – che si riferi[va]no, rispettivamente, alle due situazioni della non sottoponibilità a processo e della sospensione dei processi eventualmente già in corso –, [erano] dirette alla medesima, sostanziale finalità, [avevano] lo stesso ambito soggettivo di applicazione ed entra[va]no in contrasto con gli stessi precetti costituzionali» (la declaratoria ha colpito anche il comma 3, concernente la sospensione della prescrizione per il tempo di applicazione delle misure di cui ai primi due commi, perché lo stesso, caducati i precedenti, non aveva alcuna autonomia applicativa).

12. I rapporti tra il giudizio di legittimità costituzionale ed il giudizio sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo (rinvio)

Su questo specifico aspetto, si rinvia a quanto verrà detto infra, al cap. V, in merito alla sentenza n. 25.

Capitolo II

Il giudizio di legittimità costituzionale in via principale

1. Considerazioni generali

In sede introduttiva, si è avuto modo di sottolineare l’incremento del numero di ricorsi in via principale che ha caratterizzato il 2004; ciò che più appare rilevante, peraltro, è che nelle decisioni sono state trattate complessivamente oltre 700 questioni di legittimità costituzionale (nella cifra sono considerate nella loro autonomia le questioni identiche trattate congiuntamente, come – ad esempio – nelle sentenze numeri 4, 26 e 425, mentre risultano aggregate le questioni che, seppure poste in atti introduttivi diversi, la stessa Corte ha provveduto ab origine ad accorpare in modo trasversale, come – ad esempio – nelle sentenze numeri 9, 14 e 196).

Delle 97 decisioni, 16 sono state rese con ordinanza, e ben 81 con sentenza.

Tra le prime, 2 pronunciano l’estinzione del giudizio per rinunzia (ordinanze numeri 31 e 243) ed altrettante la cessazione della materia del contendere a causa della promulgazione parziale della legge oggetto del giudizio promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana, con omissione delle disposizioni impugnate (ordinanze numeri 32 e 131). In 3 ordinanze si decide invece per la manifesta inammissibilità, o a causa della intempestività della notificazione (n. 42), o della tardività del deposito del ricorso (n. 48), o della inadeguatezza della motivazione offerta dal ricorso in relazione ai parametri invocati (n. 416). Con 4 ordinanze, invece, si dichiara la cessazione della materia del contendere a causa della modifica della normativa impugnata (ordinanze numeri 137, 203, 274 e 432); a queste va affiancata l’ordinanza n. 416, nella quale si prende in considerazione, più in generale, la diversità del quadro normativo, risultante anche da una precedente decisione della Corte costituzionale. Sempre nel senso della cessazione è l’ordinanza n. 440, in ragione dell’affermarsi, nelle prassi applicative, di una interpretazione della disposizione impugnata non lesiva delle posizioni costituzionali difese in giudizio.

Le ordinanze numeri 116, 117, 118 e 119, invece, dispongono il rinvio della trattazione delle domande di sospensione dell’atto legislativo impugnato – istituto introdotto dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003 – alla data già fissata per la trattazione del merito.

Delle 97 decisioni del 2004, 51 risultano rese a seguito di ricorsi regionali, mentre 46 a seguito di ricorsi dello Stato.

Nessuna decisione ha avuto ad oggetto questioni costruite su parametri individuati nel testo del Titolo V della Parte seconda della Costituzione anteriore alla riforma del 2001.

2. La separazione e la riunione delle cause

Nel corso dell’anno la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di consolidare alcune prassi che – sul versante processuale – erano già emerse nell’anno precedente. In particolare, è stata utilizzata in più occasioni la tecnica della separazione delle questioni proposte con il medesimo ricorso e del loro contestuale accorpamento «trasversale» con questioni omogenee proposte da altri ricorsi.

A tale tecnica la Corte ricorre nel caso di una pluralità di ricorsi proposti avverso un medesimo atto normativo e che tuttavia siano caratterizzati dalla impugnazione di disposizioni dal contenuto molto eterogeneo. Le singole questioni proposte dai diversi ricorsi introduttivi vengono prima separate e poi riunite in un unico giudizio in modo tale che con una decisione unica possano essere risolte questioni omogenee, sia pure sollevate da più di un ricorso.

Con questo sistema le pronunce del 2004 hanno deciso complessivamente 115 ricorsi in via principale, di cui 59 di iniziativa regionale, 46 di iniziativa statale, 3 del Commissario dello Stato per la Regione siciliana, 1 del Consigliere regionale dell’Umbria Ripa di Meana e 6 seguiti di ricorsi del 2002 decisi a partire dal 2003. Dei 115 ricorsi decisi, 2 erano stati depositati nel 2001, 26 nel 2002, 60 nel 2003 e 27 nel 2004.

La «separazione-riunione» delle questioni è stata utilizzata, ad esempio, nelle decisioni concernenti le leggi finanziarie per il 2002, per il 2003 e per il 2004 (si tratta delle sentenze numeri 1, 3, 4, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 26, 36, 37, 49, 201, 236, 260, 307, 308, 320, 345, 353, 381, 390, 423, 424 e 425), nelle sentenze con le quali sono stati risolti i dubbi di costituzionalità riguardanti la c.d. «legge La Loggia» (sentenze numeri 236, 238, 239 e 280), nonché in quelle con cui sono state decise le questioni avverso il decreto legge n. 269 del 2003 (sentenze numeri 196, 286, 287 e 423).

In altri casi – caratterizzati da una struttura più semplice del contenzioso – la Corte si limita più comunemente a riunire i ricorsi vertenti sulla medesima normativa statale (cfr., ad es., le sentenze numeri 6, 274 e 388), o i ricorsi dello Stato concernenti leggi di diverse Regioni aventi analogo contenuto (cfr., ad es., le sentenze numeri 162, 198 e 228), ovvero si limita a separare le questioni proposte con un solo ricorso (sentenze numeri 16, 18, 261, 354, 380, 412, 414 e 427).

3. La corrispondenza tra delibera e ricorso

Sul versante della corretta instaurazione del giudizio, si ribadisce innanzi tutto – con le sentenze numeri 238 e 286 – la necessaria corrispondenza tra delibera dell’organo politico e contenuto del ricorso, almeno per quel che concerne la individuazione delle disposizioni asseritamente incostituzionali, con conseguente inammissibilità delle censure proposte avverso le disposizioni non contemplate dalla delibera (sentenze numeri 134 e 425). Si noti peraltro che nella sentenza n. 286 è stato esplicitamente affermato che la delibera della Giunta regionale concernente l’impugnazione di una determinata disposizione è idonea a «reggere» l’impugnazione della disposizione dalla quale essa sia stata successivamente sostituita, purché essa sia sostanzialmente riproduttiva della prima.

È interessante notare, altresì, come il contenuto della delibera governativa è individuato dalla Corte, nella sua esatta consistenza, mediante il riferimento alla relazione del Ministro per gli affari regionali, che vale a delimitarne il contenuto (cfr., esplicitamente, le sentenze numeri 43, 70 e 134).

L’importanza della delibera, al fine di giudicare della ammissibilità del ricorso, è determinante. Al riguardo, peraltro, si può notare come la Corte non abbia considerato senz’altro onere del ricorrente produrre la delibera dell’organo politico. Infatti, nell’ambito della vicenda decisa con la sentenza n. 134, essa è stata acquisita a seguito di ordinanza istruttoria adottata in data 11 luglio 2003.

Va segnalata, infine, anche la sentenza n. 229, nella quale si esclude che possa valere ad estendere l’ambito di impugnazione – rispetto a quanto indicato nella delibera – la «comunicazione» dell’Avvocatura che, secondo il Governo, l’impugnativa dovrebbe ritenersi estesa a tutto l’impianto della legge.

4. I parametri invocabili

Quanto ai parametri di costituzionalità invocabili dai soggetti ricorrenti, la Corte ha avuto modo di ribadire sia la giurisprudenza inaugurata – nel vigore del nuovo Titolo V – con la sentenza n. 274 del 2003, secondo la quale la modifica costituzionale non ha fatto venir meno il potere dello Stato di impugnare le leggi regionali anche per violazione di parametri differenti dal riparto di competenze (cfr. sentenza n. 162), sia l’affermazione secondo la quale le Regioni possono impugnare leggi statali per violazione di parametri differenti da quelli concernenti il riparto di competenze ove tale violazione «ridondi» nella compressione delle proprie prerogative costituzionali (cfr., ad es., le sentenze numeri 4, 196, 228, 280, 286 e 287). Tale indirizzo, che successivamente alla riforma costituzionale trova la sua prima manifestazione nella sentenza n. 303 del 2003, si inserisce del resto – come è noto – nel solco di quanto pacificamente affermato anche prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001.

5. L’individuazione del parametro invocato e la motivazione delle censure

Anche sul versante dell’onere di motivazione delle censure proposte dai ricorrenti, le decisioni del 2004 offrono numerose conferme. Così, ad esempio, si ritrova l’affermazione della inammissibilità di censure costruite sulla mera indicazione del parametro asseritamente violato, senza offrire alcuna motivazione al riguardo (sentenza n. 7, ove si evidenzia come il ricorso non individua gli specifici dei profili di contrasto con il parametro, che rimane semplicemente enunciato, nonché sentenze numeri 196, 198, 376, 416 e 425), ovvero offrendone una assolutamente generica (sentenza n. 73, ove si evidenzia la carente individuazione dei principi fondamentali asseritamente violati in un caso di invocazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nonché sentenze numeri 176, 196, 354 e 424); con la precisazione, inoltre, secondo la quale il difetto di motivazione non è sanabile nella memoria presentata nell’imminenza dell’udienza (sentenze numeri 286 e 423). In senso analogo dispone la sentenza n. 70, che dichiara l’inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale relativa a disposizione del tutto estranea «rispetto alle ragioni della pretesa incostituzionalità fatte valere nell’atto introduttivo» del giudizio. Nella medesima logica, ancora, si pone la sentenza n. 167, ove si evidenzia come il «trasferimento del parametro» richiesto dal ricorrente su una normativa sopravvenuta alla proposizione del ricorso – rispetto alla disciplina invocata quale parametro interposto e caducata da una dichiarazione di incostituzionalità nelle more del giudizio costituzionale – lederebbe il diritto di difesa della parte resistente in quanto quest’ultima non potrebbe essere gravata dell’onere di verificare per quali profili il parametro «vecchio» risulti sostanzialmente riprodotto nel parametro «nuovo».

Ancorché succintamente argomentate, comunque, le censure devono ritenersi ammissibili quando siano chiare e determinate, e non lascino dubbi sull’oggetto della contestazione (sentenza n. 34; analogamente, sentenza n. 162). Viceversa, sono inammissibili le censure formulate «in modo oscuro e perplesso» (sentenza n. 75).

5.1. (Segue:) la individuazione del parametro nei ricorsi concernenti le Regioni speciali (art. 10 legge cost. n. 3 del 2001)

In conformità a quanto già affermato nella sentenza n. 213 del 2003, la Corte ribadisce la necessità di tenere conto, nell’individuazione del parametro di costituzionalità, della perdurante vigenza delle forme e condizioni di autonomia stabilite negli Statuti speciali e dunque l’impossibilità di invocare direttamente ed unicamente norme del Titolo V della Costituzione senza argomentare sull’applicabilità dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Dalla sentenza n. 8 emerge con chiarezza che i ricorsi dello Stato nei confronti di leggi delle Regioni a statuto speciale, nel caso in cui intendano far valere la violazione del riparto di competenze, devono essere fondati sulla ricostruzione di un parametro articolato, nel quale siano considerate sia le attribuzioni riconosciute alle titolari della potestà legislativa dagli Statuti speciali che quelle loro spettanti in seguito alla riforma costituzionale del 2001.

Anche i ricorsi delle Regioni speciali, naturalmente, sono inammissibili ove invochino norme del nuovo Titolo V senza argomentare circa la applicabilità, ex art. 10 legge cost. n. 3 del 2001, di tali disposizioni (sentenza n. 424). A ciò fa eccezione il parametro costituito dal quinto comma dell’art. 117 Cost., il quale fa esplicito riferimento – tra i suoi destinatari – anche alle Regioni speciali (sentenza n. 239).

6. L’individuazione dell’oggetto

La adeguata motivazione deve sorreggere, naturalmente, non solo i parametri, ma anche la individuazione delle disposizioni che il ricorrente intende censurare. Quando il corpus normativo individuato quale oggetto del giudizio sia costituito da più disposizioni dal contenuto eterogeneo, le censure devono essere pertinenti a ciascuna delle disposizioni in questione a pena di inammissibilità (cfr., ad esempio, la sentenza n. 320). La Corte, peraltro, ove ciò sia consentito dalle circostanze, evita in alcuni casi di dichiarare la (sia pure parziale) inammissibilità nei casi in cui le censure del ricorso siano declinate solo nei confronti di alcune delle disposizioni facenti parte del corpus normativo impugnato (fosse esso individuabile nell’intera legge o in un singolo articolo dal contenuto particolarmente complesso), ricorrendo invece ad una interpretazione «delimitativa» del ricorso stesso nel senso di considerarlo portatore solo delle censure adeguatamente precisate (cfr., ad es., sentenze numeri 15, 74, 166, 196 e 380).

Al riguardo, è significativa anche la sentenza n. 162, nella quale tale «interpretazione» del ricorso viene compiuta «anche in base alla delibera del Consiglio dei ministri». In senso analogo si collocano altresì le sentenze numeri 112 e 134.

La Corte ribadisce inoltre, con la sentenza n. 412, l’orientamento per il quale il giudizio in via principale «può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili, a condizione che queste ultime non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate così da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose». Nello stesso senso anche l’ordinanza n. 440.

7. L’impugnazione dell’intera legge

Rimane in linea di massima inammissibile l’impugnazione di un’intera legge, anche se talvolta – come appena richiamato – la Corte «interpreta» il ricorso, in base alle motivazioni in esso contenute, delimitandone l’oggetto alle disposizioni effettivamente censurate (sentenza n. 166). Nel caso della sentenza n. 237 il ricorso è ammissibile perché la legge in questione è composta da un articolo unico.

8. L’interesse a ricorrere

In relazione a tale profilo, è particolarmente significativa soprattutto la sentenza n. 196, nella quale si afferma la legittimazione delle Regioni – sotto il profilo dell’interesse al ricorso – a far valere le competenze degli enti locali nei giudizi avverso le leggi dello Stato. La Corte, nel caso di specie, sottolinea non soltanto la stretta connessione tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali coinvolte dalla disciplina del condono edilizio, connessione tale da far ritenere la lesione delle competenze locali «potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali», ma si preoccupa altresì di rilevare il fatto che «il nuovo quarto comma dell’art. 123 Cost. ha configurato il Consiglio delle autonomie locali come organo necessario della Regione e che l’art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 (così come sostituito dall’art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003), ha attribuito proprio a tale organo un potere di proposta alla Giunta regionale relativo al promovimento dei giudizi di legittimità costituzionale in via diretta contro le leggi dello Stato».

La mancanza di interesse al ricorso è inoltre alla base della decisione di manifesta inammissibilità adottata con la sentenza n. 17, nella quale si afferma che «non può essere configurata alcuna lesione della sfera di competenza regionale, in quanto trattasi di disciplina di imposte esclusivamente statali». Analogamente – nel senso della carenza di interesse – dispongono le sentenze numeri 228 e 236 (la quale ultima si fonda sulla rilevata carenza di attualità dell’interesse), nonché la sentenza n. 414, nella quale la Corte sottolinea che la lesione dovrebbe semmai essere ricondotta a diverse disposizioni di legge, e la sentenza n. 429.

In un caso in cui la norma impugnata aveva ricevuto definitiva attuazione attraverso la adozione di due decreti ministeriali, supportati dal parere unanime dei rappresentanti delle Regioni, compresa la ricorrente, con conseguente venir meno dell’interesse ad una pronunzia di accoglimento, la Corte ha pronunciato la cessazione della materia del contendere (sentenza n. 320). Analogamente, nell’ordinanza n. 440, la Corte ha dichiarato la cessazione della materia del contendere, «essendo sopravvenuta una situazione di carenza di interesse della ricorrente alla prosecuzione del giudizio».

9. Il termine per il ricorso

Quanto al termine per l’impugnazione di una legge in via diretta, può essere segnalato come in più di una decisione la Corte rigetti eccezioni sollevate dallo Stato secondo le quali i ricorsi delle Regioni andavano dichiarati inammissibili in quanto rivolti avverso disposizioni di leggi di conversione di decreti legge riproduttive del contenuto di questi ultimi, e proposti intempestivamente in relazione ad essi. Al riguardo, le sentenze numeri 272, 286 e 287 sottolineano come, in ogni caso, il termine per l’impugnazione della legge di conversione debba essere calcolato avendo riferimento a questa e non al relativo decreto legge.

Sempre a proposito della perentorietà del termine del ricorso, l’ordinanza n. 42 ribadisce l’inapplicabilità al giudizio costituzionale dell’istituto della sospensione feriale dei termini.

10. La notifica ed il deposito del ricorso

Anche nell’anno 2004 la Corte ha avuto modo di confermare la propria giurisprudenza sulla inammissibilità della notifica al Presidente del Consiglio dei ministri presso l’Avvocatura generale dello Stato anziché presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (ordinanza n. 42 e sentenza n. 196), nonché sulla perentorietà del termine di dieci giorni dalla notifica per il deposito del ricorso stabilito dall’art. 31, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 e, ora, dal comma 4 dello stesso art. 31, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003 (ordinanze numeri 42 e 48; sentenza n. 162).

11. L’intervento di terzi in giudizio

In più di un’occasione la Corte ribadisce anche l’ormai consolidata preclusione nei confronti dell’intervento nei giudizi in via principale di soggetti diversi dai titolari delle attribuzioni legislative in contestazione (sentenze numeri 166, 167 e 196). Nell’ordinanza allegata a quest’ultima sentenza e letta in pubblica udienza, la Corte sente peraltro l’esigenza di precisare che «il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via di azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87, è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale».

12. La sospensiva nel giudizio sulle leggi

Nei giudizi aventi ad oggetto la disciplina del «condono edilizio», la Corte è stata per la prima volta sollecitata a dare applicazione al nuovo istituto della sospensione di atti legislativi di cui all’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003, il quale dispone che «qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, trascorso il termine di cui all’articolo 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 40». Tale ultima disposizione, come è noto, prevede la possibilità della sospensione, in pendenza di giudizio, degli atti impugnati nell’ambito del conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni.

Sia alcune Regioni che ricorrevano contro la disciplina statale, sia lo Stato che aveva impugnato alcune leggi regionali hanno avanzato formali istanze di applicazione del citato art. 35 della legge n. 87 del 1953. Tuttavia, nell’imminenza della camera di consiglio del 24 marzo, fissata per la decisione su tali richieste di sospensione, l’Avvocatura dello Stato ha depositato un atto con il quale, «in considerazione […] della prossimità dell’udienza stabilita per la trattazione del merito dei ricorsi» (11 maggio), il Presidente del Consiglio dei ministri rinunciava «alla immediata decisione» circa i richiesti provvedimenti cautelari; le Regioni, dal canto loro, sulla base della rinuncia statale, aderivano alla richiesta di differimento della trattazione «delle istanze cautelari auspicata dall’Avvocatura contestualmente alla propria rinuncia».

La Corte, ritenendo di dovere «prendersi atto» di tale rinuncia, ha disposto il rinvio dell’esame delle istanze di sospensione delle leggi regionali all’udienza pubblica dell’11 maggio, per la quale era fissata la trattazione dei ricorsi nel merito (ordinanze numeri 117, 118 e 119); con l’ordinanza n. 116 ha disposto analogo rinvio anche per l’esame delle istanze di sospensione presentate dalle Regioni nei confronti della normativa statale.

A causa della intervenuta decisione di merito, la Corte ha poi dichiarato il «non luogo a provvedere» in relazione alle citate istanze di sospensione (sentenze numeri 196 e 198).

13. I tipi di sentenze

13.1. Le sentenze «interpretative»

Anche nel corso del 2004 la Corte costituzionale ha fatto uso di alcune tipologie di sentenze che ormai rientrano nel suo strumentario consolidato, quali le sentenze interpretative di rigetto, in cui la questione di costituzionalità viene ritenuta infondata in base ad una interpretazione della disposizione impugnata differente rispetto a quella proposta dal soggetto ricorrente.

In questo schema si inquadrano senza dubbio le sentenze numeri 3, 4, 13, 238, 345, 353 e 423, che recano nel dispositivo la decisione di non fondatezza «nei sensi di cui in motivazione».

Interpretativa è anche la sentenza n. 280, che affronta le questioni concernenti i commi 4, 5 e 6 dell’art. della legge n. 131 del 2003, meglio nota come «legge La Loggia». Per vero, la «reinterpretazione» riguarda solo il comma 4, mentre i restanti due commi impugnati sono dichiarati incostituzionali in quanto in «irrimediabile contrasto» con la lettura del comma 4 appena esplicitata ed unica conforme a Costituzione.

A fianco di tali sentenze meritano inoltre di essere richiamate alcune decisioni nelle quali la decisione di infondatezza è sorretta non già da una differente interpretazione della disposizione impugnata, ma da una più adeguata – o più completa – ricostruzione del quadro normativo complessivamente inteso rispetto a quella su cui era basato il ricorso. Al riguardo, si vedano le sentenze numeri 7, 8 (dove si fa riferimento all’interpretazione sistematica) e 172.

Può essere richiamata, infine, la sentenza n. 6, nella quale la decisione di infondatezza è basata – tra l’altro – sulla considerazione secondo la quale l’intesa menzionata dalla normativa impugnata «va considerata come un’intesa “forte”, nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento». Tale interpretazione, come nota la stessa sentenza n. 6, era avallata anche dall’Avvocatura dello Stato.

13.2. Le sentenze «manipolative»

Non sono mancate, nel corso dell’ultimo anno, neppure le sentenze c.d. «manipolative».

Le sentenze numeri 13, 196 e 308 possono essere inquadrate come contenenti decisioni «additive». Nella sentenza n. 196, in particolare, la Corte giunge sino ad individuare il tenore esatto delle parole che devono essere introdotte nel testo legislativo sottoposto al suo esame perché possano essere sanati i vizi di costituzionalità.

Alcune sentenze contengono invece dispositivi «riduttivi» (o «ablativi»). Tra queste, si segnalano: la sentenza n. 196, a proposito della illegittimità costituzionale dell’Allegato 1 del decreto legge n. 269 del 2003; la sentenza n. 380, che dichiara l’incostituzionalità di una disposizione «nella parte in cui» si applica a determinate fattispecie; la sentenza n. 423, che individua specificamente le parti della disposizione da colpire mediante le formule «limitatamente alle parole», «limitatamente all’inciso»; la sentenza n. 390 mediante la dicitura «limitatamente alla parte in cui dispone che […]».

Nella già menzionata sentenza n. 196, inoltre, sono presenti alcuni dispositivi qualificabili come «sostitutivi».

13.3. Le altre tecniche decisorie

La sentenza n. 43 si segnala perché individua nella disposizione impugnata una «incompletezza» rispetto a quello che dovrebbe essere lo standard costituzionalmente prescritto; la decisione, tuttavia, è nel senso della infondatezza, evidenziandosi che «la rilevata incompletezza non [è] tale da inficiare la legittimità costituzionale della norma medesima», e che il suo «completamento» deve essere ritenuto condizione di applicabilità della norma stessa.

La sentenza n. 196 dichiara la illegittimità costituzionale di numerose disposizioni, nella parte in cui non assegnano alle Regioni un ruolo nel «completamento» della normativa medesima, intervenendo direttamente con disposizioni di dettaglio. Nel testo della decisione, tuttavia, si evidenzia che, ove le Regioni non provvedessero a compiere le proprie scelte normative entro un termine stabilito dallo Stato, ma comunque «congruo», dovrebbero ritenersi applicabili le norme statali anche nelle parti dichiarate incostituzionali.

La sentenza n. 255 è nel senso della infondatezza. Tuttavia, dal testo della decisione emerge che la normativa impugnata appare sostanzialmente incompatibile con l’assetto costituzionale risultante dalla riforma del 2001, e che la sua «salvezza» dipende esclusivamente dal suo carattere di temporaneità.

14. Le pronunzie di illegittimità costituzionale consequenziale

Anche nel corso del 2004, in alcuni casi la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale consequenziale di disposizioni differenti da quelle impugnate, in applicazione dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953. Tale istituto, infatti, come ha ribadito la sentenza n. 2, può essere applicato anche ai giudizi in via principale, in quanto «esprime un principio di diritto processuale che è valido per tutte le questioni di legittimità costituzionale previste dal Capo II della predetta legge n. 87, come si desume anche dalla dizione letterale del citato art. 27».

In particolare, ciò è avvenuto nella sentenza n. 166, nell’ambito della quale la consequenzialità deriva dalla strumentalità delle norme colpite ex art. 27 rispetto a quelle dichiarate incostituzionali in accoglimento del ricorso, nonché nella sentenza n. 272. Si vedano, inoltre, le sentenze numeri 2 e 378 (infra, par. 19).

15. Lo «statuto» della «cessazione della materia del contendere» per ius superveniens

L’ordinanza n. 137 individua in modo esplicito i passaggi argomentativi necessari a dichiarare la cessazione della materia del contendere a seguito di sopravvenienze normative intervenute nel corso del giudizio. A tal fine, per prima cosa, deve valutarsi se la normativa in questione sia effettivamente «sopravvenuta», in quanto pertinente rispetto all’oggetto del giudizio.

In secondo luogo, è necessario verificare se lo ius superveniens sia caratterizzato da una effettiva innovatività, ovvero se «dalla disposizione legislativa sopravvenuta [sia] desumibile una norma sostanzialmente coincidente con quella impugnata nel ricorso». In tal caso «la questione – in forza del principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via d’azione – dovrebbe essere trasferita sulla nuova norma».

In terzo luogo, si deve accertare «il carattere satisfattivo o meno» dello ius superveniens «rispetto alle censure fatte valere nell’atto introduttivo del giudizio».

Tuttavia, anche nel caso in cui le pretese della parte ricorrente risultino soddisfatte dalla modifica normativa, affinché possa addivenirsi ad una dichiarazione di cessazione della materia del contendere sarà necessario verificare se la disposizione oggetto del giudizio «abbia ricevuto una qualche attuazione medio tempore». Ciò in quanto, ove così fosse, permarrebbe l’interesse al ricorso e la Corte dovrebbe pronunziarsi nel merito.

Allorché si verifichino le suddette condizioni, può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere, dal momento che risulta venuta meno «la necessità di una pronunzia della Corte».

Al di fuori dei casi in cui la mancata attuazione della disposizione impugnata emerga con chiarezza (si pensi ad esempio alla sentenza n. 12), per l’accertamento di tale circostanza, nell’ordinanza n. 203 vengono utilizzate ad esempio le dichiarazioni provenienti da soggetti qualificati (quali il Difensore civico della Regione Abruzzo, evidenziando come la valutazione di quest’ultimo sia «condivisa dalla stessa ricorrente»).

Nell’ordinanza n. 274 si dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35 della legge n. 448 del 2001, in quanto si ritiene che le nuove disposizioni medio tempore entrate in vigore, nonché la declaratoria di incostituzionalità operata dalla sentenza n. 272 abbiano determinato un mutamento del quadro normativo in senso complessivamente satisfattivo delle pretese delle ricorrenti; ciò anche in considerazione della mancata attuazione della normativa impugnata in conseguenza della mai avvenuta adozione del regolamento governativo di attuazione.

Ancora nel senso della (parziale) cessazione della materia del contendere, per effetto di sopravvenienze normative sostanzialmente satisfattive delle pretese del ricorrente, sono le sentenze numeri 8, 15, 17, 36, 196, 345 e 424.

Per due casi di trasferimento della questione sulla nuova norma, in quanto sostanzialmente riproduttiva o comunque non modificativa del contenuto della disposizione censurata, si segnalano le sentenze numeri 286 e 431.

La sopravvenienza normativa in corso di giudizio fonda anche la dichiarazione di cessata materia del contendere dell’ordinanza n. 432, nella quale la Corte prende atto di un intervento del legislatore statale che aveva fatto salve pro tempore le disposizioni regionali oggetto di impugnazione stabilendone la necessaria applicazione.

Da segnalare, infine, è la sentenza n. 14, nella quale la Corte ritiene di non prendere in considerazione lo ius superveniens, per decidere nel merito una delle questioni proposte nel senso della infondatezza.

16. La cessazione della materia del contendere per promulgazione parziale delle leggi regionali siciliane

Anche nel corso dell’anno 2004 non mancano alcune decisioni con le quali la Corte – conformemente alla giurisprudenza ormai consolidata – pronuncia la cessazione della materia del contendere in relazione alle questioni sollevate nei confronti di leggi della Regione siciliana che vengano successivamente promulgate con omissione delle parti impugnate. In tal senso, si vedano le ordinanze numeri 32 e 131.

17. L’estinzione del giudizio

L’ordinanza n. 31 pronuncia l’estinzione del giudizio. Della vicenda sottesa a tale provvedimento possono essere evidenziate le seguenti particolarità.

Innanzi tutto che – da un punto di vista sostanziale – la rinunzia al ricorso da parte dello Stato è basata su una nota proveniente dal Presidente della Regione che fornisce, secondo quanto affermato nello stesso atto di rinuncia, «un’adeguata interpretazione della norma che sembra poter far superare l’eccezioni sollevate dal Governo».

In secondo luogo, che il deposito dell’atto di rinuncia, successivo allo svolgersi dell’udienza pubblica, precede di ben sei mesi il deposito dell’atto formale di accettazione da parte della Regione.

Altre decisioni che pronunciano l’estinzione per rinunzia sono l’ordinanza n. 243 e le sentenze numeri 390 e 424.

Merita infine di essere richiamata la sentenza n. 134, nella quale si evidenzia come il potere di rinunziare al ricorso sia attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri, e non ai singoli ministri.

18. Altri tipi di decisione

Con la sentenza n. 74 la Corte dichiara l’inammissibilità della questione sottopostale, a seguito della «individuazione dell’esatto contenuto della normativa oggetto del […] giudizio», ricostruito in modo differente da quanto era stato fatto nel ricorso introduttivo.

La sentenza n. 167, invece, dichiara la inammissibilità della questione a causa del venir meno, in seguito ad una precedente sentenza di illegittimità costituzionale, dei principi fondamentali della materia invocati come parametro interposto a sostegno della presunta violazione della competenza statale in materia di potestà legislativa concorrente. Né può valere ad evitare tale esito il sopravvenire di una nuova normativa, sostanzialmente riproduttiva delle norme abrogate, in quanto nessuna continuità normativa può ritenersi sussistente tra le due fonti, poiché con la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle precedente disciplina, questa viene rimossa con effetto ex tunc, ciò che impedisce di operare qualunque «saldatura» tra le due fonti.

Nella sentenza n. 286 la Corte dichiara inammissibile una questione propostale, in quanto «censura di mero fatto», che non riguarda una presunta lesività della norma impugnata.

19. Il giudizio ex art. 123, secondo comma, della Costituzione

Con le quattro sentenze numeri 2, 372, 378 e 379, la Corte si è pronunciata su altrettanti ricorsi del Governo avverso le prime organiche deliberazioni legislative di adozione dei nuovi statuti da parte delle Regioni Calabria, Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna.

Nella sentenza n. 378, chiamata a decidere anche sul ricorso presentato da un Consigliere regionale di minoranza avverso la delibera statutaria della Regione Umbria, la Corte ha l’occasione per fornire un chiarimento sui soggetti legittimati a promuovere il giudizio ex art. 123 della Costituzione. Nel dichiarare inammissibile il ricorso del Consigliere regionale, la Corte si fonda principalmente sull’argomento secondo il quale «l’impugnativa in via principale per motivi di costituzionalità delle leggi e degli statuti regionali è determinata da fonti costituzionali, secondo quanto reso palese dagli articoli 123 e 127 della Costituzione, nonché dall’articolo 2 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 [], che individuano soltanto nel Governo e nelle Giunte regionali gli organi che possono ricorrere in via principale alla Corte costituzionale»; argomento confermato «dal primo comma dell’articolo 137 della Costituzione, secondo il quale “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale […]”». Analogamente, secondo la medesima pronuncia, è da escludere l’ammissibilità dell’intervento dello stesso Consigliere regionale nel giudizio in via principale promosso dal Governo, in quanto «anche nel giudizio sulla speciale legge regionale disciplinata dall’articolo 123 della Costituzione, gli unici soggetti che possono essere parti sono la Regione, in quanto titolare della potestà normativa in contestazione, e lo Stato, indicato dalla Costituzione come unico possibile ricorrente». Anche in questo caso, peraltro, la Corte si preoccupa di precisare che «restano fermi, naturalmente, per i soggetti privi di tali potestà i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive dinanzi ad altre istanze giurisdizionali ed anche dinanzi a questa Corte nell’ambito del giudizio in via incidentale».

Conseguenza naturale della inammissibilità del ricorso e dell’intervento del Consigliere regionale è poi la inconoscibilità, da parte della Corte, delle censure e delle deduzioni ivi prospettate (in particolare, era stato sollevato un vizio di conformità della seconda deliberazione statutaria rispetto alla prima non rilevato nell’impugnazione governativa); l’oggetto del giudizio in via diretta in ordine alla legittimità costituzionale delle delibere statutarie resta imprescindibilmente fissato nel ricorso introduttivo del Governo. Al riguardo, però, vale anche qui il potere della Corte, ampiamente utilizzato nel giudizio sugli atti legislativi, di valutare le motivazioni addotte nel ricorso al fine di «delimitare» l’oggetto delle censure; ed è così che, in qualche caso, censure rivolte genericamente a disposizioni nel loro complesso, vengono circoscritte solo ad alcuni commi escludendone altri (sentenza n. 2).

Sempre sul piano dell’oggetto del giudizio, la Corte è stata anche sollecitata in due circostanze ad autorimettersi questioni di legittimità costituzionale di norme diverse da quelle contenute nelle delibere statutarie impugnate; ma in entrambi i casi non si è dato seguito a tali richieste, sottolineando in termini espliciti la manifesta infondatezza delle questioni (sentenze numeri 2 e 378).

Una particolare ragione di inammissibilità di alcune questioni proposte nei ricorsi governativi è stata affermata nelle sentenze numeri 372, 378 e 379, dove la Corte ha chiarito che le proclamazioni di obiettivi e di impegni costituiscono enunciazioni statutarie a carattere non prescrittivo e non vincolante, di talché «esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa». Tali disposizioni «non comportano né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato e neppure fondano esercizio di poteri regionali», sicché risultano del tutto prive di «idoneità lesiva», rendendo conseguentemente inammissibili le relative censure.

Quanto agli esiti di questo tipo di giudizi, va segnalato l’uso non infrequente che la Corte ha fatto dell’istituto della illegittimità consequenziale in riferimento ad altre disposizioni non censurate delle medesime deliberazioni statutarie sottoposte ad impugnazione. Nella sentenza n. 2, l’art. 27 della legge n. 87 del 1953 è stato applicato a disposizioni che disciplinavano «alcune fasi ulteriori dei procedimenti» previsti nelle norme dichiarate incostituzionali o che facevano «esplicito riferimento agli istituti ivi previsti»; nella sentenza n. 378, la dichiarazione di illegittimità consequenziale ha toccato una disposizione che prevedeva «un ulteriore svolgimento di quanto disciplinato» in una delle norme caducate principaliter.

 

Capitolo III

Il giudizio per conflitto di attribuzione

tra Stato e Regioni e tra Regioni

1. Considerazioni generali

Delle 18 pronunzie rese, nel corso del 2004, nei giudizi sui conflitti di attribuzioni intersoggettivi, solo 4 sono state rese nella forma dell’ordinanza, a fronte di 14 sentenze; quale diciannovesima pronunzia deve citarsi l’ordinanza n. 195, che ha deciso una domanda di sospensione dell’atto impugnato. Tra le 4 ordinanze, 3 pronunciano la cessazione della materia del contendere (si tratta delle ordinanze numeri 21, 160 e 244), mentre l’ultima (l’ordinanza n. 319) dichiara l’estinzione del giudizio.

Nel 2004 si conferma il trend già rilevato negli anni precedenti, secondo il quale il giudizio su conflitti intersoggettivi è originato soprattutto da ricorsi delle Regioni o delle Province autonome. In particolare, sono solo 3 le decisioni originate da ricorsi statali (si tratta dell’ordinanza n. 160 e delle sentenze numeri 199 e 258).

Delle 18 decisioni, 7 risolvono conflitti originati da atti adottati nella vigenza del vecchio parametro di costituzionalità (sentenze numeri 27, 103, 179, 273, 283, 288, ed ordinanza n. 244), mentre le restanti concernono ricorsi proposti dopo la modifica costituzionale del 2001.

Viene ribadita anche nel corso del 2004 l’inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza al giudizio per conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni, e ciò a causa della indisponibilità delle competenze delle quali si controverte. Tali affermazioni, in particolare, si trovano nell’ordinanza n. 195, con la quale si decide circa la richiesta di sospensione dell’atto impugnato.

In quella sede la Corte ha ritenuto pregiudiziale, rispetto alla decisione sulla domanda cautelare, la valutazione della corretta instaurazione del rapporto processuale, pronunciandosi, conseguentemente, sulle sollevate eccezioni di inammissibilità del ricorso in quella sede e non successivamente, in occasione della decisione di merito.

Nella medesima decisione, peraltro, si conferma che, ai fini della valutazione della tempestività del ricorso, la avvenuta conoscenza dell’atto impugnato viene in considerazione solo quale criterio sussidiario, quando manchino la pubblicazione o la notificazione (che la legge assume, agli effetti che qui interessano, come equipollenti), di talché il termine per la proposizione del ricorso per conflitto di attribuzione avverso un atto del quale sia prescritta la pubblicazione come condizione di efficacia, deve in ogni caso essere individuato avendo riferimento alla data della medesima.

Nella sentenza n. 9 viene inoltre ribadita la inammissibilità di censure proposte, nel contesto del conflitto intersoggettivo, avendo come riferimento parametri differenti da quelli concernenti il riparto di competenze. Nel caso di specie si trattava degli artt. 3 e 97 Cost.

Nel senso dell’inammissibilità è anche la sentenza n. 258, in ragione del riferimento a parametri costituzionali individuati nel nuovo Titolo V Cost., per le Regioni speciali, senza alcuna argomentazione riferita all’applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

2. Il profilo soggettivo

Quanto ai soggetti ricorrenti, non è individuabile alcuna particolare novità nel corso del 2004.

3. Il profilo oggettivo

In relazione alla individuazione degli atti idonei a far sorgere conflitto di attribuzioni, nel 2004 la Corte si pronunzia su ricorsi proposti avverso regolamenti statali (sentenze numeri 9 e 283), decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (sentenza n. 179, che in particolare riguarda l’allegato ad un d.P.C.m., e sentenza n. 273), decreti ministeriali (sentenze numeri 27 e 256), delibere del CIPE (ordinanza n. 195 e sentenza n. 233), delibere di Giunta regionale (sentenza n. 199) o provinciale (ordinanza n. 21), accordi di cooperazione transfrontaliera stipulati dalle Regioni (sentenza n. 258), nonché atti di natura interna all’amministrazione, come ad esempio una nota del Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato (sentenza n. 306), una nota del Dipartimento per i servizi nel territorio e lo sviluppo dell’istruzione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (sentenza n. 177) o una nota del Ministro per gli affari regionali (sentenza n. 258).

Un cenno particolare merita inoltre la sentenza n. 129, con la quale la Corte accoglie un conflitto sollevato da una Regione nei confronti dello Stato in relazione all’ordinanza di un Giudice per le indagini preliminari. In tale decisione la Corte conferma (implicitamente) l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale nei confronti di atti giurisdizionali il conflitto è ammesso solo nel caso in cui il ricorso sia volto non già a contestare l’error in iudicando, ma più radicalmente la sussistenza del potere giurisdizionale.

Se da un punto di vista formale non sussistono particolari restrizioni all’ammissibilità dei conflitti, determinante risulta invece la valutazione della idoneità dell’atto ad arrecare effettivamente una lesione alla sfera di competenza del ricorrente.

Da questo punto di vista, non sono mancate anche nel 2004 le decisioni di inammissibilità. Ad esempio, la sentenza n. 288 – concernente una Convenzione per l’esercizio 2001 stipulata tra il Ministro delle finanze e l’Agenzia delle entrate, nonché una nota dell’Agenzia delle entrateritiene tali atti non idonei «a produrre lesione della sfera di competenza costituzionale della ricorrente», in quanto vi si disciplinano «i rapporti tra il Ministro e l’Agenzia, senza alcun riferimento alle competenze regionali», né contengono «alcun profilo che in qualche modo possa dar luogo ad una compressione dei poteri regionali in materia di riscossione dei tributi».

Da questo punto di vista, è significativa anche la sentenza n. 199, nella quale invece si ritiene ammissibile il conflitto proposto avverso la delibera della Giunta regionale della Campania che disponeva che «al fine di salvaguardare l’identità e l’integrità del territorio regionale, non è ammessa la sanatoria delle opere edilizie realizzate in assenza dei necessari titoli abilitativi, ovvero in difformità o con variazioni essenziali rispetto a questi ultimi, e che siano in contrasto con gli strumenti urbanistici generali vigenti», evidenziando come tale atto «contiene addirittura un rifiuto di riconoscere efficacia ad un’intera normativa statale, pur disponendo la Regione degli strumenti costituzionali per contestarne la eventuale illegittimità costituzionale».

Sempre nel solco della giurisprudenza ormai consolidata si colloca l’affermazione della inammissibilità di ricorsi che si sostanzino in una mera vindicatio rei, in quanto privi del necessario «tono costituzionale», non lamentandosi con essi la lesione di alcuna sfera di competenze costituzionalmente garantita (sentenza n. 179).

4. La definizione del giudizio

Delle 18 decisioni adottate, solo 7 sono nel senso dell’accoglimento del ricorso (sentenze numeri 27, 129, 177, 199, 233, 283 e 306), o contengono comunque (tra gli altri) dispositivi di accoglimento (sentenza n. 258). In 4 casi si pronuncia la cessazione della materia del contendere (ordinanze numeri 21, 160 e 244 e sentenza n. 256), mentre in un solo caso si pronuncia la estinzione del processo per rinunzia (ordinanza n. 319).

Nel caso dell’ordinanza n. 160, la cessazione è derivata dal formarsi del giudicato amministrativo sull’atto impugnato, confermando in tal modo la possibilità di una concreta sovrapposizione tra giudizio costituzionale e giudizio amministrativo.

La sentenza n. 256 pronunzia la cessazione della materia del contendere, invece, in quanto i regolamenti impugnati «hanno dato luogo a provvedimenti attuativi di erogazione per l’anno 2003» che non possono essere posti nel nulla poiché ciò determinerebbe «il sacrificio di valori che non solo sono evocati dalle suddette norme costituzionali, ma che permeano di sé la prima parte della Costituzione». Di qui, secondo la citata sentenza, la carenza di interesse della Regione.

La sentenza n. 273 è invece nel senso della inammissibilità per erroneità del presupposto interpretativo, e ciò in quanto l’atto impugnato è ritenuto dalla Corte applicabile nei confronti della Provincia autonoma di Trento ricorrente, solo per quanto concerne l’obiettivo in esso stabilito.

Viene confermata poi – in ragione della identità della posizione costituzionale delle Province autonome di Trento e Bolzano – l’estensione delle decisioni di accoglimento dei ricorsi dell’una nei confronti dell’altra (sentenza n. 283).

Capitolo IV

Il giudizio per conflitto di attribuzione

tra poteri dello Stato

1. Considerazioni introduttive

Come negli anni precedenti, anche nel 2004 la maggior parte dei ricorsi esaminati dalla Corte in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è rappresentata da quelli promossi dall’autorità giudiziaria (ben 36 i casi, pari all’87,8% del totale dei conflitti) ed hanno avuto ad oggetto il modo in cui i singoli rami del Parlamento (in 14 casi il Senato ed in 22 la Camera) hanno esercitato la prerogativa, loro spettante, di valutare se le dichiarazioni dei loro membri – per cui era in corso un giudizio civile o penale – fossero o meno coperte dalla garanzia dell’insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione (il modulo conflittuale è quello tipico dei c.d. «conflitti da menomazione» o «da interferenza»).

A tale proposito, se si escludono le 28 occasioni in cui tale problema è stato affrontato nella fase preliminare del giudizio sull’ammissibilità del conflitto (fase in cui, notoriamente, non viene preso in esame il merito della controversia), nei restanti 8 casi la Corte si è pronunciata nel seguente modo: in 4 occasioni ha dichiarato improcedibile il giudizio per tardività del deposito del ricorso (sentenza n. 247, ordinanze numeri 249, 250 e 278), mentre negli unici quattro casi in cui essa è effettivamente giunta ad affrontare il merito della controversia, tre sono state le pronunce a favore dell’autorità giudiziaria (sentenze numeri 246, 347 e 348) ed una quella a favore del ramo del Parlamento coinvolto nel conflitto (sentenza n. 298).

I cinque giudizi che non hanno avuto ad oggetto il tema dell’insindacabilità delle opinioni espresse dai membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni hanno invece riguardato, rispettivamente, la problematica dell’inviolabilità della residenza e del domicilio del parlamentare, come garantita dall’art. 68, secondo comma, della Costituzione (sentenza n. 58), la prerogativa della irresponsabilità presidenziale sancita dall’art. 90 della Costituzione (sentenza n. 154), la mancanza di legittimazione dei singoli ministri ad essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (ordinanza n. 221), il bilanciamento dell’interesse allo svolgimento del processo con l’interesse della Camera alla partecipazione del suo componente ai lavori parlamentari (sentenza n. 284), i limiti oggettivi di ammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione sollevato dai promotori dei referendum abrogativi (ordinanza n. 384).

2. I profili soggettivi

Nel corso del 2004 due sono le pronunce che appaiono maggiormente significative per il profilo che qui interessa: la prima afferma la legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione dell’ex Capo dello Stato; la seconda, viceversa, nega tale legittimazione in capo ai singoli ministri.

In particolare, nel caso di un giudizio per conflitto tra poteri dello Stato avente ad oggetto pronunce dell’autorità giudiziaria asseritamente lesive della prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica, come garantita dall’art. 90 della Costituzione, la Corte ha riconosciuto la legittimazione attiva – di norma attribuita soltanto a chi impersona il potere delle cui attribuzioni si discute nel momento in cui il ricorso viene proposto – anche alla persona fisica dell’ex Presidente della Repubblica, sussistendo una coincidenza temporale tra la titolarità della carica ed il momento in cui erano state rese le dichiarazioni che si volevano protette dalla prerogativa in parola e non apparendo «ragionevole che la possibilità di sollevare conflitto, di cui il titolare della carica gode finché dura il mandato, in relazione agli atti da lui compiuti, sia invece rimessa alle scelte di un titolare diverso da quello della cui responsabilità si discute per il solo fatto casuale che il giudizio di responsabilità – che riguarda sempre la persona fisica – insorga dopo, anziché prima della scadenza di detto mandato» (sentenza n. 154).

Sempre sotto il profilo della legittimazione soggettiva a sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, la Corte ribadisce poi che – al di fuori delle ipotesi in cui oggetto del giudizio siano le competenze direttamente riconosciute dalla Costituzione al Ministro della giustizia, ovvero la legittimità del voto di sfiducia individuale espresso dal Parlamento nei confronti di un ministro – i singoli titolari di dicastero non sono legittimati ad essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, posto che «è il Governo a prendere parte – in funzione dell’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo, proclamato dal primo comma dell’art. 95 Cost. – ai conflitti tra poteri dello Stato» (ordinanza n. 221).

3. I profili oggettivi

Sotto il profilo oggettivo, di particolare interesse appaiono le pronunce che hanno avuto ad oggetto conflitti insorti tra poteri dello Stato in relazione a provvedimenti di natura giurisdizionale.

A tale proposito, la Corte, «alla stessa stregua degli altri casi già presentatisi in passato», ribadisce l’ammissibilità di ricorsi con i quali organi costituzionali contestino atti di autorità giurisdizionali ritenuti lesivi della propria posizione costituzionale, trattandosi, anche in tali ipotesi, di un conflitto volto alla delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, come richiesto dall’art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 (sentenza n. 154). Per quanto riguarda il connesso profilo dei limiti all’esplicazione degli effetti delle proprie decisioni aventi ad oggetto la legittimità di atti giurisdizionali, la Corte ha ulteriormente precisato che, in caso di intervenuta formazione del giudicato, alla decisione di parziale accoglimento del ricorso non può seguire l’annullamento dei provvedimenti giurisdizionali impugnati, poiché l’esaurimento della vicenda processuale impedisce una pronuncia idonea a riaprire la vicenda, rimettendo in discussione rapporti e situazioni giuridiche consolidatisi per effetto del giudicato (sentenza n. 284).

Sono stati ribaditi, infine, attraverso il richiamo all’ordinanza n. 195 del 2003, i confini entro cui sono circoscritti gli interessi tutelabili dai comitati promotori dei referendum abrogativi attraverso lo strumento del conflitto (ordinanza n. 384).

4. Aspetti processuali

Per quanto riguarda i problemi di natura processuale affrontati dalla Corte nel corso dell’anno passato, se ne segnalano, in particolare: taluni attinenti al tempus ed alle modalità di proposizione del conflitto (mancanza di un dies ad quem per proporre ricorso, inammissibilità di un conflitto già dichiarato inammissibile e/o improcedibile, tardività del deposito del ricorso dovuta a disservizi postali e all’inerzia dell’ufficiale giudiziario); altri relativi al rapporto intercorrente tra i giudizi in corso e la legge n. 140 del 2003, recante disposizioni di attuazione dell’art. 68 della Costituzione; e, soprattutto, alcuni relativi all’ammissibilità dell’intervento di terzi nei giudizi su conflitti di attribuzione tra poteri.

Il primo ordine di problemi di natura processuale ha trovato composizione principalmente attraverso il richiamo a quanto già affermato nella sentenza n. 116 del 2003.

In particolare, la Corte ha riaffermato che non esiste un termine finale per sollevare i conflitti di attribuzione tra poteri, dovendosi individuare la ratio di tale mancanza nell’esigenza – avvertita dal legislatore in ragione del livello precipuamente politico-costituzionale di tal genere di controversie – di favorirne al massimo la composizione, svincolandola dall’osservanza di termini di decadenza (sentenza n. 58). Tuttavia, una volta sollevato il conflitto, la durata dello stesso non può essere subordinata alle scelte discrezionali delle parti confliggenti, ma deve obbedire alla diversa logica di un sistema di norme processuali volte a favorirne una rapida definizione attraverso rigorose scansioni temporali; per cui, ribadito che «una volta instaurato [il conflitto] non è ammissibile mantenere indefinitamente in sede processuale una situazione di conflittualità tra poteri, protraendo così ad libitum il ristabilimento della “certezza e definitività di rapporti”» (ordinanza n. 40), la Corte ha dichiarato inammissibile la riproposizione di un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato già dichiarato inammissibile e/o improcedibile (oltre alla citata ordinanza, si veda l’ordinanza n. 217).

Passando ora alle problematiche sollevate dalla tardività del deposito del ricorso, giova ricordare che, al temine del giudizio preliminare di ammissibilità di un ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (c.d. giudizio di ammissibilità), la Corte, in caso di positiva delibazione circa la sussistenza di materia di un conflitto, assegna al ricorrente un termine (solitamente di 60 giorni) per la notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità emessa dalla Corte. Il ricorso e l’ordinanza devono essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, presso la cancelleria della Corte entro il termine di venti giorni, previsto dall’articolo 26, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Ebbene, sulla scia di una consolidata giurisprudenza, la Corte non ha mancato, anche nel 2004, di riaffermare la natura perentoria di detto termine di venti giorni per il deposito del ricorso e dell’ordinanza, con conseguente dichiarazione di improcedibilità del giudizio in caso di tardivo deposito (sentenza n. 247 ed ordinanze numeri 249, 250 e 278).

L’elemento di maggior interesse è dato, peraltro, dal fatto che la Corte ha comunque escluso che, in tali ipotesi, possa assumere rilievo – onde evitare una dichiarazione di improcedibilità del giudizio per tardività del deposito – tanto la circostanza che gli atti da depositare siano stati restituiti dall’ufficiale giudiziario cui sia stata richiesta la notifica in un momento in cui il termine per il deposito era già decorso (sentenza n. 247 ed ordinanza n. 278), quanto il fatto che l’atto da depositare sia stato spedito, a mezzo del servizio postale, il giorno antecedente a quello di scadenza del termine in questione, ma sia giunto alla cancelleria della Corte quando il termine era ormai scaduto (ordinanze numeri 249 e 250). Sotto il primo profilo la Corte ha osservato che, mentre «l’ufficiale giudiziario incaricato della notifica è tenuto ad eseguirla senza indugio e comunque entro il termine prefissato dall’autorità per gli atti da essa richiesti, […] dovere il cui inadempimento è sanzionato, [viceversa] nessuna norma impone all’ufficiale giudiziario l’obbligo di restituire gli atti al richiedente nel domicilio o nella sede di questo. È il notificante che deve diligentemente attivarsi, facendo in modo – per quanto egli può controllare – che il procedimento di notificazione si concluda, con il ritorno degli atti nella sua disponibilità, nel tempo utile per il rituale proseguimento del processo» (sentenza n. 247). Sotto il secondo dei profili considerati, la Corte ha affermato che «in tanto potrebbe darsi rilievo, ai fini dell’osservanza del termine per il deposito, alla data di spedizione dell’atto, in quanto fosse normativamente prevista la possibilità di avvalersi a tali fini del servizio postale», tuttavia, «né la legge 11 marzo 1953, n. 87, né l’art. 26 delle norme integrative – nel testo in vigore all’epoca del deposito in questione – prevedono tale possibilità» (ordinanza n. 249).

Va aggiunto, concludendo sul punto, che a seguito delle modifiche apportate alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale con deliberazione della Corte costituzionale del 10 giugno 2004, pubblicata sulla G.U. n. 151 del 30 giugno 2004, l’art. 30 delle norme integrative prevede ora la possibilità di effettuare il deposito dei ricorsi avvalendosi del servizio postale.

Chiamata poi a valutare gli effetti – nelle more del giudizio su conflitto di attribuzione in materia di insindacabilità – della sopravvenienza della legge n. 140 del 2003, recante disposizioni di attuazione dell’art. 68 della Costituzione, la Corte ha respinto l’eccezione di inammissibilità fondata sull’assunto che tale ius superveniens avrebbe dovuto «comportare la “rivalutazione” da parte del giudice ricorrente “della effettiva sussistenza nella specie dei presupposti per l’elevazione del conflitto”», all’uopo rilevando che, «come […] chiarito […] nella sentenza n. 120 del 2004», le disposizioni contenute nella legge n. 140 «non altera[no] il contenuto dell’art. 68, primo comma, Cost.»: non si pone, dunque, «per il ricorrente alcuna necessità di rivalutare i presupposti sostanziali del conflitto» (sentenza n. 246).

Certamente da segnalare è, infine, la sentenza n. 154 che, in un conflitto tra poteri insorto tra l’ex Presidente della Repubblica e l’autorità giudiziaria in relazione a due provvedimenti giurisdizionali asseritamente lesivi delle prerogative di insindacabilità garantite al Capo dello Stato dall’art. 90 Costituzione, richiamandosi al precedente costituito dalla sentenza n. 76 del 2001 (resa in sede di conflitto intersoggettivo), ha dichiarato ammissibili gli interventi spiegati dalle parti attrici nei giudizi civili in cui sono state rese le sentenze impugnate, affermando che «negare ingresso alla difesa delle parti del giudizio comune, in cui si controverte sull’applicazione della immunità, significherebbe esporre tali soggetti all’eventualità di dover subire, senza possibilità di far valere le proprie ragioni, una pronuncia il cui effetto potrebbe essere quello di precludere definitivamente la proponibilità dell’azione promossa davanti alla giurisdizione», ciò che «contrasterebbe con la garanzia costituzionale del diritto al giudice e ad un pieno contraddittorio, che discende dagli articoli 24 e 111 della Costituzione, ed è protetto altresì dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo».

Capitolo V

Il giudizio di ammissibilità delle richieste

di referendum abrogativo

1. Referendum per l’abrogazione di norme di legge riguardanti le alte cariche dello Stato

Nel 2004, la Corte costituzionale si è pronunciata su un’unica richiesta di referendum abrogativo, cioè quella avente ad oggetto l’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140, recante «Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato». La richiesta è stata dichiarata ammissibile, con la sentenza n. 25, in quanto «la disposizione oggetto del quesito, con riguardo a tutte le norme che cont[eneva], [era] estranea alle leggi per le quali l’art. 75 della Costituzione preclude il ricorso al referendum abrogativo […], né [poteva] considerarsi in alcun modo collegata all’ambito di operatività di tali leggi». La domanda referendaria «presenta[va] inoltre gli ulteriori requisiti che […] debbono ricorrere ai fini del positivo esito del giudizio di ammissibilità»: in primo luogo, il non riguardare leggi costituzionali o di revisione costituzionale, né leggi a contenuto costituzionalmente vincolato o costituzionalmente necessarie; in secondo luogo, l’avere, il quesito, i caratteri dell’omogeneità («la domanda [era] espressione di una matrice razionalmente unitaria, percepibile come tale dal votante, al quale propone[va] un’alternativa netta tra l’espulsione dall’ordinamento e il mantenimento in esso del trattamento differenziato riservato dalla norma ai titolari delle cinque alte cariche o funzioni, con la loro non sottoponibilità a processi penali per i reati nella stessa norma indicati»), della chiarezza e dell’univocità («il quesito riguarda[va] un solo articolo di legge, nel quale si esauri[va] l’intera disciplina della materia, e quindi si presenta[va] come completo e del tutto coincidente» con l’intento dei promotori).

Nel momento in cui veniva decisa l’ammissibilità della richiesta referendaria, l’art. 1 della legge n. 140 del 2003 era, peraltro, già stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 24. Nella sentenza n. 25 si aveva dunque cura di precisare che «la competenza a valutare, alla luce dell’art. 136 della Costituzione, gli effetti del sopravvenire [della] pronunzia [di incostituzionalità] all’ordinanza con cui l’Ufficio centrale ha dichiarato la legittimità del quesito referendario, non appartiene a questa Corte, essendo estranea all’oggetto del giudizio affidatole dall’art. 75 della Costituzione, come individuato dalla giurisprudenza costituzionale».


Parte II

Profili sostanziali

Capitolo I

Principi e diritti fondamentali

1. I principi di eguaglianza e ragionevolezza

1.1. Premessa

Il ruolo di preminenza che da sempre assume nei giudizi di tipo incidentale il parametro di cui all’art. 3 della Costituzione è attestato dal numero di questioni sollevate davanti alla Corte che ad esso fanno diretto riferimento (si pensi che nel 2004, su 286 giudizi in via incidentale, ben 241, pari all’84,2 % del totale, annoveravano l’art. 3 tra i parametri invocati dai giudici a quibus).

In questa sede saranno prese in esame solamente alcune tra le numerosissime pronunce che hanno vagliato le più diverse questioni di legittimità costituzionale sotto il profilo della pretesa lesione del parametro in parola.

E ciò per l’ovvia considerazione che in numerose ipotesi la norma o le norme sospettate di illegittimità costituzionale erano sottoposte allo scrutinio della Corte sotto diversi profili, coinvolgenti diverse norme del dettato costituzionale, per cui l’esame di tali pronunce, benché condotto dalla Corte anche alla stregua dell’art. 3 della Costituzione, troverà spazio nei successivi paragrafi.

Di conseguenza, le decisioni cui si farà ora accenno non esauriscono di certo i casi in cui la Corte si è occupata dei principi di eguaglianza e ragionevolezza.

Ciò premesso, va ricordato come dal principio di eguaglianza, a seguito delle storiche decisioni n. 15 del 1960 e n. 10 del 1980, vengano tradizionalmente tratti due diversi moduli di giudizio: quello di parità (ovvero di eguaglianza in senso stretto) e quello di ragionevolezza.

1.2. Il principio di eguaglianza

Benché le decisioni della Corte assumano spesso a pari titolo entrambi i moduli, il giudizio di parità si distingue da quello di ragionevolezza per le sue caratteristiche formali, trattandosi di confrontare tra loro due o più situazioni o discipline sostanzialmente indicate come omogenee dal giudice a quo (il termine di raffronto viene definito come tertium comparationis), onde censurarne la difformità di trattamento, se considerata priva di ragionevole giustificazione.

In particolare, la regola di giudizio seguita dalla Corte in tali ipotesi può riassumersi nel seguente enunciato: «si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 340).

In prevalenza, la ragione che induce la Corte a rigettare questioni di legittimità costituzionale incentrate sulla presunta lesione del principio di eguaglianza si fonda sull’accertata disomogeneità delle situazioni o delle discipline poste a raffronto per invocare una uniformità di disciplina.

Per cui, a titolo di esempio, non sono costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 3 della Costituzione:

- (a) la norma della legge n. 47 del 1985 (art. 18) che prevede una disciplina di maggiore rigore, quanto al regime delle nullità sanabili, per il trasferimento dei terreni, rispetto a quanto previsto per il trasferimento di edifici (artt. 17 e 40), posto che tali norme sono «ispirate ad un diverso sistema di accertamento e di contrasto all’abusivismo», per cui la «diversità della regolamentazione non appare […] né illogica né irragionevole, attesa la differenza strutturale degli illeciti urbanistici riguardanti gli edifici da un lato, per i quali l’abuso è già stato perpetrato al momento dell’attività negoziale,» e «i terreni dall’altro, per i quali l’abuso è in via di consumazione per effetto di trasferimenti parziali» (sentenza n. 38);

- (b) la disciplina della sospensione delle procedure di sfratto recata dall’art. 80, comma 20, della legge n. 388 del 2000, rispetto a quella dettata dall’art. 6, comma 5, della legge 431 del 1998, sotto il particolare profilo della diversa configurazione normativa dei requisiti richiesti all’inquilino per potere usufruire della sospensione stessa, stante la diversa natura e finalità delle due norme, essendo ispirata la seconda «al sistema della graduazione, con conseguente previsione di un potere discrezionale del giudice dell’esecuzione quanto alla fissazione del momento del rilascio entro un termine determinato nel massimo dalla legge, laddove la prima norma – prevedendo la sospensione automatica delle procedure per il tempo fissato dalla legge – risponde alla logica propria del (nominalmente) cessato regime c.d. vincolistico» (sentenza n. 62);

- (c) la norma che non consente al traente di un assegno bancario protestato, che abbia pagato capitale, interessi, penale e spese nel termine di cui all’art. 8 della legge n. 386 del 1990, di ottenere la cancellazione del proprio nome dal registro informatico dei protesti, a differenza di quanto invece previsto a favore di colui nei cui confronti sia stato levato protesto per mancato pagamento di una cambiale o di un vaglia cambiario, posto che la «peculiare natura di mezzo di pagamento conservata dall’assegno giustifica la diversa disciplina che, quanto alle conseguenze del protesto, il legislatore ha dettato rispetto alla cambiale» (ordinanza n. 84);

- (d) la disciplina di maggior favore recata da una norma transitoria in materia di concessione di benefici penitenziari rispetto a quanto previsto nel quadro di analoga disciplina dettata anni prima, stante «la non omogeneità degli interventi legislativi» considerati dal rimettente, che rende «non comparabili i due testi normativi sotto il profilo dell’art. 3 Cost., e rivela l’incongruità della pretesa del rimettente di estendere la disciplina intertemporale introdotta dalla norma censurata a un decreto-legge risalente ad oltre un decennio» (ordinanza n. 108);

- (e) la norma che, nel quadro del riordino delle graduatorie permanenti degli abilitati all’insegnamento di cui al decreto-legge n. 255 del 2001, faceva salve le già conferite nomine in ruolo dei docenti che, in mancanza di detta nomina, non sarebbero più stati in posizione utile ai fini delle nomine stesse, posto che «ben diversa consistenza sono le ragioni che giustificano la salvaguardia di una situazione (l’acquisizione di un posto di ruolo) caratterizzata nella attualità dal diritto alla sua permanenza – jus in officio – rispetto a quelle che possono essere addotte per rivendicare la conservazione di una posizione per sua natura virtuale (collocamento in una graduatoria)» (sentenza n. 168);

- (f) la differente disciplina normativa recata dalla legge n. 124 del 1999 per i docenti delle accademie e dei conservatori, da un lato, e i docenti aspiranti ad insegnamenti nella scuola secondaria e media, dall’altro, quanto ai requisiti richiesti per l’inserimento nelle graduatorie nazionali permanenti, previste dal decreto legislativo n. 297 del 1994, in ragione della «sostanziale diversità sussistente tra la normativa di stato giuridico delle categorie in relazione alle quali dovrebbe essere effettuata la comparazione» (sentenza n. 340);

- (g) la norma che prevede l’esonero dal divieto di cumulo della pensione di anzianità con la retribuzione per i soli dipendenti delle Comunità europee in servizio all’estero e non anche per quelli in servizio in Italia, alla luce del fatto che non sussiste «la denunciata lesione del principio di eguaglianza, ove si consideri che la categoria dei lavoratori dipendenti in servizio fuori del territorio nazionale non è, in via generale, omogenea a quella dei lavoratori in servizio in Italia, per l’evidente maggior disagio, anche economico, che il trasferimento all’estero comporta, cosicché non può dirsi manifestamente irragionevole la scelta legislativa di derogare solo per gli uni, e non per gli altri, al generale principio del divieto di cumulo tra pensione di anzianità e retribuzione» (ordinanza n. 346).

 

Va tuttavia precisato che talvolta la Corte ritiene scindibile la valutazione di omogeneità sottesa al giudizio di parità, nel senso di ritenere due diverse situazioni o discipline sufficientemente omogenee ad un fine, ma non ad un altro.

Così, a proposito della comparabilità o meno della situazione di convivenza more uxorio a quella originata da un legame matrimoniale la Corte afferma che «se da un lato la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude affatto la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 della Costituzione (cfr., a tale proposito, la sentenza n. 416 del 1996), dall’altro lato, tuttavia, al di fuori di tali specifici casi che possono rendere necessaria una identità di disciplina, ogni intervento in tal senso rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore» (ordinanza n. 121).

Sempre nella richiamata ottica dell’esistenza di differenti prospettive da cui si può muovere nel valutare la legittimità o meno della disparità/parità di trattamento tra diverse discipline o situazioni, la Corte ricorda che «il principio di eguaglianza non comporta che istituti tra i quali si riscontrino differenze anche rilevanti non possano avere per alcuni profili comunanza di disciplina. Non vale quindi, al fine di dedurre l’irragionevolezza della norma denunciata, richiamare le decisioni di questa Corte con le quali è stato ritenuto che tra il procedimento di cui agli articoli 633 e seguenti cod. proc. civ. e quello regolato dall’art. 186-ter cod. proc. civ. esistono rilevanti diversità funzionali, sicché l’uno non può costituire tertium comparationis riguardo all’altro» (sentenza n. 180; v. anche infra sub…).

Essa, inoltre, avendo rilevato, da un lato, una «una illegittima disparità di trattamento fra figli legittimi e figli naturali riconosciuti ed in pregiudizio dei secondi, in quanto le ragioni di indole morale e patrimoniale, che consentono ai primi di opporsi all’adozione, valgono anche per i figli naturali», ed avendo altresì escluso, dall’altro lato, che «nella situazione presa in esame [siano] ipotizzabili profili di incompatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima che giustifichino un trattamento normativo differenziato», ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 291 del codice civile nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti (sentenza n. 245).

 

In ultimo, va aggiunto che l’eccezionalità di una dettato normativo costituisce di norma ragione sufficiente per escludere che ad esso possano fare riferimento i giudici a quibus come tertium comparationis, con la conseguenza che «la normativa inerente alle sessioni riservate di esami di idoneità o abilitazione all’insegnamento ha carattere eccezionale e di favore e quindi le singole disposizioni non possono essere estese al di là dei casi espressamente previsti a meno che le esclusioni che ne conseguono siano prive di giustificazione, e perciò irragionevoli» (sentenza n. 136).

Tuttavia, nonostante la natura derogatoria del sistema delle cause di prelazione rispetto al principio della par condicio creditorum, la Corte ha affermato che è «possibile sindacare, all’interno di una specifica norma attributiva di un privilegio, la mancata inclusione in essa di fattispecie omogenee a quelle cui la causa di prelazione è riferita», con la conseguenza che è stata ravvisata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro, poiché «tra il credito oggetto del giudizio a quo e quelli già muniti del privilegio in questione sussiste l’omogeneità richiesta per ritenere che la mancata inclusione del primo nel novero dei crediti muniti del privilegio generale sui mobili costituisca violazione dell’articolo 3 della Costituzione» (sentenza n. 113).

1.3. Il principio di ragionevolezza

Il principio di ragionevolezza viene tradizionalmente inteso nella specifica accezione di ragionevolezza-razionalità. E sotto tale profilo il controllo della Corte costituzionale verte non sulle scelte operate dal legislatore, quanto sulla ragionevolezza delle medesime, con la conseguente possibilità di verificare che la decisione assunta dal legislatore di differenziare o parificare determinate fattispecie astrattamente configurate non sia espressione di mero arbitrio ma abbia dietro di sé una ragione giustificatrice coerente con l’intrinseca causa legis.

 

Un caso in cui la Corte ha impiegato tale principio per sindacare la legittimità costituzionale di una norma – si trattava dell’art. 6, comma 2, della legge n. 132 del 1997, che, nel quadro del riordino della disciplina dei revisori contabili, prevedeva l’esonero dall’esame per l’iscrizione nel registro dei revisori contabili per coloro che alla data di entrata in vigore della legge (22 maggio 1997) fossero iscritti od avessero acquisito il diritto ad essere iscritti nell’albo professionale dei dottori commercialisti o nell’albo professionale dei ragionieri e periti commerciali – è quello costituito dalla sentenza n. 35.

In tale occasione la Corte ha osservato che rientra «certamente, in linea di principio, nella discrezionalità del legislatore, allorché introduce una disciplina transitoria di favore che consente, in assenza dei requisiti previsti a regime, ma in presenza di determinati altri requisiti (nella specie il conseguimento del diritto all’iscrizione nell’albo dei ragionieri o in quello dei dottori commercialisti), l’iscrizione in un registro e l’esercizio di una professione (nella specie quella di revisore contabile), fissare una data entro la quale questi ultimi requisiti debbano essere posseduti dagli interessati, e dopo la quale invece valga la disciplina definitiva», tuttavia, «nella specie il legislatore è intervenuto a ridosso, per così dire, di una situazione concreta, riaprendo (sia pure con modifiche) una fase transitoria che era già stata regolata avendo riguardo ai diritti conseguiti dagli interessati attraverso esami sostenuti in sessioni indette annualmente, compresa quella in corso al momento in cui detta disciplina transitoria era stata introdotta».

Pertanto, avendo «il legislatore […] dato alla nuova disciplina, per questa parte, un contenuto quasi “provvedimentale”, di proroga di un precedente regime, esso non poteva, senza incorrere in un vizio di manifesta irragionevolezza, ignorare i connotati concreti della situazione nella quale interveniva»; in particolare, non poteva ignorare «la circostanza che vi era una sessione di esami ancora parzialmente in corso in quel momento, e che quindi lo “sbarramento” temporale rigido che si intendeva introdurre avrebbe prodotto una discriminazione ingiustificata fra coloro che avevano o avrebbero sostenuto lo stesso esame, nella stessa sessione annuale, prima o dopo la data indicata, in base alla casuale durata delle prove».

Conclude pertanto la Corte affermando «la norma impugnata, in quanto manifestamente irragionevole, viola l’articolo 3 della Costituzione, nella parte in cui non estende l’esonero dall’esame a coloro che avrebbero conseguito il diritto ad essere iscritti all’albo dei ragionieri o a quello dei dottori commercialisti in base alla sessione di esame in corso alla data di entrata in vigore della legge in questione» (sentenza n. 35).

 

Fanno sempre applicazione del canone della ragionevolezza le sentenze numero 135 e 339 che, in materia di edilizia residenziale pubblica, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di altrettante leggi regionali che individuavano il reddito immobiliare, rilevante ai fini rispettivamente dell’assegnazione dell’alloggio e della dichiarazione di decadenza, commisurandolo al canone di locazione determinato ai sensi della legge 27 luglio 1978, n. 392. Invero, «l’irragionevolezza di tale scelta legislativa risiede nel fatto che il valore locativo così configurato non può oggi costituire un adeguato parametro di valutazione del cespite immobiliare, di cui sia titolare l’interessato (sentenza n. 299 del 2000), dopo che l’abrogazione dell’art. 12 della citata legge n. 392, che stabiliva le diverse basi di calcolo del valore locativo, ai fini dell’equo canone per le locazioni abitative, ha sostanzialmente privato di significato i precedenti indici convenzionali e coefficienti correttivi di valutazione su cui appunto tale valore si basava. Il regime delle locazioni urbane introdotto dalla legge 9 dicembre 1998, n. 431 è infatti profondamente mutato nell’impostazione e nella disciplina rispetto a quello stabilito dalla ricordata legge n. 392 del 1978» (sentenza n. 135).

 

Viceversa, sempre in materia di edilizia residenziale pubblica, non contrastano con il canone di ragionevolezza:

- (a) una norma che «attribuisce rilevanza, ai fini della esclusione dall’assegnazione degli alloggi, alla titolarità di un diritto reale su uno o più immobili che abbiano una determinata rendita catastale, indipendentemente dalla valutazione della idoneità abitativa degli stessi in relazione alle esigenze del nucleo familiare del richiedente, in quanto la titolarità di tali diritti costituisce indice oggettivo di ricchezza – espresso in termini di rendita catastale – rappresentativo della disponibilità di un reddito utilizzabile per il soddisfacimento di dette esigenze» (ordinanza n. 104);

- (b) una norma che imponga all’assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica l’obbligo di produrre, su richiesta degli enti gestori, a fini di accertamento periodico del reddito, la documentazione necessaria entro il 30 giugno di ogni biennio e che, qualora tale documentazione non venga prodotta entro tale data, prevede l’applicazione della misura massima del canone; invero, «l’onere della comunicazione posto a carico dell’assegnatario va valutato in corrispondenza del beneficio dell’assegnazione dell’alloggio, cosicché non irragionevolmente la norma censurata stabilisce che, nei confronti degli assegnatari che non abbiano prodotto la documentazione richiesta entro il termine previsto, si applica – a parità di reddito – la misura massima del canone, tanto più che il predetto onere di comunicazione è disciplinato dalla legge regionale in modo tale da non renderne ingiustificatamente gravoso l’adempimento, risultando anche agevolato il perseguimento dell’interesse pubblico all’accertamento del reddito degli assegnatari» (ordinanza n. 150).

1.4. La sospensione dei processi penali in corso nei confronti delle alte cariche dello Stato

Con la sentenza n. 24, la Corte ha risolto la questione di legittimità costituzionale del comma 2, in relazione al comma 1, dell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n. 140, il quale, fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, disponeva la sospensione, dall’entrata in vigore della legge stessa, dei processi penali in corso nei confronti del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato della Repubblica, del Presidente della Camera dei deputati, del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Corte costituzionale, in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

L’iter argomentativo seguito dalla Corte ha preso avvio dalla definizione di quali fossero la natura, la funzione e la portata della normativa impugnata. Essa, nel prevedere una sospensione del processo penale, faceva riferimento ad un istituto che è solitamente contemplato «per situazioni oggettive» ed è funzionale al regolare proseguimento del processo.

La situazione cui si riconnetteva la sospensione nella specie disposta era costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato: il bene che la misura in esame intendeva tutelare doveva, dunque, essere ravvisato «nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni» inerenti a quelle cariche (interesse, questo, che nella sua apprezzabilità può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale).

Ciò detto sul piano generale, la Corte è passata ad analizzare il tipo di sospensione prevista, caratterizzata dal suo essere «generale [in quanto riguardante i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati extrafunzionali, in qualunque epoca commessi], automatica [disposta, cioè, in tutti i casi in cui la coincidenza si verificasse, per qualunque imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale] e di durata non determinata [a ciò conducendo la reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati]».

Sulla scorta di questa disamina, la sentenza ha evidenziato due profili di illegittimità costituzionale, che hanno condotto alla relativa declaratoria (poi estesa in via consequenziale dal comma 2 all’intero art. 1).

In ordine al primo profilo, la misura predisposta dalla normativa creava «un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale». Una siffatta differenziazione non poteva essere giustificata sulla base dei valori rispetto ai quali il legislatore aveva ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle alte cariche dello Stato, se è vero che «alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali».

Ora, l’automatismo generalizzato della sospensione incideva, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale era posta l’alternativa tra il continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione (magari concernente anche reati gravi e particolarmente infamanti), oppure il dimettersi dalla carica ricoperta.

Del pari, ad essere sacrificato era il diritto della parte civile, la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, doveva soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3 dell’art. 75 del codice di procedura penale.

Con riferimento al secondo profilo, l’art. 3 della Costituzione risultava violato in quanto la normativa impugnata accomunava in unica disciplina cariche diverse, non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni, e distingueva, «per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione», i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti.

Inoltre, mentre venivano fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, nulla veniva detto a proposito del secondo comma dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata nel secondo comma dell’art. 68 della Costituzione ai membri delle due Camere.

Alla luce di quanto riscontrato, la norma impugnata risultava viziata anche da «gravi elementi di intrinseca irragionevolezza».

2. La potestà punitiva dello Stato ed i suoi limiti

2.1. La configurazione delle fattispecie, il trattamento sanzionatorio e la discrezionalità del legislatore

Secondo un consolidato orientamento della Corte «il potere di configurare le ipotesi criminose, determinando la pena per ciascuna di esse, e di depenalizzare fatti dianzi configurati come reati – come pure di abrogare le singole previsioni punitive – rientra nella discrezionalità legislativa: discrezionalità censurabile, in sede di sindacato di costituzionalità, solo nel caso in cui sia esercitata in modo manifestamente irragionevole» (sentenza n. 364).

 

Alla luce di tale regola di giudizio, la Corte ha ribadito che non è palesemente irrazionale o arbitraria la scelta del legislatore di escludere dalla depenalizzazione operata con la legge n. 205 del 1999 il reato di guida in stato di ebbrezza, anche quando si tratti di veicolo per il quale non è prescritta l’abilitazione alla guida, in ragione della asserita minore pericolosità di tale condotta rispetto a quella – inclusa, per contro, nell’area della depenalizzazione – di guida senza patente, ove prescritta; «e ciò tenuto conto, segnatamente, del fatto che lo stato di ebbrezza non equivale ad una qualsiasi carenza di requisiti fisici e psichici per la guida – requisiti previsti anche in rapporto ai veicoli per i quali non si richiede la patente (cfr. art. 115 del codice della strada) – ma integra una situazione speciale e particolarmente qualificata di inidoneità alla guida, suscettibile di provocare un accentuato allarme sociale» (ordinanza n. 212).

 

Inoltre, dopo avere rilevato l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muoveva il rimettente, per cui tra il più mite reato di cui all’art. 316-ter e quello di cui all’art. 640-bis del codice penale sussiste un rapporto di effettiva sussidiarietà e non di specialità, a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire unicamente fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda, la Corte ha osservato che «la previsione di una tutela penale rafforzata, anche quanto ad ampiezza, delle finanze pubbliche e comunitarie contro le frodi, rispetto alla generalità degli altri interessi patrimoniali, costituisce ragionevole esercizio di discrezionalità legislativa, tenuto conto della specialità dell’interesse offeso» (ordinanza n. 95).

 

Gran parte delle questioni scrutinate dalla Corte si fonda normalmente sul confronto, condotto dai giudici a quibus, tra la norma censurata e altra o altre disposizioni che contemplano fattispecie analoghe, prevedendo, di regola, sanzioni più miti o addirittura di tipo diverso. In questi casi, e le questioni che seguono ne costituiscono un esempio, la Corte solitamente rigetta le questioni confutando le argomentazioni dei rimettenti proprio sul piano della asserita omogeneità delle discipline poste a confronto; così:

- (a) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1193, primo comma, del codice della navigazione, che prevede la sanzione relativa alla fattispecie, ora depenalizzata, della navigazione senza documenti di bordo, rilevando che non può affermarsi una disparità di trattamento con quanto previsto per le imbarcazioni da diporto, stante «la sostanziale eterogeneità delle situazioni poste a confronto» – resa evidente dal carattere di sistema a sé stante delle norme del codice della navigazione rispetto alla natura speciale delle norme sulla navigazione da diporto – «e, dunque, l’inidoneità del tertium comparationis a fungere da termine di riferimento onde verificare la pretesa lesione del principio di uguaglianza» (ordinanza n. 109);

- (b) ritiene non irragionevole né arbitraria la perdurante rilevanza penale del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti dal datore di lavoro, nonostante l’intervenuta abrogazione, ad opera dell’art. 25 del decreto legislativo n. 74 del 2000, del reato di omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta, «data la disomogeneità della fattispecie oggetto della norma censurata rispetto al tertium comparationis individuato dal remittente», resa evidente dalla duplice considerazione che «gli obblighi tributari e gli obblighi previdenziali di cui si tratta, pur rientrando nell’ampia categoria delle obbligazioni pubbliche, sono correlativi a interessi diversi, rispettivamente presi in considerazione dai due diversi precetti costituzionali di cui agli articoli 53 e 38 della Costituzione», e che «per assicurare il rituale adempimento dei suddetti obblighi sono prevedibili diversi e specifici sistemi nell’ambito di ciascuno dei quali la sanzione penale rappresenta soltanto uno dei mezzi cui il legislatore può ricorrere, sicché la valutazione della ragionevolezza delle diverse opzioni sanzionatorie prescelte va effettuata nell’ambito di ciascun sistema» (ordinanza n. 139);

- (c) non ritiene manifestamente irragionevole la scelta legislativa di punire in modo più severo il reato di detenzione di munizioni relative alle armi da collezione, rispetto all’ipotesi generale della detenzione abusiva di munizioni, di cui all’art. 697 del codice penale, nonché a quella della detenzione di munizioni da guerra (art. 2 della legge 2 ottobre 1967, n. 895), allorché ricorra la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità, posto che la condotta di chi detiene munizioni avendo la contestuale disponibilità di una pluralità di armi – che è autorizzato a detenere ma non ad usare – crea una situazione di maggior pericolo ed allarme sociale rispetto a quella ingenerata da chi detiene illecitamente soltanto delle munizioni (ordinanza n. 158);

- (d) non censura - a fronte dell’intervenuta riforma del diritto penale societario, attuata dal decreto legislativo n. 61 del 2002 - la scelta del legislatore di non abrogare l’art. 136 del decreto legislativo n. 385 del 1993, che, salvo casi eccezionali, vieta a chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca, di contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente o indirettamente, con la banca amministrata, diretta o controllata, posto che, a prescindere «da valutazioni di merito sul piano politico-criminale — estranee al sindacato di costituzionalità — l’opzione in parola si giustifica alla luce della specificità dell’attività bancaria», le cui caratteristiche, anche alla luce «[de]gli interessi in essa coinvolti», «rendono non irragionevole la previsione di forme particolari e più intense di protezione penale — anche sul piano dell’”avanzamento” della linea di tutela sul versante considerato — rispetto a quelle contemplate per la generalità delle società commerciali» (sentenza n. 364).

 

Non solo la definizione delle fattispecie, ma anche la configurazione delle pene e delle sanzioni rientra nel campo riservato alla discrezionalità del legislatore, con la conseguenza che, pur dovendosi prendere atto dell’esiguità e della mancanza di afflittività delle sanzioni disciplinari pecuniarie a carico dei notai, sussistendo una evidente disparità di trattamento rispetto alle previsioni sanzionatorie stabilite per altre categorie di professionisti, la Corte ribadisce che solo al legislatore «spetta la scelta discrezionale relativa alla determinazione dei precetti, del tipo e della entità delle rispettive sanzioni» (ordinanza n. 377).

 

Sotto tale ultimo profilo, poi, va aggiunto che «non è precluso in linea di principio al legislatore includere in una medesima previsione punitiva una pluralità di fattispecie diverse per struttura e disvalore: restando affidato in tal caso al giudice il compito di far emergere la differenza tra le varie ipotesi criminose, tramite la graduazione della pena da irrogare in concreto nell’ambito della cornice edittale» (ordinanza n. 158); per cui, mutatis mutandis, anche nella definizione delle sanzioni amministrative pecuniarie, «l’ampiezza della “forbice” tra minimo e massimo esclude ancora un’irrazionalità della previsione, e viceversa consente l’applicazione di una sanzione amministrativa concretamente determinabile in rapporto alla gravità della violazione, differenziandola a seconda che sia commessa dai comandanti di navi minori o di navi maggiori» (ordinanza n. 109).

 

Anche in rapporto alla tematica delle cause di non punibilità la Corte ha adottato lo stesso self restraint visto poc’anzi, affermando che la «materia comporta un giudizio di bilanciamento tra l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice e le esigenze che viceversa sorreggono la disciplina derogatoria», e che tale bilanciamento «appartiene primariamente al legislatore e non è suscettibile di censura di legittimità costituzionale se non nei casi di manifesta irragionevolezza»; di conseguenza, rilevata «l’eterogeneità della condotta descritta dall’art. 374-bis cod. pen. – che sostanzialmente integra una forma di falsità ideologica - rispetto a quella degli altri reati inseriti nell’elenco di cui al primo comma dell’art. 384 cod. pen.», la Corte conclude ritenendo «non manifestamente irragionevole la scelta del legislatore di non estendere la causa di non punibilità alla fattispecie in esame» (sentenza n. 200).

 

Allo stesso modo conclude la Corte dopo avere evidenziato la diversa considerazione costituzionale riservata al rapporto di coniugio, direttamente garantito dall’art. 29, rispetto al rapporto more uxorio, sussumibile nel più generale ambito di tutela dell’art. 2, escludendo quindi «che si possa configurare come costituzionalmente necessaria una tutela del rapporto di convivenza che passi attraverso il riconoscimento di una generalizzata esclusione della punibilità delle condotte indicate dall’art. 384, primo comma, cod. pen., qualora poste in essere per salvare il proprio convivente more uxorio da un grave e irreparabile nocumento nella libertà o nell’onore» (ordinanza n. 121).

 

In un caso, tuttavia, la Corte – alla luce «dell’alterazione del sistema» venutasi a creare per un limitato periodo di tempo a causa della sovrapposizione tra due diverse normative succedutesi a breve distanza l’una dall’altra, per cui condotte ritenute dallo stesso legislatore di pari o minore gravità erano punite con sanzioni penali rispetto a quelle, ritenute dallo stesso legislatore di maggiore gravità, per le quali era prevista una sanzione amministrativa pecuniaria – ha censurato l’operato del legislatore, dichiarando l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, dell’art. 171-octies della legge n. 633 del 1941, introdotto dalla legge n. 248 del 2000, nella parte in cui, limitatamente ai fatti commessi dall’entrata in vigore di detto art. 171-octies fino all’entrata in vigore della legge 7 febbraio 2003, n. 22, punisce con sanzione penale, anziché con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 6 del decreto legislativo n. 373 del 2000, l’utilizzazione per uso privato di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica sia digitale (sentenza n. 426).

 

Infine, in materia di sanzioni amministrative, appare del tutto inconferente invocare il parametro di cui all’art. 5 della Costituzione, in quanto esso «non vincola la discrezionalità del legislatore nella scelta dell’organo competente ad irrogare le sanzioni amministrative in materia di circolazione stradale» (ordinanza n. 294).

2.2. (Segue:) Il principio di determinatezza della fattispecie penale

Secondo un tradizionale insegnamento richiamato dalla storica sentenza n. 364 del 1988, nel quadro del moderno Stato di diritto, il principio di legalità, consacrato in materia penale dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione, è espressione della contropartita (d’origine contrattualistica) che lo Stato offre ai consociati in cambio dell’obbligatorietà della legge penale: in altri termini, lo Stato assicura i cittadini che non li punirà senza preventivamente informarli, attraverso la formulazione di precetti sufficientemente chiari e precisi, su ciò che e’ vietato o comandato, ma richiede dai medesimi l’adempimento di particolari doveri di informazione mirati alla realizzazione dei precetti principali relativi ai fatti penalmente rilevanti.

 

Il principio di determinatezza della fattispecie penale, quale naturale corollario del principio di legalità, è stato più volte evocato in giudizio nel corso del 2004 a partire dalla sentenza n. 5. Invero, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, nella parte in cui punisce con l’arresto da sei mesi ad un anno lo straniero che, «senza giustificato motivo», si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo, la Corte ha osservato che l’impiego della clausola elastica «senza giustificato motivo» non comporta una violazione del principio di determinatezza dell’illecito penale, giacché la finalità dell’incriminazione (rendere effettivo il provvedimento di espulsione, rimuovendo situazioni di illiceità o di pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato) ed il quadro normativo in cui essa si innesta consentono comunque al giudice di stabilire il significato della formula considerata mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato, e, correlativamente, permettono al destinatario della norma incriminatrice di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo.

 

In particolare, la Corte ha sottolineato, in tale occasione, che «la clausola in questione, se pure non può essere ritenuta evocativa delle sole cause di giustificazione in senso tecnico — lettura che la renderebbe pleonastica, posto che le scriminanti opererebbero comunque, in quanto istituti di ordine generale — ha tuttavia riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa; non anche ad esigenze che riflettano la condizione tipica del “migrante economico”, sebbene espressive di istanze in sé e per sé pienamente legittime, sempre che — come è ovvio — non ricorrano situazioni riconducibili alle scriminanti previste dall’ordinamento» (sentenza n. 5).

 

Nel corso di altro giudizio è stato impugnato, per violazione del principio di tassatività della fattispecie penale, l’art. 187 del codice della strada dal momento che assoggetta a sanzione penale la condotta di chi guida in stato di alterazione fisica e psichica per uso di sostanze stupefacenti, senza stabilire alcun limite per la individuazione dello stato di alterazione. La Corte, al contrario, ha ritenuto la fattispecie incriminatrice sufficientemente determinata in base alla considerazione che essa si compone di due elementi qualificanti: da un lato, (a) lo stato di alterazione, obiettivamente rilevabile dagli agenti di polizia giudiziaria, quale stato soggettivo capace di compromettere le normali condizioni psico-fisiche indispensabili nello svolgimento della guida e concretizzante di per sé una condotta di pericolo per la sicurezza della circolazione stradale; dall’altro, (b) l’assunzione di sostanze (stupefacenti o psicotrope), idonee a causare lo stato di alterazione, per l’accertamento della cui presenza nell’organismo del conducente è necessario e sufficiente il riscontro di idonee analisi di laboratorio, a prescindere, tuttavia (di qui l’errore d’impostazione del rimettente), «dalla quantità delle stesse, essendo rilevante non il dato quantitativo, ma gli effetti che l’assunzione di quelle sostanze può provocare in concreto nei singoli soggetti» (ordinanza n. 277).

 

Sono state viceversa giudicate inammissibili, seppure con argomentazioni diverse, altre due questioni di legittimità costituzionale fondate sulla presunta violazione del principio di determinatezza da parte di fattispecie incriminatrici per la cui integrazione è richiesta una aggressione «sensibile» del bene giuridico da esse tutelato.

 

In un primo caso, con la sentenza n. 161, la Corte ha ritenuto inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2621, terzo e quarto comma, del codice civile, come sostituito dall’art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002, nella parte in cui subordina la sussistenza del reato contravvenzionale di false comunicazioni sociali ad un’alterazione «sensibile» della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo di appartenenza. Ed infatti, posto che, secondo la prevalente opinione, il criterio dell’«alterazione sensibile» resta inoperante rispetto alle falsità che rimangono al di sotto delle c.d. soglie percentuali, le quali si traducono in altrettante presunzioni iuris et de iure di “non significatività” dell’alterazione, la circostanza che - per espressa affermazione del giudice rimettente - gli imputati dovessero essere, nel caso di specie, assolti in ragione della mancata contestazione del superamento delle soglie numeriche, rendeva dunque irrilevante la questione relativa al requisito dell’alterazione sensibile, trattandosi di elemento di fattispecie che non veniva comunque in rilievo nel giudizio a quo.

 

In un secondo caso, venendo in rilievo un presunto difetto di determinatezza del reato di abuso di informazioni privilegiate (insider trading) di cui all’art. 180 del decreto legislativo n. 58 del 1998, connesso alla asserita genericità del requisito dell’idoneità dell’informazione privilegiata ad influenzare «sensibilmente» il prezzo di strumenti finanziari, la Corte ha osservato come i giudici rimettenti invocassero, in sostanza, l’addizione, alla formula definitoria dell’informazione privilegiata, di “parametri” atti a rendere più puntuale e sicura l’identificazione dell’elemento di fattispecie in discorso, senza tuttavia specificare «in alcun modo quali siano, in concreto, i “parametri sufficientemente determinati” di cui essi auspicano l’introduzione: postulando, così, una operazione di “riempimento” dei contenuti della norma che — al di là di ogni rilievo circa la validità delle censure su cui il quesito si fonda — si palesa comunque estranea, per il suo carattere apertamente “creativo”, ai poteri di questa Corte, rimanendo eventualmente affidata alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 382).

2.3. La pena, le misure di sicurezza

Con la sentenza n. 367 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 206 del codice penale, nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenere la sua pericolosità sociale.

La Corte giunge a tale conclusione in base alla medesima ratio decidendi impiegata nella sentenza n. 253 del 2003, con la quale – prendendo in esame il rigido automatismo della regola legale che imponeva al giudice di disporre, in caso di proscioglimento per infermità mentale, il ricovero dell’imputato in ospedale psichiatrico giudiziario, anche quando una misura non segregante quale la libertà vigilata, accompagnata da opportune prescrizioni, avrebbe consentito di soddisfare in modo più adeguato le esigenze di cura e di tutela e quelle di controllo della pericolosità sociale – è stato dichiarato illegittimo l’art. 222 cod. pen. nella parte in cui non consente al giudice di adottare una diversa misura di sicurezza non detentiva. Pertanto, «le argomentazioni svolte dalla sentenza n. 253 del 2003, nel censurare il rigido automatismo che caratterizzava l’art. 222 cod. pen. e le conclusioni circa la violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute si attagliano, a maggior ragione, alla disciplina dell’applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, posto che sarebbe irragionevole precludere al giudice l’applicazione in via provvisoria di una misura non detentiva consentita invece in via definitiva».

 

L’ordinanza n. 433, rilevato che la diversità di natura delle sanzioni penali, e dunque delle pene pecuniarie, rispetto alle altre entrate dello Stato, «comporta che, ai sensi dell’art. 79 della Costituzione, l’estinzione delle pene possa essere disposta solo con “legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”», esclude che l’art. 12 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nel prevedere la definizione dei carichi di ruolo pregressi mediante il pagamento di una somma pari al 25% dell’importo iscritto a ruolo, nonché delle somme dovute al concessionario a titolo di rimborso per le spese sostenute per le procedure esecutive da lui eventualmente effettuate, possa trovare applicazione altresì alle pene pecuniarie, come erroneamente ritenuto dal rimettente.

2.4. Il trattamento penitenziario

In materia penitenziaria si segnalano due pronunce, la prima della quali si è occupata del generale divieto di ammissione a determinati benefici penitenziari previsto per i condannati nei cui confronti sia stata disposta la revoca di talune misure alternative alla detenzione, mentre con la seconda si è esaminata la procedura di proroga del regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.

In particolare, con l’ordinanza n. 87 la Corte ha ritenuto che l’art. 58-quater della legge n. 354 del 1975, nel vietare che per un periodo di tre anni vengano concessi determinati benefici penitenziari ai condannati nei cui confronti è stata disposta la revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare e della semilibertà, non collide con i principi di proporzionalità e personalità della pena, posto che, «nel censurare la rigidità della durata del divieto scaturente dalla revoca, il giudice a quo omette di considerare che la preclusione triennale in esame consegue ad una revoca delle misure alternative che non è “automatica”, bensì basata su di una valutazione in concreto e caso per caso delle situazioni in cui il comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni, risulti incompatibile con la prosecuzione» della misura alternativa cui era sottoposto.

 

Con l’ordinanza n. 417, invece, la Corte è stata chiamata a scrutinare, in riferimento a diversi parametri costituzionali, la legittimità costituzionale delle modalità di proroga dell’istituto della sospensione delle regole di trattamento previsto dal comma 2 dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, che, come noto, disciplina un regime di carcerazione differenziato per i condannati per delitti particolarmente gravi che siano ritenuti ancora pericolosi in ragione dei loro perduranti collegamenti con le associazioni criminali. Secondo la Corte la norma recante le modalità di proroga dell’istituto (il comma 2-bis, come modificato dalla legge n. 279 del 2002), benché non formulata in modo del tutto perspicuo, «non comporta una inversione dell’onere della prova, in quanto rimane intatto l’obbligo di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui ‘risulti’ che il pericolo che il condannato abbia contatti con associazioni criminali o eversive non è venuto meno», per cui i dubbi di costituzionalità sollevati dal rimettente possono essere risolti con una interpretazione conforme a Costituzione.

3. La tutela dei diritti nella giurisdizione

3.1. Il processo civile

3.1.1. Notificazioni

Numerose sono state nel 2004 le pronunce di rilievo in materia processuale civile, a cominciare dalla sentenza n. 28, che, in tema di procedimento notificatorio, ha affermato che – per effetto della sentenza n. 477 del 2002 – «risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario», con la conseguenza che, alla luce di tale principio, le norme in tema di notificazioni di atti processuali vanno ora interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso che «la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante, (…), al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario» (sentenza n. 28; ma anche ordinanze numeri 97, 132 e 153).

Si consideri poi che, «poiché la notificazione si perfeziona per il notificante con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, ne discende che da quel momento possono essere da lui compiute le attività (tra cui, appunto, l’iscrizione a ruolo) che presuppongono la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ferma restando, in ogni caso, la decorrenza del termine finale dalla consegna al destinatario» (sentenza n. 107).

3.1.2. Introduzione del giudizio e competenza

Un’altra sentenza di rilievo è stata la n. 98, in tema di deposito del ricorso in opposizione contro le ordinanze-ingiunzione che irrogano sanzioni amministrative.

Preso atto del consolidato indirizzo di legittimità secondo cui detto ricorso non può essere inoltrato al giudice competente con plico postale, ma deve essere depositato presso la cancelleria, con consegna a mani del cancelliere, la Corte, in ragione del rilevato contrasto di detta disciplina con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non consente l’utilizzo del servizio postale per la proposizione dell’opposizione.

Essa infatti, dopo avere rilevato come «il procedimento di opposizione all’ordinanza-ingiunzione di pagamento, quale disciplinato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, si caratterizzi per una semplicità di forme del tutto peculiare, all’evidenza intesa a rendere il più possibile agevole l’accesso alla tutela giurisdizionale nella specifica materia», ha affermato che «in relazione a tale semplificata struttura processuale, la previsione del necessario accesso dell’opponente (o del suo procuratore) alla cancelleria del giudice competente al fine di depositare personalmente il ricorso – con esclusione della possibilità di utilizzo, a tale scopo, del servizio postale, viceversa largamente impiegato dalla parte pubblica per le proprie comunicazioni e notifiche – appare non solo incongrua nel suo formalismo, e perciò lesiva del generale canone di ragionevolezza, ma altresì tale da rappresentare – in palese contrasto con la ratio legis – fattore di dissuasione anche di natura economica dall’utilizzo del mezzo di tutela giurisdizionale, in considerazione tra l’altro dei costi, del tutto estranei alla funzionalità del giudizio, che l’intervento personale può comportare nei casi, certamente non infrequenti, in cui il foro dell’opposizione non coincida con il luogo di residenza dell’opponente» (sentenza n. 98).

 

La possibilità di inoltrare il ricorso a mezzo del servizio postale, introdotta dalla sentenza n. 98, costituisce ora un ulteriore argomento impiegato dalla Corte per ritenere infondata la più volte esaminata questione di legittimità costituzionale dell’art. l’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, censurato nella parte in cui attribuisce la cognizione dell’opposizione in materia di sanzioni amministrative alla competenza per territorio del giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione, anziché di quello di residenza dell’opponente (ordinanza n. 130; ma vedi anche ordinanza n. 61). La scelta – tutt’altro che irragionevole – di radicare la competenza territoriale in materia di opposizione a sanzioni amministrative nel luogo della commessa violazione si risolve nell’applicazione del tradizionale criterio del locus commissi delicti, ancorato ad un riferimento oggettivo desunto dalla vicenda oggetto di giudizio, e costituisce inoltre espressione della discrezionalità spettante al legislatore in tema di regolazione della competenza in generale ed in particolare di quella territoriale.

D’altro canto, in riferimento alle norme del decreto legislativo n. 168 del 2003 che hanno istituito sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso alcuni tribunali e corti d’appello, «deve escludersi che la attribuzione alle sezioni specializzate presso il Tribunale di Roma della competenza in ordine alle controversie sorte nel territorio della Regione Sardegna determini l’impossibilità o l’estrema difficoltà nell’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 24 Cost., come è agevolmente dimostrato dall’esistenza in Roma degli organi giurisdizionali di ultima istanza, competenti per tutto il territorio nazionale», mentre la diversità di trattamento che si volesse ravvisare tra i soggetti coinvolti, in qualità di parte, in procedimenti aventi ad oggetto materie riservate alla cognizione delle sezioni specializzate «va ricondotta all’esercizio della discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali» (ordinanza n. 386).

 

In tema di chiamata in causa del terzo, come disciplinata dall’art. 269 del codice di rito, e di conseguente asserita disparità di trattamento che da tale disposizione conseguirebbe riguardo alle posizioni dell’attore e del convenuto, nel senso che solo il primo, e non anche il secondo, sarebbe soggetto ad un termine perentorio entro il quale notificare la citazione al terzo chiamato in causa, la Corte ha sottolineato che «l’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., pur non prevedendo la fissazione di un termine giudiziale per la notifica della citazione al terzo, impone tuttavia l’osservanza del termine a comparire, ai sensi dell’art. 163-bis cod. proc. civ., onde la notifica della citazione al terzo deve essere eseguita entro il sessantunesimo giorno anteriore all’udienza di comparizione a tal fine fissata» (ordinanza n. 127).

3.1.3. Imparzialità-terzietà del giudice

Ribadita la ricorrente premessa che «l’art. 111, secondo comma, Cost. non ha introdotto sostanziali elementi di novità circa la portata del principio di imparzialità del giudice già desumibile dagli artt. 3 e 24 Cost., così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità» (ordinanza n. 90), su tale argomento si segnalano in particolare tre pronunce rese dalla Corte nel 2004 in materia processuale civile.

Occorre in primo luogo segnalare la sentenza n. 147, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis del codice di procedura civile, escludendo dalla declaratoria di illegittimità la parte della norma relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato.

Per comprendere la portata della decisione, si consideri che la legge n. 420 del 1998, che ha disciplinato la competenza territoriale per i procedimenti riguardanti i magistrati sia in materia penale che civile, introducendo l’art. 30-bis ha attribuito tutte indistintamente le cause civili, in cui fossero comunque parti magistrati del distretto dell’ufficio giudiziario ordinariamente competente, al giudice del capoluogo del diverso distretto determinato secondo l’art. 11 cod. proc. pen., coevamente modificato; e ciò nonostante la Corte, in una precedente pronuncia, avesse «dedotto che l’estensione dell’art. 11 cod. proc. pen. ad ogni procedimento civile non solo non era costituzionalmente obbligata, ma avrebbe comportato una deroga generalizzata a plurime specifiche regole di competenza, ciascuna adeguata a garantire il pieno esercizio del diritto delle parti di agire e di difendersi in un singolo tipo di controversia, con il rischio di gravi compressioni di tale diritto». «La norma pertanto» - ha quindi osservato la Corte – «nell’assumere come preminente l’esigenza di tutelare l’imparzialità-terzietà del giudice, la concepisce in termini del tutto astratti e generali. E quindi omette completamente la valutazione selettiva da questa Corte reputata necessaria per garantire alle pretese dedotte nei vari tipi di processo civile una tutela giurisdizionale pienamente correlata alle rispettive peculiarità, irragionevolmente confondendole in un’indifferenziata disciplina uniforme. Risulta così intaccato in misura rilevante il contenuto specifico che, in ciascun tipo, assume il diritto di agire e di difendersi in giudizio, sia della parte magistrato che delle altre parti». Quanto poi al distinguo che la Corte opera nel suo dispositivo, lasciando inalterata la disciplina derogatoria dell’art. 30-bis solo per le cause civili riguardanti magistrati e concernenti le restituzioni e il risarcimento dei danni da reato, esso trova la sua giustificazione nella considerazione che tale tipo di azione, ove «sia esercitata nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, […] è regolata dall’art. 11 cod. proc. pen., che sottrae all’ordinaria competenza territoriale ed assoggetta ad una regola di competenza derogatoria i procedimenti penali in cui un magistrato assuma la qualità di persona sottoposta ad indagine o di imputato, ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, e che sarebbero di competenza di un ufficio giudiziario del distretto in cui egli esercita le sue funzioni o le esercitava al momento del fatto», per cui, qualora tale azione venga esercitata direttamente in sede civile, non vi sono ragioni per non affermare che «anche in tal caso ricorrano le ragioni del bilanciamento di interessi cui si ispira la regola di competenza derogatoria posta dall’art. 11 cod. proc. pen.» (sentenza n. 147).

Passando alla seconda pronuncia, resa in un giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 51 del codice di procedura civile, disposizione che disciplina i casi di astensione del giudice, si ricorda che la Corte ha ribadito «come sia del tutto privo di consistenza il dubbio circa la configurabilità di una situazione di incompatibilità del giudice del merito possessorio a conoscere in via ordinaria dopo essersi già pronunciato nella precedente fase», posto che non appare possibile «attribuire alla fase di merito - caratterizzata dalla compiuta esplicazione della dialettica processuale delle parti e dalla cognizione piena su un materiale istruttorio niente affatto necessariamente identico a quello acquisito senza formalità nella precedente fase - un contenuto formale e sostanziale di mera pedissequa duplicazione di giudizio vertente su una medesima res iudicanda» (ordinanza n. 101).

Infine, si segnala in materia di processo del lavoro, l’ordinanza n. 317, che ha respinto la questione di legittimità costituzionale degli artt. 420, 161, secondo comma, e 429, primo comma, del codice di procedura civile, impugnati perché, nel non prevedere l’obbligo di riassunzione delle prove nell’ipotesi di mutamento del giudice, pena la nullità della sentenza pronunciata in violazione di quest’ultimo, determinerebbero una irragionevole disparità di disciplina rispetto al processo penale, risultando altresì lesive dei principi del giusto processo e del diritto di difesa. A fronte di tali censure la Corte – premesso che «i modelli del processo civile e di quello penale, per la loro intrinseca diversità, non consentono alcuna comparazione […] né le soluzioni per garantire un giusto processo devono seguire linee direttive necessariamente identiche per i due tipi di processo » – ha viceversa osservato che «gli impugnati artt. 420 e 429, primo comma, del codice di procedura civile disciplinano la fase decisoria del processo del lavoro in coerenza con i principi ispiratori di tale rito, senza che la garanzia di cui all’art. 24 della Costituzione risulti compromessa dalla decisione della controversia non da parte del giudice che l’ha istruita ma da quello dinanzi a cui si è svolta la discussione della causa, il quale ha conoscenza degli atti già acquisiti al processo e conserva, comunque, in ordine alle prove, i poteri istruttori previsti dall’art. 421 dello stesso codice», per cui «tale possibilità appaga le esigenze di concentrazione ed immediatezza, laddove il principio di oralità è comunque rispettato dalla necessaria identità tra chi assiste alla discussione e chi decide» (ordinanza n. 317).

3.1.4. Il giudizio di equità e la correzione di errori materiali

Si prendono ora in esame due pronunce della Corte, rese su argomenti affatto diversi come il giudizio di equità e la disciplina del procedimento di correzione di errori materiali, accomunate tuttavia dal comune esito, consistito, in entrambi i casi, nella declaratoria di illegittimità costituzionale della norma del codice di rito da esse esaminata.

Nel primo caso, ad essere impugnata era la norma di diritto vivente secondo la quale l’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile, nella sua attuale formulazione seguita all’intervento della legge n. 374 del 1991, andava interpretato nel senso che il giudice, nel decidere secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, non era tenuto alla previa individuazione della norma di diritto astrattamente applicabile alla fattispecie. La Corte, viceversa, ha affermato che «la sola funzione che alla giurisdizione di equità può riconoscersi, in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque lo strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva: principi che non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza», per cui, in altri termini, il giudizio di equità «non è e non può essere un giudizio extra-giuridico». La norma impugnata, pertanto, «nella interpretazione assunta dal rimettente come diritto vivente, risulta dunque in contrasto con gli artt. 24, primo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione e va perciò ricondotto a legittimità costituzionale attraverso la limitazione della discrezionalità del giudice, nella determinazione della regola del caso concreto, entro i confini dei principi informatori della materia» (sentenza n. 206).

Con la sentenza n. 335, invece, la Corte ha dapprima ripercorso le tappe normative e giurisprudenziali che hanno condotto alla attuale formulazione dell’art. 287 del codice di rito, norma che disciplina il procedimento di correzione di errori materiali, affidandone la competenza al giudice che ha emesso il provvedimento affetto da errore e prevedendo che esso sia di regola insensibile alla proposizione dell’impugnazione. Tale regola subiva l’unica eccezione nel caso in cui la sentenza di primo grado fosse già investita dall’appello, e l’eccezione, ha osservato la Corte, è stata da sempre giustificata da «esigenze di economia processuale» legate alla «superfluità […] dell’esperimento del procedimento speciale in pendenza di un giudizio (d’appello) idoneo ad emendare la sentenza dall’errore che la inficiava», e dagli scarsi inconvenienti che si registravano quando, prima delle modifiche introdotte dalla legge 353 del 1990, la sentenza di primo grado, sia pure con eccezioni sempre più frequenti, era ancora normalmente priva di efficacia esecutiva in ragione della sua appellabilità. La situazione, tuttavia, si è profondamente modificata a seguito delle modifiche introdotte dalla richiamata legge n. 353 del 1990, che da un lato ha previsto l’immediata esecutività della sentenza di primo grado (art. 282 cod. proc. civ.) e dall’altro ha disposto la regola della provvisoria esecutorietà in pendenza dell’impugnazione (art. 337 cod. proc. civ.), con conseguente venir meno delle ragioni di economia processuale sulle quali si fondava la scelta legislativa di cui all’art. 287 cod. proc. civ..

Pertanto «l’eccezionalità della disciplina del procedimento di correzione nei suoi rapporti con la previa pendenza del procedimento d’appello, e l’eccezionale regime della sentenza di primo grado al quale esso dà luogo, determinano, con il loro sommarsi e combinarsi, una manifesta irragionevolezza della disciplina dettata dall’art. 287 cod. proc. civ. allorché sottrae al procedimento di correzione, davanti al giudice che le ha pronunciate, le sentenze contro le quali sia stato proposto appello. Tale irragionevolezza si risolve altresì in una ingiustificabile compressione del diritto di agire esecutivamente della parte vittoriosa, e pertanto – costituendo l’azione esecutiva strumento essenziale dell’effettività della tutela giurisdizionale – in una violazione dell’art. 24 Cost.» (sentenza n. 335).

3.1.5. Il procedimento monitorio e le ordinanze-ingiunzione

In riferimento alla perentorietà del termine assegnato dall’art. 644 del codice di rito per la notifica del decreto ingiuntivo, pena l’inefficacia dello stesso senza che il creditore possa invocare il caso fortuito o la forza maggiore, la Corte, richiamandosi ad un proprio precedente, «ha escluso la lesione del diritto di difesa, ribadendo, peraltro, la ragionevolezza del bilanciamento compiuto dal legislatore tra l’interesse alla perentorietà dei termini e quello alla salvaguardia del diritto di difesa». Né «la sopravvenuta nuova ipotesi di rimessione in termini di cui all’art. 184-bis cod. proc. civ. […] giustifica di per sé la “rimeditazione” richiesta dal rimettente, in quanto si risolve in un’evidente deroga alla regola generale dell’improrogabilità dei termini perentori sancita dall’art. 153 cod. proc. civ., e pertanto un eventuale ampliamento della deroga sarebbe soluzione costituzionalmente imposta solo se l’inutile decorso del termine perentorio (derivante da causa non imputabile alla parte onerata) determinasse la perdita del diritto vantato e comportasse l’impossibilità per la parte di altrimenti agire e difendersi in giudizio per la sua tutela»; impossibilità che, nella specie, «non ricorre in quanto il creditore – nell’ipotesi di tardiva notifica del decreto ingiuntivo – ben può far valere nuovamente il proprio diritto nelle forme ordinarie, ovvero ricorrendo ancora al procedimento monitorio» (ordinanza n. 350).

Ancora in tema di procedimento monitorio, con l’ordinanza n. 163 la Corte ritiene infondata la questione di legittimità costituzionale della norma (art. 3, comma 4, della legge n. 192 del 1998) che dispone che la mancata corresponsione del prezzo della subfornitura nei termini pattuiti costituisce titolo per ottenere l’ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva di cui agli artt. 633 ss. del codice di procedura civile, senza imporre al subfornitore che intenda avvalersi del procedimento monitorio il tentativo di conciliazione di cui all’art. 10 della medesima legge. Il lamentato «difetto di ragionevolezza non tiene conto – da un lato – della discrezionalità legislativa nel configurare le discipline processuali e – dall’altro – del rilievo che il legislatore, apprestando una tutela particolarmente intensa ai crediti dei subfornitori, con la previsione dell’ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva, mostra all’evidenza di risolvere non irragionevolmente in favore di una sollecita realizzazione delle pretese di tali soggetti (alla quale è funzionale il processo monitorio) la valutazione di bilanciamento con l’esigenza di apprestare uno strumento di composizione transattiva delle relative controversie».

Infine, in tema di ordinanze-ingiunzione, l’art. 186-ter, primo comma, del codice di procedura civile, censurato nella parte in cui, attraverso il richiamo al secondo comma dell’art. 634 cod. proc. civ., considera gli estratti autentici delle scritture contabili quale prova scritta idonea all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento o di consegna, non comporta alcuna inversione dell’onere della prova, «ma soltanto l’attribuzione di una ben circoscritta valenza probatoria» – da apprezzare comunque alla luce del quadro complessivo delle emergenze processuali – «attribuita a determinati documenti in ragione della natura dei crediti sui quali si controverte, in deroga alla regola generale secondo cui le scritture in argomento fanno prova contro l’imprenditore» (ordinanza n. 180).

3.1.6. Esecuzione

La circostanza che gli artt. 104 del regio decreto 14 dicembre 1933, n. 1669 e 20 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 subordinino l’acquisizione, nella cambiale, della qualità di titolo esecutivo alla condizione che la stessa sia stata regolarmente bollata sin dall’origine, incide soltanto sulla idoneità, da parte della cambiale, di acquisire la qualità di titolo esecutivo di origine e natura stragiudiziale, «laddove il creditore cambiario può esercitare, anche in assenza di quella osservanza, “i diritti cambiari inerenti al titolo” (art. 20 del d.P.R. n. 642 del 1972) ed inoltre adire il giudice sia in via monitoria sia in via di cognizione ordinaria». Di conseguenza, non sussistendo «alcun irragionevole ostacolo a che il creditore cambiario possa far valere i suoi diritti in giudizio, […] utilizzando una pluralità di strumenti processuali, bensì esistendo esclusivamente un limite all’acquisizione della qualità di titolo esecutivo eccezionalmente riconosciuta dalla legge ad un atto stragiudiziale, è manifestamente infondata la questione sollevata in relazione all’art. 24 della Costituzione» (ordinanza n. 133).

Il capo della sentenza che definisce le spese di lite costituisce corollario e non accessorio nel senso di cui all’art. 31 cod. proc. civ. della sentenza stessa, atteso che la pronuncia sulle spese non presuppone, affinché il giudice possa adottarla, una domanda di parte, ma essa ha il suo titolo esclusivamente nel contenuto della decisione sul merito della controversia, in applicazione del principio della soccombenza, di cui all’art. 91 cod. proc. civ.; «Di qui la conseguenza che il capo sulle spese, quando costituisce corollario (più che “accessorio”) di una pronuncia di merito non suscettibile per il suo contenuto di vedere anticipata la sua efficacia rispetto alla definitività, non chiama in gioco, nonostante sia un capo di condanna, l’art. 282 cod. proc. civ., il quale, si ripete, riguarda di per sé esclusivamente la decisione di merito» (sentenza n. 232).

3.2. Il processo penale

3.2.1. Custodia cautelare

In materia di libertà personale la Corte – dopo avere in passato affermato, al fine di ritenere sussistente il legittimo impedimento a comparire, che la detenzione dell’imputato all’estero concretasse comunque un fatto materiale di impossibilità a comparire, non potendo essere assunta a ragionevole presupposto di una diversità di trattamento rispetto alla detenzione in Italia – ha ritenuto irragionevole giustificare che la custodia cautelare subita all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato italiano non rilevasse ai fini del computo dei termini di fase, di cui agli artt. 303 e 304, comma 6, cod. proc. pen., rispetto a quanto invece previsto per la custodia cautelare in Italia. «In effetti», ha osservato la Corte, «una volta affermata l’equivalenza tra detenzione cautelare all’estero in attesa di estradizione e custodia cautelare in Italia, evidenti motivi di razionalità e coerenza interna del sistema impongono di applicare alla custodia cautelare all’estero la medesima disciplina prevista per la durata dei termini di custodia cautelare in Italia. In particolare, rientrando anche la detenzione all’estero tra i motivi di legittimo impedimento a comparire che determinano la sospensione del decorso dei termini di custodia cautelare previsti dall’art. 304, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non vi è alcuna ragione che possa giustificare per la detenzione all’estero una disciplina diversa da quella prevista dagli artt. 303 e 304, comma 6, cod. proc. pen. per la durata dei termini massimi della custodia cautelare in Italia». Essa ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 722 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3, dello stesso codice (sentenza n. 253).

3.2.2. Intercettazioni telefoniche e ambientali

Chiamata nuovamente a scrutinare le norme del codice di rito in forza delle quali – a pena di inutilizzabilità dei risultati conseguiti – il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria unicamente quando gli impianti installati nella procura della Repubblica risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni di urgenza, la Corte ha ribadito come alle norme impugnate sia sottesa l’esigenza di garantire, anche da un punto di vista tecnico e non solo giuridico, la segretezza e la libertà delle comunicazioni, «proprio perché si tratta di una scelta finalizzata ad evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sul traffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria»; né il presunto carattere ‘anacronistico’ impresso a tali regole di cautela dall’evoluzione delle modalità tecniche di esecuzione delle intercettazioni legittimerebbe la Corte a compiere un loro eventuale adeguamento, trattandosi, al contrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore (ordinanze numeri 209 e 443).

All’ulteriore argomento consistente nella denunciata disparità di trattamento, in parte qua, delle intercettazioni a fini di ricerca della prova rispetto alle intercettazioni preventive, di cui all’art. 226 disp. att. cod. proc. pen., che si eseguono «con impianti installati presso la procura della Repubblica o presso altre strutture idonee individuate dal procuratore che concede l’autorizzazione», senza peraltro esigere affatto, ai fini dell’impiego di queste ultime, una particolare urgenza, la Corte ha replicato osservando: (a) che le discipline poste a confronto non hanno carattere omogeneo, posto che le intercettazioni preventive mirano, infatti, non già ad accertare reati, ma a prevenirne la commissione – in specie, ad acquisire notizie concernenti la prevenzione di delitti di particolare gravità e allarme sociale – sul presupposto della sussistenza di «elementi investigativi» che giustifichino tale attività, senza che sia previsto un intervento autorizzatorio del giudice, in quanto il relativo potere è attribuito al procuratore della Repubblica, e senza che i risultati di tali intercettazioni abbiano una qualche valenza probatoria, non potendo essere in alcun modo utilizzati nel procedimento penale, salvo a fini investigativi; (b) che «affermare che la disciplina in tema di localizzazione degli impianti, di cui alle disposizioni impugnate, è costituzionalmente compatibile, non equival[e] a dire che sia addirittura costituzionalmente obbligata: ben potendo, al contrario, il legislatore modulare in maniera diversa — in un ventaglio di possibili alternative, caratterizzate da maggiore o minore “rigidezza” — i meccanismi di garanzia degli interessi in gioco» (ordinanza n. 443).

La Corte è stata chiamata poi a sindacare la legittimità costituzionale della medesima disciplina codicistica sotto il diverso profilo della mancanza di una norma che consenta al giudice – in sede di convalida del decreto del pubblico ministero che dispone le intercettazioni in via d’urgenza, ovvero di prima proroga dell’autorizzazione già data – la verifica della conformità ai requisiti legali del provvedimento del pubblico ministero che dispone l’esecuzione delle operazioni mediante impianti esterni alla procura della Repubblica. La Corte ha osservato che «il controllo sulla congruità della motivazione del provvedimento del pubblico ministero in tema di utilizzazione di impianti esterni, che il rimettente vorrebbe introdurre, si rivela del tutto ‘eccentrico’ rispetto alle linee del sistema», in forza del quale, mentre la decisione circa l’effettuazione delle intercettazioni è di competenza del giudice — tramite lo strumento dell’autorizzazione preventiva o della convalida del provvedimento d’urgenza del pubblico ministero —, la determinazione delle modalità di esecuzione delle operazioni è rimessa al pubblico ministero, ferma restando, ha precisato la Corte, la competenza a sindacare la motivazione dell’atto probatorio spettante all’organo dell’impugnazione ovvero a quello destinato a fruire del mezzo probatorio cui la motivazione si riferisce (ordinanza n. 275).

La Corte ha infine ritenuto manifestamente infondata un’ultima questione, sempre afferente alla medesima disciplina delle intercettazioni e sollevata in riferimento all’art. 76 della Costituzione, con cui il rimettente censurava la norma vivente che estende anche alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, le c.d. intercettazioni ambientali, le sopra viste garanzie di ordine tecnico volte ad assicurare che le stesse siano compiute esclusivamente per mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica, salvo provvedimento motivato di deroga del pubblico ministero che — a fronte della insufficienza o inidoneità di detti impianti e dell’esistenza di eccezionali ragioni di urgenza — disponga il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria. Alla luce del consolidato indirizzo in base al quale «ai fini della valutazione del vizio di eccesso di delega, le norme della legge di delegazione che determinano i principi e i criteri direttivi devono essere interpretate tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità ispiratrici della delega», e di un conseguente attento esame della direttiva contenuta nella legge di delega n. 81 del 1987, la Corte ha ritenuto la legittimità della norma impugnata, affermando che non si può sostenere «che il legislatore delegante — nel prevedere l’individuazione degli impianti presso cui possono essere effettuate le intercettazioni “telefoniche” — intendesse precludere, a contrario, al legislatore delegato di dettare regole in tema di localizzazione degli impianti utilizzabili anche in rapporto a forme di intercettazione, di nuova introduzione, diverse da quelle telefoniche, rispetto alle quali pure potessero ravvisarsi esigenze di controllo fattuale dell’autorità giudiziaria sullo svolgimento delle operazioni, omologhe a quelle che costituivano la ratio fondante della direttiva in questione» (ordinanza n. 248).

3.2.3. La testimonianza, la testimonianza assistita e l’interrogatorio

Investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 497, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non pone il divieto di esaminare come testimone la persona offesa dal reato costituita parte civile, consentendo così che la prova della colpevolezza dell’imputato si fondi esclusivamente su tale deposizione e determinando in tal modo una situazione processuale di squilibrio tra le parti, la Corte, ha evidenziato la ragionevolezza di una scelta legislativa che, pur non comportando la rinuncia al contributo probatorio della parte civile, non esclude, in sintonia con un consolidato orientamento giurisprudenziale, che la deposizione della parte civile debba essere valutata dal giudice con prudente apprezzamento e spirito critico (ordinanze numeri 82 e 102).

Con l’ordinanza n. 202 la Corte ribadisce il principio che «il diritto al silenzio, inteso nella sua dimensione di “corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa”, va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire l’impossibilità di formazione della prova testimoniale», per cui non appare irragionevole che il legislatore riconosca tale diritto a favore dell’imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., escludendo che, nell’ambito dello stesso processo che si celebra a suo carico, allo stesso possa essere applicata la disciplina della c.d. testimonianza assistita di cui all’art. 197-bis del codice di rito, ed impedendo in tal modo che lo stesso sia chiamato a rendere «dichiarazioni talmente “contigue” al fatto proprio da essere sostanzialmente lesive del proprio inviolabile diritto di difesa e delle connesse libere scelte».

La Corte ha poi escluso una equivalenza tra il “testimone assistito” rispetto al teste ordinario, essendo il primo una figura significativamente differenziata dal secondo sul piano del trattamento normativo, per cui l’assoggettamento delle dichiarazioni del “teste assistito” alla regola della necessaria “corroborazione” con riscontri esterni, di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc, pen., «lungi dal determinare un vulnus del principio di uguaglianza, si risolve in un esercizio – non irragionevole – della discrezionalità che compete al legislatore nella conformazione degli istituti processuali»; e ciò in quanto la circostanza «che nei confronti dell’imputato in un procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di “patteggiamento”, vale a differenziare la posizione del soggetto considerato rispetto a quella degli imputati in un procedimento connesso o di reato collegato ancora in attesa di giudizio definitivo: giustificando, così, la scelta legislativa di permettere l’audizione del soggetto stesso in veste di testimone, con correlata restrizione (nei limiti normativamente previsti) del ‘diritto al silenzio’; ma tale circostanza non basta ancora a ‘ripristinare’, alla stregua di una ragionevole valutazione del legislatore, la condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio che è propria del teste ordinario» (ordinanza n. 265).

Quanto, poi, al diverso regime processuale che secondo il rimettente irragionevolmente caratterizzerebbe – ai sensi dell’art. 513 del codice di rito – la possibilità di utilizzare mediante lettura le dichiarazioni erga alios rese dal coimputato nel medesimo procedimento e raccolte attraverso lo strumento dell’incidente probatorio, rispetto all’opposto divieto che, invece, preclude una simile possibilità per le omologhe dichiarazioni rese nel corso della udienza preliminare, la Corte ha osservato che «il raffronto operato dal giudice a quo – in punto di utilizzazione mediante lettura – tra le dichiarazioni rese nel corso della udienza preliminare con forme diverse da quelle dibattimentali, e le dichiarazioni acquisite nel corso dell’incidente probatorio, si rivela non pertinente, sotto il profilo strutturale e funzionale. Infatti, alla incontestabile diversità delle forme di assunzione (che di per sé rendono riconoscibile ex ante la destinazione di quelle dichiarazioni), si coniuga la differente prospettiva in cui esse si collocano nella dinamica processuale: mentre, infatti, l’incidente probatorio è istituto che si proietta verso l’utilizzazione dibattimentale, l’interrogatorio, assunto con le forme ordinarie nel corso della udienza preliminare, è, per sua natura, destinato a vivere e produrre i suoi effetti all’interno di quella fase e per la decisione che ne costituisce l’epilogo. Ove, invece, tale interrogatorio sia stato assunto con le forme tipiche del dibattimento (e, quindi, a tale fase idealmente, oltre che formalmente, coeso), ben se ne spiega il diverso regime di utilizzazione mediante lettura» (ordinanza n. 358).

3.2.4. Il giusto processo

I diversi principi sussumibili sotto la più ampia locuzione del “giusto processo”, cui è specificamente dedicato l’art. 111 della Costituzione, non costituiscono necessariamente una prerogativa assoluta del processo penale, benché in questo abbiano trovato il proprio naturale campo di elezione.

Al principio di ragionevole durata del processo hanno fatto espresso riferimento tre questioni aventi ad oggetto la disciplina transitoria dettata, in tema di c.d. “patteggiamento allargato”, dall’art. 5 della legge n. 134 del 2003 e decise con la sentenza n. 219 ribadendo che «il legislatore gode di ampia discrezionalità nel regolare nei processi in corso gli effetti temporali di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, e che le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale» (ordinanza n. 420).

In particolare, la Corte, chiamata in causa per valutare la legittimità costituzionale del nuovo istituto (sul punto, v. infra sub 3.2.6), circa le modalità di applicazione dello stesso con specifico riguardo ai procedimenti in corso ha affermato:

- (a) che l’art. 5, comma 1, della legge n. 134 del 2003, nel consentire all’imputato o al suo difensore munito di procura speciale, con il consenso del pubblico ministero, di formulare la richiesta di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla citata legge, nella prima udienza utile successiva alla data della sua entrata in vigore anche nei casi in cui l’istruzione dibattimentale sia già in fase avanzata, «non si pone in contraddizione né con le finalità deflative che ispirano questo rito alternativo, né con il principio della ragionevole durata del processo», posto che anche «nei casi in cui l’istruzione dibattimentale sia già in fase avanzata, il ricorso all’istituto del patteggiamento è infatti in grado di assicurare una notevole accelerazione rispetto alle cadenze del procedimento ordinario […], sia perché l’accordo tra le parti ne provoca l’immediata conclusione, sia per i consistenti limiti all’appellabilità della sentenza»;

- (b) che l’art. 5, comma 2, della legge n. 134 del 2003, censurato nella parte in cui impone al giudice, su richiesta dell’imputato, di sospendere il dibattimento per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per consentire a quest’ultimo di valutare l’opportunità di formulare la richiesta di applicazione della pena, pur assegnando all’imputato uno spatium deliberandi molto ampio, è «di per sé, nonostante la sua inusitata ampiezza, frutto di una scelta affatto ingiustificata, tale da incidere significativamente sulla ragionevole durata del processo»; e ciò a maggior ragione se si considera che, come ripetutamente affermato dalla Corte, «la richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa […] e che il principio della ragionevole durata del processo deve essere contemperato con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, a cominciare dal diritto di difesa»;

- (c) che la possibilità di proporre patteggiamento anche nei processi in corso di trattazione in dibattimento per reati che sarebbero già stati patteggiabili in base alla disciplina previgente, ma per i quali l’imputato non aveva formulato la relativa richiesta, si giustifica – oltre che per evidenti finalità deflative - alla luce delle modifiche contestualmente apportate dalla legge n. 134 del 2003 alla disciplina della sostituzione delle pene detentive brevi, con l’evidente conseguenza che anche in relazione alle pene patteggiabili non superiori a due anni di detenzione «la riforma apr[e] nuove prospettive all’imputato, che può ora avere interesse e convenienza a concordare l’applicazione di una pena sostitutiva in luogo di una pena che, alla stregua della precedente disciplina, sarebbe stata detentiva» (sentenza n. 219).

Fondata sulla presunta lesione del principio di ragionevole durata del processo è poi la “ricorrente” questione di legittimità costituzionale delle norme del codice di rito (artt. 70-72 cod. proc. pen.) che, in caso di incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo, prevedono la sospensione del procedimento con obbligo per il giudice, con cadenza semestrale, di svolgere ulteriori accertamenti sul suo stato di mente, anche nella ipotesi in cui esso risulti affetto da una patologia reputata come irreversibile. La Corte ha ribadito che «il sistema della verifica periodica dello stato di mente dell’imputato – volto ad accertare se possa o meno realizzarsi una sua cosciente partecipazione al processo – non può ritenersi in sé contrastante con il principio di ragionevolezza, risultando del tutto razionalmente contemperate le garanzie di autodifesa con l’esigenza di contenere la stasi processuale, evitando anche rischi di comportamenti simulatori», precisando inoltre che «nessun contrasto è possibile ravvisare con il principio della durata ragionevole del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost., avuto riguardo – come si è accennato – alla “finalità non certo sterilmente dilatoria che la disposizione oggetto di impugnativa intende perseguire nel sistema”» (ordinanza n. 157).

Al contrario, tale disciplina della sospensione obbligatoria del procedimento appare altresì applicabile a tutti quei casi in cui, per infermità fisica di qualsiasi natura, oltre che psichica, l’imputato non sia in grado di esprimersi in modo compiuto né verbalmente, né attraverso la scrittura, né utilizzando un linguaggio convenzionale che sia traducibile avvalendosi di un interprete, e quindi sia impossibilitato a partecipare attivamente al processo, esercitando validamente la propria autodifesa. Invero, «anche se l’art. 70 letteralmente si riferisce ad ipotesi di “infermità mentale”, il sistema normativo è chiaramente volto a prevedere la sospensione ogni volta che lo “stato mentale” dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo. Partecipazione che non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessariamente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa. Ciò significa che quando non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell’imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione – nel senso ampio che si è detto – al processo, questo non può svolgersi. Alla verifica di tale situazione è diretto l’accertamento peritale, sulle cui risultanze si esercita il controllo del giudice, ispirato ai principi ora enunciati» (sentenza n. 39).

Il più volte citato principio di ragionevole durata del processo non appare neppure violato «dalla necessità di rinnovare l’istruzione dibattimentale in precedenza svolta da un giudice poi sostituito, [dovendo] essere contemperato con le esigenze di tutela di altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti rilevanti nel processo penale e […] tale contemperamento, ove risulti, come nel caso di specie, non irragionevolmente realizzato, non si presta a censure sul terreno costituzionale» (ordinanza n. 418).

La Corte è tornata poi ad occuparsi della disciplina intertemporale dettata, in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111 della Costituzione, dal decreto-legge n. 2 del 2000 e poi dalla legge 63 del 2001, nella parte in cui prevede che le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o nella udienza preliminare da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, se acquisite al fascicolo per il dibattimento anteriormente alla data del 25 febbraio 2000, sono valutate solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova assunti o formati con diverse modalità. La Corte ha ribadito che tale normativa «ha pienamente assolto al compito di regolare transitoriamente l’applicazione dei principi del “giusto processo”: e ciò in conformità agli indirizzi contenuti nella legge costituzionale n. 2 del 1999, a proposito della conservazione, sia pure medio tempore, del pregresso sistema – nella parte in cui questo non fosse risultato incompatibile con i nuovi principi e le nuove regole – e della non totale vanificazione dell’attività probatoria espletata; sicché, la lamentata, possibile diversità di trattamento processuale finisce per costituire null’altro che “una disparità di mero fatto, inevitabilmente conseguente a qualsiasi disciplina transitoria”» (ordinanza n. 442).

Non appare lesiva del c.d. principio della parità delle armi tra accusa e difesa l’esclusione dell’appello incidentale del pubblico ministero contro le sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato (artt. 443, comma 3, e 595 cod. proc. pen.). La Corte, infatti, richiamandosi ai propri precedenti in tema di giudizio abbreviato, ha ribadito che detto principio «“non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato”, potendo una disparità di trattamento risultare giustificata, “nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia”; e, per un altro verso, il limite all’appello della parte pubblica, oggetto di censura, “continua a trovare giustificazione, come per il passato, nell’obiettivo primario della rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato: rito che — sia pure, oggi, per scelta esclusiva dell’imputato — implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione denunciata, fuori delle garanzie del contraddittorio”» (ordinanza n. 46).

In materia di tutela del principio di imparzialità-terzietà del giudice, l’assorbente rilievo che la Corte «con giurisprudenza costante ha escluso la sussistenza di ipotesi di incompatibilità quando la funzione pregiudicante e la funzione pregiudicata si collocano all’interno della medesima fase del processo» ha consentito di pervenire alla declaratoria di manifesta infondatezza di due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura penale, rispettivamente nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alle funzioni di giudizio del giudice che ha convalidato l’arresto e applicato una misura cautelare nei confronti dell’imputato presentato a dibattimento per il giudizio direttissimo (ordinanza n. 90), e nella parte in cui non prevede un obbligo di astensione del giudice per l’udienza preliminare che abbia rigettato la richiesta di applicazione della pena (ordinanza n. 123). Qualora poi «la valutazione di merito non è imposta dal tipo di atto, all’interno dello stesso procedimento l’effetto pregiudicante di una eventuale valutazione sul merito dell’accusa deve essere accertato in concreto e devono trovare applicazione, ove ne sussistano i presupposti, gli istituti dell’astensione o della ricusazione», e non quello dell’incompatibilità (ordinanza n. 181).

In riferimento al diritto della persona accusata di un reato di essere avvisata nel più breve tempo della natura e dei motivi dell’accusa, come sancito dall’art. 111, terzo comma, della Costituzione, l’ordinanza n. 292 ricorda come esso «possa essere variamente modulato dal legislatore ordinario in relazione ai singoli riti alternativi».

Quanto poi alla portata dell’art. 111, quinto comma, della Costituzione, La Corte ha affermato che «la contumacia o l’irreperibilità dell’imputato non integrano situazioni di impossibilità di natura oggettiva alla formazione della prova in contraddittorio» (ordinanza n. 110).

3.2.5. L’archiviazione

In tema di procedimento di archiviazione si segnalano due pronunce, che ne evidenziano la natura di sede processuale deputata al controllo dell’operato del pubblico ministero, con l’eventuale contraddittorio della persona sottoposta all’indagine, senza tuttavia trasmodare in un analisi sul merito dell’accertamento di responsabilità.

Premesso che «la funzione dell’avviso di conclusione delle indagini, di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., [è] chiaramente quella di consentire una “fase di contraddittorio” tra l’indagato ed il pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini», e che, peraltro, qualora «l’esercizio dell’azione penale consegua all’ordine del giudice di formulare l’imputazione, previsto dall’art. 409, comma 5, cod. proc. pen. nel caso di mancato accoglimento [della richiesta di archiviazione], il contraddittorio sulla eventuale incompletezza delle indagini si esplica necessariamente nell’udienza in camera di consiglio che, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, il giudice è tenuto a fissare ove non accolga la richiesta di archiviazione del pubblico ministero», non appare configurabile una lesione del diritto di difesa dell’imputato nel caso in cui, nella predetta ipotesi di c.d. imputazione coatta, non sia previsto l’obbligo per il pubblico ministero di inviare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415-bis del codice di rito (ordinanza n. 441).

Inoltre, sempre in tema di archiviazione, alla luce della natura «interlocutoria e sommaria» della decisione che il giudice è chiamato ad assumere, essendo la stessa «finalizzata ad un semplice controllo di legalità sull’esercizio dell’azione penale e non già ad un accertamento sul merito dell’imputazione», non appare affatto irragionevole che l’art. 411 del codice di procedura penale non consenta al giudice, in sede di decisione sulla richiesta di archiviazione, di tener conto delle circostanze attenuanti generiche e di effettuare il giudizio di comparazione tra circostanze di cui all’art. 69 cod. pen., per desumerne l’intervenuta prescrizione del reato, stante la natura di giudizio di merito sottesa ad una siffatto tipo di accertamenti, «che presuppongono una valutazione contenutistica sulle caratteristiche oggettive e soggettive del fatto criminoso e sulla personalità del suo autore» (ordinanza n. 138).

3.2.6. Riti alternativi

Per quanto invece riguarda la diversa tematica dei riti alternativi la decisione senz’altro più importante è costituita dalla sentenza n. 219 sul c.d. patteggiamento allargato, con la quale la Corte ha respinto le censure di irragionevolezza mosse a tale nuova disciplina, introdotta dalla legge n. 134 del 2003 e volta a consentire l’accesso a tale rito alternativo – con talune eccezioni legate alla gravità dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata – anche nell’ipotesi in cui la pena detentiva superi i due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, e fino a un tetto massimo di cinque anni. Proprio la considerazione che «il legislatore ha peraltro previsto una serie di limitazioni di carattere sia oggettivo che soggettivo, volte a restringere la sfera di operatività dell’istituto, ed ha escluso alcuni degli effetti premiali che continuano invece a connotare l’applicazione della pena non superiore a due anni» ha consentito alla Corte di affermare che «la scelta di ampliare l’ambito di operatività del patteggiamento, certamente rientrante nella sfera della discrezionalità del legislatore, non è stata esercitata in maniera manifestamente irragionevole» (sentenza n. 219). Tale ratio decidendi, nonché la constatazione che «il legislatore pone normalmente la condizione del soggetto recidivo a base di un trattamento differenziato – e meno favorevole – rispetto alla posizione del soggetto incensurato, e considera la recidiva reiterata sintomatica di una pericolosità soggettiva più intensa rispetto alle altre forme di recidiva», ha poi indotto la Corte a ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 444, comma 1-bis, del codice di rito, nella parte in cui esclude ai recidivi reiterati l’accesso al patteggiamento qualora la pena detentiva superi i due anni (ordinanza n. 421).

Due decisioni hanno poi interessato il rito alternativo del giudizio immediato.

Con la prima di esse, l’ordinanza n. 52, la Corte, ribadendo quanto affermato in precedenti pronunce, ha rilevato che « il previo interrogatorio, svolto con l’osservanza delle garanzie di cui agli artt. 453, comma 1, e 375, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., assicura alla persona sottoposta alle indagini la possibilità di esercitare il suo diritto di difesa, anche in vista di un’eventuale emissione del decreto che dispone il giudizio immediato», per cui non appare soluzione costituzionalmente imposta che la richiesta di giudizio immediato del pubblico ministero sia notificata al difensore dell’imputato, per consentire l’eventuale apprestamento di memorie scritte.

Una seconda questione avente ad oggetto l’art. 456 del codice di rito, impugnato nella parte in cui non prevede la nullità del decreto che ha disposto il giudizio immediato nel caso di mancanza, insufficienza o inesattezza dell’avviso che l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena, è stata risolta dalla Corte in via interpretativa. Invero, dopo avere ribadito che «la richiesta di riti alternativi costituisce una modalità di esercizio del diritto di difesa», essa ha osservato che «non è esatto ritenere, come fa il rimettente, che l’ordinamento vigente non preveda, nell’ipotesi in esame, la nullità del decreto per mancanza o insufficienza dell’avviso», in quanto, rappresentando l’effettivo esercizio della facoltà di chiedere i riti alternativi «una delle più incisive forme di “intervento” dell’imputato, cioè di partecipazione “attiva” alle vicende processuali», ogni illegittima menomazione di tale facoltà si risolve «nella violazione del diritto sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost., integra[ndo] la nullità di ordine generale sanzionata dall’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. » (sentenza n. 148).

3.2.7. Querela

Con l’ordinanza n. 115 la Corte ha ritenuto non irragionevole la prescrizione contenuta nell’art. 337 del codice di procedura penale, in forza della quale la querela, ove recapitata da un incaricato o spedita per posta in piego raccomandato, debba essere corredata della «sottoscrizione autentica» del querelante, ove alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale per sottoscrizione autentica deve intendersi sottoscrizione autenticata. Invero, «il legislatore ha inteso evitare che la giurisdizione penale, in mancanza di qualsiasi verifica circa l’autenticità della sottoscrizione del querelante, “possa mettersi inutilmente in movimento”, e […] la disposizione censurata introduce quindi una “ragionevole cautela resa necessaria dal mancato contatto tra il querelante e gli uffici deputati alla ricezione dell’atto”».

3.2.8. Responsabile civile

Investita della richiesta di estendere con pronuncia additiva l’ambito di applicazione dell’art. 83 del codice di procedura penale, censurato dal rimettente nella parte in cui non riconosce all’imputato la facoltà di chiedere la citazione del responsabile civile allorché si tratti di responsabile civile ex lege in base alla normativa in materia di infortuni sul lavoro e di previdenza sociale, ovvero in forza dell’art. 28 della Costituzione, la Corte, con l’ordinanza n. 300, ha colto l’occasione per rimarcare come il sistema delineato dal nuovo codice di rito del 1988 abbia viceversa inteso circoscrivere nei limiti dell’essenzialità tutte le forme di cumulo processuale, stante la maturata consapevolezza che l’incremento delle regiudicande — specie se, come quelle civili, estranee alle finalità tipiche del processo penale — non potesse che aggravarne l’iter. Per tale ragione la Corte non ritiene che possa estendersi al caso di specie la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 83 nella parte in cui non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria di cui alla legge 24 dicembre 1969, n. 990, l’assicuratore possa essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato. A differenza di tale ipotesi, infatti, la responsabilità civile dello Stato e degli enti pubblici per fatti dei dipendenti, prevista dall’art. 28 della Costituzione, assolve ad una funzione di tutela nei confronti del solo danneggiato e non anche del danneggiante, sicché l’invocata facoltà di citazione dell’ente di appartenenza, quale responsabile civile, da parte del dipendente-imputato non potrebbe trovare giustificazione in un rapporto interno di “garanzia” tra i due soggetti. Né l’esistenza di tale rapporto interno di “garanzia” può desumersi tra l’imputato-danneggiante e l’istituto per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali; anzi, all’istituto assicuratore è riconosciuto il diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili.

3.3. I procedimenti nei confronti di minori

In materia di processo penale minorile si segnala l’ordinanza n. 110, con cui è stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 1 e 2, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, come modificato dall’art. 22 della legge n. 63 del 2001, censurati nella parte in cui precludono al giudice dell’udienza preliminare di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto, ovvero sentenza di condanna a pena pecuniaria o a sanzione sostitutiva, in mancanza di consenso dell’imputato. Come già indicato dalla sentenza n. 195 del 2002, infatti, la disposizione impugnata segna un ragionevole punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di favorire una rapida fuoriuscita dell’imputato minorenne dal circuito processuale, da un lato, e di garantirgli nel contempo le più complete opportunità difensive connesse alla possibilità di ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa, dall’altro, riconoscendo al minorenne la facoltà di non prestare il consenso alla pronuncia in udienza preliminare di sentenze che comunque presuppongono un accertamento di responsabilità.

Con una pronuncia intervenuta in materia di adozione ed affidamento dei minori la Corte si è occupata dei problemi applicativi sollevati dalla nuova disciplina di carattere sostanziale e processuale dettata dalla legge n. 149 del 2001, che reca modifiche alla precedente legge n. 184 del 1983. In particolare, mentre «le disposizioni di carattere sostanziale sono entrate in vigore il giorno successivo alla pubblicazione della legge n. 149 e cioè il 27 aprile 2001, viceversa per le disposizioni di carattere processuale il decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, ha disposto il differimento della loro efficacia fino alla emanazione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio nei procedimenti in questione, nonché in quelli ex art. 336 del codice civile, stabilendo che, fino a quel momento, in via transitoria, continuano ad applicarsi le disposizioni processuali previgenti». Le ragioni di necessità ed urgenza per il differimento dell’entrata in vigore delle norme di carattere processuale, osserva la Corte, sono dovute alla circostanza «che la citata legge n. 149 del 2001, nel prevedere l’obbligo dell’assistenza legale, non contiene specifiche disposizioni in ordine alla difesa di ufficio in favore di genitori e minori», per cui tale disciplina intertemporale si è resa necessaria al fine di evitare un sicuro «pregiudizio alla effettività del diritto di difesa del minore, soprattutto tenendo conto della necessità di avvalersi nei procedimenti in questione di professionisti in possesso di competenze adeguate alla particolarità e alla delicatezza della funzione da assolvere» (sentenza n. 178).

3.4. Il procedimento davanti al giudice di pace

Numerose anche nel 2004 sono le questioni sollevate dai giudici di pace, tra le quali molte sono quelle che hanno avuto ad oggetto norme che ne disciplinano il procedimento [tra cui va annoverata anche la sentenza n. 98, per la quale si rinvia supra 3.1.1].

 

Va detto che la più importante appare senz’altro la sentenza n. 114, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 204-bis, comma 3, del decreto legislativo n. 285 del 1992 (Nuovo codice della strada), introdotto dalla legge di conversione n. 214 del 2003, norma che stabiliva – a carico di chi voleva proporre ricorso avverso il verbale di contestazione d’infrazione alle regole del codice della strada – l’onere di «versare presso la cancelleria del giudice di pace, a pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà del massimo edittale della sanzione inflitta dall’organo accertatore».

In tale occasione la Corte, richiamandosi anche a proprie precedenti decisioni relative ad altre norme di carattere simile, ha osservato che l’eccessività dell’onere pecuniario imposto al ricorrente, generalmente superiore alla misura della sanzione concretamente inflitta, unitamente alla macchinosità del procedimento di deposito ed eventuale restituzione della somma versata, se rapportate alla effettiva mancanza di qualsiasi collegamento con le caratteristiche di massima semplificazione e gratuità che contraddistinguono il procedimento giurisdizionale in questione, producevano come conseguenza che l’imposizione in via generalizzata – da parte della norma censurata – del suddetto onere a carico del soggetto che intendesse adire le vie giudiziali si risolveva in un ostacolo, privo di ragionevole giustificazione, che finiva per scoraggiare l’accesso alla tutela giurisdizionale. Pertanto, «risulta evidente la violazione dei citati parametri costituzionali, sia sotto l’aspetto della lesione del diritto di difesa del ricorrente, sia sotto l’aspetto della palese irragionevolezza della norma in rapporto alle caratteristiche del procedimento giurisdizionale in questione, improntato a “gratuità” e “massima semplificazione per le parti”, secondo quanto stabilito dall’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689» (sentenza n. 114; vedi anche ordinanze numeri 266 e 310).

 

Una serie di questioni, che in gran parte risultavano già decise con la precedente ordinanza n. 231 del 2003, hanno investito l’art. 20 del decreto legislativo n. 274 del 2000, censurato per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che nell’atto di citazione a giudizio davanti al giudice di pace siano indicate la facoltà dell’imputato di ricorrere a riti alternativi, di fruire dell’istituto dell’oblazione, di chiedere l’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie avvenute prima dell’udienza di comparizione, e le sanzioni conseguenti a tale carenza. La Corte – in considerazione anche della particolare natura del procedimento davanti al giudice di pace – ha di fatto escluso la violazione dei parametri invocati, osservando che «nell’udienza di comparizione l’imputato è obbligatoriamente assistito, a norma dell’art. 20, comma 2, lettera e), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, “da un difensore, di fiducia o d’ufficio, sì che risultano pienamente garantite la difesa tecnica e l’informazione circa le varie forme di definizione del procedimento, anche alternative al giudizio di merito (conciliazione tra le parti, oblazione, risarcimento del danno, condotte riparatorie)” e che “l’udienza di comparizione, ove avviene il primo contatto tra le parti e il giudice, risulta sede idonea per sollecitare e verificare la praticabilità di possibili soluzioni alternative, tra cui, evidentemente, l’estinzione del reato per oblazione prevista dagli artt. 162 e 162-bis cod. pen.”» (ordinanze numeri 10, 11, 55, 56, 57 e 385).

 

Più significative, per il contributo che offrono ad una migliore comprensione della peculiare natura del procedimento penale che si svolge davanti al giudice di pace, appaiono le ordinanze numero 201 e 349.

In particolare, nella prima delle due ordinanze, la Corte ha osservato che «mediante il procedimento penale davanti al giudice di pace il legislatore ha inteso delineare un modello di giustizia caratterizzato da forme particolarmente snelle, di per sé non comparabile con il procedimento per i reati di competenza del tribunale», dove, «per quanto riguarda la fase precedente al dibattimento, il procedimento […] è connotato dal ruolo marginale assegnato alle indagini preliminari, che si sostanziano in una fase investigativa affidata in via principale alla polizia giudiziaria, alla quale è anche attribuito il compito di disporre la citazione a giudizio». Tali circostanze, che depongono per una «sostanziale svalutazione della fase delle indagini», nonché la «‘finalità conciliativa’ che costituisce il principale obiettivo della giurisdizione penale del giudice di pace», rendono l’udienza di comparizione «la sede idonea per promuovere la conciliazione e per verificare la praticabilità di altre possibili alternative al giudizio». Queste essendo le principali caratteristiche del procedimento in parola, la Corte ha escluso di poter ravvisare una violazione degli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione per il fatto l’art. 15 del decreto legislativo n. 274 del 2000 non preveda che nel procedimento dinanzi al giudice di pace sia dato avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari a norma dell’art. 415-bis del codice di procedura penale. Conclusioni avvalorate, inoltre, dal fatto che:

- (a) «l’omessa previsione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari non è costituzionalmente illegittima, [posto] che le forme di esercizio del diritto di difesa possono essere modulate in relazione alle caratteristiche dei singoli riti speciali ed ai criteri di massima celerità e semplificazione che li ispirano»;

- (b) «il dettato costituzionale, da un lato, non impone che il contraddittorio si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e, soprattutto, che debba essere sempre collocato nella fase iniziale del procedimento stesso, dall’altro non esclude che il diritto dell’indagato di essere informato nel più breve tempo possibile dei motivi dell’accusa a suo carico possa essere variamente modulato in relazione alla peculiare struttura dei singoli riti alternativi»;

- (c) «nel procedimento davanti al giudice di pace le esigenze di informazione dell’imputato prima dell’udienza di comparizione sono comunque assicurate dall’avviso, contenuto nella citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, che il fascicolo relativo alle indagini preliminari è depositato presso la segreteria del pubblico ministero e che le parti e i loro difensori hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia, nonché dall’indicazione, contenuta sempre nel medesimo atto, delle fonti di prova di cui il pubblico ministero chiede l’ammissione» (ordinanza n. 201).

Oltre a ribadire quanto già affermato nella precedente ordinanza n. 201, la successiva ordinanza n. 349 ha altresì precisato che «in relazione alla mancata previsione a carico della polizia giudiziaria dell’onere di svolgere accertamenti anche a favore dell’indagato, la Corte ha già rilevato che l’analogo onere a carico del pubblico ministero non mira a dare attuazione al diritto di difesa, ma si innesta sulla natura di parte pubblica dell’organo dell’accusa e sui compiti che il pubblico ministero è chiamato ad assolvere nell’ambito delle proprie determinazioni al termine delle indagini (v. ordinanza n. 96 del 1997), che continuano a sostanziarsi, anche nel procedimento davanti al giudice di pace, nell’alternativa tra la richiesta dell’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale».

Infine, la Corte ha escluso che la previsione contenuta nell’art. 21, comma 2, lettera e), del decreto legislativo n. 274 del 2000, che prevede, a pena di inammissibilità, che il ricorso immediato della persona offesa al giudice di pace debba contenere le generalità della persona citata a giudizio, sia in qualche modo lesivo del diritto di azione spettante alla prima. Alla persona offesa non è preclusa, infatti, la possibilità di prendere conoscenza dei dati identificativi dell’imputato, visto che a norma dell’art. 12, comma 1, lettera h), della legge n. 675 del 1996, tra i casi nei quali non occorre il consenso dell’interessato sono incluse le situazioni in cui il trattamento dei dati personali è necessario ai fini dello svolgimento delle indagini difensive o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria; fermo restando che la persona offesa, ove ritenga che l’acquisizione di tali dati sia eccessivamente difficoltosa o dispendiosa, può comunque seguire le vie della ordinaria tutela giurisdizionale davanti al giudice di pace, esercitando la facoltà di presentare querela (ordinanza n. 83).

3.5. Altri tipi di giudizio

3.5.1. Misure di prevenzione

In tema di procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione, facendo leva sulla propria consolidata giurisprudenza secondo la quale «le forme di esercizio del diritto di difesa possono essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione», la Corte ha escluso che possa tradursi in una lesione dell’art. 24 della Costituzione la circostanza che l’art. 4, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, limitando alla sola violazione di legge il ricorso contro il decreto della Corte d’appello applicativo di una misura di prevenzione, precluda la ricorribilità in cassazione per vizio di manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale. Del resto, ha osservato la Corte, non solo i rilievi del rimettente «si basano sul confronto tra settori direttamente non comparabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali», ma appare altresì non condivisibile l’assunto secondo cui «l’impossibilità di controllare la congruenza della struttura logica della motivazione comporti una ingiustificata contrazione delle garanzie difensive apprestate in un procedimento potenzialmente idoneo, al pari del processo penale, ad incidere sulla libertà personale», con la duplice conseguenza che «il risultato perseguito dal rimettente non può essere ritenuto costituzionalmente obbligato» e che «non può ritenersi lesivo dei parametri evocati che i vizi della motivazione siano variamente considerati a seconda del tipo di decisione a cui ineriscono» (sentenza n. 321).

L’art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, non è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – alla stregua di un indirizzo della giurisprudenza di legittimità – consente l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza anche nei confronti di persona detenuta in espiazione di pena e ciò anche quando si tratti di pena superiore alla durata massima della predetta misura di prevenzione, inflitta per reato la cui commissione sia posta altresì a fondamento della prognosi di pericolosità sociale del soggetto. Infatti, deve essere distinto il momento deliberativo dal momento esecutivo della misura in questione, poiché l’esecuzione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale potrà avere inizio solo quando lo stato di detenzione sia venuto a cessare; fatta salva la possibilità di chiedere la revoca della misura stessa nel caso in cui l’obiettivo della rieducazione, che l’art. 27, terzo comma, della Costituzione assegna alla pena, si sia in concreto realizzato. Né la ritenuta “afflizione aggiuntiva” può recare vulnus al parametro costituzionale invocato, attesa la distinta funzione della misura di prevenzione non assimilabile a quella della pena, posto che, peraltro, la stessa Carta costituzionale, consentendo il sistema del “doppio binario” tra pene e misura di sicurezza, riconosce la possibilità del concorso fra due diversi strumenti di intervento, caratterizzati da fini eterogenei, pure in presenza di una medesima situazione di fatto (ordinanza n. 124).

3.5.2. Riparazione per l’ingiusta detenzione.

Con tre sentenze pronunciate nel 2004 in materia di procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione la Corte ha ritenuto superabili in via interpretativa dubbi di legittimità costituzionale prospettati in relazione all’ambito di applicazione dell’art. 314 del codice di procedura penale. Comune denominatore di tali pronunce è stata l’affermazione che, alla luce del «fondamento squisitamente solidaristico della riparazione per l’ingiusta detenzione, […] in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, in ragione della qualità del bene offeso, si deve avere riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa». Orientando la propria decisione a tale principio, volto comunque a privilegiare l’elemento della sostanziale ingiustizia della detenzione, la Corte ha quindi affermato:

- (a) che non vi sono ostacoli a fare rientrare il caso della custodia cautelare disposta per un fatto per il quale era già intervenuta una sentenza passata in giudicato nell’ambito dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., non essendo riscontrabile alcuna differenza tra l’ipotesi di misura cautelare disposta in presenza di scriminanti o nei confronti di persona non punibile (situazioni previste dall’art. 273, comma 2, cod. proc. pen., a sua volta richiamato dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen.) e il caso di chi abbia subito la custodia cautelare per un reato per il quale l’azione penale non avrebbe potuto essere esercitata per la preclusione del ne bis in idem prevista dall’art. 649 cod. proc. pen. (sentenza n. 230);

- (b) che una lettura costituzionalmente orientata del complesso normativo che regola la materia estradizionale impone di riconoscere in via interpretativa il diritto alla riparazione per la detenzione ingiustamente sofferta anche nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria della custodia cautelare su domanda di uno Stato estero di cui venga successivamente accertata la carenza di giurisdizione (sentenza n. 231);

- (c) l’art. 314, comma 3, cod. proc. pen. va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per ‘morte del reo’, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato (sentenza n. 413).

 

3.5.3. Fallimento e procedure concorsuali.

Occupandosi di una questione di legittimità costituzionale degli artt. 137, 184 e 186 della legge fallimentare in materia di concordato preventivo omologato, la Corte ha escluso, contrariamente alla premessa interpretativa da cui muoveva il remittente, che «la dichiarazione di fallimento presuppone in ogni caso, quando si tratti di insolvenza relativa ad obbligazioni anteriori al concordato, la risoluzione di quest’ultimo». Infatti, ha osservato la Corte, la tesi «secondo la quale l’assenza della risoluzione del concordato impedirebbe […] una autonoma dichiarazione di fallimento – la quale, ferma l’obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa – non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal “diritto vivente”), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all’art. 5 legge fall., ai debiti esistenti al momento dell’apertura della procedura»; sicché il giudice, «ferma l’obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l’inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell’art. 5 legge fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento» (sentenza n. 106).

Sempre in materia fallimentare, poi, la Corte, muovendo dalla premessa che «la scelta dell’affissione, quale forma di pubblicità idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione di un atto, può essere giustificata solo dalla difficoltà di individuare coloro che possono avere interesse a proporre l’impugnazione stessa», ha sottolineato il fatto che essa «determina una mera presunzione legale, peraltro insuperabile, di conoscenza dell’atto ed è quindi compatibile con il diritto di difesa del destinatario nei soli casi in cui l’individuazione di questi, ed il conseguente ricorso a mezzi di comunicazione diretta dell’atto stesso, risultino impossibili o estremamente difficoltosi». Alla luce di tali considerazioni, l’art. 144, quarto comma, della legge fallimentare, nella parte in cui prevede che il termine per la proposizione del reclamo avverso la sentenza che provvede sull’istanza di riabilitazione decorre dalla data di affissione della sentenza anziché da quella della sua comunicazione, risulta lesivo del diritto di difesa del reclamante e va quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo. Tale conclusione si impone proprio perché nel caso di specie non ricorrono le predette difficoltà di individuazione di coloro che possono avere interesse a proporre l’impugnazione, «atteso che la legittimazione a proporre il reclamo spetta solamente a soggetti individuati, per avere partecipato al giudizio dinanzi al tribunale, ed ai quali la sentenza va comunicata, ai sensi dell’art. 133, secondo comma, del codice di procedura civile » (sentenza n. 224).

3.5.4. Giudizio arbitrale

Come noto, con la sentenza n. 376 del 2001 la Corte ha riconosciuto anche agli arbitri rituali la legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale. Infatti, il giudizio arbitrale – previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria – non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, sia per quanto riguarda la natura giuridica del procedimento sia per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili.

Ciò premesso, non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non consente agli arbitri – come, invece, sarebbe consentito al giudice in casi in casi simili in forza dell’art. 295 del codice di procedura civile – di disporre la sospensione del giudizio arbitrale nel caso in cui il giudice dello Stato debba risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della controversia arbitrale. Invero, il remittente muove «dall’esplicito presupposto che l’art. 295 cod. proc. civ., assunto quale tertium comparationis, pur sotto la rubrica “sospensione necessaria” offre al giudice una vasta gamma di facoltà, inclusa quella di disporre la sospensione del giudizio civile fino al passaggio in giudicato della sentenza penale avente ad oggetto i medesimi fatti, cosicché sussisterebbe una ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo considerato, tra il giudice statuale e l’arbitro, al quale siffatta facoltà sarebbe negata»; viceversa tale «presupposto interpretativo non trova, tuttavia, conforto nel diritto vivente, essendosi la giurisprudenza di legittimità, dopo talune oscillazioni iniziali, ormai consolidata, in sede di regolamento di competenza avverso i provvedimenti con i quali è disposta dal giudice la sospensione del processo (art. 42 cod. proc. civ.), nel senso che non sussiste una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice fuori dei casi tassativi di sospensione necessaria» (sentenza n. 207).

3.5.5. Gratuito patrocinio

Numerose sono anche nel 2004 le questioni che hanno investito, sotto vari aspetti, la disciplina dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, anche se, nella maggior parte dei casi, si trattava della riproposizione di questioni già decise in passato.

In particolare, investita della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 96, comma 4, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sollevata in riferimento all’articolo 97, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che il giudice deve provvedere in ordine all’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato anche quando lo stesso abbia richiesto le informazioni di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo, la Corte ha ribadito, da un lato, che appare inconferente il parametro evocato, posto che «il principio del buon andamento si riferisce agli organi dell’amministrazione della giustizia esclusivamente per profili concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, ma non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso e i diversi provvedimenti che ne costituiscono espressione», tra i quali rientra quello finalizzato all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato; dall’altro lato, tuttavia, ha affermato che deve in ogni caso escludersi che la previsione che il giudice debba provvedere sulla istanza di ammissione al patrocinio dello Stato entro il termine di dieci giorni dalla presentazione della istanza, a pena di nullità degli atti successivi, anche nel caso in cui abbia ritenuto di dover disporre accertamenti ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 96 del d.P.R. n. 115 del 2002, «sia lesiva del precetto costituzionale del buon andamento, essendo essa evidentemente finalizzata a garantire l’effettività del diritto di difesa dei non abbienti nel procedimento penale cui l’istanza si riferisce e ad impedire che, decorso il termine di dieci giorni, possano essere compiuti atti ai quali il difensore del non abbiente avrebbe diritto di partecipare, salvi ovviamente gli appositi strumenti, anche sanzionatori, previsti dal medesimo d.P.R. n. 115 del 2002» (ordinanza n. 94; v. anche ordinanza n. 396).

Con l’ordinanza n. 387 la Corte ha avuto modo di ribadire come le norme (artt. 80 e 81 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) che prevedono che l’imputato, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, possa nominare il proprio difensore solo scegliendolo tra gli iscritti negli appositi elenchi istituiti presso i Consigli dell’Ordine del distretto di corte di appello – elenchi per la iscrizione nei quali è prescritta – fra i vari requisiti – una anzianità professionale non inferiore a sei anni – non si pongano in contrasto né con l’art. 3, né con il diritto di difesa dell’imputato. Invero, ha osservato la Corte, richiamandosi a quanto affermato in una precedente decisione, «la previsione di uno speciale elenco nell’ambito del quale l’imputato, istante per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, possa nominare il proprio difensore, “risulta ragionevolmente orientata ad assicurare la migliore qualità professionale della prestazione medesima, attraverso una selezione dei patrocinatori garantita tanto dall’attitudine ed esperienza maturate in ragione di una sperimentata anzianità professionale, quanto da correttezza deontologica, comprovata dall’assenza di sanzioni disciplinari”»; inoltre, «nessuna violazione appare ravvisabile sul versante del diritto di difesa, risultando comunque “assicurata un’ampia possibilità di scelta del difensore tra i difensori iscritti” negli appositi elenchi».

Infine, meritano una particolare menzione le ordinanze n. 439 e n. 144, a proposito delle quali, tuttavia, trattandosi di temi che coinvolgono altresì la condizione giuridica dello straniero, si rinvia a quanto detto infra.

4. La condizione giuridica dello straniero

La rassegna degli atti di promuovimento di questioni in via incidentale degli ultimi due anni mostra come la disciplina della condizioni giuridica degli stranieri costituisca l’ambito nel quale i giudici comuni più massicciamente richiedono (recte, hanno richiesto) l’intervento della Corte costituzionale.

Per corrispondere a questa esigenza diffusa, la Corte, nel 2004, ha reso un buon numero di decisioni sul tema, intervenendo su alcuni degli aspetti più delicati o, comunque, più frequentemente censurati da parte dei rimettenti: devesi evidenziare, infatti, che il gran numero di questioni (le ordinanze di rimessione concernenti il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, iscritte nel registro ordinanze del 2003 ammontano a 674, mentre in quello del 2004, le ordinanze sono 440) si è concentrato su relativamente pochi profili della normativa, alcuni dei quali invocati in centinaia di ordinanze di rinvio. Proprio in relazione a questa concentrazione, le quaranta decisioni depositate hanno riguardato un numero relativamente circoscritto di problemi giuridici, molte essendo le ordinanze (soprattutto in rito, ed in particolare di restituzione degli atti ai giudici a quibus), che davano conto dell’avvenuta pronunzia su analoga o identica questione (in totale, le cause definite nel 2004 sono state 629).

Volendo qui fornire un quadro illustrativo della giurisprudenza dell’anno, possono essere individuate alcune decisioni che affrontano aspetti della normativa non affrontati in pronunzie degli anni precedenti; ad esse, si aggiungono quelle concernenti le questioni per le quali – in ragione di motivi diversi – non si è giunti ad una pronuncia di merito.

4.1. Il reato di trattenimento «senza giustificato motivo»

La sentenza n. 5 ha deciso alcune questioni sollevate in ordine all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, aggiunto dall’art. 13, comma 1, della legge n. 189 del 2002, il quale punisce con l’arresto da sei mesi ad un anno «lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis» del medesimo articolo, id est dell’ordine di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni.

La disposizione veniva denunciata essenzialmente con riguardo alla utilizzazione, nella descrizione della fattispecie criminosa, della formula «senza giustificato motivo», la quale, per la sua indeterminatezza, si riteneva che rimettesse di fatto «all’arbitrio dell’interprete» l’identificazione del comportamento incriminato.

La asserita violazione del principio di determinatezza della fattispecie penale, che rappresentava il fulcro delle censure, è stata tuttavia negata, da parte della Corte costituzionale, in quanto la valenza della clausola «senza giustificato motivo» è da ritenersi sufficientemente precisato alla luce della finalità dell’incriminazione e del quadro normativo su cui essa si innesta.

Sotto il primo profilo, la norma incriminatrice, mirando a rendere effettivo il provvedimento di espulsione, persegue l’obiettivo di «rimuovere situazioni di illiceità o di pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato, nella cornice del più generale potere – che al legislatore indubbiamente compete – di regolare la materia dell’immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati».

Sotto il secondo profilo, l’istituto dell’espulsione si colloca in un quadro sistematico che, pur nella tendenziale indivisibilità dei diritti fondamentali, vede regolati in modo diverso l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, per i quali l’espulsione o il respingimento sono preclusi, ovvero di c.d. «migranti economici», ai quali soli la clausola in questione si applica. Così, essa, sebbene non possa essere ritenuta evocativa delle sole cause di giustificazione in senso tecnico, ha tuttavia «riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa», e non anche ad esigenze che riflettano approssimativamente la condizione tipica del «migrante economico».

Di talché, ad esempio, i motivi che legittimano la pubblica amministrazione a non procedere all’accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera – necessità di soccorso; difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio; indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo – non possono non costituire sicuri indici di riconoscimento di situazioni nelle quali può ravvisarsi, per lo straniero, la sussistenza di «giustificati motivi» per non ottemperare all’ordine del questore (e ciò, in specie, quando l’inadempienza dipenda dalla condizione di assoluta impossidenza dello straniero, che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera e/o di acquistare il biglietto di viaggio).

Alla luce di tali considerazioni, appare altresì chiaro che la disposizione impugnata non delinea – a differenza di quanto prospettato da uno dei giudici rimettenti – una ipotesi di responsabilità oggettiva, derivante dall’inesigibilità, in determinate circostanze, del comportamento richiesto allo straniero.

La decisione di rigetto contenuta nella sentenza n. 5 ha costituito il precedente cui si sono rifatte le ordinanze numeri 80 e 302, onde dichiarare la manifesta infondatezza di questioni sostanzialmente identiche.

4.2. L’arresto obbligatorio per il reato di trattenimento

Con la sentenza n. 223, la Corte si è pronunciata nel senso dell’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo n. 286 del 1998, inserito dall’art. 13, comma 1, della legge n. 189 del 2002, nella parte in cui stabiliva che, per il reato previsto all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, consistente nel trattenimento senza giustificato motivo dello straniero nel territorio dello Stato (v. supra, paragrafo precedente), era obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto.

Onde giungere a tale conclusione, la Corte ha rilevato, innanzi tutto, che «secondo l’ordinamento processuale le misure coercitive possono essere applicate solo quando si procede per un delitto e, in particolare, ai sensi dell’art. 280 del codice di procedura penale, per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero, nel caso in cui sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere, non inferiore nel massimo a quattro anni»; peraltro, se è vero che «nell’ipotesi di convalida dell’arresto l’art. 391, comma 5, del codice di procedura penale consente l’applicazione di una misura coercitiva al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 dello stesso codice», è anche vero che tale possibilità è limitata «ai delitti di cui all’art. 381, comma 2, o ai delitti per i quali è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza».

La norma censurata dai giudici rimettenti prevedeva, invece, l’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale, per di più sanzionato con una pena detentiva – l’arresto da sei mesi ad un anno – di gran lunga inferiore a quella per cui il codice ammette la possibilità di disporre misure coercitive.

Da tale «anomalia» conseguiva che «il giudice chiamato a pronunciarsi sulla convalida dell’arresto per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, [doveva] comunque disporre l’immediata liberazione dell’arrestato ex art. 391, comma 6, del codice di procedura penale, ove non vi [avesse] già provveduto il pubblico ministero a norma dell’art. 121 delle norme di attuazione», posto che l’ordinamento processuale impediva di disporre la custodia cautelare in carcere e, più in generale, «qualsiasi misura coercitiva».

L’arresto obbligatorio era dunque privo di qualsiasi sbocco sul terreno processuale: era «una misura fine a se stessa», che non poteva trovare, come tale, alcuna «copertura costituzionale». Ciò in quanto, a norma dell’art. 13, terzo comma, della Costituzione, all’autorità di polizia è consentito adottare provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale «solo quando abbiano natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità giudiziaria».

Ora, nel caso previsto dalla disposizione impugnata, non era dato riscontrare alcun rapporto di strumentalità tra il provvedimento provvisorio di privazione della libertà personale ed il procedimento penale, risultando, in definitiva, «manifestamente irragionevole» la misura «precautelare» prevista.

A dar giustificazione alla disciplina predisposta non poteva addursi neppure l’esigenza di assicurare l’espulsione amministrativa dello straniero che non avesse ottemperato all’ordine di allontanarsi dal territorio dello Stato: l’arresto in flagranza per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, non poteva costituire, infatti, un presupposto indefettibile del procedimento amministrativo di espulsione, «atteso che l’accompagnamento alla frontiera e il trattenimento in un centro di permanenza temporanea sono autonomamente previsti nei commi 5-ter e 5-quinquies dell’art. 14, che fanno riferimento alle discipline descritte nell’art. 13, commi 4 e 5-bis, e nello stesso art. 14, comma 1, operanti a prescindere dal previo arresto dello straniero».

La declaratoria di illegittimità costituzionale che è seguita ad una siffatta argomentazione ha definito alcune cause riunite, in tutto simili ad altre centinaia di cause radicatesi tra il 2003 ed il 2004. Non a caso, successivamente alla sentenza n. 223, la Corte ha pronunciato un gran numero di ordinanze aventi ad oggetto la stessa disposizione già colpita dalla declaratoria di incostituzionalità, generalmente restituendo gli atti ai giudici a quibus, anche in relazione alla sopravvenuta modifica del diritto positivo dovuta all’entrata in vigore del decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modificazioni, nella legge 12 novembre 2004, n. 271 (ordinanze numeri 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 330, 331, 332, 398, 399, 400, 401, 402, 403, 404, 406, 407, 408, 409, 410 e 411). In taluni altri casi, invece, la constatata irrilevanza oppure i vizi riscontrati nella formulazione dell’ordinanza di rimessione hanno condotto ad una pronuncia di manifesta inammissibilità (ordinanze numeri 332, 333 e 405).

4.3. Il diritto di difesa e l’accompagnamento dello straniero alla frontiera

La sentenza n. 222 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 2 del decreto legge 4 aprile 2002, n. 51, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 2002, n. 106, nella parte in cui non prevedeva che il giudizio di convalida del decreto di espulsione dello straniero dovesse svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa.

Il «percorso» della decisione è stato «interamente segnato dalla sentenza n. 105 del 2001». In quell’occasione, la Corte aveva affrontato il tema del trattenimento presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza, rilevando che il controllo del giudice (un controllo «da intendersi nella sua accezione più piena, secondo quanto imposto dal precetto costituzionale di cui all’art. 13 della Costituzione») sul trattenimento doveva estendersi anche all’accompagnamento coattivo, poiché l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto portare il suo esame sui motivi che avevano indotto l’amministrazione procedente a disporre l’accompagnamento alla frontiera a mezzo di forza pubblica.

La sentenza n. 105 del 2001 non aveva, dunque, riguardato l’accompagnamento alla frontiera in sé e per sé, ma lo aveva comunque considerato quale istituto strettamente connesso, sul piano fattuale (oltre su quello logico), al trattenimento.

Quanto affermato in quella decisione, peraltro, «già preannunciava la soluzione di una eventuale questione di legittimità costituzionale che avesse avuto ad oggetto l’accompagnamento alla frontiera quale autonoma misura non legata al trattenimento presso i centri di permanenza temporanei».

Ora, nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-bis, la Corte ha rilevato che il procedimento ivi disciplinato, nonostante fosse stato introdotto al precipuo fine di colmare il vuoto di tutela evidenziato nella sentenza n. 105 del 2001, contravveniva ai principi affermati dalla Corte. Ciò in quanto era previsto che il provvedimento di accompagnamento alla frontiera venisse eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria: in sostanza, lo straniero veniva allontanato coattivamente dal territorio nazionale senza che il giudice avesse potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale.

Ne risultava quindi vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 della Costituzione, e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore. Al contempo, risultava violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile, nella misura in cui non si prevedeva che questi dovesse essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore.

Da tali rilievi discendeva alla stregua di una inferenza necessitata la declaratoria di illegittimità costituzionale, corredata da un (implicito) invito al legislatore a configurare uno schema procedimentale che, per quanto «caratterizzato da celerità e articolato sulla sequenza provvedimento di polizia-convalida del giudice», sia in grado di garantire «i principi della tutela giurisdizionale».

Le cause vertenti su questioni di legittimità costituzionale analoghe a quelle che hanno dato luogo alla sentenza n. 222 sono poi state definite con l’ordinanza n. 351, di restituzione degli atti ai giudici a quibus.

4.4. L’espulsione dello straniero che debba scontare una pena detentiva non superiore a due anni

Altre questioni poste da alcuni giudici a quibus hanno avuto ad oggetto la disciplina dell’espulsione, a titolo di «sanzione alternativa» alla detenzione, dello straniero che debba scontare una pena non superiore, anche quale pena residua, a due anni di reclusione o di arresto, prevista dall’art. 16, commi 5 e seguenti, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002.

L’assunto da cui i rimettenti muovevano era dato dalla «sicura ascrivibilità» dell’espulsione «al novero delle sanzioni penali»; alla luce di tale configurazione, si desumeva che la disciplina concreta dell’istituto (e segnatamente l’iniziativa officiosa e la sua applicazione automatica ed obbligatoria in presenza dei presupposti formali previsti dalla legge, a prescindere da ogni valutazione sul percorso rieducativo e sulle possibilità di reinserimento del condannato) si ponesse in contrasto con la funzione rieducativa della pena nonché con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, posto che si sarebbe trattato dell’unica misura alternativa alla detenzione o comunque dell’unica sanzione afflittiva applicata dalla magistratura di sorveglianza senza tenere conto degli effetti ai fini della rieducazione e della risocializzazione del condannato e delle sue condizioni personali.

Con l’ordinanza n. 226, la Corte – rifacendosi ad una precedente statuizione, contenuta nell’ordinanza n. 369 del 1999 – ha sottolineato la natura (non penale, ma) amministrativa della espulsione prevista dall’art. 16, comma 5, del decreto legislativo n. 286 del 1998, giacché «tale misura è subordinata alla condizione che lo straniero si trovi in taluna delle situazioni che costituiscono il presupposto dell’espulsione amministrativa disciplinata dall’art. 13, alla quale si dovrebbe comunque e certamente dare corso al termine dell’esecuzione della pena detentiva, cosicché, nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni». Tale essendo la configurazione dell’espulsione, logica conseguenza è quella della non applicazione ad essa dei principi e degli istituti che disciplinano le sanzioni penali.

Come è chiaro, la natura amministrativa dell’istituto non può significare che esso non sia comunque assistito da garanzie, ed in specie da quelle che accompagnano l’espulsione disciplinata dall’art. 13: ne è una significativa conferma la circostanza che alcune di esse siano previste tanto nell’art. 13 quanto nell’art. 16 (il riferimento va al divieto di procedere all’espulsione dello straniero che si trovi in determinate condizioni, all’impugnabilità del provvedimento di espulsione, alla garanzia del decreto motivato).

Alla luce di siffatte considerazioni, sistematiche ed interpretative, le questioni sollevate non potevano dunque che ritenersi manifestamente infondate. La decisione è stata confermata anche dalla successiva ordinanza n. 422, che ha dichiarato manifestamente infondate analoghe questioni.

4.5. La traduzione del decreto di espulsione

Con talune ordinanze di rimessione, era stata sottoposta allo scrutinio della Corte la questione inerente all’art. 13, comma 7, del decreto legislativo n. 286 del 1998, sulla base della ritenuta necessità che il provvedimento di espulsione, che viene comunicato allo straniero unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione, venga sempre tradotto in una lingua da questi effettivamente conosciuta: in sostanza, non sarebbe stata sufficiente, in caso di impossibilità di traduzione nella lingua effettivamente conosciuta dallo straniero, l’utilizzazione di una delle lingue maggiormente diffuse previste dalla legge (francese, inglese o spagnola), perché in tal caso si sarebbe determinata la presunzione di conoscenza dell’atto amministrativo dalla cui violazione discende la commissione del reato di trattenimento sul territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento.

La Corte – premesso che le previsioni legislative relative all’obbligo di traduzione dei provvedimenti riguardanti l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione dello straniero «in una lingua a lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola», rispondono a criteri «ragionevolmente funzionali, e nella loro necessaria astrattezza idonei a garantire che, nella generalità dei casi, gli atti della pubblica amministrazione concernenti questa materia siano conoscibili dai destinatari, nel loro contenuto e in ordine alle possibili conseguenze derivanti dalla loro violazione» – ha sottolineato come, di fatto, «spetti ai giudici di merito, di fronte ai casi concreti ed usando dei loro poteri, anche ufficiosi, di accertamento, verificare se l’atto ha raggiunto o meno lo scopo per il quale è preordinato ed in particolare se il provvedimento di espulsione sia stato tradotto in una lingua conosciuta o conoscibile dallo straniero», e ancora che, «effettuate tali valutazioni, i giudici traggano le debite conseguenze, alla luce dei principi dell’ordinamento, in ordine alla sussistenza dell’illecito penale contestato allo straniero».

Sulla scorta di tali affermazioni, che trovano significativi riscontri nella giurisprudenza costituzionale precedente, la sentenza n. 257 ha rigettato le questioni sollevate.

4.6. Il gratuito patrocinio a beneficio dello straniero

L’ordinanza n. 439 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 12 della legge n. 189 del 2002, e dell’art. 142 del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (riprodotto nell’art. 142 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115). La disciplina era stata censurata per violazione del principio di eguaglianza e del canone della ragionevolezza, «tenuto conto della “differente tipologia di trattamento prevista per gli stranieri che richiedano l’accesso al patrocinio a spese dello Stato in sede di udienza di convalida del trattenimento, nonché alla parimenti differente tipologia di trattamento prevista per i cittadini e per gli stranieri che richiedano analogo beneficio sia in ambito penale sia in ambito civile”».

Replicando alle prospettazioni del giudice a quo, la Corte ha evidenziato che «non può essere messa in dubbio la volontà del legislatore […] di porre “a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato”» e che tale scelta «rientra nella piena discrezionalità del legislatore».

La scelta operata, d’altra parte, «non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine».

Anteriormente a questa decisione, la Corte si era occupata di una questione per certi versi prossima, relativa all’art. 79 del d.P.R. n. 115 del 2002, «nella parte in cui prevede, a pena di inammissibilità della domanda di ammissione al patrocinio dei non abbienti, l’indicazione del codice fiscale, anche nel caso in cui l’istante sia cittadino straniero irregolarmente presente sul territorio dello Stato».

Il presupposto da cui muoveva il rimettente, e cioè l’impossibilità di un indirizzo interpretativo diverso da quello che esige la declaratoria di inammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, anche nell’ipotesi in cui, per ragioni oggettive, l’interessato non possa provvedere all’indicazione del codice fiscale, è stato ritenuto erroneo dalla Corte, la quale, nell’ordinanza n. 144, ha sottolineato che, agli effetti dell’ammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio in questione, «nulla appare escludere la possibilità che lo straniero extracomunitario, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 [cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale], oltre al proprio domicilio all’estero».

4.7. Le questioni non decise nel merito

I vizi riscontrati nella ordinanza di rimessione (segnatamente, l’insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo) hanno precluso la decisione di merito della questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1, lettere b) e b-bis), del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 23, comma 1, della legge n. 189 del 2002, nella parte in cui prevede il ricongiungimento familiare coi figli maggiorenni nel solo caso in cui essi non possano provvedere al loro sostentamento a causa di uno stato di salute che comporti una invalidità totale (ordinanza n. 187).

L’omissione della motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza è stata la ragione che ha indotto la Corte, con l’ordinanza n. 234, a pronunciare la manifesta inammissibilità della questione sollevata in merito all’art. 32 del decreto legislativo n. 286 del 1998, nella parte in cui non prevede che, al compimento della maggiore età, il permesso di soggiorno possa essere rilasciato anche «nei confronti dei minori stranieri sottoposti a tutela, ai sensi degli articoli 343 e seguenti del codice civile» (la questione, peraltro, era analoga ad altra dichiarata non fondata, nei sensi di cui in motivazione, con la sentenza n. 198 del 2003).

Infine, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come sostituito dall’art. 11, comma 1, della legge n. 189 del 2002, «nella parte in cui punisce chi “compie atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”», ha dato luogo ad una decisione di restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, alla luce delle modifiche apportate alla disposizione impugnata da parte del decreto legge n. 241 del 2004, convertito, con modificazioni, nella legge n. 271 del 2004 (ordinanza n. 445).

5. Il diritto alla salute

Oltre che in alcune decisioni concernenti il riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni in tema di «tutela della salute», il diritto di cui all’art. 32 della Costituzione è stato oggetto di due ordinanze emesse nel corso di giudizi in via incidentale (ad esse può aggiungersi la sentenza n. 367, esaminata nel contesto dell’analisi inerente alle misure di sicurezza).

L’ordinanza n. 262 ha dichiarato la manifesta inammissibilità, per carenza di motivazione sulla rilevanza, della questione sollevata avverso la norma che sancisce l’obbligatorietà della vaccinazione antitetanica per i nuovi nati, la cui costituzionalità era stata revocata in dubbio nel corso di un processo originato dal rifiuto opposto dai genitori di sottoporre il figlio ad una delle somministrazioni di vaccino.

Per quanto qui rileva, la Corte ha avuto modo di sottolineare, riprendendo sue affermazioni precedenti, che, «in ogni caso, ai fini di apprezzare la portata e il fondamento dell’obbligatorietà della vaccinazione antitetanica da praticare ai nuovi nati, rispetto alla quale si manifesti un rifiuto dei genitori, non è sufficiente argomentare […] in base al solo carattere non diffusivo della malattia: infatti, alla valutazione rimessa al giudice non può essere estranea la considerazione del rischio derivante allo stesso minore dall’omissione della vaccinazione, posto che, nel caso del minore, non è in gioco la sua autodeterminazione, ma il potere-dovere dei genitori di adottare le misure e le condotte idonee a evitare pregiudizi o concreti pericoli alla salute dello stesso minore, non potendosi ammettere una totale libertà dei genitori di effettuare anche scelte che potrebbero essere gravemente pregiudizievoli al figlio».

Con l’ordinanza n. 366, la Corte è stata invece chiamata a giudicare della legittimità costituzionale delle norme inerenti alla possibilità per la gestante di chiedere l’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni dal suo inizio, nel caso di rilevazione di malformazioni del feto. Il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione ha, tuttavia, precluso la decisione di merito.

6. L’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche

Una tra le decisioni della Corte che più hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica è certamente quella resa con l’ordinanza n. 389, in tema di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche.

Il giudice rimettente aveva impugnato gli articoli 159 e 190 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, sul presupposto che essi, «come specificati», rispettivamente, dall’art. 119 (e allegata tabella C) del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297, e dall’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965, fornissero fondamento legislativo ad un obbligo – contestato dal ricorrente per contrasto con il principio di laicità dello Stato – di esposizione del Crocifisso in ogni aula scolastica delle scuole elementari e medie.

Veniva inoltre impugnato l’art. 676 del decreto legislativo n. 297 del 1994 sul presupposto che a tale disposizione, che sancisce l’abrogazione delle sole disposizioni non incluse nel testo unico che risultino incompatibili con esso, dovesse farsi risalire la permanente vigenza delle due norme regolamentari citate, dopo l’emanazione dello stesso testo unico.

I presupposti da cui il giudice a quo muoveva sono stati dalla Corte dichiarati erronei. I precitati articoli 159 e 160, infatti, «si limitano a disporre l’obbligo a carico dei Comuni di fornire gli arredi scolastici, rispettivamente per le scuole elementari e per quelle medie», con il che nessun rapporto di specificazione può essere rintracciato tra questi e le disposizioni regolamentari indicate, che, dal canto loro, si riferiscono «alla presenza nelle aule del Crocifisso e del ritratto del Re», ma non si occupano «dell’arredamento delle aule».

In ordine all’altro profilo evocato nell’ordinanza di rimessione, la Corte ha sottolineato come non possa ricondursi all’art. 676 del decreto legislativo n. 297 del 1994 l’affermata perdurante vigenza delle norme regolamentari richiamate, «poiché la eventuale salvezza, ivi prevista, di norme non incluse nel testo unico, e non incompatibili con esso, può concernere solo disposizioni legislative, e non disposizioni regolamentari, essendo solo le prime riunite e coordinate nel testo unico medesimo».

In ragione di tali considerazioni, la questione di costituzionalità sollevata è stata dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto «frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo» di una questione di legittimità in realtà concernente norme prive di forza di legge (sul punto, si veda anche supra, parte I, cap. I, par. 6).

7. La previdenza e l’assistenza

In materia previdenziale si segnalano innanzitutto la sentenza n. 30 e l’ordinanza n. 383 che hanno ribadito principi ormai consolidati nella giurisprudenza della Corte, chiamata più volte a scrutinare norme che, nell’attribuire integrazioni salariali al personale in servizio, non provvedevano al contestuale adeguamento delle pensioni spettanti al personale già collocato a riposto.

A tale riguardo, la Corte ha ribadito:

- (a) «che non esiste nel nostro ordinamento un principio costituzionale che garantisca il costante adeguamento delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio corrispondente, e che il rispetto degli artt. 36 e 38 Cost. impone solo che siano individuati meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni ai mutamenti del potere di acquisto della moneta, sia al momento del collocamento a riposo, sia successivamente» (ordinanza n. 383);

- (b) «che il rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza del trattamento pensionistico impone al legislatore «di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita», di tal che il verificarsi di irragionevoli scostamenti tra l’importo delle pensioni e le variazioni del potere d’acquisto della moneta «sarebbe indicativo della inidoneità del meccanismo in concreto prescelto» (ordinanza n. 383).

D’altro canto «il perdurante necessario rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita», con la conseguenza che solo «il verificarsi di irragionevoli scostamenti dell’entità delle pensioni rispetto alle effettive variazioni del potere d’acquisto della moneta, sarebbe indicativo della inidoneità del meccanismo in concreto prescelto ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia mezzi adeguati ad una esistenza libera e dignitosa nel rispetto dei principi e dei diritti sanciti dagli artt. 36 e 38 della Costituzione» (sentenza n. 30).

Inoltre, chiamata a valutare gli esiti del passaggio dall’ordinamento gerarchico delle carriere a quello delle qualifiche funzionali, la Corte ha chiarito che «non appare […] irragionevole la scelta del legislatore del 1985 di differenziare, nell’ambito della stessa categoria di soggetti, la decorrenza e l’entità del beneficio in ragione della data del loro collocamento a riposo» (sentenza n. 430).

 

Con la sentenza n. 91 la Corte è stata investita del controllo di legittimità del combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 87 del 1994 e 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, secondo il quale, alla luce del diritto vivente, il computo dell’indennità integrativa speciale nella base di calcolo dell’indennità di buonuscita avviene, per talune categorie di pubblici dipendenti, in ragione di una aliquota effettiva pari al 48 per cento, anziché di quella del 60 per cento.

La Corte non ha ravvisato alcuna situazione di contrasto con i principi di adeguatezza e proporzionalità della retribuzione – stante il carattere retributivo dell’indennità integrativa speciale – e con quello di adeguatezza della tutela previdenziale – stante la natura di retribuzione differita con funzione previdenziale dell’indennità di buonuscita –. Se da un lato, infatti, «la valutazione della congruità della retribuzione ai fini dell’art. 36 Cost. deve essere effettuata con riguardo alla globalità della stessa e non alle sue singole componenti […e] pertanto essa non può essere limitata all’indennità integrativa speciale isolatamente considerata, ancorché alla medesima sia da riconoscere natura retributiva, ma va riferita al complessivo trattamento di fine rapporto nel quale la suddetta indennità viene inclusa»; dall’altro lato, invece, «l’indennità di buonuscita e gli altri trattamenti analoghi, avendo anche funzione previdenziale, devono essere disciplinati secondo i criteri della solidarietà sociale e del pubblico interesse a che sia garantita, per far fronte agli eventi indicati nell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, la corresponsione di un minimum la cui determinazione è riservata alla competenza del legislatore, il quale nell’operare le sue scelte discrezionali deve tenere conto anche delle esigenze della finanza pubblica» (sentenza n. 91).

 

Con la sentenza n. 267, poi, si afferma che «avere riconosciuto la riscattabilità del periodo di studi universitari […] non significa che il legislatore sia tenuto ad attribuire a questi lo stesso valore del servizio effettivamente prestato e che non possa trattare diversamente le due ipotesi secondo le sue scelte discrezionali. In altri termini, non c’è nulla di irragionevole se il legislatore, con norma di favore, ha ritenuto di concedere, come nel caso dell’art. 12 del d.P.R. 1092 del 1973, la ricongiunzione gratuita del servizio prestato e non anche del periodo di studi già riscattato nella precedente gestione previdenziale».

 

In materia di pensioni privilegiate si segnala, infine, la sentenza n. 44, che ha scrutinato l’art. 1 della legge 31 dicembre 1991, n. 437, censurato nella parte in cui prevede la concessione di un trattamento pensionistico privilegiato per il caso di cittadini deceduti o resi invalidi dallo scoppio di ordigni esplosivi lasciati incustoditi o abbandonati dalle Forze armate in tempo di pace «in occasione di esercitazioni combinate o isolate». La Corte ha escluso che tale disposizione determini una ingiustificata disparità di trattamento a danno dei cittadini deceduti o resi invalidi dallo scoppio di ordigni esplosivi lasciati incustoditi o abbandonati dalle Forze armate al di fuori del contesto di una esercitazione combinata o isolata, sottolineando, viceversa, come l’elemento della fattispecie costituito dallo svolgimento di esercitazioni militari concorra ad integrare – secondo il dato testuale della norma censurata – solamente l’ipotesi dell’abbandono, e non anche quella, di carattere generale, dell’omessa custodia di ordigni esplosivi.

8. L’accesso alle cariche elettive

Con l’ordinanza n. 145 la Corte, dopo avere affermato che non appare irragionevole, poiché basata sul criterio della differenziazione delle indennità in rapporto alla dimensione demografica del Comune, una norma che non riconosca il beneficio del raddoppio dell’indennità di carica agli assessori di tutti i Comuni con meno di 50.000 abitanti, ha tuttavia ribadito, con riguardo all’art. 51 della Costituzione, che «quest’ultimo – come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, anche proprio con riguardo all’art. 3, secondo comma, della legge n. 816 del 1985, “come recepito” in Sicilia dalla legge regionale n. 31 del 1986 – si limita, al terzo comma, a garantire il diritto di chi è chiamato a funzioni pubbliche di “disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”, restando per il resto “affidato al legislatore di stabilire se il tempo impiegato debba essere o meno compensato, in quale misura e se ciò debba avvenire a carico del datore di lavoro ovvero della collettività” ».

9. Il rapporto tributario

In materia tributaria la sentenza n. 285 ha affermato che è «erroneo ritenere che un beneficio fiscale (nella specie, quello della totale deducibilità dal reddito complessivo degli interessi passivi pagati sui mutui in questione) previsto dalla pregressa disciplina normativa di settore (nella specie, dall’art. 10 del d.P.R. n. 917 del 1986) non possa giammai subire modificazioni in negativo per l’affidamento creato nei contribuenti; di tal che al legislatore sarebbe impedito di effettuare nuove valutazioni al fine di ripartire più equamente il carico fiscale».

Nella discrezionalità del legislatore rientra altresì «prevedere se si debba o non si debba tenere conto degli effetti conseguenti ai processi di svalutazione monetaria in sede di applicazione delle diverse imposte dirette o indirette, conseguendone che tale scelta politica non può considerarsi sindacabile da parte della Corte costituzionale, sempre che non comporti la violazione di qualche principio costituzionale ovvero non determini un travalicamento del normale ambito di discrezionalità» (ordinanza n. 289).

In riferimento al c.d. redditometro – che, come noto, è uno strumento che permette all’amministrazione finanziaria di determinare presuntivamente il reddito del contribuente sulla base di parametri che, alla luce di consolidate massime di esperienza, sono indici rivelatori di reddito del contribuente, e demanda ad un regolamento del Ministro delle finanze la determinazione dei parametri in base ai quali determinare presuntivamente il reddito – la Corte si era già pronunciata in passato, escludendone un contrasto con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione. La Corte, chiamata nuovamente a scrutinare l’art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, in un testo ancora più «garantista» del passato, ribadisce come tale strumento «si palesa quindi come “un accertamento presuntivo che, lungi dal violare il principio costituzionale della correlazione tra capacità contributiva e imposizione tributaria, ne costituisce un mezzo di attuazione, in quanto è reso ragionevole dal ricorso a indici idonei a dare fondamento reale alla corrispondenza tra imposizione e capacità contributiva”»; quanto poi alla riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, «è da richiamare la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (ordinanza n. 297).

Si segnala, infine, l’ordinanza n. 352, con cui è stato ribadito «che il carattere perentorio di un termine non deve risultare in modo esplicito dalla norma, ben potendo esso desumersi dalla funzione che al termine chiaramente assegna la legge, e, dall’altro lato, […] che è conforme a Costituzione, e va dall’interprete ricercata, soltanto una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all’azione esecutiva del fisco».

10. La proprietà e la libertà di iniziativa economica

La sentenza n. 315 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 42 e 44 della Costituzione, l’art. 14, secondo comma, secondo e terzo periodo, della legge 3 maggio 1982, n. 203. Tale disposizione, infatti, nel dettare i criteri per la determinazione del canone per i contratti di affitto di fondi rustici riguardanti i territori del catasto derivante dall’ex catasto austro-ungarico, faceva riferimento ad meccanismo di determinazione dell’equo canone – fondato sulle tabelle di cui alla legge n. 567 del 1962, a loro volta formate prendendo a base i redditi dominicali determinati a norma del regio decreto-legge n. 589 del 1939 – che ha perso ormai qualsiasi idoneità a rappresentare le effettive e diverse caratteristiche dei terreni agricoli, cosicché non poteva sicuramente essere posto a base di una disciplina dei contratti agrari rispettosa della garanzia costituzionale della proprietà terriera privata e tale da soddisfare, nello stesso tempo, la finalità della instaurazione di equi rapporti sociali, imposta dall’art. 44 della Costituzione; inoltre, «a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 9 e 62 della legge n. 203 del 1982 (sentenza n. 318 del 2002), il regime di equo canone dei fondi rustici è venuto meno su tutto il territorio nazionale, ad eccezione dei territori del catasto derivante dall’ex catasto austro-ungarico, cui appunto continua ad applicarsi l’art. 14 della stessa legge, dal che deriva, dunque, una ingiustificata disparità di trattamento in danno dei proprietari dei fondi rustici situati in quei territori».

Viceversa, la sentenza n. 76 ha escluso una lesione del diritto di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione da parte dell’art. 24 del d.P.R. n. 43 del 1988, cui rinvia integralmente l’art. 18 della legge della Regione Siciliana 5 settembre 1990, n. 35.

Tali disposizioni prevedevano che in caso di vacanza della concessione del servizio di riscossione dei tributi, che si espleta in regime di concessione amministrativa nei singoli ambiti territoriali, «in attesa del nuovo conferimento della gestione del servizio» fosse nominato un «commissario governativo delegato provvisoriamente alla riscossione», scelto fra i soggetti abilitati che ne avessero fatto richiesta o, in mancanza, in persona del concessionario di un ambito territoriale contiguo, disponendo inoltre che al commissario «si applicano le norme stabilite per il concessionario, salvo quanto disposto» nei successivi articoli. Da un esame dell’articolato normativo del d.P.R. n. 43 del 1988 non hanno trovato riscontro oggettivo le censure del rimettente, volte a sostenere che le norme impugnate comportassero l’obbligo per il commissario di gestire l’attività d’impresa con tutti gli oneri gravanti sul concessionario ma senza averne i diritti, e pertanto anche in condizioni antieconomiche, e che tale obbligo potesse essere imposto senza un ragionevole limite temporale.

Capitolo II

L’ordinamento dello Stato

1. Il Parlamento

1.1. L’insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari

Come noto, riconoscendo ai parlamentari la garanzia dell’insindacabilità delle opinioni espresse «nell’esercizio delle funzioni», l’art. 68 della Costituzione non mira certamente a creare un’area di immunità o privilegio a favore di questi rispetto all’esercizio della giurisdizione, bensì mira «alla tutela dell’autonomia delle funzioni parlamentari, quale area di libertà politica delle Assemblee rappresentative» (ordinanza n. 419).

 

Benché il naturale terreno di confronto tra funzione parlamentare e funzione giurisdizionale sia stato e sia tuttora, sul piano della giustizia costituzionale, quello dei conflitti tra poteri dello Stato, il 2004 si segnala per l’intervento della Corte altresì sul diverso piano del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.

Ad essere oggetto di scrutinio alla luce dell’art. 68 della Costituzione è stato l’articolo 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), norma con la quale, secondo i giudici a quibus, il legislatore avrebbe sostanzialmente inteso estendere l’area dell’insindacabilità al di fuori del perimetro tracciato dalla norma costituzionale appena citata. La Corte, tuttavia, è stata di contrario avviso, sottolineando come dalla formulazione della disposizione impugnata «si può ritenere che con la norma in esame il legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale, ampliandone o restringendone arbitrariamente la portata, ma si limiti invece a rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini della immediata applicazione dell’art. 68, primo comma, gli “atti di funzione” tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di “localizzazione”, in concordanza, del resto, con le indicazioni ricavabili al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia» (sentenza n. 120).

«Così intesa la disposizione censurata si sottrae ai vizi di legittimità addebitati: essa, come già osservato, non elimina affatto il nesso funzionale e non stabilisce che ogni espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo che li lega agli elettori, sia per ciò solo assistita dalla garanzia dell’immunità. È pertanto nella dimensione funzionale che le dichiarazioni in questione possono considerarsi insindacabili: “garanzia e funzione sono inscindibilmente legate fra loro da un nesso che, reciprocamente, le definisce e giustifica” (sentenza n. 219 del 2003). Né, d’altra parte, ai fini dell’insindacabilità, la prospettata necessità della connessione tra attività di critica o di denuncia politica e atti di funzione parlamentare può essere inficiata dalla precisazione che tali attività possano essere state espletate “anche fuori del Parlamento”. Tale precisazione, infatti, nulla aggiunge a quanto ormai è acquisito al patrimonio giurisprudenziale di questa Corte, che non ha mai limitato la garanzia alla sede parlamentare, giacché il criterio di delimitazione dell’ambito della prerogativa non è quello della “localizzazione” dell’atto, ma piuttosto, come già detto, quello funzionale, cioè riferibile in astratto ai lavori parlamentari (cfr. sentenza n. 509 del 2002). Solo a queste condizioni l’opinione così manifestata e così qualificata può essere considerata insindacabile anche quando dia luogo a forme di divulgazione e riproduzione al di fuori dell’ambito delle attività parlamentari (cfr. sentenze n. 10, n. 11 e n. 320 del 2000)» (sentenza n. 120).

 

In sede di conflitto tra poteri il compito cui la Corte è regolarmente chiamata è quello di verificare la ricorrenza in concreto del «nesso funzionale» tra le dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare e l’esercizio di un’attività parlamentare. A tale riguardo la giurisprudenza costituzionale stratificatasi sul punto consente ormai di enucleare regole di giudizio precise, volte a facilitare la predetta verifica.

Premesso che «non ogni opinione espressa da un parlamentare rientra nella previsione dell’art. 68, primo comma, Cost., perché altrimenti l’immunità si risolverebbe in un privilegio personale confliggente in modo irrimediabile con principi costituzionali fondamentali e diritti di altri soggetti», occorre tuttavia sottolineare che «non soltanto “rientrano nella sfera dell’insindacabilità tutte le opinioni manifestate con atti tipici nell’ambito dei lavori parlamentari”, ma pure che le attività non tipizzate “si debbono considerare ‘coperte’ dalla garanzia di cui all’art. 68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e procedure, anche ‘innominati’, ma comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro del Parlamento è in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in quanto riveste tale carica”». Di conseguenza, «non è decisiva la localizzazione dell’attività in questione all’interno o all’esterno dei palazzi del Parlamento», proprio perché «per quanto concerne la divulgazione delle opinioni espresse da parlamentari, quel che rileva è la sostanziale identità di contenuti fra l’opinione come espressa in un atto tipico inteso nei sensi suindicati, e quindi caratterizzata dal nesso funzionale, ed il messaggio che siffatta opinione divulga» (sentenza n. 298).

 

La sentenza n. 347 si segnala all’attenzione per essersi posta per la prima volta alla Corte la necessità di risolvere un duplice problema che in precedenza era stato solo sfiorato da precedenti pronunce. Vale a dire:

(a) il problema della rilevanza, al sopra considerato fine di individuare l’identità di contenuti tra l’atto funzionale e l’atto divulgativo, di atti parlamentari posteriori alle dichiarazioni considerate diffamatorie;

(b) il problema se le dichiarazioni rese da un senatore o deputato fuori dell’ambito parlamentare, e ritenute da un cittadino lesive della propria reputazione, possano considerarsi coperte dalla garanzia prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, qualora divulghino e riproducano atti posti, nell’esercizio di funzioni parlamentari, da membri del Parlamento diversi dal loro autore.

Entrambe le questioni sono state risolte dalla Corte in senso negativo.

In riferimento alla prima questione la Corte ha osservato che già «nella sentenza n. 289 del 1998, [era stata] ritenut[a] irrilevante un’interrogazione parlamentare intervenuta “in epoca successiva [..] al ricevimento dell’avviso di garanzia all’origine delle dichiarazioni diffamatorie contestate al deputato”», visto che altrimenti «qualsiasi affermazione, anche ritenuta gravemente diffamatoria e [..] estranea alla funzione od all’attività parlamentare, potrebbe diventare insindacabile a seguito della semplice presentazione in data successiva al fatto di un’interrogazione ad hoc». D’altro canto, «nella stessa prospettiva si è collocata la giurisprudenza posteriore che ha precisato la nozione di nesso funzionale, esigendo, per l’insindacabilità delle opinioni manifestate all’esterno degli organi parlamentari, che esse riproducano il contenuto di dichiarazioni “già rese” nell’esercizio di funzioni parlamentari (sentenza n. 11 del 2000), ovvero siano “sostanzialmente riproduttive di un’opinione espressa in sede parlamentare” (sentenza n. 10 del 2000). Analogamente la sentenza n. 521 del 2002, nel ribadire la necessità del nesso funzionale, ha precisato che esso deve intercorrere tra l’attività divulgativa all’esterno e le opinioni “già espresse, o contestualmente espresse”, nell’esercizio di funzioni parlamentari, così enunciando l’irrilevanza di opinioni manifestate successivamente». Del resto, conclude la Corte, «la stessa formulazione del primo comma dell’art. 68 della Costituzione – sancendo la non perseguibilità dei membri del Parlamento per le opinioni “espresse” e i voti “dati” nell’esercizio delle loro funzioni – rende inconfigurabile un’iniziale perseguibilità del parlamentare, cui possa eventualmente sovrapporsi un successivo atto parlamentare che la escluda» (sentenza n. 347).

Quanto al secondo quesito sopra considerato, quello relativo alla rilevanza degli atti parlamentari posti in essere da membri del Parlamento diversi dall’autore della dichiarazione divulgativa potenzialmente diffamatoria, la Corte ha affermato che l’art. 68 della Costituzione, «proclamando che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” – esplicitamente collega l’immunità del singolo parlamentare alle opinioni da lui espresse ed ai voti da lui dati esplicando le sue funzioni, e così evoca la natura personale della responsabilità cui altrimenti egli sarebbe esposto, secondo una correlazione soggettiva che è indefettibile per la responsabilità penale e costituisce la regola generale per quella civile e amministrativa. Coerentemente, anche l’estensione dell’immunità (operata dalla giurisprudenza della Corte) alle dichiarazioni rese all’esterno della sede parlamentare, riproduttive e divulgative di atti costituenti esercizio di funzioni parlamentari, non può che riferirsi agli atti che il medesimo parlamentare riproduce e divulga, con la conseguente irrilevanza di quelli posti non da lui, ma da altri membri del Parlamento» (sentenza n. 347).

La Corte ha tuttavia concluso, come già affermato nella propria giurisprudenza, che anche se tali atti, in quanto successivi o posti in essere da altri parlamentari, sono «irrilevanti nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto inidonei a rendere operante la garanzia di insindacabilità e quindi a impedire che il membro del Parlamento sia chiamato a rispondere dinanzi all’autorità giudiziaria delle dichiarazioni fatte fuori della sede parlamentare», essi tuttavia ben possono «rilevare in tale diverso giudizio, nel quale il giudice deve, tra l’altro, accertare se le dichiarazioni del parlamentare siano state eventualmente ispirate da intento politico e non diffamatorio» (sentenza n. 347).

La sentenza n. 348 ribadisce poi che «il luogo dove le dichiarazioni sono state rese (all’interno della sede del Senato) [non] può, di per sé solo, conferire carattere di funzione parlamentare ad un’intervista privata concessa da un parlamentare ad un giornalista (sentenza n. 509 del 2002), giacché anche tale circostanza può attenere semmai ad un “contesto politico”, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non può, di per se stesso, fare presumere l’esistenza di un nesso funzionale idoneo a rendere insindacabili le opinioni ivi espresse».

1.2. L’inviolabilità del domicilio

Ai sensi dell’art. 68, secondo comma, della Costituzione, «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza».

La norma, afferma la Corte, «intende garantire al parlamentare l’inviolabilità della sua residenza ed anche di spazi ulteriori identificabili come domicilio, in vista della tutela dell’interesse del Parlamento al pieno dispiegamento della propria autonomia, esplicantesi anche nel libero esercizio del mandato parlamentare, rispetto agli altri poteri dello Stato».

Tale particolare forma di garanzia del libero svolgimento delle funzioni parlamentari è stata oggetto del sentenza n. 58, che ha dichiarato la non spettanza all’autorità giudiziaria del potere di far eseguire, senza autorizzazione della Camera di appartenenza, una la perquisizione del locale – situato all’interno della sede di un partito politico – posto nella diretta disponibilità di un parlamentare. Vicenda dalla quale, tra l’altro, aveva tratto origine un procedimento penale per resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 del codice penale) nei confronti del parlamentare medesimo che si era opposto a tale perquisizione.

In tale occasione la Corte, la cui decisione appare naturalmente condizionata dalle circostanze del caso concreto, è partita dalla premessa che «una sede di partito ben può – come nella specie – ospitare il domicilio di un parlamentare».

Passando al merito della questione, ad avviso della Corte l’autorità giudiziaria, che agiva tramite gli agenti di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 247, comma 3, del codice di procedura penale, una volta ravvisato che all’interno della suddetta sede vi era un locale nella diretta disponibilità del parlamentare, onde poteva costituirne domicilio, avrebbe dovuto sospendere l’esecuzione della perquisizione e chiedere alla Camera la necessaria autorizzazione.

In alternativa – ove avesse nutrito dubbi sull’attendibilità del contenuto dei cartelli che a tale disponibilità facevano riferimento – avrebbe potuto disporre gli accertamenti del caso, per eventualmente procedere contro chi quei cartelli aveva collocato. L’unica scelta sicuramente preclusa all’autorità giudiziaria, afferma la Corte, «era di confermare verbalmente alla polizia l’ordine di eseguire la perquisizione nonostante la segnalazione, ritenendola falsa senza alcuna verifica sul punto e senza neppure trarre conseguenze da tale falsità. Così comportandosi essa ha leso le attribuzioni garantite alla Camera dei deputati dal secondo comma dell’art. 68 della Costituzione».

1.3. Esercizio della giurisdizione e svolgimento dei lavori parlamentari

Con la sentenza n. 284, la Corte si è trovata a dover decidere su di un conflitto sollevato dalla Camera di appartenenza di un parlamentare cui, nel corso di un procedimento penale che lo vedeva come imputato, l’autorità giudiziaria aveva negato validità all’impedimento – consistente nella affermata necessità di partecipare ai lavori parlamentari – addotto dal parlamentare medesimo a giustificazione dell’assenza dal processo.

In tale occasione la Corte, rifacendosi a quanto da essa affermato in due precedenti pronunce, ha ribadito i principi di ordine costituzionale che caratterizzano la materia in questione: «la posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale “non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite” dall’art. 68, primo e secondo comma, della Costituzione. Al di fuori delle ipotesi ivi disciplinate “trovano applicazione, nei confronti dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali”. È compito delle competenti autorità giurisdizionali, e non della Corte costituzionale, interpretare e applicare le regole processuali, anche stabilendo “se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti […] dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell’art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore”. Non vi è luogo, in questo campo, ad individuare “regole speciali, derogatorie del diritto comune”, e nemmeno dunque la regola per cui costituirebbe in ogni caso impedimento assoluto quello (e solo quello) derivante dalla necessità per l’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una distinzione “fra diversi aspetti dell’attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali”, non potendosi inoltre “escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori”. Tuttavia l’autorità giudiziaria, “allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze”, deve tener conto “non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni”, e così “ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza” (in questi termini la sentenza n. 225 del 2001, testualmente richiamata dalla sentenza n. 263 del 2003). Pertanto “il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda” (sentenza n. 263 del 2003)».

2. La funzione legislativa

2.1. Le leggi di interpretazione autentica

La sentenza n. 168 ha ricapitolato i contorni della giurisprudenza costituzionale a proposito delle c.d. leggi di interpretazione autentica. Stabilito che «il legislatore può porre norme che retroattivamente precisino il significato di altre norme preesistenti, ovvero impongano una delle possibili varianti di senso del testo originario, purché compatibile con il tenore letterale di esso», si è precisato che «in tali casi il problema da affrontare riguarda non tanto la natura della legge, quanto piuttosto i limiti che la sua portata retroattiva incontra alla luce del principio di ragionevolezza e del rispetto di altri valori ed interessi costituzionalmente protetti». Riguardo a questi ultimi, «l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica – essenziale elemento dello Stato di diritto – non può essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori» (nel caso di specie, peraltro, l’invocato affidamento trovava il suo fondamento non sulla legge, bensì su una normativa secondaria).

La sentenza n. 376 ha, per parte sua, ripreso precedenti affermazioni secondo cui «ben può il legislatore […] conferire […] efficacia retroattiva ad una legge anche se essa non si autoqualifichi, né sia, di interpretazione autentica»: coerentemente con questa premessa, la giurisprudenza della Corte è da tempo univoca nel ritenere che «quello della ragionevolezza e del non contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti costituisce il limite della potestà del legislatore di conferire efficacia retroattiva alla legge»; in effetti, «il divieto di retroattività della legge – pur costituendo valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore deve in linea di principio attenersi – non è stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, salva per la materia penale la previsione dell’art. 25 Cost.».

Da tali affermazioni, si è dedotto che «l’asserita “distorsione della funzione della legge di interpretazione autentica […] per mascherare norme effettivamente innovative dotate di efficacia retroattiva” […] non determina, di per sé, l’illegittimità costituzionale della legge […], ma può, al più, costituirne un indice, dal momento che occorre pur sempre verificare se siano stati valicati i limiti sopra indicati al potere del legislatore di conferire efficacia retroattiva alla legge»; così come, per converso, anche ove la legge sia qualificabile come di interpretazione autentica, occorre verificare se, esercitando il potere di chiarire la portata della precedente norma, il legislatore abbia rispettato «i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, quello della tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario».

Queste considerazioni, estrapolate per la gran parte da decisioni degli anni precedenti, sono state ritenute – ancora, in conformità a precedenti statuizioni – estensibili alle leggi regionali aventi efficacia retroattiva, anche se non qualificabili come di interpretazione autentica, all’uopo essendosi ripetuto che «l’art. 11 disp. prel. cod. civ. non può assumere per il legislatore regionale altro e diverso significato da quello che esso assume per quello statale, con la possibilità per l’uno e per l’altro di emanare fuori della materia penale norme legislative alle quali possa essere attribuita efficacia retroattiva».

2.2. Le (altre) leggi retroattive

In ordine ai limiti entro i quali la legge può avere effetti retroattivi, la sentenza n. 285 ha evidenziato come non fosse correttamente richiamato dal rimettente il tema della retroattività delle norme tributarie e il limite di questa rappresentato dalla necessaria coerenza con la capacità contributiva attuale e non pregressa, in una ipotesi in cui la norma censurata, nel prevedere una limitazione della facoltà per i contribuenti di portare in detrazione gli interessi sui mutui di miglioramento agrario, aveva di fatto preso in considerazione una capacità contributiva attuale e non passata, pur essendo entrata in vigore quando erano decorsi i primi cinque mesi dell’anno di riferimento fiscale (infatti, «l’evenienza della retroattività si sarebbe potuta verificare [solo] se la limitazione della detraibilità degli interessi passivi avesse avuto riguardo a rapporti non più espressivi di una capacità contributiva attuale»).

2.3. Le leggi provvedimento

Pur senza occuparsi direttamente dello statuto proprio degli atti legislativi aventi un contenuto provvedimentale, la Corte ha avuto modo di incidentalmente confermare la validità di statuizioni rese negli anni passati, rilevando come, allorché il legislatore abbia dato ad una disciplina o a parte di essa un carattere «quasi “provvedimentale”» (nella specie, di proroga di un precedente regime), esso non possa, «senza incorrere in un vizio di manifesta irragionevolezza», ignorare i connotati concreti della situazione nella quale è intervenuto (sentenza n. 35).

2.4. La riserva di legge

Tra le statuizioni che hanno riguardato la nozione di «riserva di legge», può segnalarsi la sentenza n. 316, che, fondandosi sulla natura di fonti primarie propria dei decreti di attuazione degli statuti speciali, ha negato che potesse configurarsi, in ordine alle disposizioni dagli stessi recate, una violazione della riserva di legge prevista dall’art. 108 della Costituzione.

Due decisioni hanno riguardato specificamente la violazione del principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione: l’una si è rifatta alla costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente ed in misura congrua criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (l’ordinanza n. 297 ha conseguentemente riconosciuto che, nella disciplina del c.d. «redditometro», la riserva era stata rispettata, in quanto la legge impugnata stabiliva che il regolamento doveva prendere in considerazione elementi e circostanze di fatto certi e fissava delle linee direttive cui si doveva attenere, perché fosse valido, l’accertamento compiuto tramite regolamento, facendo comunque salva la possibilità di prova contraria da parte del contribuente); l’altra decisione ha evidenziato come, stante la riserva di legge che copre tutto l’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte, e che comporta la necessità di disciplinare a livello legislativo quanto meno gli aspetti fondamentali dell’imposizione, e data l’assenza di poteri legislativi in capo agli enti sub-regionali, dovesse ben essere definito, tra l’altro, l’ambito entro cui si sarebbe potuta esplicare la potestà regolamentare degli enti medesimi in ordine ai tributi locali (sentenza n. 37).

2.5. La delegazione legislativa

Per quanto attiene all’esercizio della funzione legislativa delegata, l’ordinanza n. 355, riprendendo affermazioni consolidate nella giurisprudenza precedente, ha stabilito che essa «si esaurisce con l’emanazione del decreto presidenziale entro il termine fissato dalla legge di delega», con il che la pubblicazione del decreto, «pur indispensabile per l’entrata in vigore dell’atto legislativo, costituisce un fatto esterno e successivo all’esercizio della funzione stessa e pertanto non necessariamente deve avvenire nel termine suddetto».

Con specifico riguardo alla normativa costituzionale invocabile allorché si faccia questione di un rapporto di delegazione, è stato ribadito che gli articoli 76 e 77 della Costituzione sono parametri che «reggono soltanto i rapporti fra legge delegante e decreto legislativo delegato, […] ed è pertanto fuor d’opera assumerli quale stregua del giudizio di costituzionalità […] qualora sia questione di una norma contenuta in un atto estraneo a quei rapporti» (ordinanza n. 159). Di questo principio è stata fatta applicazione allorché è stata dichiarata la manifesta inammissibilità di una questione, sollevata in riferimento all’art. 76, con la quale il rimettente poneva «un problema di mancato esercizio della delega in relazione non al decreto delegato emanato in attuazione della delega stessa, bensì ad una norma anteriore […] ed estranea al rapporto di delegazione legislativa» (ordinanza n. 294); il parametro costituito dall’art. 76 della Costituzione è stato ritenuto parimenti inconferente in relazione all’impugnazione di una norma che non era stata emanata nell’esercizio della funzione legislativa delegata (ordinanza n. 355). Il richiamo all’art. 76 (oltre che all’art. 70) è stato ritenuto precluso anche nei casi in cui «oggetto di censura non [fosse] la violazione di uno specifico criterio direttivo, ma il merito della scelta operata dal legislatore» (ordinanza n. 297).

Nel quadro del sindacato inerente alla delegazione legislazione, è stato anche sottolineato che, «ai fini della valutazione del vizio di eccesso di delega, le norme della legge di delegazione che determinano i principi e i criteri direttivi devono essere interpretate tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità ispiratrici della delega» (ordinanza n. 248); resta peraltro inteso che, «anche ove dubiti del rispetto dei limiti della delega, il giudice deve privilegiare […] l’interpretazione idonea a superare i dubbi di costituzionalità» (ordinanza n. 214).

Alla luce di tali principi, la Corte è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 34, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 80 del 1998 per la parte in cui esso manifestava un eccesso dai limiti della delega: la Corte ha quindi ricondotto le disposizioni censurate ad una formulazione testuale tale da renderle conformi agli intenti del legislatore delegante, opportunamente ricostruiti anche attraverso i lavori preparatori (sentenza n. 281).

Sul tema in esame, tuttavia, la decisione di maggior interesse nel corso dell’anno è, con ogni probabilità, costituita dalla sentenza n. 280, avente ad oggetto il conferimento di una delega al Governo, ai termini dell’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. «legge La Loggia»), per l’adozione di decreti «meramente ricognitivi» dei principi fondamentali relativi alle materie di cui all’art. 117 della Costituzione.

La Corte ha sottolineato che se l’art. 1, comma 4, della legge n. 131 del 2003, da un lato, conferisce delega per l’adozione di decreti legislativi «meramente ricognitivi» dei principi fondamentali vigenti nelle materie dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dall’altro lato, e contestualmente, esso stabilisce però che spetta comunque al Parlamento definire i «nuovi» principi.

Sulla scorta di questo rilievo, la delega legislativa non può non essere letta in funzione della mera predisposizione di «un quadro ricognitivo di principi già esistenti, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative regionali, determinato dal mutamento del Titolo V della Costituzione, andrà a regime, e cioè [appunto] fino al momento della “entrata in vigore delle apposite leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali”».

Alla luce di ciò, la Corte ha dedotto che, per quanto i decreti siano caratterizzati da una indiscutibile «forza di legge», il Governo è stato «abilitato a procedere, con attività adeguata e proporzionata allo scopo, esclusivamente all’individuazione, nell’ambito della legislazione vigente, di norme-principio chiare ed omogenee, tenendo peraltro conto che non tutte le disposizioni che in tal senso si autoqualificano, né “il loro compiuto tenore letterale”, costituiscono in ogni caso “principi della legislazione dello Stato”, ma soltanto “i nuclei essenziali del contenuto normativo” che tali disposizioni esprimono» (le citazioni contenute nella sentenza n. 280 sono tratte dal precedente costituito dalla sentenza n. 482 del 1995).

Le stesse norme procedurali previste dalla delega sono state poste a suffragio di questa ricostruzione, nella misura in cui «dispongono un’articolata serie di pareri obbligatori della Conferenza Stato-Regioni, delle commissioni parlamentari competenti e infine quello definitivo della Commissione parlamentare per le questioni regionali sugli schemi dei decreti legislativi, al fine esclusivo di rilevare se “non siano stati indicati alcuni dei principi fondamentali ovvero se vi siano disposizioni che abbiano un contenuto innovativo dei principi fondamentali […] ovvero si riferiscano a norme vigenti che non abbiano la natura di principio fondamentale”».

La lettura «minimale» che della delegazione legislativa è stata data (assimilabile, «date le reciproche implicazioni tra attività ricognitiva e attività di coordinamento normativo, a quella di compilazione dei testi unici […] per il coordinamento e la semplificazione di una pluralità di disposizioni vigenti in una determinata materia») ha fatto sì che risultassero costituzionalmente illegittimi i commi 5 e 6 dello stesso art. 1, che indirizzavano, in violazione dell’art. 76 della Costituzione, l’attività delegata del Governo in termini di «determinazione-innovazione» dei principi, sulla base di forme di ridefinizione delle materie e delle funzioni, senza che tale attività fosse astretta dall’indicazione di criteri direttivi: il comma 5 disponeva, infatti, che nei decreti legislativi di cui al comma 4 potevano essere «individuate le disposizioni che riguarda[va]no le stesse materie, ma che rientra[va]no nella competenza esclusiva dello Stato», estendendo in tal modo l’oggetto della delega anche all’asserita ricognizione, nell’ambito delle materie riservate al legislatore statale, della disciplina di quelle funzioni che avevano natura trasversale; il comma 6, dal canto suo, indicava i criteri direttivi della delega facendo espresso riferimento ai «settori organici della materia», nonché ai criteri oggettivi desumibili dal complesso delle funzioni e da quelle «affini, presupposte, strumentali e complementari», allo scopo di individuare i principi fondamentali vigenti, venendo così ad alterare il carattere ricognitivo dell’attività delegata al Governo in favore di forme di attività di tipo selettivo.

Infine, giova segnalare come, sempre nella sentenza n. 280, sia stato ribadito, per quanto incidentalmente, che, «in determinate circostanze, l’enunciazione di principi fondamentali relativi a singole materie di competenza concorrente può anche costituire oggetto di un atto legislativo delegato senza ledere attribuzioni regionali».

2.6. La decretazione d’urgenza

Per quanto attiene alle condizioni previste dall’art. 77, secondo comma, della Costituzione ai fini del valido esercizio della funzione legislativa attraverso l’emanazione di decreti legge, nella giurisprudenza costituzionale del 2004 è stato ripetutamente affermato – in consonanza anche con prese di posizione precedenti – che il sindacato sulla esistenza e sull’adeguatezza dei presupposti per la decretazione di urgenza può essere esercitato solo in presenza di una situazione di «evidente mancanza» dei requisiti stessi.

In applicazione di questo principio, più volte ribadito nella giurisprudenza del 2004, la Corte ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti in parola allorché a fondamento dell’intervento normativo del Governo si poneva una situazione nella quale, in assenza di un effettivo e rapido rafforzamento delle strutture di produzione e di distribuzione dell’energia elettrica, si potevano produrre serie situazioni di difficoltà o addirittura interruzioni più o meno estese della fornitura di energia, con conseguenti gravi danni sociali ed economici (sentenza n. 6).

Analogamente, i presupposti non sono stati ritenuti carenti per il caso in cui la decretazione d’urgenza dettava una disciplina transitoria resasi necessaria ai fini della predisposizione di una disciplina attuativa – assente nel diritto positivo – di un diritto quale quello alla difesa di ufficio in favore di genitori e minori (sentenza n. 178).

Nella sentenza n. 196, la Corte ha poi rilevato che, benché non potesse negarsi che la delicata materia del condono edilizio avrebbe potuto meritare «una più meditata elaborazione tramite l’ordinario procedimento di formazione delle leggi», tuttavia potevano «essere addotti per questo particolare istituto anche alcuni specifici motivi per un’immediata adozione ed entrata in vigore del testo normativo, destinato ad avere […] efficacia sulle procedure giurisdizionali ed amministrative in corso, ma soprattutto per evitare o ridurre spinte alla modifica del disegno di legge sotto la pressione di interessi favorevoli a nuove opere abusive» (senza contare che nel caso specifico sembrava aver pure pesato – «seppur opinabilmente» – la necessità di inserire questo provvedimento in un assai più ampio decreto legge intitolato «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici»).

Infine, l’affermazione secondo cui il porsi di un decreto legge «a conclusione di una serie di decreti legge non convertiti» avrebbe reso «manifesta l’insussistenza […] della straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni concernenti la semplificazione di talune disposizioni in materia tributaria» è stata ritenuta inidonea a dimostrare la «evidente» la mancanza dei presupposti per il ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del Governo (sentenza n. 285).

Sugli ambiti normativi che sono suscettivi di regolamentazione mediante decreto legge, le sentenze numeri 6 e 196 hanno chiarito che tale atto «può di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi che la Costituzione affida alla competenza statale, ivi compresa anche la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui al terzo comma dell’art. 117» della Costituzione.

Altro aspetto su cui la sentenza n. 196 è intervenuta è quello inerente al requisito di omogeneità dell’oggetto del decreto legge: sul punto, è stato chiarito che tale carattere, «seppur opportunamente previsto dal comma 3 dell’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400», non integra un requisito costituzionalmente imposto.

3. Il Presidente della Repubblica

Con la sentenza n. 154 la Corte si è pronunciata sul ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto da un senatore a vita, in qualità di ex Presidente della Repubblica, contro la Corte suprema di cassazione in relazione a due sentenze da questa pronunciate nel corso di due giudizi civili instaurati per ottenere il risarcimento del danno morale che sarebbe derivato agli attori da alcune dichiarazioni asseritamente diffamatorie o ingiuriose rese dal medesimo senatore, allorquando ricopriva la carica di Presidente della Repubblica.

Tale pronuncia, i cui risvolti sul piano dei profili processuali della vicenda sono stati già esaminati, ha consentito per la prima volta di affrontare il tema dei limiti entro i quali le dichiarazioni per cui era giudizio dovevano ritenersi coperte dalla immunità sancita dall’art. 90 della Costituzione per gli atti del Presidente della Repubblica compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.

Nel merito, la Corte – respingendo sotto tale profilo le tesi esposte in via principale dal ricorrente – ha affermato innanzitutto la spettanza all’autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, del potere di accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni, o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale, e solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dalla immunità del Presidente della Repubblica, di cui all’art. 90 della Costituzione.

«Infatti la giurisdizione costituzionale sui conflitti» -– ha osservato la Corte – «non è istituto che sostituisca l’esercizio della funzione giurisdizionale là dove siano in gioco diritti dei soggetti di cui si chieda l’accertamento e il ristoro (e l’azione di responsabilità integra tipicamente tale fattispecie), ma vale solo a restaurare la corretta osservanza delle norme costituzionali nei casi in cui, in concreto, a causa di un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, questa abbia dato luogo ad una illegittima menomazione delle attribuzioni costituzionali di un altro potere».

Ciò premesso, la Corte ha sottolineato che, «quale che sia la definizione più o meno ampia che si accolga delle funzioni del Presidente, quale che sia il rapporto che si debba ritenere esistente fra l’irresponsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione e la responsabilità ministeriale di cui all’art. 89, e, ancora, quale che sia la ricostruzione che si adotti in relazione ai limiti della cosiddetta facoltà di esternazione non formale del Capo dello Stato, una cosa è fuori discussione: l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”».

Di conseguenza, appare «necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni, restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica, che conserva la sua soggettività e la sua sfera di rapporti giuridici, senza confondersi con l’organo che pro tempore impersona», per cui «la possibilità che nell’ambito dell’esercizio delle funzioni possano rientrare, in determinate ipotesi, attività o dichiarazioni intese a difendere l’istituzione presidenziale non può mai tradursi automaticamente in una estensione della immunità a dichiarazioni extrafunzionali per la sola circostanza che esse siano volte a difendere la persona fisica del titolare della carica e, come tali, possano indirettamente influire sul suo prestigio o sulla sua “legittimazione” politica».

In conclusione, viene ribadita anche per l’insindacabilità, o irresponsabilità delle dichiarazioni rese dal Presidente della Repubblica ex art. 90 della Costituzione, la validità della teoria del “nesso funzionale”, già elaborata a proposito delle dichiarazioni rese da parlamentari ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

4. La pubblica amministrazione ed il pubblico impiego

Ai sensi dell’art. 97, primo comma, della Costituzione, «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», mentre ai sensi del terzo comma «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

A tali parametri costituzionali hanno fatto diretto riferimento le due pronunce di illegittimità costituzionale che qui si segnalano.

In primo luogo, la sentenza n. 186 ha dichiarato – in quanto giudicato irragionevole e lesiva del principio del buon andamento – l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 97 del 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevedeva, per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge, l’instaurazione dei procedimenti disciplinari entro centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna, anziché entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.

A tale conclusione la Corte è pervenuta richiamandosi innanzitutto alle modifiche più rilevanti introdotte con la legge n. 97 del 2001, vale a dire: (a) la previsione dell’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare non solo della sentenza penale irrevocabile di assoluzione ma anche di quella irrevocabile di condanna in relazione all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso; e (b) il riconoscimento dell’efficacia, nei procedimenti disciplinari, della sentenza di applicazione della pena su richiesta quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Per cui, ha osservato la Corte, se la ratio sottesa a tali modifiche «è quella di assicurare un maggiore rigore nello svolgimento dell’attività amministrativa», appare irragionevole nonché in contrasto con il principio di buon andamento far decorrere il termine per l’instaurazione del procedimento disciplinare dalla conclusione del giudizio penale con sentenza irrevocabile (come previsto dalla disciplina transitoria recata dalla norma impugnata), anziché dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione (come previsto dalla normativa a regime ex art. 5, comma 4, della citata legge), in quanto tale disciplina transitoria non prevede che l’amministrazione sia posta a conoscenza del termine iniziale (sentenza penale irrevocabile di condanna) per l’instaurazione del procedimento disciplinare, imponendole viceversa lo svolgimento di un’attività per la conoscenza di questo dato ed esponendola, in tal modo, al rischio dell’infruttuoso decorso del termine decadenziale.

In conclusione, «nel ponderare l’interesse del dipendente pubblico ad ottenere una sollecita definizione della propria situazione disciplinare e l’esigenza dell’amministrazione di instaurare tale procedimento, il legislatore ha adottato una soluzione sbilanciata a vantaggio del dipendente pubblico, nel senso che gioca a favore di quest’ultimo lo scorrere del tempo necessario per venire in possesso di una notizia (sentenza penale di condanna) che invece dovrebbe essere comunicata ab initio all’amministrazione»

In un secondo caso la Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Valle d’Aosta n. 23 del 2002, ha ricordato come la propria giurisprudenza abbia «costantemente riconosciuto nel concorso pubblico la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione» e che «la regola del pubblico concorso può dirsi rispettata solo quando le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dell’ambito dei soggetti legittimati a parteciparvi». Essa ha quindi sottolineato «che il principio del concorso pubblico, pur non essendo incompatibile – nella logica di agevolare il buon andamento dell’amministrazione – con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, tuttavia non tollera – salvo circostanze del tutto eccezionali – la riserva integrale dei posti disponibili in favore di personale interno» (sentenza n. 205).

5. La giurisdizione

5.1. I rapporti tra giurisdizioni

Partendo dalla ricorrente premessa che «non si può affermare, in linea di principio, che dinanzi al giudice amministrativo sia offerta una tutela meno vantaggiosa o appagante di quella che si avrebbe davanti al giudice ordinario», l’ordinanza n. 301 ha confermato la ragionevolezza di una scelta legislativa, condizionata anche dalla specialità del rapporto, che riserva al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative agli addebiti disciplinari degli autoferrotranvieri.

 

Tuttavia proprio il confronto fra le due giurisdizioni, quella ordinaria e amministrativa, ha dato origine a quella che è probabilmente la pronuncia più importante, in materia, resa dalla Corte negli ultimi anni: la sentenza n. 204, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 33, comma 1, e 34, comma 1, del decreto legislativo n. 80 del 1998, come sostituiti dalla legge n. 205 del 2000.

Con essa la Corte si è occupata del problema, assai dibattuto, dei limiti entro i quali al legislatore è consentito estendere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla luce dell’attuale dettato della Carta costituzionale. Il problema pertanto prescinde da quella che è stata la soluzione del caso concreto data dalla Corte con la richiamata sentenza.

Con essa la Corte, dopo avere ripercorso le tappe che hanno condotto alla formulazione dell’art. 103 della Costituzione, ai sensi del quale «il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi», ha affermato come sia evidente «che il vigente art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle materie».

In particolare, poi, ha sottolineato che il «necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art. 103 là dove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo».

Alla luce di tale esegesi del dettato normativo dell’art. 103, primo comma, della Costituzione, la Corte ha pertanto concluso nel senso che il «legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo» (sentenza n. 204).

 

Con una decisione senza dubbio meno significativa, in quanto limitata ad esaminare la censura di difetto di delega della norma impugnata nel testo anteriore alla sua sostituzione ad opera della legge n. 205 del 2000, la Corte, richiamandosi ad un proprio precedente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, commi 1 e 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, nella parte in cui, eccedendo i limiti della delega posti dall’art. 11, comma 4, lettera g) della legge n. 59 del 1997, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutta la materia dei pubblici servizi e non si è limitato ad estendere la giurisdizione amministrativa – nei limiti in cui essa, in base alla disciplina vigente, già conosceva di quella materia, sia a titolo di legittimità che in via esclusiva – alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno (sentenza n. 281).

 

In tema di rapporti tra giurisdizioni, merita, infine, segnalare l’ordinanza n. 214, con cui la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 69, comma 7, e 72, comma 1, lettera bb), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui, modificando l’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, attribuisce al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie riguardanti i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, che non siano state proposte davanti al giudice amministrativo nel termine del 15 settembre 2000. La Corte ha a tal riguardo rilevato che il presupposto interpretativo da cui muoveva il giudice a quo (cioè quello secondo cui la disciplina introdotta dalle norme censurate avrebbe trasformato quello del 15 settembre 2000 da termine previsto a pena di decadenza per l’esercizio del diritto di azione in termine che si limita a segnare il confine, relativamente a diritti scaturenti da fatti costitutivi anteriori al 30 giugno 1998, tra giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e giurisdizione ordinaria), oltre ad essere contraddetto da pronunzie giurisprudenziali univoche nel ritenere che quello del 15 settembre 2000 fosse ab origine, e sia rimasto in seguito, un termine di decadenza con effetti sostanziali, è comunque erroneo, in quanto la diversa formulazione della norma impugnata rispetto a quella da essa modificata si spiega con la circostanza che quest’ultima prevedeva una «futura» decadenza, mentre la prima ne disciplina una già maturata al 15 settembre 2000.

5.2. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana

Con la sentenza n. 316 la Corte ha dichiarato l’infondatezza di talune questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto diverse norme statutarie e di attuazione della Regione Siciliana, miranti segnatamente a censurare la particolare composizione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, composto in parte da membri togati e in parte da membri laici.

Con essa la Corte ha affermato che la peculiare struttura e composizione del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, delineate dal decreto n. 373 del 2003, costituiscono espressione del principio di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali, sancito dall’art. 23 dello statuto speciale della Regione Siciliana, senza che, in assenza di soluzioni organizzative prestabilite, il modello organizzativo siciliano basato sulla presenza, nell’organo di giustizia amministrativa, di membri «non togati» designati in sede locale appaia per ciò solo praeter o contra statutum, trattandosi evidentemente di un modello del tutto particolare fondato sulla «specialità» di alcuni statuti regionali, i quali possono anche, nel campo dell’organizzazione giudiziaria, contenere norme a loro volta espressive di autonomia.

Inoltre, la Corte ha affermato che le norme impugnate, «nel dettare la speciale disciplina del Consiglio di giustizia amministrativa, non hanno neppure violato, avendo rango primario in quanto norme di attuazione di statuti speciali […], la riserva di legge prevista in materia dall’art. 108 della Costituzione».

Capitolo III

Le autonomie territoriali

1. Premessa

L’aspetto forse più caratterizzante, nel complesso, della giurisprudenza costituzionale del 2004 è dato dal gran numero di interventi che la Corte ha posto in essere sul nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Nel corso dell’anno, infatti, la Corte ha statuito ripetutamente su alcuni dei profili più problematici: in questo capitolo si è tentato di operare una sintesi di questa assai corposa serie di decisioni, con l’obiettivo di tratteggiarne anche una sistematizzazione.

Scorrendo i titoli dei paragrafi, si intuiscono alcuni dei problemi su cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi; fa, probabilmente, eccezione la «giurisprudenza sulla legge La Loggia», la quale, per esigenze sistematiche, anziché essere trattata unitariamente nell’ambito di un ipotetico paragrafo dedicato alla attuazione in via legislativa della riforma costituzionale del 2001, è stata scissa in base all’oggetto proprio delle singole decisioni.

2. Un regionalismo cooperativo

È unanime la constatazione dell’importanza assunta dalla giurisprudenza costituzionale al fine di conformare al modello cooperativo il regionalismo italiano. L’aderenza a questo modello, che ha ottenuto significativi riscontri anche con la revisione del Titolo V operata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha improntato molte pronunzie rese dalla Corte costituzionale negli ultimi anni.

Nel corso del 2004 non mancano, ovviamente, esempi anche molto pregnanti: il caso della sentenza n. 6, nella quale si è posta una particolare enfasi sulla necessità di «intese forti», è probabilmente paradigmatico. Su tale decisione, come su varie altre che affrontano, funditus o anche incidenter tantum, il tema della leale cooperazione, si rinvia a quanto verrà detto trattando dei rapporti tra enti territoriali relativamente al riparto delle competenze (v. infra, par. 4 e seguenti; con particolare riferimento alla sentenza n. 6, v. par. 4.5).

In questa sede, per le affermazioni di ordine generale che reca, merita una segnalazione la statuizione contenuta nella sentenza n. 27, con cui è stato risolto il conflitto di attribuzione tra la Regione Toscana e lo Stato derivante dalla nomina, da parte del Ministro dell’ambiente, del Commissario straordinario dell’Ente Parco dell’Arcipelago Toscano in mancanza della prescritta intesa con il Presidente della Regione.

Onde giungere alla declaratoria di non spettanza allo Stato del potere esercitato, si rileva che, nell’applicazione del principio di leale cooperazione in tema di intese, la Corte più volte affermato che occorre «comunque» uno sforzo delle parti per dar vita ad una trattativa; in quest’ottica, «lo strumento dell’intesa tra Stato e Regioni costituisce una delle possibili forme di attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione e si sostanzia in una paritaria codeterminazione del contenuto dell’atto».

Ora, l’intesa deve essere realizzata e ricercata anche attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo, «senza alcuna possibilità di un declassamento dell’attività di codeterminazione connessa all’intesa in una mera attività consultiva non vincolante». Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che non realizzasse la richiesta condizione di legittimità il rifiuto d’intesa sul nominativo proposto dal Ministro, seguito dalla mera richiesta d’incontro, fra le parti, non seguita da alcuna altra attività: da ciò derivava che il mancato rispetto della necessaria procedimentalizzazione per la nomina del Presidente rendeva illegittima la nomina del Commissario straordinario.

3. L’autonomia statutaria

3.1. Statuti speciali, decreti di attuazione e manifestazioni della specialità

Tra le pronunzie nelle quali la Corte ha affrontato il tema della specialità regionale, di particolare rilievo è la sentenza n. 316, che ha deciso varie questioni di legittimità costituzionale della normativa relativa al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana

All’uopo si è rilevato che la peculiare struttura organizzativa e la composizione di tale organo, delineata, da ultimo, con norma di attuazione dello Statuto (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373), costituiscono espressione del principio di specialità, contenuto nell’articolo 23 dello Statuto, che riafferma una aspirazione, saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali.

Nella stessa decisione, la Corte ha avuto modo di ribadire che le formulazioni ambigue o anche le omissioni riscontrabili all’interno dello statuto siciliano derivano essenzialmente dalla circostanza che esso «è stato approvato prima dell’entrata in vigore del testo costituzionale e con esso non è stato mai coordinato, nonostante la sua “conversione” in legge costituzionale operata dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2».

Con riferimento all’importanza dei decreti di attuazione degli statuti ai fini di proteggere le prerogative proprie delle Regioni speciali e delle Province autonome, deve sottolinearsi come la sentenza n. 236 abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, il quale prevedeva che «ai commissariati del Governo di Trento e di Bolzano si applicano le disposizioni del d.P.R. 17 maggio 2001, n. 287, compatibilmente con lo statuto speciale di autonomia e con le relative norme di attuazione», in quanto con tale disposizione lo Stato aveva disciplinato le funzioni del Commissario di Governo unilateralmente e rinviando ad una fonte secondaria, non dando corso, in tal modo, alla procedura collaborativa diretta all’approvazione delle norme di attuazione dello Statuto speciale.

La sentenza n. 236 contiene un’altra affermazione di rilievo concernente la specialità regionale. In un passaggio di questa, la Corte si è soffermata sull’incidenza della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione sulle funzioni amministrative delle Regioni speciali, fornendo una interpretazione dell’art. 11 della legge n. 131 del 2003 (di attuazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001) in virtù della quale «per tutte le competenze legislative aventi un fondamento nello statuto speciale, il principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative conserva la sua validità», mentre «per le ulteriori, più ampie competenze che le Regioni speciali e le Province autonome traggano dalla Costituzione, in virtù della clausola di maggior favore, troverà […] applicazione l’art. 11 della legge n. 131 del 2003 e quindi il trasferimento delle funzioni avrà luogo secondo le modalità previste dalle norme di attuazione e con l’indefettibile partecipazione della commissione paritetica».

3.2. La potestà statutaria delle Regioni a statuto ordinario

Nel corso del 2004, la Corte ha reso quattro sentenze nel corso di altrettanti giudizi, instaurati ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, aventi ad oggetto deliberazioni statutarie delle Regioni a statuto ordinario: la sentenza n. 2 ha riguardato la delibera del Consiglio regionale della Calabria, la sentenza n. 372 quella del Consiglio regionale della Toscana, la sentenza n. 378 quella del Consiglio regionale dell’Umbria e la sentenza n. 379 quella del Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna. Si tratta, come noto, delle prime deliberazioni statutarie organiche sottoposte allo scrutinio della Corte costituzionale (in precedenza, le sentenze numeri 304 e 306 del 2002 avevano avuto riguardo a due deliberazioni parziali del Consiglio regionale delle Marche).

Nelle decisioni, articolate in base alla pluralità di censure prospettate nei ricorsi statali, sono stati molteplici i profili analizzati. Onde dare un quadro compiuto di questa giurisprudenza, di seguito si riporta una sintesi delle rationes decidendi argomentate sui singoli punti.

3.2.1. La potestà statutaria ed i suoi limiti

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 2, la Corte, dopo aver sottolineato alcuni profili relativi alla fonte normativa statutaria, rileva che, a seguito della riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, la Regione dispone di un autonomo potere normativo per la configurazione di un ordinamento interno adeguato alle sue accresciute responsabilità istituzionali.

Dopo la eliminazione della approvazione dello statuto regionale da parte del Parlamento, i limiti a questa rilevante autonomia normativa possono derivare solo da norme chiaramente deducibili dalla Costituzione.

Peraltro, gli statuti regionali non solo debbono rispettare puntualmente «ogni disposizione della Costituzione», ma debbono altresì rispettarne lo spirito, in nome della «armonia con la Costituzione» (locuzione la cui portata è stata dalla Corte chiarita a far tempo dalla precitata sentenza n. 304 del 2002). Ne consegue la necessità di una lettura particolarmente attenta dei rapporti e dei confini tra le diverse aree normative affidate agli statuti o alle altre fonti legislative statali o regionali, senza presumere la soluzione del problema interpretativo sulla base della sola lettura di una singola disposizione costituzionale, tanto più ove essa utilizzi concetti che possono legittimamente giustificare interpretazioni tra loro non poco difformi a seconda del contesto in cui siano collocati.

3.2.2. Le enunciazioni di principio

Nelle sentenze numeri 372, 378 e 379 si dichiara la inammissibilità delle censure formulate nei confronti delle enunciazioni statutarie aventi ad oggetto proposizioni che rientrano tra i principi generali e le finalità principali (esemplificando: estensione del diritto di voto agli immigrati, riconoscimento delle altre forme di convivenza, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale), in quanto, pur incidendo su materie eccedenti la sfera di attribuzione regionale, esse risultano comunque prive di idoneità lesiva.

Argomenta la Corte che tali proclamazioni sono riconducibili al ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, ciò che rende rilevante che, al fianco dei contenuti necessari degli statuti regionali, sussistano altri possibili contenuti, sia che questi risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo. Tuttavia, «alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto».

D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti.

Avendo riguardo agli statuti regionali, però, non si è in presenza di carte costituzionali, ma solo di fonti regionali «a competenza riservata e specializzata», cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).

In definitiva, le enunciazioni statutarie in esame, esplicando una funzione di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa, non comportano né alcuna violazione né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente attribuite allo Stato e neppure possono costituire in alcun modo il fondamento dell’esercizio di poteri da parte delle Regioni.

3.2.3. La forma di governo

a) Chiamata a giudicare la forma di governo prescelta dalla Regione Calabria, la Corte (sentenza n. 2) ribadisce che il sistema configurato dall’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999, che disciplina una forma di «elezione diretta del Presidente della Giunta regionale» costituisce una scelta, indicata come una «normale» possibilità di assetto istituzionale, legittimamente sostituibile da altri modelli ritenuti politicamente più adeguati, fermo il limite, espresso dal legislatore costituzionale, di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente della Giunta.

Sulla base di tale premessa, la Corte esclude che la Regione Calabria abbia fatto una scelta istituzionale diversa (cioè quella di un governo sostanzialmente parlamentare con correttivi), poiché il previsto meccanismo di elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente della Giunta è del tutto analogo a quello disciplinato per il solo Presidente dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, salva la diversità che la preposizione alla carica consegue non alla mera proclamazione dei risultati elettorali, ma anche alla necessaria «nomina» da parte del Consiglio regionale. Tale diversità è da ritenersi di natura essenzialmente formale: in tal senso, è significativo che il Consiglio regionale proceda «sulla base dell’investitura popolare espressa dagli elettori, nella sua prima seduta», e che «la mancata nomina del Presidente e del Vice Presidente indicati dal corpo elettorale comport[i] lo scioglimento del Consiglio regionale».

Trattasi, in altri termini, di un procedimento di elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente che è soltanto mascherato da una sorta di obbligatoria «presa d’atto» da parte del Consiglio regionale.

A ciò si aggiunga che l’eliminazione del potere presidenziale di fare eventualmente venir meno, tramite le proprie dimissioni, la permanenza in carica dello stesso Consiglio regionale, riduce radicalmente i suoi poteri di indirizzo a beneficio, in primis, del Vice Presidente, che ne può disporre ove subentri nella presidenza.

In definitiva, il sistema configurato, che, al di là del dato formale, resta connotato dall’elezione diretta, viola l’art. 122, quinto comma, nella parte in cui prevede l’elezione diretta anche del Vice Presidente, e l’art. 126, terzo comma, della Costituzione, nella misura in cui riduce oltre il consentito i poteri del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto.

b) Immune da censure (sentenza n. 372), perché coerente con il sistema previsto dalla Costituzione circa i rapporti tra Consiglio regionale e Presidente di Giunta eletto a suffragio universale e diretto si rivela, invece, la previsione statutaria della Toscana, nella parte in cui stabilisce che «il programma di governo è approvato entro 10 giorni dalla sua illustrazione». In effetti, l’approvazione consiliare non appare affatto incoerente rispetto allo schema elettorale «normale» accolto dall’art. 122, quinto comma, della Costituzione, giacché la eventuale mancata approvazione consiliare può avere solo rilievo politico, ma non determina alcun effetto giuridicamente rilevante sulla permanenza in carica del Presidente della Giunta, ovvero sulla composizione di quest’ultima.

c) Parimenti, la previsione statutaria della Regione Emilia-Romagna, secondo cui il Consiglio regionale discute ed approva il programma di governo predisposto dal Presidente della Regione ed annualmente ne verifica l’attuazione, non introduce un rapporto diverso rispetto a quello che consegue all’elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell’esecutivo.

Precisa, a tal riguardo, la Corte (sentenza n. 379) che il sistema della elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione ha quale sicura conseguenza l’impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia da parte del Consiglio, nonché la ulteriore conseguenza delle dimissioni della Giunta e dello scioglimento del Consiglio nel caso di successiva approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente. Come è chiaro, la mancata disciplina, nella delibera statutaria, delle conseguenze di tipo giuridico derivanti dalla mancata approvazione da parte del Consiglio del programma di governo del Presidente dimostra che si è voluto semplicemente creare una precisa procedura per obbligare gli organi di vertice della Regione ad un confronto iniziale e, successivamente ricorrente, sui contenuti del programma di governo; starà, poi, alla valutazione del Presidente prescindere eventualmente dagli esiti di tale dialettica, così come starà al Consiglio far eventualmente ricorso al drastico strumento della mozione di sfiducia, con tutte le conseguenze giuridiche previste dall’art. 126, terzo comma, della Costituzione.

3.2.4. Il sistema elettorale

a) Alle norme statutarie è preclusa la determinazione del sistema elettorale regionale. Motiva la Corte (sentenza n. 2) che, anche se sul piano concettuale può sostenersi che la determinazione della forma di governo può comprendere la legislazione elettorale, occorre prendere atto che nella Costituzione vigente la potestà legislativa elettorale è stata attribuita ad organi diversi (e/o in base a procedure diverse) da quelli preposti alla adozione dello statuto regionale. La circostanza stessa che la legge statale sia chiamata a determinare i principi fondamentali nelle materie di cui al primo comma dell’art. 122 della Costituzione inevitabilmente riduce la stessa possibilità della fonte statutaria di indirizzare l’esercizio della potestà legislativa regionale in queste stesse materie.

b) Non compete allo Statuto, ed è pertanto costituzionalmente illegittima (sentenza n. 378), la previsione statutaria della Regione Umbria che stabilisce l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale: ciò in quanto il riconoscimento, nell’articolo 123 della Costituzione, del potere statutario in tema di forma di governo regionale deve essere associato alla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, che riserva espressamente alla legge regionale, «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica», la determinazione delle norme relative al «sistema di elezione» ed ai «casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali».

c) Con identica motivazione viene dichiarata (sentenza n. 379) la illegittimità costituzionale della disposizione, contenuta nella delibera statutaria dell’Emilia-Romagna, che prevede l’incompatibilità di assessore con quella di consigliere regionale.

3.2.5. I referendum

La disposizione statutaria della Regione Toscana, nella parte in cui, ai fini dell’abrogazione referendaria di una legge o di un regolamento regionale, richiede che partecipi alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali, non contrasta con alcuna disposizione della Costituzione né con il principio di ragionevolezza. Rileva a tal proposito la Corte (sentenza n. 372) che la materia referendaria rientra espressamente, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, tra i contenuti obbligatori dello statuto, di talché alle Regioni è consentito articolare variamente la propria disciplina relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando ad essi sotto diversi profili, nella misura in cui ogni Regione può liberamente prescegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli atti regionali.

Né, d’altra parte, appare irragionevole, in un quadro di rilevante astensionismo elettorale, stabilire un quorum strutturale che non sia rigido, ma che si connoti, invece, di una certa flessibilità, tale da assicurare un adeguamento ai flussi elettorali, tanto più allorché il parametro di riferimento sia costituito dalla partecipazione del corpo elettorale alle ultime votazioni del Consiglio regionale, i cui atti appunto costituiscono oggetto della consultazione referendaria.

 

3.2.6. I diritti di partecipazione alle funzioni regionali

La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, che prevede la possibilità di una istruttoria in forma di contraddittorio pubblico, indetta dalla assemblea legislativa ed alla quale possono prendere parte anche associazioni ed altre formazioni sociali, per la formazione di atti normativi o amministrativi di carattere generale, i quali dovranno poi essere motivati con riferimento alle risultanze istruttorie, non comporta aggravi procedurali che violino il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Tale previsione, ad avviso della Corte (sentenza n. 379), è chiaro indice dell’inserimento, anche al livello statutario, di istituti già sperimentati e funzionanti anche in alcune delle maggiori democrazie contemporanee. Questi, lungo dall’essere finalizzati ad ostacolare i poteri degli organi legislativi ed amministrativi, mirano a migliorare ed a rendere più trasparenti le procedure di raccordo degli organi rappresentativi con i soggetti (maggiormente) interessati dalle diverse politiche pubbliche.

Quanto al fatto che «il provvedimento finale è motivato con riferimento alle risultanze istruttorie», basta considerare che la legge sul procedimento amministrativo (legge 7 agosto 1990, n. 241) non impone, ma certo non vieta, la motivazione degli atti normativi; ed in ogni caso – come noto – la motivazione degli atti amministrativi generali, nonché di quelli legislativi, è la regola nell’ordinamento comunitario: alla luce di tali rilievi, la fonte statutaria di una Regione può ben operare proprie scelte in questa direzione.

Neppure la normativa statutaria che prevede un «diritto di partecipazione» al procedimento legislativo in capo a «tutte le associazioni» che ne facciano richiesta viola alcuna disposizione costituzionale: inserendo siffatte previsioni, la Regione tende a disegnare semplicemente alcune procedure volte a garantire ad organismi associativi rappresentativi di significative frazioni del corpo sociale la possibilità di essere consultati da parte degli organi consiliari, senza per questo ostacolare la funzionalità delle istituzioni regionali.

La disposizione statutaria dell’Emilia-Romagna che prevede che la Regione, nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente attribuite, riconosce a tutti coloro che – anche immigrati – risiedono in un Comune del territorio regionale determinati diritti di partecipazione non manifesta una pretesa attuale della Regione ad intervenire nella materia delle elezioni statali, regionali e locali, segnatamente riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla legislazione statale, o comunque introducendo soggetti di questo tipo nell’ambito delle procedure dirette ad incidere sulla composizione delle assemblee rappresentative.

Resta, peraltro, nell’area delle possibili determinazioni delle Regioni la scelta di coinvolgere in altre forme di consultazione o di partecipazione soggetti che comunque prendano parte consapevolmente e con stabilità – almeno relativa – alla vita associata, anche a prescindere dalla titolarità del diritto di voto e dalla cittadinanza italiana.

3.2.7. I testi unici regionali

La disposizione statutaria della Regione Umbria, che prevede che la Giunta regionale, previa legge regionale di autorizzazione, presenti al Consiglio regionale progetti di testo unico di disposizioni legislative, soggetti solo alla approvazione finale del Consiglio, non va interpretata come potenzialmente attributiva di «deleghe legislative» alla Giunta regionale (sentenza n. 378). Con essa si prevede, infatti, il conferimento di un semplice incarico di presentare allo stesso organo legislativo regionale, entro termini perentori, un «progetto di testo unico delle disposizioni di legge» già esistenti in «uno o più settori omogenei»; sarà comunque il Consiglio che dovrà approvare il progetto con apposita votazione, seppure dopo un dibattito molto semplificato. Trattasi, quindi, di uno speciale procedimento legislativo diretto soltanto ad operare sulla legislazione regionale vigente, a meri fini «di riordino e di semplificazione».

3.2.8. La titolarità e la tipologia del potere regolamentare

a) Sulla scorta del precedente costituito dalla sentenza n. 313 del 2003, la Corte (sentenza n. 2) ribadisce che la modifica, ad opera dell’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1999, dell’art. 121 della Costituzione, con l’eliminazione dell’inciso sulla cui base l’esercizio della funzione regolamentare era attribuito necessariamente al Consiglio regionale, affida pienamente allo statuto la disciplina di tale funzione, che può essere anche alquanto articolata, a seconda delle diverse tipologie di fonti regolamentari. Del tutto legittimamente, pertanto, lo statuto calabrese ha disciplinato i diversi tipi di regolamenti regionali, per lo più attribuendone l’adozione alla Giunta, salvo gli speciali regolamenti – rimasti di spettanza del Consiglio – «di attuazione e di integrazione in materia di legislazione esclusiva» dello Stato da quest’ultimo delegati alle Regioni: in tal caso, l’attribuzione al Consiglio regionale appare non irragionevole, in considerazione della probabile rilevanza di questo tipo di normazione secondaria.

b) La disposizione statutaria della Regione Umbria, che prevede che la Giunta possa, previa autorizzazione da parte di apposita legge regionale, adottare regolamenti di delegificazione, non viola alcuna norma della Costituzione, in quanto si limita a riprodurre il modello vigente a livello statale dei c.d. «regolamenti delegati» (sentenza n. 378). Inoltre, contrariamente a quanto asserito dallo Stato in sede di ricorso, l’adozione di tali regolamenti non può alterare, nelle materie di competenza concorrente, il rapporto tra normativa statale di principio e legislazione regionale, poiché la stessa disposizione statutaria stabilisce che la legge di autorizzazione all’adozione del regolamento deve comunque contenere, oltre alla clausola abrogativa delle disposizioni vigenti, «le norme generali regolatrici della materia».

3.2.9. Le Regioni ed il diritto comunitario

a) La norma dello statuto della Toscana che prevede che gli organi di governo ed il Consiglio regionale partecipano, nei modi previsti dalla legge, alla formazione ed all’attuazione degli atti comunitari nelle materie di competenza regionale, non viola le competenze assegnate dalla Costituzione allo Stato (sentenza n. 372). In effetti, nel quadro delle norme di procedura che la legge statale di cui all’art. 117, quinto comma, della Costituzione determina in via generale ai fini della partecipazione delle Regioni alla formazione ed attuazione degli atti comunitari, la disposizione statutaria impugnata prevede unicamente la possibilità che la legge regionale stabilisca, a sua volta, uno specifico procedimento interno diretto a fissare le modalità attraverso le quali si forma la relativa decisione regionale, nell’ambito dei criteri organizzativi stabiliti, in sede attuativa, dall’art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131.

b) La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, secondo cui la Giunta disciplina l’esecuzione dei regolamenti comunitari «nei limiti stabiliti dalla legge regionale», è stata impugnata dal Governo in quanto, omettendo «di riferirsi al necessario rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato», si è ritenuto che violasse l’art. 117, quinto comma, della Costituzione.

Nella sentenza n. 379, tale prospettazione è stata disattesa, in considerazione del fatto che la disposizione statutaria disciplina, in generale, i rapporti tra le leggi ed i regolamenti regionali, dando per presupposta la titolarità da parte della Regione dei poteri normativi nelle varie materie; essa non pone, pertanto, il problema dei limiti sostanziali e procedimentali che si impongono a tali poteri. D’altra parte, nulla di difforme rispetto a quanto disposto è stato previsto dalla legislazione statale di attuazione del nuovo Titolo V.

3.2.10. Le Regioni ed il diritto internazionale

La disposizione statutaria dell’Emilia-Romagna che prevede che la Regione, nell’ambito delle materie di propria competenza, provvede direttamente all’esecuzione degli accordi internazionali stipulati dallo Stato, nel «rispetto delle norme di procedura previste dalla legge» è stata impugnata dallo Stato, in ragione dell’omessa esplicitazione della condizione che «gli accordi siano stati previamente ratificati e siano entrati internazionalmente in vigore» e della mancata specificazione in ordine alla provenienza statale della legge contenente le norme procedurali alle quali la Regione deve uniformarsi.

La Corte (sentenza n. 379) reinterpreta la disposizione in modo conforme al sistema costituzionale, stabilendo che il riferimento all’attuazione degli accordi internazionali «stipulati» dallo Stato e non anche «ratificati» non potrebbe legittimare in alcun modo un’esecuzione da parte regionale che fosse anteriore alla ratifica, anche perché, in tal caso, l’accordo internazionale sarebbe certamente privo di efficacia per l’ordinamento italiano. Per altro verso, l’affermato «rispetto delle norme di procedura previste dalla legge» non può che essere interpretato come riferito alle «norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato».

3.2.11. La Commissione di garanzia statutaria

La previsione dello statuto umbro che attribuisce alla Commissione di garanzia statutaria la funzione di esprimere pareri sulla conformità allo statuto delle leggi e dei regolamenti regionali non può essere intesa nel senso del conferimento ad un organo amministrativo del potere di sindacare gli atti adottati dai competenti organi regionali. In proposito, nella sentenza n. 378 si evidenzia che le condizioni, le forme ed i termini per lo svolgimento delle funzioni della Commissione sono demandate ad una apposita legge regionale che dovrà disciplinare analiticamente i poteri di questo organo nelle diverse fasi nelle quali potrà essere chiamato ad esprimere pareri giuridici. In ogni caso, la Commissione dovrà esprimere semplici pareri; questi, se negativi sul piano della conformità statutaria, determineranno come conseguenza il solo obbligo di riesame, senza che siano previste maggioranze qualificate ed anche senza vincolo in ordine ad alcuna modifica delle disposizioni normative interessate.

3.2.12. Il conferimento di funzioni amministrative ed il principio di sussidiarietà

a) Nel ricorso statale si censura la disposizione della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna che prevede che «la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, disciplina le modalità di conferimento agli enti locali di quanto previsto dall’art. 118 della Costituzione, definendo finalità e durata dell’affidamento». Tale disposizione, ad avviso del ricorrente, avrebbe menomato l’autonomia degli enti locali ed avrebbe violato lo stesso art. 118 della Costituzione, ai sensi del quale sarebbe precluso «affidare temporaneamente» tali funzioni ad enti, quali i Comuni, le Province e le Città metropolitane, che di esse sono qualificati come «titolari».

Nella sentenza n. 379, la Corte disattende questa censura sottolineando che essa muove da una lettura non condivisibile degli articoli 114 e 118 della Costituzione, dal momento che sembra ipotizzare l’esistenza di rigidi vincoli per il legislatore regionale nell’attuazione dell’art. 118 della Costituzione ed una sostanziale equiparazione tra funzioni degli enti locali «proprie» e «conferite» (ben distinte, invece, dal secondo comma dell’art. 118 della Costituzione.

Di contro, il conferimento agli enti locali di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa delle Regioni tramite apposite leggi regionali presuppone, non solo una previa valutazione da parte del legislatore regionale delle concrete situazioni relative ai diversi settori (alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza) in riferimento alle caratteristiche proprie del sistema di amministrazione locale esistente sul territorio regionale, ma anche la perdurante ricerca del migliore modello possibile di organizzazione del settore.

Con ciò, ad essere presupposta è anche la possibilità di modificare la legislazione sulla base dei risultati conseguiti ed al fine di una eventuale sperimentazione di diversi modelli possibili.

Altra disposizione della delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, ai sensi della quale l’assemblea legislativa individua, «in conformità con la disciplina stabilita dalla legge dello Stato», le funzioni della Città metropolitana dell’area di Bologna, è ritenuta dalla Corte non in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, nella misura in cui subordina espressamente l’esercizio dei poteri regionali al rispetto della «disciplina stabilita dalla legge dello Stato». D’altra parte, il secondo comma dell’articolo 118 della Costituzione, nell’affidare il potere di «conferimento» delle funzioni amministrative anche alla legge regionale, fa esplicito riferimento alle Città metropolitane.

b) La previsione statutaria della Toscana in cui si stabilisce che l’organizzazione delle funzioni amministrative conferite agli enti locali, nei casi in cui risultino specifiche esigenze unitarie, possa essere disciplinata con legge regionale per assicurare requisiti essenziali di uniformità non lede la riserva di potestà regolamentare attribuita dall’art. 117, sesto comma, della Costituzione agli enti locali in ordine all’organizzazione ed allo svolgimento delle funzioni loro conferite (sentenza n. 372). La disposizione, in effetti, fa evidente riferimento alle diverse ipotesi di applicazione del principio di sussidiarietà previste dalla Costituzione, operando una deroga rispetto al criterio generale accolto da altra disposizione statutaria, che riserva alla potestà regolamentare degli enti locali la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni conferite.

In particolare, una deroga siffatta si inserisce nell’ambito della previsione del sesto comma dell’art. 117, come attuato dall’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003, secondo cui la potestà regolamentare dell’ente locale in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni si esplica nell’ambito delle leggi statali e regionali, che ne assicurano i requisiti minimi di uniformità: la previsione statutaria di un regime di riserva assoluta (anziché relativa) di legge regionale è dunque ammissibile purché sia limitata, per non comprimere eccessivamente l’autonomia degli enti locali, ai soli casi di sussistenza di «specifiche esigenze unitarie».

Del resto, negando tale facoltà, si perverrebbe all’assurda conclusione che, al fine di evitare la compromissione di precisi interessi unitari che postulano il compimento di determinate attività in modo sostanzialmente uniforme, il legislatore regionale non avrebbe altra scelta che allocare – in violazione del principio di sussidiarietà – le funzioni in questione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone così l’esercizio unitario.

3.2.13. I dipendenti della Regione

a) Con riguardo alla disciplina dello Statuto della Calabria relativa al «regime contrattuale dei dirigenti», la Corte (sentenza n. 2) osserva che la intervenuta privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, pur vincolando anche le Regioni (dotate, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione, di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale), non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale in materia, dal momento che si prevede «le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, adeguano ai principi della legislazione statale i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità».

b) La delibera statutaria della Regione Emilia-Romagna, nella parte in cui prevede che la disciplina del rapporto di lavoro del personale regionale venga regolata in conformità ai principi costituzionali e secondo quanto stabilito dalla «legge» e dalla contrattazione collettiva, non lede la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile». Ritiene la Corte (sentenza n. 379) che il rilievo di costituzionalità muova da una lettura del riferimento alla «legge» come «legge regionale», lettura che risulta erronea se si considera che in altre disposizioni statutarie, là dove si è inteso fare riferimento al potere normativo della Regione, si è espressamente parlato di «legge regionale».

In buona sostanza, la disposizione in esame assume un significato meramente ricognitivo del rapporto tra legislazione e contrattazione, alla luce dei principi costituzionali, nella disciplina del rapporto di lavoro del personale regionale.

3.2.14. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi regionali

Nella sentenza n. 372 si rileva che la disposizione statutaria della Regione Toscana la quale stabilisce il diritto di accesso, senza obbligo di motivazione, ai documenti amministrativi si conforma al principio costituzionale di imparzialità e di trasparenza dell’azione amministrativa ed è altresì del tutto coerente con l’evoluzione del diritto comunitario (previsioni siffatte sono peraltro presenti anche nella legislazione statale, ad esempio in materia di tutela ambientale).

Essa, inoltre, in quanto attinente ai principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della Regione, rientra strettamente tra gli oggetti di disciplina statutaria.

In ogni caso, la prevista legge di attuazione dovrà prevedere criteri e modi in base ai quali l’interesse personale e concreto del richiedente si contemperi adeguatamente con l’interesse pubblico al buon andamento dell’amministrazione, nonché con l’esigenza di non vanificare in concreto la tutela giurisdizionale delle posizioni di eventuali soggetti terzi interessati.

3.2.15. La potestà tributaria

a) La Corte (sentenza n. 2) confuta la tesi dell’esorbitanza dai contenuti statutari della disciplina sulla potestà normativa tributaria della Regione, essendo riconosciuta da tempo la legittimità dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che essi risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo.

Di tali contenuti ulteriori non può farsi dunque questioni in termini di legittimità, ma, al più in relazione alla loro opinabile efficacia giuridica. Nel caso di specie, peraltro, i riferimenti alla potestà tributaria non vanno oltre una parafrasi di quanto contenuto nei commi secondo, terzo e quinto dell’art. 119, nonché nel comma primo dell’art. 120 della Costituzione.

b) Nell’impugnare la disposizione dello statuto della Toscana secondo cui «la legge disciplina, limitatamente ai profili coperti da riserva di legge, i tributi propri degli enti locali, salva la potestà degli enti di istituirli», lo Stato ha dedotto che con essa si prevederebbe un rapporto tra fonti normative «che è invece solo uno di quelli possibili, costituzionalmente rimessi alle valutazioni ed alle scelte del legislatore nazionale nel momento in cui darà attuazione all’art. 119 della Costituzione».

Disattendendo tali censure, la Corte (sentenza n. 372) sottolinea che il modello seguito dalla disposizione è quello a «due livelli», vale a dire quello di una disciplina normativa dei tributi propri degli enti locali risultante dal concorso di fonti primarie regionali e secondarie locali, in cui spetta alla fonte regionale la definizione dell’ambito di autonomia entro cui la fonte secondaria dell’ente sub-regionale può esercitare liberamente il proprio potere di autodeterminazione del tributo.

In ogni caso, la norma censurata deve essere interpretata nel senso che, in base all’art. 119, secondo comma, della Costituzione, la legge regionale deve attenersi ai principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario appositamente dettati dalla legislazione statale «quadro» o, in caso di inerzia del legislatore statale, a quelli comunque desumibili dall’ordinamento.

4. La ripartizione delle competenze

Nel corso del 2004, sono quanto mai numerose le statuizioni che hanno riguardo il riparto di competenze tra gli enti territoriali. Senza poter dare conto in modo completo di tutte le questioni, nei paragrafi che seguono si è cercato di indicare le decisioni più significative (rectius, i passi più significativi delle decisioni) in tema di individuazione degli ambiti competenziali. L’attenzione si è concentrata essenzialmente sulle attribuzioni legislative; gli altri tipi di attribuzioni (segnatamente, regolamentari ed amministrative) non sono comunque state neglette, nella misura in cui di esse si è dato conto nel contesto dell’analisi delle singole decisioni, ovviamente quando ciò risultasse opportuno e non si traducesse in un eccessivo appesantimento della trattazione.

4.1. Le materie attinenti alla competenza esclusiva dello Stato

4.1.1. «Difesa e Forze armate»

Nella sentenza n. 228, la Corte affronta il tema relativo alla legittimità costituzionale della disciplina del «servizio civile nazionale» da parte dello Stato. Dopo aver configurato il servizio civile come l’oggetto di una scelta volontaria e quale modalità operativa concorrente ed alternativa (rispetto a quella militare) alla difesa dello Stato, il titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento statale viene conseguentemente individuato nell’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva dello Stato – oltre alla materia «Forze armate» – anche la materia «difesa», da intendersi, appunto, anche come forma di difesa «civile», mediante attività di impegno sociale non armato espressive del «dovere» sancito all’art. 52 della Costituzione.

La riserva di competenza allo Stato non comporta, tuttavia, che ogni aspetto dell’attività dei cittadini che svolgono detto servizio sia disciplinato da fonte statale. È dunque compito dello Stato quello di disciplinare gli aspetti organizzativi e procedurali del servizio.

D’altra parte, nel servizio civile investono i più diversi ambiti materiali, dall’assistenza sociale alla tutela dell’ambiente alla protezione civile: le relative attività restano soggette – scil., per gli aspetti di rilevanza pubblicistica – alla disciplina dettata dall’ente rispettivamente competente, e dunque, non necessariamente a quella statale, ma anche a quella regionale e, se del caso, anche a quella degli enti locali.

Come è chiaro, nelle ipotesi in cui lo svolgimento delle attività di servizio civile ricada entro ambiti di competenza delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, l’esercizio delle funzioni spettanti, rispettivamente, allo Stato ed ai suddetti enti, dovrà improntarsi al rispetto del principio della leale collaborazione tra gli enti costitutivi della Repubblica.

L’inquadramento competenziale del «servizio civile nazionale» non esclude, peraltro, che le singole Regioni o Province autonome istituiscano, nell’autonomo esercizio delle proprie competenze legislative, un proprio servizio civile regionale o provinciale, distinto da quello nazionale, il quale avrebbe natura «sostanzialmente diversa» dal servizio civile nazionale, non essendo riconducibile al dovere di difesa.

Questa affermazione, contenuta nella sentenza n. 228, avrebbe potuto avere diretta applicazione nella sentenza n. 229, che definisce un giudizio promosso dallo Stato avverso una legge regionale istitutiva, appunto, del «servizio civile regionale». In concreto, peraltro, l’oggetto dell’impugnativa era circoscritto alla disposizione che reca la previsione di una comunicazione agli Uffici di leva dei nominativi di coloro che, svolgendo il servizio civile regionale, abbiano comunque voluto dichiarare la loro obiezione di coscienza al servizio militare, nella prospettiva e nell’eventualità che esso possa rivivere come servizio obbligatorio. La disposizione è stata ritenuta dalla Corte come mera estrinsecazione di uno spirito di collaborazione tra uffici regionali ed uffici statali: da ciò la dichiarazione di infondatezza del ricorso, argomentato su una pretesa invasione di competenze statali.

4.1.2. «Tutela della concorrenza»

Con la sentenza n. 14, la Corte, onde decidere diverse questioni sollevate nei confronti di numerose disposizioni della legge finanziaria 2002 contenenti interventi finanziari in vari settori dell’economia, si sofferma sulla nozione della tutela della concorrenza e sul significato che essa assume in sede comunitaria e nell’ordinamento interno.

All’uopo, la Corte rileva che i principi comunitari del mercato e della concorrenza non sono svincolati da un’idea di sviluppo economico-sociale per cui, ferma restando l’incompatibilità di aiuti pubblici che falsino la concorrenza, sono pur sempre previste deroghe funzionali alla promozione di un mercato competitivo.

Nel diritto interno, la nozione di concorrenza riflette quella operante in ambito comunitario e l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza [art. 117, secondo comma, lettera e)], la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e, appunto, la tutela della concorrenza, rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali.

Ciò detto sul piano generale, nella sentenza n. 14 si sottolinea che una dilatazione massima del titolo competenziale in parola, di tipo intrinsecamente trasversale, rischierebbe di vanificare lo schema di riparto disegnato dall’art. 117 della Costituzione, il quale pure attribuisce alla potestà legislativa delle Regioni materie incidenti innegabilmente sulle attività e sullo sviluppo economici. Si tratta, dunque, di stabilire fino a che punto la riserva allo Stato della predetta competenza trasversale sia in sintonia con l’ampliamento delle attribuzioni regionali disposto dalla revisione del Titolo V, posto che anche le Regioni possono predisporre interventi sulla realtà produttiva regionale (purché, ovviamente, non creino ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose e non limitino l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale).

Alla luce di tale obiettivo, pur non rientrando nei poteri della Corte quello di operare una valutazione della correttezza «economica» delle scelte del legislatore, devesi comunque ammettere la configurabilità di un controllo di costituzionalità diretto a verificare, da un lato, che i presupposti di tali scelte non siano manifestamente irrazionali e, dall’altro, che gli strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi.

In definitiva, ove sia dimostrabile la congruità dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell’equilibrio economico generale, il titolo di questa competenza legislativa funzionale dello Stato non potrà essere negata. Sulla base della ratio decidendi così ricostruita, la sentenza n. 14 ha dichiarato che non risultano invasive delle competenze regionali le disposizioni statali che prevedono:

a) il concorso dello Stato nella costituzione e nella dotazione annuale del fondo di mutualità e solidarietà per i rischi in agricoltura;

b) un aumento dello stanziamento per la concessione di contributi in conto capitale nei limiti degli aiuti de minimis per il settore produttivo tessile, dell’abbigliamento e calzaturiero;

c) la individuazione delle tipologie degli investimenti per le imprese agricole, nonché per quelle di prima trasformazione e commercializzazione ammesse agli aiuti;

d) il finanziamento di nuovi patti territoriali e contratti di programma nel settore agroalimentare e della pesca.

In linea di stretta continuità con la sentenza n. 14 si pone la sentenza n. 272, concernente la nuova disciplina della gestione dei servizi pubblici locali.

Tale disciplina era stata impugnata essenzialmente in quanto il regime previsto – ad avviso della Regione ricorrente – avrebbe riguardato interventi, non già di «tutela della concorrenza», ma, più propriamente, di «promozione», quest’ultima essendo da intendersi come materia diversa dalla «tutela» e, per ciò stesso, da ricomprendersi tra le competenze regionali ai sensi del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione.

La Corte, dopo aver ricordato che la configurazione della tutela della concorrenza legittima interventi dello Stato volti tanto a promuovere quanto a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato, rileva che la dichiarazione contenuta nella legge, secondo cui le disposizioni sulle modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica «concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore», va considerata alla stregua di una norma-principio della materia, alla cui luce è possibile interpretare il complesso delle disposizioni della legge nonché il rapporto con le altre normative di settore nel senso che «il titolo di legittimazione dell’intervento statale […] è fondato sulla tutela della concorrenza […] e che la disciplina stessa contiene un quadro di principi nei confronti di regolazioni settoriali di fonte regionale»: il titolo di legittimazione statale, peraltro, è «riferibile solo alle disposizioni di carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di “rilevanza economica”», con il che «solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali».

In buona sostanza, non sono censurabili tutte quelle norme statali che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali.

Peraltro, proprio in applicazione del criterio della proporzionalità ed adeguatezza, che consente di delimitare l’ambito di applicazione di una «materia-funzione» qual è la tutela della concorrenza, viene dichiarata la incostituzionalità delle previsioni statali che introducono prescrizioni dettagliate ed auto applicative che vanno al di là della doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara per l’aggiudicazione dei servizi.

Ad analogo esito di illegittimità costituzionale la Corte giunge in merito agli interventi sulla disciplina della gestione dei servizi pubblici locali «privi di rilevanza economica», certamente non riferibili ad esigenze di tutela della libertà di concorrenza e quindi configurantisi come illegittima compressione dell’autonomia regionale e locale (in tal senso, si fa espresso riferimento al «Libro Verde della Commissione europea, sui servizi di interesse generale» del 21 maggio 2003, nel quale si afferma che le norme sulla concorrenza si applicano soltanto alle attività economiche).

Nella sentenza n. 345 è stato evidenziato che anche la disciplina – contenuta nella legge finanziaria per il 2003 – dell’acquisto di beni e servizi secondo procedure di evidenza pubblica, là dove impone la gara, fissa l’ambito soggettivo ed oggettivo di tale obbligo, limita il ricorso alla trattativa privata e collega alla violazione dell’obbligo sanzioni civili (nullità dei contratti) e forme di responsabilità, trova fondamento nella potestà dello Stato di regolare il mercato e di favorire rapporti concorrenziali nell’ambito dello stesso. Le procedure di evidenza pubblica, anche alla luce delle direttive della Comunità europea, hanno, infatti, assunto un rilievo fondamentale per la tutela della concorrenza tra i vari operatori economici interessati alle commesse pubbliche.

Nel caso della normativa specificamente sottoposta all’esame della Corte, l’estensione agli acquisti sotto soglia di beni e servizi non implica (rectius, non può implicare) per gli enti autonomi una indebita applicazione di puntuali modalità, ma solo l’osservanza dei principi desumibili dalla normativa in questione: a suffragio di questa interpretazione si pone, del resto, lo stesso tenore testuale delle disposizioni oggetto di scrutinio, e segnatamente di quella secondo cui le disposizioni de quo «costituiscono norme di principio e di coordinamento» (espressione, questa che, sia detto per incidens, conferma ulteriormente la natura peculiare della materia «tutela della concorrenza», la cui estensione è commisurata al rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza dei mezzi usati rispetto al fine che si vuol raggiungere).

4.1.3. «Ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»

Con riguardo alla materia in oggetto, è da segnalare, in primo luogo, la sentenza n. 3, con cui la Corte risolve «sul piano dell’interpretazione» la questione sollevata dalla Regione Emilia-Romagna nei confronti della disposizione (contenuta nella legge finanziaria per il 2002) che prevede che le amministrazioni pubbliche promuovono iniziative di «alta formazione» del personale e finanziano borse di studio per l’iscrizione dei dipendenti ai corsi di laurea triennali.

Secondo la regione ricorrente, la norma non sarebbe stata integralmente riconducibile alla materia dell’organizzazione delle amministrazioni statali o di enti nazionali, con ciò esorbitando dalla competenza legislativa statale. Disattendendo siffatta prospettazione, la Corte ha sottolineato come la disposizione, da un lato, si inserisca in un contesto normativo che riguarda le assunzioni di personale, con un espresso riferimento alle «amministrazioni dello Stato» e, dall’altro, si svolga in modo tale da far ritenere che il generico richiamo alle «amministrazioni pubbliche» non possa essere letto altro che come sinonimo di «statali», in pieno rispetto del titolo competenziale rappresentato dall’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.

Sulla scorta di questo parametro costituzionale, la sentenza n. 134 ha dichiarato l’illegittimità della legge della Regione Marche che prevedeva, tra i componenti del Comitato di indirizzo dell’istituendo Osservatorio regionale per le politiche integrate di sicurezza, i Prefetti della Regione, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Ancona.

In effetti, la legge, nell’attribuire nuovi compiti ai titolari di uffici giudiziari in quanto tali, configurandoli ex lege come componenti necessari di un organo regionale, ha invaso la potestà legislativa esclusiva dello Stato in tema di ordinamento degli organi e degli uffici dello Stato, violando altresì la riserva di legge statale prevista dall’art. 108, primo comma, della Costituzione in tema di ordinamento giudiziario.

4.1.4. «Ordine pubblico e sicurezza»

In ordine alla materia in oggetto, può segnalarsi la sentenza n. 428, con la quale la Corte ha escluso che il vigente «codice della strada» violi alcuna delle competenze assegnate dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione (nonché dalla clausola contenuta nell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001) alla ricorrente Provincia di Bolzano.

In tal senso, si rileva che considerazioni di carattere sistematico inducono a ritenere che la disciplina della circolazione stradale sia riconducibile, sotto diversi aspetti, a competenze statali esclusive, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione. In primo luogo, l’esigenza di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella circolazione (conducenti, trasportati, pedoni) pone problemi di sicurezza, ricadendo, così, nella materia «ordine pubblico e sicurezza», di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117.

Inoltre, la disciplina della circolazione stradale, in quanto funzionale alla tutela dell’incolumità personale, mira senza dubbio a prevenire una serie di reati ad essa collegati, come l’omicidio colposo e le lesioni colpose, e, pertanto, essa trova, anche sotto questo diverso profilo, la sua collocazione nella materia «ordine e sicurezza pubblica».

Peraltro, nell’esaminare una determinata normativa, non si rivela sempre agevole individuare un preciso titolo competenziale: proprio la sentenza n. 428 è, a tal proposito, un buon esempio.

Infatti, la normativa inerente alla circolazione stradale non può essere ricondotta unicamente alla materia sopra menzionata. In tal senso, giova sottolineare come la disciplina dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore si inquadra certamente nella lettera l) del secondo comma dell’art. 117, nella parte in cui attribuisce alla competenza statale esclusiva la materia dell’«ordinamento civile».

Minori problemi sono posti con riferimento al settore delle sanzioni amministrative per le infrazioni al codice della strada, in quanto per esso vale il principio generale secondo cui la competenza a dettare la disciplina sanzionatoria rientra in quella a porre i precetti della cui violazione si tratta. Per le successive fasi contenziose (amministrativa e giurisdizionale), poi, opera chiaramente la lettera l), del secondo comma dell’art. 117, nella parte in cui attribuisce alla competenza statale esclusiva le materie della «giurisdizione» e della «giustizia amministrativa».

4.1.5. «Giurisdizione e norme processuali»

La sentenza n. 18 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la previsione di legge statale che esenta dalla soggezione ad esecuzione forzata le somme di competenza degli enti locali a titolo di addizionale comunale e provinciale all’Irpef disponibili sulle contabilità speciali esistenti presso le tesorerie provinciali dello Stato ed intestate al Ministero dell’interno. La Corte ha in tal senso evidenziato come, stabilendo un regime di impignorabilità ed insequestrabilità per le somme suddette, il legislatore statale ha voluto unicamente garantire la loro piena disponibilità da parte degli enti locali, estendendo, in tal modo, istituti già conosciuti dal codice di rito e dalla legislazione contabile: da ciò la riconducibilità della previsione legislativa al novero delle disposizioni aventi natura processuale, per ciò stesso rientranti nell’ambito della funzione legislativa esclusiva di cui all’art. 117, comma secondo, lett. l), della Costituzione.

4.1.6. «Ordinamento civile»

Il limite, individuato dalla costante giurisprudenza della Corte – ed oggi espresso nella riserva alla potestà esclusiva dello Stato della materia «ordinamento civile», ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione –, consistente nel divieto di alterare le regole fondamentali che disciplinano i rapporti privati è stato ritenuto, con la sentenza n. 282, violato dalla disposizione della legge regionale dell’Emilia-Romagna secondo la quale erano «soppressi i consorzi idraulici, di difesa, di scolo e di irrigazione nonché ogni altra forma di gestione non consortile di opere o sistemi di scolo ed irrigui, che ricad[eva]no nei comprensori di bonifica». Con il provvedimento di soppressione, il Consiglio definiva «la successione nei rapporti giuridici ed amministrativi fra gli organismi soppressi e i consorzi di bonifica che subentra[va]no nell’esercizio dei compiti e delle funzioni»: la norma censurata, dunque, non si limitava a riordinare l’esercizio delle attività di bonifica e la gestione delle relative opere, ma disponeva senz’altro la soppressione ex lege di organismi e di gestioni, anche di carattere privato, stabilendo che i consorzi di bonifica – enti pubblici economici a base associativa – non solo subentravano nell’esercizio dei compiti e delle funzioni dei predetti organismi, ma succedevano ad essi nei rapporti giuridici e amministrativi (e quindi anche nella titolarità dei beni eventualmente posseduti), al di fuori di ogni procedura di eventuale ablazione per ragioni di interesse pubblico, con conseguente corresponsione di indennizzi.

In tal modo, la normativa, oltre a travalicare il limite del diritto privato, andava a violare i principi costituzionali di autonomia e di salvaguardia della proprietà privata e della libertà di associazione, pretendendo di incidere sulla stessa esistenza degli organismi privati di cui disponeva la soppressione (e, in ultima analisi, sul nucleo irriducibile della loro autonoma sfera giuridica).

4.1.7. «Ordinamento penale»

In continuità con la propria precedente giurisprudenza, la Corte, nella sentenza n. 185, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, la quale istituiva case da gioco nel proprio territorio e prevedeva che l’amministrazione regionale potesse promuovere la costituzione di una società per azioni con lo scopo di gestire case da gioco ovvero potesse affidare lo svolgimento di tale attività, in regime di concessione, ad una società con sede in uno Stato membro dell’Unione europea. La Corte, in particolare, ha ribadito che la sola fonte del potere punitivo è la legge statale e che – ai termini della riserva in materia di «ordinamento penale» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione – le Regioni non dispongono di alcuna competenza che consenta loro di introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato.

Nel censurare la legge regionale, si è sottolineato, da un lato, che la norma penale che punisce il gioco d’azzardo in una casa da gioco è espressione non irragionevole della discrezionalità del legislatore e, dall’altro, che essa risponde all’interesse della collettività a vedere tutelati la sicurezza e l’ordine pubblico in presenza di un «fenomeno che si presta a fornire l’habitat ad attività criminali».

Certo, non mancano nella legislazione statale deroghe più o meno ampie alla previsione in parola; ciò nondimeno, la Corte non ha potuto che confermare l’inderogabilità, da parte delle Regioni, della norma incriminatrice, nuovamente invitando, peraltro, lo Stato ad un intervento legislativo di riordino della normativa del settore.

4.1.8. «Previdenza sociale»

La materia previdenziale è venuta in considerazione nella sentenza n. 287. In essa, la Corte ha escluso che interventi statali a favore della famiglia estrinsecantisi, per un verso, nella concessione di un assegno di mille euro per ogni figlio nato o adottato fra il dicembre 2003 e il dicembre 2004, e, per l’altro, nell’incremento del Fondo nazionale per le politiche sociali, siano riconducibili nell’ambito della materia dei «servizi sociali», di competenza regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione.

Ciò in quanto le disposizioni contenute nei provvedimenti legislativi vigenti che disciplinano le funzioni ed i compiti relativi alla materia dei servizi sociali evidenziano – quali che siano i settori di intervento (ad esempio, la famiglia, i minori, gli anziani, i disabili) – la sussistenza di un indefettibile nesso funzionale tra i servizi sociali e la rimozione od il superamento di situazioni di svantaggio o di bisogno, per la promozione del benessere fisico e psichico della persona. La provvidenza che è stata oggetto della sentenza n. 287, di contro, è disposta a favore delle donne, cittadine italiane o comunitarie, residenti in Italia (in relazione alla nascita del secondo od ulteriore figlio, o all’adozione di un figlio), senza che assumano alcun rilievo la condizione soggettiva e la sussistenza di situazioni di bisogno, di disagio o di semplice difficoltà. Trattasi, conseguentemente, di una provvidenza temporanea, di carattere indennitario, che costituisce espressione di quella tutela previdenziale della maternità riconosciuta alla donna in quanto tale, in ragione degli articoli 31, secondo comma, e 37 della Costituzione, riconducibile, in definitiva, alla competenza statale in materia di «previdenza sociale», in base a quanto stabilito dall’art. 117, secondo comma, lettera o), della Costituzione.

4.1.9. «Tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema»

La Corte ha avuto modo di chiarire la portata della riserva di competenza statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Nella sentenza n. 259, in particolare, si è evidenziato che tale competenza esclusiva dello Stato non è incompatibile con interventi specifici del legislatore regionale che si attengano alle proprie competenze. Sulla scorta di questa affermazione, è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale di una legge regionale che attribuiva alle province la competenza al rilascio di autorizzazioni relative ad attività di immersione di strutture in mare, di ripascimento della fascia costiera e di movimentazione di fondali marini, dal momento che la competenza a rilasciare le autorizzazioni per lo svolgimento delle attività ivi previste spetta alla Regione, la quale può quindi delegarla – in coerenza con il principio di sussidiarietà – alle Province.

Ad esito analogo la Corte è addivenuta nella sentenza n. 429, nella quale una disposizione legislativa regionale che stabilisce che, nelle aree ricadenti nel perimetro dei parchi nazionali nel territorio della Regione e nelle aree di protezione esterna agli stessi, oggetto di vincolo, le funzioni riguardanti opere o lavori di competenza degli Enti parco nazionali sono esercitate dall’Ente parco successivamente alla stipula di una convenzione o di un accordo interistituzionale tra l’Ente stesso, la Regione e lo Stato, per la determinazione delle relative modalità di esercizio.

Una siffatta disposizione, ad avviso della Corte, non incide sulle attribuzioni dell’Ente parco previste dalla normativa statale, e non interferisce, dunque, sulla competenza esclusiva dello Stato, con la precisazione che l’accordo interistituzionale o la convenzione suddetti in nessun caso possono avere ad oggetto i contenuti e la portata del nulla osta sopra citato.

4.1.10. «Tutela […] dei beni culturali»

Un altro aspetto sul quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi è quello concernente la distinzione tra la «tutela» dei beni culturali e la loro «valorizzazione», identificando i due concetti materie, rispettivamente, di competenza esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), e di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Con la sentenza n. 9, la Corte ha risolto il conflitto intersoggettivo avente ad oggetto un regolamento del Ministro per i beni e le attività culturali concernente l’individuazione dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici.

La Corte evidenzia, in via preliminare, che «la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili».

Dal diritto positivo emerge comunque che «la valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa». Per altro verso, la riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali è legata alla «peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza»: i beni culturali vanno dunque «considerati nel loro complesso come un tutt’uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato».

Per statuire in ordine alla legittimità della disciplina regolamentare, indefettibile è il porre attenzione al suo contenuto specifico, concernente il restauro.

Ora, il restauro non trova, nel diritto positivo, una definizione specifica, ad esso facendosi riferimento soprattutto in relazione alle sue finalità. Sul punto, peraltro, le varie definizioni rintracciabili «nella loro sostanza coincidono e pongono l’accento non solo sulla inscindibilità tra la struttura materiale ed il valore ideale che essa esprime, bensì anche sulla necessità di incidere sulla stessa struttura materiale del bene, allo scopo di conservarlo o di recuperarlo».

Alla luce di ciò, il restauro è da annoverare nell’ambito della «tutela dei beni culturali», e ciò anche se attraverso le operazioni di restauro può giungersi anche alla valorizzazione dei caratteri storico-artistici del bene («che è cosa diversa, però, dalla valorizzazione del bene al fine della fruizione»: «quest’ultima, infatti, non incidendo sul bene nella sua struttura, può concernere la diffusione della conoscenza dell’opera e il miglioramento delle condizioni di conservazione negli spazi espositivi»).

Sulla base di questa ricostruzione, la Corte giunge a statuire sul merito del conflitto nel senso che «poiché la norma impugnata concerne l’acquisizione della qualifica di restauratore ai fini dell’esecuzione dei lavori di manutenzione e restauro dei beni culturali mobili e delle superfici decorate di beni architettonici […] e perciò – rientrando nella normativa relativa al restauro di tali beni – fa parte di un ambito riservato alla legislazione esclusiva dello Stato», quest’ultimo ha la titolarità del potere regolamentare in contestazione.

È da segnalare anche la sentenza n. 26, che ha deciso la questione di legittimità costituzionale originata dalla pretesa lesione delle attribuzioni legislative regionali derivante dalla norma che prevede, in capo al Ministero per i beni e le attività culturali, la facoltà di dare in concessione a «soggetti diversi da quelli statali» la gestione di servizi finalizzati «al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico» (c.d. «esternalizzazione» della gestione dei servizi culturali di competenza statale).

La Corte non disconosce le difficoltà interpretative che emergono dalla disposizione: esse riguardano essenzialmente la distinzione dell’attività in esame – di «gestione» – rispetto a quelle di «tutela» o di «valorizzazione» dei beni culturali, e derivano, in massima parte, da una certa oscurità in merito a quale sia l’oggetto della concessione e quali beni culturali essa riguardi. Peraltro, alla luce del criterio interpretativo suggerito dall’art. 152 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, il quale stabilisce, sia pure ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che lo Stato, le regioni e gli enti locali esercitano le relative attività «ciascuno nel proprio ambito» (nel senso, cioè, che ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare funzioni e compiti riguardo ai beni culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità), deriva che, nella specie, è lo Stato il soggetto che ha la titolarità dei beni culturali interessati dalla disposizione impugnata.

Conseguentemente, la convenzione concessoria dei servizi disciplinata dalla disposizione impugnata (e dal regolamento ministeriale ivi previsto) non può che concernere servizi finalizzati a beni culturali, di cui allo Stato sono riservate la titolarità e la gestione oltre che la tutela.

Sulla base di tale interpretazione, la Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, atteso che è da escludere che la disposizione impugnata possa essere lesiva delle pretese delle regioni ricorrenti, le cui attribuzioni in materia non rientrano, appunto secondo l’interpretazione prospettata, nel suo ambito di previsione.

In una prospettiva più generale, la sentenza n. 307 ha avuto modo di chiarire che la previsione di contributi finanziari, da parte dello Stato, erogati con carattere di automaticità in favore di soggetti individuati in base all’età o al reddito e finalizzati all’acquisto di personal computers abilitati alla connessione ad Internet, non risulta invasivo di competenze legislative regionali, nella misura in cui tale previsione corrisponde a finalità di interesse generale, e segnatamente allo sviluppo della cultura, il cui perseguimento fa capo alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 della Costituzione), anche al di là del riparto di competenze per materia fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della Costituzione.

4.2. Le materie attinenti alla legislazione concorrente

4.2.1. «Istruzione»

Uno degli ambiti materiali in cui più arduo è il riparto di competenze è quello inerente all’istruzione.

La Corte ne dà conto soprattutto nel giudizio su alcune disposizioni della legge finanziaria per il 2002 in tema di organizzazione scolastica, concernenti, in particolare, la definizione delle dotazioni organiche del personale docente e l’orario di lavoro. La sentenza n. 13 sottolinea, in effetti, il complesso intrecciarsi in materia di istruzione di «norme generali» – di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera n) –, di principi fondamentali e norme di dettaglio, nonché di determinazioni autonome delle istituzioni (l’inciso competenziale di cui al terzo comma dell’art. 117 recita, infatti: «istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale»).

In questo «intreccio», la Corte riconosce che la programmazione della rete scolastica è oggetto che non può non essere ricompreso nell’ambito di competenza dei legislatori regionali, non essendo «plausibile che il legislatore costituzionale abbia voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad esse conferita nella forma della competenza delegata» anteriormente alla riforma del 2001.

Alla luce di tale considerazione, la distribuzione, nell’ambito della Regione, del personale docente tra le istituzioni scolastiche, che la disposizione impugnata affida ad un organo statale, non può rientrare nella materia delle «norme generali sull’istruzione», riservate alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto strettamente connessa alla programmazione della rete scolastica di competenza regionale e non può quindi essere scorporata da questa e innaturalmente riservata per intero allo Stato, il cui compito è solo quello di fissare i principi fondamentali.

Ciò stabilito sul piano astratto, la Corte ha tuttavia dovuto riconoscere che una caducazione immediata della disposizione impugnata avrebbe provocato effetti incompatibili con la Costituzione, in quanto alla erogazione del servizio scolastico sono collegati diritti fondamentali della persona. In considerazione dell’evidente esigenza di continuità di funzionamento del servizio di istruzione, qualificato dalla stessa legislazione statale come servizio pubblico essenziale, la Corte ritiene che il principio di continuità – riconosciuto da precedenti sentenze come operante anche sul piano normativo – nell’avvicendamento delle competenze statali e regionali, vada ampliato «per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa ma istituzionale, giacché soprattutto nello Stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali». In tema di istruzione, la salvaguardia di tale dimensione è imposta da valori costituzionali incomprimibili: per questo, la disposizione statale – pur se contraria al riparto di competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione – deve continuare ad operare fino a quando le Regioni si saranno dotate di una disciplina e di un apparato istituzionale idoneo a svolgere la funzione di distribuire gli insegnanti tra le istituzioni scolastiche nel proprio ambito territoriale, secondo i tempi ed i modi necessari ad evitare soluzioni di continuità del servizio, disagi agli alunni ed al personale e carenze di funzionamento delle istituzioni scolastiche.

4.2.2. «Ricerca scientifica»

Con riferimento alla materia di legislazione concorrente della «ricerca scientifica», la sentenza n. 166 ha stabilito che sono costituzionalmente illegittime le disposizioni legislative regionali che vietano, nel territorio regionale, non solo l’allevamento, ma anche «l’utilizzo e la cessione a qualsiasi titolo di cani e gatti, ai fini di sperimentazione», nonché «la vivisezione a scopo didattico su tutti gli animali, salvo i casi autorizzati». Ciò in ragione dell’ovvia constatazione che in una materia di legislazione concorrente spetta esclusivamente al legislatore statale la determinazione dei principi.

Nella fattispecie, la declaratoria di incostituzionalità è derivata, in particolare, dalla circostanza che la Corte, esaminato il quadro complessivo della normativa vigente, ha ritenuto che siano in essa attentamente bilanciati il doveroso rispetto verso gli animali sottoposti a sperimentazione e l’interesse collettivo alle attività di sperimentazione su di essi che sono ritenute indispensabili, sulla base delle attuali conoscenze di tipo scientifico, sia dall’ordinamento nazionale che dall’ordinamento comunitario. In effetti, il legislatore statale nell’esercizio del proprio potere di determinare i principî fondamentali della materia, non si è limitato a recepire il livello di tutela previsto dalla normativa comunitaria, ma ha già direttamente dettato una disciplina in parte più rigida delle prescrizioni europee, peraltro attraverso una regolamentazione uniforme per tutto il territorio nazionale. I legislatori regionali non possono dunque modificare il punto di equilibrio individuato, riducendo ulteriormente la relativa libertà della ricerca scientifica o comprimendo l’attuale livello di tutela degli animali sottoponibili a sperimentazione.

4.2.3. «Tutela della salute»

Con precipuo riguardo alla materia inerente alla «tutela della salute», nella sentenza n. 162 sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale avverso alcune leggi regionali che aboliscono il libretto di idoneità sanitaria, di cui deve essere munito, ai sensi della legislazione statale (art. 14 della legge 30 aprile 1962, n. 283), chiunque lavori nei settori della preparazione, produzione, manipolazione e vendita di sostanze alimentari.

Ad avviso della Corte, le disposizioni censurate non potevano ritenersi in contrasto con la competenza esclusiva statale in tema di «ordine pubblico e sicurezza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, dal momento che tale materia, sulla base di una giurisprudenza ormai consolidata, attiene al solo settore relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Né può ritenersi che la disposizione statale che prevede l’obbligo del libretto di idoneità sanitaria costituisca un principio fondamentale della materia sanitaria (in quanto tale immodificabile dal legislatore regionale): in effetti, a seguito di una profonda trasformazione della legislazione – nazionale e comunitaria – a tutela della disciplina igienica degli alimenti, prodottasi anche sulla spinta in tal senso degli organismi scientifici e medici, al preesistente sistema è stato affiancato un diverso sistema di garanzia sostanziale (e di controllo) sulle modalità di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari; non è pertanto possibile considerare alla stregua di principi fondamentali della materia tutte le prescrizioni sostanziali contenute nella legislazione statale del 1962.

L’evoluzione normativa constatata ha offerto alla Corte lo spunto per confermare che «qualora nelle materie di legislazione concorrente i principi fondamentali debbano essere ricavati dalle disposizioni legislative statali esistenti, tali principi non devono corrispondere senz’altro alla lettera di queste ultime, dovendo viceversa esserne dedotta la loro sostanziale consistenza»; e ciò, ovviamente, «tanto più in presenza di una legislazione in accentuata evoluzione».

Alla luce di ciò, tra l’altro, si è negata la desumibilità dalla legislazione vigente del principio secondo cui spetta solo alle Ausl il rilascio di certificazioni sanitarie ed i relativi accertamenti attribuiti al servizio sanitario nazionale, dal momento che non poche leggi statali hanno attribuito funzioni certificatorie a soggetti diversi ed hanno riconosciuto ai legislatori regionali poteri di riorganizzazione delle strutture sanitarie locali.

4.2.4. «Ordinamento sportivo»

Giudicando della legittimità costituzionale di una normativa statale in tema di utilizzazione di impianti sportivi, la sentenza n. 424 ha evidenziato come non sia «dubitabile» che la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’«ordinamento sportivo» e che in merito alla stessa operi il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni sancito dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Alla luce di ciò, le disposizioni statali che erano state impugnate da parte di alcune Regioni sono state ritenute non invasive delle competenze regionali, in quanto recanti principi fondamentali. Tale, in particolare, è stata configurata una disposizione con cui si stabilisce che l’uso degli impianti sportivi in esercizio da parte degli enti locali territoriali deve essere aperto a tutti i cittadini e deve essere garantito, sulla base di criteri oggettivi, a tutte le società e associazioni sportive.

Del pari, espressione di un principio fondamentale è stata considerata la disposizione in cui sono stabilite regole generali dirette a garantire che la gestione degli impianti sportivi comunali, quando i Comuni non vi provvedano direttamente, avvenga di preferenza mediante l’attribuzione a determinati organismi sportivi, in via surrogatoria rispetto ai possibili atti di autonomia degli enti locali, e quindi nel rispetto delle scelte appunto autonomistiche degli enti stessi, ai quali è assicurata, in via principale, la possibilità di gestire direttamente gli impianti in questione.

Ad esiti analoghi ha condotto lo scrutinio di una disposizione che, relativamente agli impianti sportivi di pertinenza di istituti scolastici (quali palestre, aree di gioco ed altre analoghe attrezzature genericamente individuate come «impianti sportivi»), fissa regole secondo le quali, compatibilmente con le esigenze dell’attività didattica e delle attività sportive della scuola, anche extracurriculari, i suddetti impianti debbono essere posti a disposizione di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nello stesso Comune in cui si trova l’istituto scolastico, o in Comuni confinanti.

È stata, invece, dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione di un finanziamento diretto al potenziamento dei programmi relativi allo sport sociale ed a favorire lo svolgimento dei compiti istituzionali degli enti di promozione sportiva, in quanto in essa non si prevedeva alcun – pur necessario – coinvolgimento diretto delle Regioni, anch’esse titolari di potestà legislativa nella specifica materia.

4.2.5. «Governo del territorio»

Materia di competenza concorrente tra le più significative è il «governo del territorio». La Corte è su di essa intervenuta a più riprese. Si segnalano, in particolare, due decisioni.

Con la sentenza n. 176 è stato affermato che la previsione, contenuta in legge regionale, di subordinare il rilascio dell’autorizzazione per l’apertura di una grande struttura di vendita alla previa programmazione urbanistica (sospendendo cioè il rilascio di nuove autorizzazioni per l’apertura di grandi strutture di vendita fino all’approvazione dei piani territoriali di coordinamento provinciale che dovranno stabilire, d’intesa con i Comuni, la programmazione riguardante la grande distribuzione con relativa individuazione di zone idonee), introduce un limite non irragionevole all’iniziativa economica privata per la salvaguardia di un bene di rilievo costituzionale, qual è, appunto, il «governo del territorio». La ragionevolezza è peraltro veicolata da (e vincolata a) l’adeguata protezione della libertà di iniziativa economica, nella specie riscontrabile in ragione della presenza di termini finali certi del periodo di sospensione e dell’esistenza di strumenti di tutela azionabili in caso di inosservanza di tali termini da parte della pubblica amministrazione.

La materia del «governo del territorio» ha assunto un ruolo centrale anche nello scrutinio relativo alla legittimità costituzionale delle disposizioni legislative statali recanti il nuovo condono edilizio. Nella sentenza n. 196, la Corte sottolinea come questo intervento di carattere straordinario intenda essenzialmente rendere esenti dalla sanzionabilità penale quei soggetti che, avendo posto in essere determinate tipologie di abusi edilizi, ne chiedano il condono tramite i Comuni, assumendosi l’onere del versamento della relativa oblazione ed i costi connessi all’eventuale rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria.

Al riguardo, pur non essendovi dubbio che solo il legislatore statale dispone di assoluta discrezionalità in materia «di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità», si rende nondimeno necessaria su tutto il territorio nazionale la piena collaborazione dei comuni, titolari di poteri di gestione e di controllo del territorio, con gli organi giurisdizionali, i quali sono privi di una competenza «istituzionale» volta a compiere l’accertamento di conformità delle opere agli strumenti urbanistici.

La Corte rileva, tuttavia, che sul piano della sanatoria amministrativa i vincoli apponibili all’autonomia legislativa delle Regioni, ordinarie e speciali, sono unicamente quelli desumibili dal nuovo art. 117 della Costituzione e dagli statuti speciali.

In particolare, non possono essere disattesi gli ampi poteri legislativi (di tipo concorrente) spettanti alle Regioni, proprio in virtù della competenza in materia di «governo del territorio» (nella quale debbono ricomprendersi i settori dell’edilizia e dell’urbanistica), nella specie da collegare, in primo luogo, con l’altra materia di competenza concorrente della «valorizzazione dei beni culturali ed ambientali». Spazi ancor maggiori spettano alle Regioni ad autonomia particolare, in virtù di competenze legislative primarie in materia di «governo del territorio».

Per altro verso, la disciplina legislativa deve armonizzarsi con la titolarità in capo ai comuni della gestione in proprio (ai sensi del nuovo art. 118 della Costituzione) delle funzioni amministrative, nonché con le previsioni del nuovo art. 119 della Costituzione, là dove esso afferma che le normali entrate dei Comuni devono consentire «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma). I Comuni, pertanto, debbono avere la facoltà di provvedere a sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi e debbono poter determinare, sulla base delle indicazioni provenienti da disposizioni legislative regionali di dettaglio, anche la misura dell’anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.

Dalla combinazione di queste previsioni, la Corte ha tratto i criteri attraverso i quali produrre una segmentazione della normativa impugnata tale da renderla conforme al dettato costituzionale. Sulla base di quest’opera, allo Stato residuano (devono residuare) – oltre, ovviamente, ai profili penalistici – i poteri limitati alle disposizioni di principio riguardanti il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili.

Conseguentemente, pur facendo salvo l’impianto complessivo della normativa sottoposta al giudizio della Corte, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale di diverse disposizioni che violavano le competenze regionali, e segnatamente ad essere caducate sono state le disposizioni legislative che non prevedevano che la legge regionale potesse determinare:

a) le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio;

b) i limiti volumetrici inferiori a quelli indicati come massimi;

c) l’applicabilità della legge regionale pure alle opere – quand’anche si trattasse di beni insistenti su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale – situate nel territorio regionale.

È stata, inoltre, dichiarata l’illegittimità costituzionale de:

d) la mancata previsione di un rinvio esplicito alla legge regionale, in tema di sanatoria di opere abusive, per la determinazione di un termine perentorio, fissato invece dallo Stato, entro il quale le Regioni avrebbero dovuto esercitare il loro potere normativo;

e) la mancata previsione in base alla quale si attribuiva alla legge regionale il potere di disciplinare gli effetti del silenzio, protratto oltre il termine previsto, del comune cui gli interessati avessero presentato la documentazione richiesta;

f) la mancata attribuzione alla legge regionale del potere di determinare la misura dell’anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.

Finalmente, è stata dichiarata la incostituzionalità della normativa nella parte in cui non prevedeva che la legge regionale, recante i contenuti indicati nei precitati dispositivi di illegittimità costituzionale, dovesse essere emanata entro un congruo termine, da stabilirsi ad opera del legislatore statale: ciò in quanto l’attuazione della legislazione sul condono esige, ai fini dell’operatività della normativa in esame, che il legislatore nazionale provveda alla rapida fissazione di un termine che consenta alle Regioni e alle Province autonome di determinare tutte le specificazioni cui sono chiamate, con la riserva che, nell’ipotesi in cui una Regione o una Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo entro il termine prescritto, non potrà non trovare applicazione la disciplina statale.

Anche a seguito degli interventi caducatori della Corte, hanno perso rilievo le doglianze regionali tese a contestare l’intera disciplina del condono edilizio, sul presupposto che esso avrebbe operato un illegittimo bilanciamento tra valori costituzionali primari (in particolare, la tutela dei beni ambientali e paesaggistici) ed altri interessi pubblici. La Corte ha, invece, sottolineato come sia stato trovato un giusto contemperamento dei valori in gioco; il riconoscimento alla legislazione regionale di un ruolo specificativo delle scelte statali rafforza, d’altra parte, la considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela dell’ambiente e del paesaggio, che sono – per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle normative recanti condoni edilizi.

4.2.6. «Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia»

La Corte ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti della materia di competenza concorrente relativa alla produzione, al trasporto ed alla distribuzione nazionale dell’energia.

Ciò è avvenuto soprattutto con la sentenza n. 7, in cui si è stabilito che la disposizione legislativa regionale secondo la quale la Regione «emana linee guida per la progettazione tecnica degli impianti di produzione, di distribuzione e di utilizzo dell’energia e per le caratteristiche costruttive degli edifici», si colloca «inequivocabilmente» nell’ambito della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».

Tale disposizione deve dunque essere letta alla luce di quanto disposto dalla legislazione statale (decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79), con il che la disciplina contenuta, relativa alla progettazione tecnica degli impianti di produzione, alla distribuzione ed all’utilizzo dell’energia elettrica, oltre che alla costruzione dei relativi edifici, deve necessariamente uniformarsi alle regole tecniche predisposte – ai termini della disciplina statale – dal gestore nazionale, «al fine di garantire la più idonea connessione alla rete di trasmissione nazionale nonché la sicurezza e la connessione operativa tra le reti».

Così ricostruita nella sua portata, la norma impugnata si limita a prevedere la emanazione, da parte dei competenti organi regionali, di linee guida che dettino criteri per le attività ivi indicate, criteri puramente aggiuntivi rispetto a quelli individuati dalle «regole tecniche» adottate dal gestore nazionale. Viene con ciò stesso garantito il rispetto delle regole tecniche predisposte dal gestore nazionale e, in ultima analisi, il rispetto delle esigenze di unitarietà della rete tutelate dalla disciplina statale.

La censura inerente alla violazione da parte della Regione della competenza statale a porre principi fondamentali in materia concorrente è stata, conseguentemente, ritenuta priva di fondamento.

 

4.2.7. «Armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»

Con riguardo alla giurisprudenza su questa materia, si rinvia a quanto verrà detto infra, par. 6.1.

4.2.8. «Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali»

La sentenza n. 255, resa in sede di scrutinio della disciplina statale che detta i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo previsto dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, ha stabilito che nell’ambito competenziale in oggetto – e segnatamente nella sua seconda parte – rientrano «tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo».

In base ad un siffatto inquadramento, la Corte ha rilevato che il nuovo assetto accresce molto le responsabilità delle Regioni, «dato che incide non solo sugli importanti e differenziati settori produttivi riconducibili alla cosiddetta industria culturale, ma anche su antiche e consolidate istituzioni culturali pubbliche o private operanti nel settore».

Dato atto del (nuovo) ruolo delle Regioni, si è peraltro precisato che, per quanto il sostegno finanziario degli spettacoli sia ormai riconducibile ad una materia di cui al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione, ciò non può significare l’automatica sopravvenuta incostituzionalità della legislazione statale vigente in materia, anzitutto in conseguenza del principio della continuità dell’ordinamento.

In buona sostanza, «ci si trova con tutta evidenza dinanzi alla necessità ineludibile che in questo ambito, come in tutti quelli analoghi divenuti ormai di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., ma caratterizzati da una procedura accentrata, il legislatore statale riformi profondamente le leggi vigenti (in casi come questi, non direttamente modificabili dai legislatori regionali) per adeguarle alla mutata disciplina costituzionale». D’altra parte, le impellenti necessità finanziarie dei soggetti e delle istituzioni operanti nei diversi settori degli spettacoli hanno indotto il legislatore ad adottare la disposizione impugnata, che non a caso appare esplicitamente temporanea, essendo stata approvata «in attesa che la legge di definizione dei principî fondamentali di cui all’art. 117 della Costituzione fissi i criteri e gli ambiti di competenza dello Stato». In considerazione di questa eccezionale situazione di integrazione della legge n. 163 del 1985, la norma può trovare giustificazione la sua temporanea applicazione, mentre appare evidente che questo sistema normativo non potrà essere ulteriormente giustificabile in futuro.

4.3. Le materie attinenti alla competenza residuale delle Regioni

Nel corso del 2004, la Corte ha avuto modo di individuare alcune delle materie rientranti dell’ambito della competenza residuale delle Regioni ai termini della previsione di cui all’art. 117, quarto comma, della Costituzione. Possono, a tal riguardo, segnalarsi in particolare tre sentenze.

Nella prima (sentenza n. 1), è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione legislativa statale che disponeva la inapplicabilità delle disposizioni di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426, recante la disciplina del commercio, e delle sagre, fiere e manifestazioni di carattere religioso, benefico o politico.

Se la finalità religiosa, benefica o politica da cui sia connotata una fiera o una sagra non può valere, di per sé, a modificarne la natura e dunque a mutare l’ambito materiale cui la disciplina di tali manifestazioni inerisce – e che non può che essere individuato nella disciplina del «commercio» –, la Corte ha riconosciuto che trattasi di materia di competenza residuale ai sensi del quarto comma dell’art. 117.

Con una successiva decisione (sentenza n. 12), la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale di disposizioni legislative statali concernenti, rispettivamente, l’incentivazione dell’ippoterapia, il miglioramento genetico dei trottatori e dei galoppatori, la disciplina sanzionatoria per l’impianto abusivo di vigneti. All’uopo, la Corte, dopo aver distinto i diversi oggetti della disposizioni impugnate, ha ricondotto l’ippoterapia, consistente in un trattamento medico, alla «tutela della salute», enumerata fra le materie di potestà concorrente; di conseguenza il legislatore statale, anziché dettare norme puntuali e dettagliate, avrebbe dovuto limitarsi alla predisposizione di principî fondamentali.

Quanto al miglioramento genetico, esso è stato invece ascritto alla materia «agricoltura», di competenza residuale; peraltro, non vertendosi in ogni caso in una materia riconducibile ad alcuna potestà esclusiva dello Stato, la relativa disciplina è stata dichiarata incostituzionale, unitamente alla previsione del potere conferito al Ministro dell’economia e delle finanze di darvi attuazione, previsione che violava l’art. 117, sesto comma, della Costituzione, che attribuisce allo Stato potestà regolamentare nelle sole materie di competenza legislativa esclusiva.

Parimenti, la disciplina relativa all’impianto abusivo di vigneti è stata ricondotta al «nocciolo duro della materia agricoltura», affidata in via residuale alla competenza legislativa delle Regioni: in contrario, non avrebbe potuto rilevare che la disposizione era direttamente attuativa del regolamento comunitario relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, poiché ai sensi dell’art. 117, quinto comma, della Costituzione l’attuazione ed esecuzione della normativa comunitaria spettano, nelle materie di loro competenza, alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Infine, con la sentenza n. 380, la disposizione legislativa statale secondo cui «ai medici che conseguono il titolo di specializzazione [era] riconosciuto, ai fini dei concorsi, l’identico punteggio attribuito per il lavoro dipendente» è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui si applicava ai concorsi banditi dalle Regioni o dagli enti regionali. La norma, infatti, contrariamente alla tesi «espansiva» sostenuta dalla difesa erariale, atteneva specificamente alla disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego, e dunque la relativa regolamentazione era riferibile all’ambito della competenza esclusiva statale, sancita dall’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, limitatamente ai concorsi indetti dalle amministrazioni statali e dagli enti pubblici nazionali. Relativamente ai concorsi banditi dalle Regioni o dagli enti regionali, invece, essendo di immediata percezione l’impossibilità di collocare la disciplina all’interno del catalogo delle competenze legislative statali esclusive o in quello delle competenze concorrenti, non poteva che concludersi nel senso che la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale era riconducibile alla materia «innominata» dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, di spettanza delle Regioni ai termini del quarto comma dell’art. 117 della Costituzione.

4.4. Le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome

Nella giurisprudenza costituzionale del 2004, sono numerose le decisioni che hanno riguardato le Regioni speciali e/o le Province autonome. La gran parte, tuttavia, non ha interessato esclusivamente le autonomie speciali, con il che la relativa trattazione trova la propria sedes materiae nei paragrafi che precedono.

Con precipuo (ed esclusivo) riferimento alle Regioni speciali e/o alle Province autonome si segnalano, comunque, quattro decisioni.

Innanzi tutto, con riferimento all’ambito competenziale concorrente relativo a «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», merita un cenno la sentenza n. 8, che ha ad oggetto una disposizione legislativa del Friuli-Venezia Giulia. La Corte si sofferma preliminarmente sulla circostanza che non è desumibile dallo statuto alcuna competenza regionale in materia di energia; ciò nondimeno, in applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, si stabilisce che «non possono sussistere dubbi» sulla necessità di riconoscere in capo alla Regione la potestà legislativa anche alla Regione in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», da esercitarsi – ovviamente – nel rispetto dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.

In ordine al contenuto della disposizione regionale impugnata, essa, nel prevedere la possibilità che la Regione stipuli accordi con l’ente competente e con i proprietari della rete o tratti di rete al fine di realizzare, razionalizzare e ampliare la capacità di trasmissione degli elettrodotti, anche transfontalieri, deve essere interpretata in modo tale che faccia esclusivamente riferimento ad elettrodotti di competenza regionale con tensione non superiore a 150 KV (ben potendo essere gli elettrodotti di competenza della regione anche transfontalieri). Così intesa, la disposizione non viola le competenze statali nella materia dell’energia elettrica, in quanto non intende regolare anche l’esercizio di funzioni amministrative riservate allo Stato, quali quelle concernenti le reti con trasporto di energia con tensione superiore ai 150 KV e le determinazioni concernenti l’importazione e l’esportazione dell’energia.

Con la sentenza n. 412, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Provincia autonoma di Trento avverso la disposizione legislativa statale la quale prevede che l’autorizzazione integrata ambientale sia rilasciata con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, «sentite le regioni interessate», senza operare alcun richiamo alle Province autonome.

Fondandosi sul principio secondo cui «le disposizioni legislative statali devono essere interpretate in modo da assicurarne la conformità con la posizione costituzionalmente garantita alle Province autonome del Trentino-Alto Adige», nella decisione si è sottolineato come (in assenza di un espresso riferimento nella norma censurata alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, ma anche in presenza – all’interno della legge – di una clausola generale di salvaguardia per le attribuzioni delle autonomie speciali) la disposizione impugnata non possa intendersi nel senso di trasferire alla competenza statale autorizzazioni in materia ambientale che già appartengano alla competenza provinciale o di ridurre il ruolo delle determinazioni provinciali nell’ambito delle procedure di competenza statale.

Per quanto non direttamente concernente una questione di legittimità costituzionale, è da segnalare anche la sentenza n. 177. Nel corso di un giudizio sulla spettanza del potere ispettivo nei confronti degli istituti scolastici paritari presenti nella Regione Siciliana, la Corte ha avuto infatti modo di ricostruire il quadro normativo delle competenze dello Stato e della Regione in materia di istruzione, precisando che, sulla base delle norme di attuazione dello statuto, alla Regione spettano «le attribuzioni degli organi centrali e periferici dello Stato in materia di pubblica istruzione» e, specificamente, «le funzioni di vigilanza e tutela spettanti all’amministrazione dello Stato nei confronti di enti, istituti ed organismi locali, anche a carattere consorziale, che svolgono nella Regione attività nelle materie trasferite a norma del presente decreto»; allo Stato, invece, residua la competenza in ordine alla disciplina della natura giuridica e del riconoscimento legale degli istituti scolastici non statali, essendo assegnato valore legale in tutto il territorio nazionale ai titoli di studio conseguiti negli istituti scolastici non statali «parificati, pareggiati e legalmente riconosciuti dalla Regione in conformità dell’ordinamento statale».

Ora, dopo aver constatato che tale assetto delle competenze dello Stato e della regione in materia di istruzione, deve ritenersi confermato anche dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, stante il disposto dell’art. 10 della stessa legge, la Corte ha stabilito che l’introduzione nel sistema nazionale di istruzione della nuova figura della «scuola paritaria» non comporta alcuna modifica all’assetto delle competenze in materia, né può essere intesa quale attribuzione allo Stato di competenza amministrativa sulle scuole paritarie presenti sul territorio della Regione, nella misura in cui anche tale species deve essere ricondotta al genus degli istituti scolastici non statali, previsto e disciplinato dalle norme di attuazione dello statuto regionale in materia di istruzione. Deve, pertanto, riconoscersi alla Regione la competenza amministrativa e quindi anche la funzione di ispezione e di vigilanza in relazione alle scuole paritarie, ferma la competenza legislativa dello Stato a disciplinare le norme generali sull’istruzione e i principî dell’assetto ordinamentale del sistema nazionale di istruzione.

Un’ultima decisione da menzionare è la sentenza n. 220, resa a proposito di una legge della Regione Sardegna in materia di caccia, impugnata nella parte in cui esclude i cacciatori non residenti nella regione dalla possibilità di rinnovare l’autorizzazione venatoria. Disattendendo le censure prospettate dal giudice a quo, la Corte ha rilevato che una siffatta previsione non determina una ingiustificata differenziazione di trattamento per i cacciatori non residenti in Sardegna e non ostacola di fatto la libera circolazione delle persone tra le regioni: ciò in quanto la norma è rivolta a disciplinare esclusivamente la fase transitoria che precede l’attivazione degli ambiti territoriali di caccia previsti dal piano faunistico regionale e prevede che, in tale fase, la regola è costituita dalla sospensione delle autorizzazioni per l’esercizio della caccia per tutti. La possibilità del rinnovo delle autorizzazioni scadute in favore dei residenti si pone, dunque, quale eccezione a tale regola e trova giustificazione nel principio della preferenza del collegamento del cacciatore con il territorio, affermato dalla legislazione statale e applicato anche dalla legge regionale. In ragione, tra l’altro, della transitorietà della previsione, questa non può non ritenersi frutto di una scelta discrezionale del legislatore regionale che non trasmoda in manifesta irrazionalità.

4.5. L’attrazione di materie da parte dello Stato sulla base del principio di sussidiarietà

La sentenza n. 6 costituisce il seguito ideale della sentenza n. 303 del 2003, con la quale la Corte ha esplicitato la necessità di una lettura sistematica del testo costituzionale, tale da saldare le previsioni dell’art. 117 con quelle dell’art. 118.

Nel caso di specie, era stato impugnato da parte di alcune Regioni il decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, recante «Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale» (oggetto di impugnazione era poi stata anche la legge 9 aprile 2002, n. 55, di conversione del decreto legge).

La Corte ha riconosciuto che la disciplina oggetto dei ricorsi «insiste indubbiamente nell’ambito della materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, espressamente contemplata dall’art. 117, terzo comma, della Costituzione tra le materie affidate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni»; del pari, «è incontestabile che la disciplina impugnata non contiene principi fondamentali volti a guidare il legislatore regionale nell’esercizio delle proprie attribuzioni, ma norme di dettaglio autoapplicative e intrinsecamente non suscettibili di essere sostituite dalle Regioni».

Ciò premesso, è stato sottolineato come il problema della competenza legislativa dello Stato non possa essere risolto esclusivamente alla luce dell’art. 117 Cost., essendo indispensabile una ricostruzione che tenga conto dell’esercizio del potere legislativo di allocazione delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell’art. 118 Cost.

Sulla scorta di queste considerazioni, è stata dedotta l’infondatezza delle censure prospettate nei ricorsi regionali, atteso che la normativa ha «ridefinito in modo unitario ed a livello nazionale i procedimenti di modifica o ripotenziamento dei maggiori impianti di produzione dell’energia elettrica, in base all’evidente presupposto della necessità di riconoscere un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle corrispondenti funzioni amministrative».

Ovviamente, la valutazione della necessità del conferimento di una funzione amministrativa ad un livello territoriale superiore rispetto a quello comunale deve essere necessariamente effettuata dall’organo legislativo corrispondente almeno al livello territoriale interessato e non certo da un organo legislativo operante ad un livello territoriale inferiore («come sarebbe un Consiglio regionale in relazione ad una funzione da affidare – per l’esercizio unitario – al livello nazionale»).

Ora, alla luce di quanto stabilito nella sentenza n. 303 del 2003, affinché un siffatto intervento da parte del legislatore statale sia legittimo, è peraltro necessario (a) che esso rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni, (b) che esso detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, (c) che esso risulti limitato a quanto strettamente indispensabile a tale fine, (d) che esso risulti adottato a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione (o, comunque, che preveda adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali).

Applicando i criteri indicati alla normativa oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, la Corte ha rilevato, in primo luogo, «la necessarietà dell’intervento dell’amministrazione statale in relazione al raggiungimento del fine di evitare il “pericolo di interruzione di fornitura di energia elettrica su tutto il territorio nazionale”»: ciò in quanto «alle singole amministrazioni regionali – che si volessero attributarie delle potestà autorizzatorie contemplate dalla disciplina impugnata – sfuggirebbe la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia elettrica e l’autonoma capacità di assicurare il soddisfacimento di tale fabbisogno».

In secondo luogo, si è sottolineato come non potesse non riconoscersi, da un lato, la «specifica pertinenza» della normativa in relazione alla regolazione delle funzioni amministrative in questione, e, dall’altro, che tale normativa si è limitata ad una regolamentazione «in funzione del solo fine di sveltire le procedure autorizzatorie necessarie alla costruzione o al ripotenziamento di impianti di energia elettrica di particolare rilievo».

Finalmente, in merito alla necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale e i livelli regionali, sono stati considerati adeguati i due distinti livelli di partecipazione delle Regioni disciplinati nel decreto legge n. 7 del 2002, quale convertito dalla legge n. 55 del 2002: per il primo comma dell’art. 1, quale opportunamente modificato in sede di conversione, la determinazione dell’elenco degli impianti di energia elettrica che sono oggetto di questi speciali procedimenti viene effettuata «previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano»; per il secondo comma dell’art. 1, l’autorizzazione ministeriale per il singolo impianto «è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano le Amministrazioni statali e locali interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, d’intesa con la Regione interessata».

Il riferimento all’intesa è stato poi ulteriormente specificato nel senso che essa «va considerata come un’intesa “forte”», tale per cui «il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento», a causa del «particolarissimo impatto» che un impianto di energia elettrica ha «su tutta una serie di funzioni regionali, relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, etc.».

La medesima ratio decidendi è stata alla base della sentenza n. 233, con la quale la Corte ha risolto il conflitto intersoggettivo originato dalla deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica relativa al Metro leggero automatico di Bologna.

Dato conto della riconducibilità dell’atto a materia di competenza concorrente, la Corte ha ricapitolato i criteri sulla base dei quali lo Stato può attrarre a sé funzioni in base al principio di sussidiarietà, soffermandosi, in particolare, sul pieno coinvolgimento della Regione interessata tramite la partecipazione alla riunione del Cipe, sul necessario «consenso, ai fini dell’intesa sulla localizzazione, dei Presidenti delle Regioni e Province autonome interessate», e sulla necessità di «assicurare alle Regioni una adeguata possibilità di rappresentare la propria posizione, nel rispetto del principio di leale collaborazione».

Nella vicenda concernente l’approvazione del progetto della metropolitana di Bologna, la Corte ha rilevato che l’art. 3 del decreto legislativo n. 190 del 2002 disciplina analiticamente la procedura di elaborazione ed adozione del progetto preliminare delle infrastrutture strategiche di rilevante interesse nazionale e, in questo ambito, prevede puntualmente il ruolo ed i poteri delle Regioni e delle Province autonome, nonché le eventuali procedure alternative in caso di loro motivato dissenso. In concreto, tuttavia, si è riscontrato il mancato rispetto di queste previsioni (in particolare, sulla deliberazione la Regione non ha espresso il proprio consenso), ciò che ha costituito, quindi, «sicura violazione» del principio di leale collaborazione, «la cui osservanza è tanto più necessaria in un ambito come quello di una procedura che integra l’esercizio in sussidiarietà da parte di organi statali di rilevanti poteri in materie di competenza regionale».

4.6. La contrapposizione tra la legislazione statale e la legislazione regionale ed il ruolo del giudizio di legittimità costituzionale

A conclusione della trattazione relativa al riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, giova soffermarsi, sia pur brevemente, su un tema di particolare importanza, quello cioè del modo di esercizio delle competenze, segnatamente nel caso in cui si producano contrasti tra legislazioni.

Le disposizioni costituzionali in tema di rapporti tra gli enti territoriali «presuppongono che l’esercizio delle competenze legislative da parte dello Stato e delle Regioni, secondo le regole costituzionali di riparto delle competenze, contribuisca a produrre un unitario ordinamento giuridico, nel quale certo non si esclude l’esistenza di una possibile dialettica fra i diversi livelli legislativi, anche con la eventualità di parziali sovrapposizioni fra le leggi statali e regionali, che possono trovare soluzione mediante il promuovimento della questione di legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte, secondo le scelte affidate alla discrezionalità degli organi politici statali e regionali». È, però, «implicitamente escluso dal sistema costituzionale […] che il legislatore regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali) utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio» dinanzi alla Corte costituzionale, attraverso il giudizio di legittimità costituzionale in via principale.

Tali considerazioni hanno guidato la Corte nello scrutinio di costituzionalità delle leggi regionali che negavano unilateralmente – in forme ed in misura talvolta parzialmente diverse – la possibilità di applicare nel territorio regionale la sanatoria edilizia statale di tipo straordinario prevista dall’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003 (oggetto, a sua volta, della sentenza n. 196). Le declaratorie di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 198 sono state, quindi, il logico corollario del principio secondo cui «né lo Stato né le Regioni possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti tra i rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge».

La medesima ratio decidendi è stata impiegata, nella sentenza n. 199, al fine di dichiarare che non spettava ad una Regione, e per essa alla Giunta regionale, adottare un atto con il quale si negava efficacia, all’interno del proprio territorio, all’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, dovendosi all’uopo constatare che ciò che è precluso ad una legge regionale (o statale) è precluso, a fortiori, ad un atto amministrativo di indirizzo che dichiari o presupponga l’inapplicabilità di un atto legislativo (rispettivamente dello Stato o delle Regioni).

 

5. I poteri sostitutivi

Un numero considerevole di decisioni, nel corso del 2004, ha riguardato il tema della configurabilità, in capo ad enti diversi dallo Stato (ed in ipotesi altrie rispetto a quelli contemplati nel secondo comma dell’art. 120 della Costituzione), di poteri che comportano la sostituzione di organi di un ente a quelli di un altro, ordinariamente competente, nel compimento di atti, ovvero la nomina da parte dei primi di organi straordinari dell’ente «sostituito» per il compimento degli stessi atti.

Il tema, come è chiaro, assume una particolare delicatezza, se è vero che siffatti poteri concorrono a configurare ed a limitare l’autonomia dell’ente nei cui confronti opera la sostituzione, con il che essi debbono trovare fondamento esplicito o implicito nelle norme o nei principi costituzionali che tale autonomia prevedono e disciplinano.

Rigettando le prospettazioni erariali, la Corte ha stabilito che l’art. 120, secondo comma, della Costituzione «non può essere inteso nel senso che esaurisca, concentrandole tutte in capo allo Stato, le possibilità di esercizio di poteri sostitutivi», in quanto «esso prevede solo un potere sostitutivo straordinario, in capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli interessi ivi esplicitamente indicati» (enfasi testuale), e lascia dunque impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari.

Non è allora preclusa, «in via di principio», la possibilità che la legge regionale, «intervenendo in materie di propria competenza, e nel disciplinare, ai sensi dell’art. 117, terzo e quarto comma, e dell’art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l’esercizio di funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi».

Un siffatto riconoscimento non può, tuttavia, non essere contornato da condizioni e limiti; condizioni e limiti ricavabili, essenzialmente, da quelli elaborati dalla giurisprudenza costituzionale anteriormente alla riforma costituzionale del 2001, in relazione ai poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni. In particolare, (a) «le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi debbono essere previste e disciplinate dalla legge […], che deve definirne i presupposti sostanziali e procedurali», (b) «la sostituzione può prevedersi esclusivamente per il compimento di atti o di attività “prive di discrezionalità nell’an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo)” […], la cui obbligatorietà sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l’intervento sostitutivo» (affinché la sostituzione «non contraddica l’attribuzione della funzione amministrativa all’ente locale sostituito»), (c) «il potere sostitutivo deve essere […] esercitato da un organo di governo della Regione o sulla base di una decisione di questo» («ciò che è necessario stante l’attitudine dell’intervento ad incidere sull’autonomia, costituzionalmente rilevante, dell’ente sostituito»), (d) «la legge deve […] apprestare congrue garanzie procedimentali per l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione» («dovrà dunque prevedersi un procedimento nel quale l’ente sostituito sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione attraverso l’autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso procedimento)».

L’insieme di queste considerazioni, formulate nella sentenza n. 43 (dalla quale sono tratti i brani citati), sono state poi ribadite nelle successive decisioni che hanno avuto ad oggetto il medesimo tema.

Nella sentenza n. 43 si è ritenuto che la disposizione regionale impugnata fosse rispettosa di tutti i limiti e di tutte le condizioni sopra enucleati. Del pari, immuni da censure sono risultate le disposizioni regionali, oggetto dei giudizi conclusi con le sentenze numeri 70, 71, 72, 73, 140 e 172, che attribuivano ad organi regionali poteri sostitutivi. Infondate sono state dichiarate anche le questioni sollevate in merito a disposizioni legislative regionali che attribuivano poteri sostitutivi, per un verso, alla Regione nei confronti delle Province, e, per l’altro, alle Province nei confronti dei Comuni e di altri enti minori (sentenza n. 227).

La declaratoria di illegittimità costituzionale ha invece colpito una disposizione di legge regionale che, nel prevedere un potere sostitutivo della Regione nei confronti dei Comuni, non determinava «in alcun modo» la tipologia delle sostituzioni affidate alla Regione, non individuava l’organo regionale competente, non disciplinava la procedura di esercizio del potere, né prevedeva «alcun meccanismo di collaborazione con l’ente inadempiente» (sentenza n. 69). Analoga sorte hanno avuto le disposizioni legislative regionali che affidavano poteri sostitutivi al difensore civico, in quanto quest’ultimo, per la sua natura e per le funzioni esercitate, non può essere configurato alla stregua di un organo di governo regionale, configurazione che, «sola», consente di esercitare nei confronti degli enti locali interventi di tipo sostitutivo (sentenze numeri 112 e 173).

Alla luce dei medesimi principi, è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da una Regione nei confronti della previsione, con atto legislativo statale, di un potere sostitutivo statale da esercitarsi da parte di un commissario straordinario di nomina governativa, secondo modalità che sono state ritenuti tali da offrire idonee garanzie circa il rispetto del principio di leale cooperazione (sentenza n. 240).

Infine, il tema del potere sostitutivo, ed in particolare il potere sostitutivo «straordinario» di cui al secondo comma dell’art. 120 della Costituzione, è stato oggetto anche della sentenza n. 236, che ha definito i ricorsi presentati dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Regione Sardegna in ordine all’art. 8 della legge n. 131 del 2003, attuativo del disposto costituzionale. La Corte ha rilevato, nell’occasione, che «la previsione del potere sostitutivo fa […] sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari». Alla luce di ciò, non sarebbe ammissibile una «disarticolazione» di questo sistema, in applicazione della «clausola di favore», nei confronti delle Regioni ad autonomia differenziata, dissociando il titolo di competenza dai meccanismi di garanzia ad esso immanenti: la conclusione è stata dunque nel senso che un potere sostitutivo potrà trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni speciali e delle Province autonome. Peraltro, «riguardo alle competenze già disciplinate dai rispettivi statuti, continueranno […] ad operare le specifiche tipologie di potere sostitutivo in essi (o nelle norme di attuazione) disciplinate».

Al quadro di riferimento così tratteggiato non è comunque seguito un esame nel merito delle questioni prospettate, essendosi constatato che «il concreto trasferimento alle Regioni ad autonomia speciale delle funzioni ulteriori attratte dal nuovo Titolo V deve essere effettuato con le procedure previste dall’art. 11 della legge n. 131 del 2003, ossia con norme di attuazione degli statuti adottate su proposta delle commissioni paritetiche», con la conseguenza che, «fino a quando tali norme di attuazione non saranno state approvate, la disciplina del potere sostitutivo di cui si [è] contesta[ta] la legittimità resta nei loro confronti priva di efficacia e non è idonea a produrre alcuna violazione delle loro attribuzioni costituzionali».

6. Il regime finanziario dello Stato, delle Regioni e degli enti locali

Nel corso del 2004, la Corte ha avuto modo di intervenire su molti aspetti correlati al regime finanziario disegnato dal nuovo art. 119 della Costituzione. Il tema si interseca con quello relativo alla ripartizione delle competenze normative tra Stato e Regioni (ma anche enti locali), specie in connessione con la previsione – al terzo comma dell’art. 117 – di una competenza concorrente in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Onde evitare di tracciare distinzioni che possano risultare artificiose, in questa sede verranno prese in considerazione le più significative tra le decisioni che riguardino atti aventi dirette implicazioni finanziarie.

6.1. Legislazione statale ed autonomie finanziarie

a) Le disposizioni della legge finanziaria 2002, che pongono limiti e divieti nei confronti del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni non sono lesive delle competenze regionali, in quanto sono riconducibili a ben individuate competenze statali: ciò vale, secondo quanto stabilito nella sentenza n. 4, per la norma secondo cui «gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali per il biennio 2002-2003 sono a carico delle amministrazioni di competenza nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci», e per quella in base alla quale, con riguardo alla contrattazione integrativa, i comitati di settore, in sede di deliberazione degli atti di indirizzo, si attengono ai «criteri indicati per il personale» dipendente dello Stato. Tali previsioni, infatti, rientrano nella materia, di competenza concorrente (art. 117, terzo comma, della Costituzione), della «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica» e fissano – in linea con gli impegni assunti dall’Italia «in sede comunitaria» – principi fondamentali volti al contenimento della spesa corrente.

Anche le previste verifiche congiunte tra comitati di settore e Governo in merito alle implicazioni finanziarie della contrattazione integrativa di comparto impongono regole strumentali rispetto al fine – legittimamente perseguito dalla legislazione statale in sede di coordinamento della finanza pubblica – di valutazione della compatibilità con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale.

Per quanto riguarda il divieto agli enti locali di assumere personale a tempo indeterminato e di ricorrere, per la copertura dei posti disponibili, alle procedure di mobilità, le disposizioni statali perseguono il fine di dare effettività al patto di stabilità interno incidendo su una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo; sicché – attesa la stretta attinenza di tali precetti con il fine del coordinamento della finanza pubblica, sub specie del contenimento della spesa corrente – non sussiste alcuna compressione delle competenze regionali.

È, infine, chiaramente strumentale rispetto al fine di coordinamento della finanza pubblica, e costituisce norma di principio, anche la disposizione secondo cui gli organi di revisione contabile accertano che i documenti di programmazione del fabbisogno di personale siano improntati al rispetto del principio di riduzione complessiva della spesa e che eventuali deroghe a tale principio siano analiticamente motivate.

b) Sulla base delle medesime considerazioni, con la sentenza n. 260, viene respinta l’impugnazione dell’Emilia-Romagna nei confronti delle disposizioni che, nelle leggi finanziarie del 2003 e del 2004, pongono vincoli ai comitati di settore in sede di deliberazione degli atti di indirizzo riguardanti i dipendenti del comparto Regioni-autonomie locali.

c) La sentenza n. 17 ha ad oggetto alcune disposizioni della legge finanziaria 2002 che prevedono che le pubbliche amministrazioni, da un lato, sono autorizzate ad acquistare sul mercato i servizi originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione, e, dall’altro, possono costituire soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, nel rispetto del principio di economicità, si limitano ad indicare, con carattere non vincolante per l’autonomia delle regioni, talune possibili modalità procedimentali per l’acquisizione e l’affidamento dei servizi (c.d. esternalizzazione dei servizi) con finalità esclusivamente economico-finanziarie.

Correttamente interpretata, la normativa in esame costituisce, in realtà, una indicazione di principio di possibili misure adottabili, nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica, in ordine al reperimento di forme aggiuntive di copertura delle spese e di finanziamento, nonché di riduzione dei fabbisogni finanziari per la gestione dei «servizi».

Del pari, la disposizione che prevede che le amministrazioni pubbliche possono ricorrere a forme di autofinanziamento, grazie alle entrate proprie derivanti dalla cessione dei servizi prodotti o dalla compartecipazione alle spese da parte degli utenti del servizio (al fine di ridurre gli stanziamenti a carico del bilancio dello Stato), non costituisce lesione della competenza legislativa regionale residuale in materia di organizzazione e funzionamento della Regione: essa si giustifica, infatti, non solo sulla base dei poteri dello Stato diretti all’armonizzazione ed al coordinamento dei bilanci, delle spese e delle entrate dell’intera finanza pubblica, compreso il sistema tributario, ma anche in ragione del fatto che l’autofinanziamento delle funzioni attribuite alle Regioni (ed agli enti locali) costituisce – nel nuovo assetto delle competenze costituzionali – null’altro che un corollario della potestà legislativa regionale esclusiva in materia.

Inoltre, la disposizione non pone limiti al legislatore regionale sul presupposto, addotto dalle regioni ricorrenti, del disconoscimento del carattere autonomo e non più derivato della finanza regionale: essendo stato dato avvio – con il decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 56 – al passaggio dal sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario per trasferimenti a quello che prevede l’accesso diretto (mediante la c.d. compartecipazione ad alcuni tributi statali), l’applicabilità della norma de qua non può ledere l’autonomia finanziaria regionale, dovendo questa conformarsi ai principi fondamentali fissati dalla legge statale; né è sufficiente ad integrare detta violazione la semplice circostanza della riduzione dei trasferimenti e stanziamenti statali a seguito di entrate proprie. D’altra parte, la norma denunciata – per la sua natura di principio e per l’interpretazione che deve essere data al necessario presupposto compensativo di corrispondenti entrate proprie regionali – non è tale da poter comportare uno squilibrio incompatibile con le esigenze complessive della spesa regionale.

Non costituisce, infine, un indebito potere di indirizzo e coordinamento l’attribuzione, in capo al Ministro per l’innovazione e le tecnologie, del potere di definire, per il miglioramento della qualità dei servizi e la razionalizzazione della spesa per informatica, gli indirizzi per l’impiego ottimale dell’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni: ciò in quanto trattasi di un potere limitato, per quanto riguarda le Regioni, ad un coordinamento meramente tecnico, rientrante nell’ambito della previsione costituzionale di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati delle pubbliche amministrazioni, secondo la previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione.

d) Secondo quanto affermato nella sentenza n. 36, i limiti posti dalle disposizioni della legge finanziaria 2002 alla crescita della spesa corrente degli enti locali, in termini di impegni e pagamenti, sono introdotti in osservanza del cosiddetto patto di stabilità interno, concernente il concorso delle Regioni e degli enti locali «alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha adottato con l’adesione al patto di stabilità e crescita» definito in sede di Unione europea. Non è contestabile, al riguardo, il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali (condizionati anche da obblighi comunitari), vincoli alle politiche di bilancio, anche qualora questi si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti. La natura e la finalità di tali vincoli escludono pertanto che tali disposizioni possano considerarsi come esorbitanti dall’ambito di una disciplina di principio spettante alla competenza dello Stato.

Non può, inoltre, negarsi che, in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti, il legislatore statale possa, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, introdurre per un anno un limite alla crescita della spesa corrente degli enti autonomi, tenendo conto che, comunque, si tratta di un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.

e) Strettamente correlata alla sentenza n. 36 è la sentenza n. 353, resa a proposito di questioni sollevate dalle Province autonome di Trento e di Bolzano e dalla Regione Trentino-Alto Adige. I ricorrenti denunciano la disposizione della legge finanziaria 2003 ai termini della quale «le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano concordano con il Ministero dell’economia e delle finanze, per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, il livello delle spese correnti e dei relativi pagamenti»: la disposizione è censurata nella parte in cui consente che sia il Ministro a determinare unilateralmente, in mancanza dell’accordo, i flussi di cassa verso gli enti. La Corte osserva che, pur dovendosi privilegiare il metodo dell’accordo, non si può escludere che, in pendenza delle trattative, lo Stato possa imporre qualche limite anche alle Regioni speciali, nell’esercizio del potere di coordinamento della finanza pubblica nel suo complesso ed in vista di obiettivi nazionali di stabilizzazione finanziaria, al cui raggiungimento tutti gli enti autonomi, compresi quelli ad autonomia speciale, sono chiamati a concorrere. Nella specie, deve ritenersi che il potere amministrativo attribuito dalla norma al Ministro non necessiti di criteri e limiti sostanziali, poiché può essere esercitato solo in correlazione ed al fine del contenimento della spesa degli enti entro i limiti oggettivi risultanti dalla legge, oltre che dai documenti di programmazione: in altri termini, il Ministro non gode di un ambito di discrezionalità politica, bensì solo di un potere di determinazione prevalentemente tecnica il cui esercizio è ancorato a parametri oggettivi.

f) La sentenza n. 390 riconduce alla competenza statale consistente nel dettare i principi fondamentali in materia di «coordinamento della finanza pubblica» anche la disposizione della legge finanziaria 2004 secondo cui le amministrazioni pubbliche diverse da quelle dello Stato «adeguano le proprie politiche di reclutamento di personale al principio di contenimento della spesa in coerenza con gli obiettivi fissati dai documenti di finanza pubblica». La Corte ritiene evidente che la legislazione statale fissi un principio che non limita in alcun modo l’autonomia regionale riguardo ai concreti strumenti (adeguamento delle proprie «politiche di reclutamento del personale») attraverso i quali quell’obiettivo («contenimento della spesa») può essere raggiunto.

Ben può, inoltre, prevedere, la legge statale, un accordo tra Governo, Regioni ed autonomie locali volto a far sì che vi sia il «concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica», e che l’accordo sia trasfuso in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che fissi «per le amministrazioni regionali, per le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti che abbiano rispettato le regole del patto di stabilità interno per l’anno 2002, per gli altri enti locali e per gli enti del Servizio sanitario nazionale, criteri e limiti per le assunzioni a tempo indeterminato per l’anno 2003». Anche tale previsione costituisce un principio di «coordinamento della finanza pubblica», legittimamente apposto coinvolgendo nell’individuazione dei «criteri e limiti per le assunzioni a tempo indeterminato» le Regioni e le autonomie locali.

Non altrettanto può dirsi, invece, per la disposizione secondo cui le assunzioni a tempo indeterminato devono, comunque, essere contenute entro percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso dell’anno 2002: in questo caso, infatti, la disposizione non si limita a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma pone un precetto specifico e puntuale che si risolve in una indebita invasione dell’area (individuabile nell’organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può solo prescrivere criteri ed obiettivi, ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.

g) La disposizione della legge finanziaria 2003 ai termini della quale «le somme iscritte nei capitoli del bilancio dello Stato aventi natura di trasferimenti alle imprese per contributi alla produzione e agli investimenti affluiscono ad appositi fondi rotativi in ciascuno stato di previsione della spesa» (con la connessa disposizione che prevede che tali contributi «sono attribuiti secondo criteri e modalità stabiliti dal Ministro dell’economia e delle finanze») intende fissare un limite al costo degli interventi, anche regionali, di contribuzione alla produzione e agli investimenti: pur trattandosi di disposizione con finalità di contenimento della spesa pubblica regionale ed essendo, dunque, atta ad incidere sulla finanza regionale, la Corte, con la sentenza n. 414, ha ritenuto che fosse comunque rispettosa del criterio di riparto in materia di «coordinamento finanziario», in quanto volta esclusivamente a porre limiti massimi all’onerosità, sotto diversi aspetti, degli interventi regionali di sostegno all’imprenditoria.

6.2. Il sistema finanziario e tributario degli enti locali

Nelle pronunce che seguono, la Corte traccia le linee guida volte a configurare il sistema finanziario e tributario degli enti locali in conformità al nuovo art. 119 della Costituzione.

a) Con la sentenza n. 37, in occasione della impugnativa nei confronti di diverse disposizioni della legge finanziaria 2002 relative all’imposta sulla pubblicità, a diversi tributi locali, all’addizionale comunale e provinciale all’Irpef ed alla compartecipazione dei Comuni al gettito dell’Irpef, la Corte sottolinea che «l’art. 119 della Costituzione considera, in linea di principio, sullo stesso piano Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, stabilendo che tutti tali enti “hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (primo comma), hanno “risorse autonome” e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri”, sia pure “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ed inoltre “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (secondo comma)». Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, consentono (recte, debbono consentire) agli enti di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (quarto comma), salva la possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma o «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni degli enti autonomi».

L’attuazione di questo disegno costituzionale richiede, peraltro, l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi ed i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali.

Un siffatto intervento richiede altresì la definizione di una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema – caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in non piccola parte «derivata» e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità di autonome scelte riconosciute a Regioni ed enti locali – ad uno affatto nuovo.

Ad oggi non si danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo «propri» delle Regioni o degli enti locali, nel senso che essi siano frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possano essere disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto dei soli principi di coordinamento (attualmente assenti in quanto «incorporati» in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato). In tal senso, non è eccezione probante quella dei tributi di cui oggi la legislazione dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legislazione riconosce spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina, trattandosi comunque di tributi che sono quasi integralmente riconducibili a determinazioni provenienti dal centro.

Per quanto poi riguarda i tributi locali, stante la riserva di legge che copre tutto l’ambito delle prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 della Costituzione), e che comporta la necessità di disciplinare a livello legislativo quanto meno gli aspetti fondamentali dell’imposizione, e data l’assenza di poteri legislativi in capo agli enti sub-regionali, dovrà anche essere definito, da un lato, l’ambito in cui potrà esplicarsi la potestà regolamentare degli enti medesimi, e, dall’altro lato, il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario dei tributi locali (potendosi in astratto concepire situazioni di disciplina normativa a tre livelli – legislativa statale, legislativa regionale, e regolamentare locale – oppure a due soli livelli – statale e locale, ovvero regionale e locale –).

Dalle premesse enunciate discende l’impossibilità di accedere alla tesi secondo cui la materia del «sistema tributario degli enti locali» spetterebbe fin da oggi alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Correlativamente, non possono essere accolte le censure basate sul carattere dettagliato e non di principio delle disposizioni impugnate in materia di tributi locali o devoluti agli enti locali: le norme impugnate, infatti, recano modifiche particolari ad aspetti di tributi che già erano oggetto di specifica disciplina in preesistenti leggi statali, e sui quali quindi il legislatore statale conserva un potere di intervento sino alla definizione delle premesse del nuovo sistema impositivo delle Regioni e degli enti locali.

b) Sulla base delle considerazioni contenute nella sentenza n. 37, la Corte respinge, con la sentenza n. 241, il ricorso avverso le norme che delegano il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la graduale eliminazione dell’Irap (legge 7 aprile 2003, n. 80). Si esclude, infatti, che tale tributo possa considerarsi alla stregua di un «tributo proprio» della Regione e si riafferma, quindi, la spettanza al legislatore statale della potestà di dettare norme modificative della disciplina.

Aggiunge la Corte che il legislatore non ha violato il disposto del nuovo art. 119 della Costituzione. In tal senso, sono ritenuti elementi idonei a fondare la conformità dell’intervento legislativo ai principi che il novellato art. 119 della Costituzione pone a garanzia dell’autonomia regionale in materia tributaria la previsione della soppressione graduale dell’Irap, l’assicurazione che – sino al completamento del processo di attuazione della riforma costituzionale – sono garantiti (anche in termini qualitativi, oltre che quantitativi) gli attuali meccanismi di finanza regionale, nonché la prevista intesa con le Regioni per compensare la progressiva riduzione dell’Irap con trasferimenti e compartecipazioni e, non ultima, la salvezza delle eventuali anticipazioni del federalismo fiscale.

c) Sempre in linea di continuità, la Corte respinge, con la sentenza n. 381, i ricorsi avverso le disposizioni contenute nelle leggi finanziarie 2003 e 2004 che, nella sostanza, sospendono gli aumenti per le addizionali Irpef e le maggiorazioni dell’aliquota Irap. Siffatte previsioni appaiono alla Corte giustificabili in base alla considerazione che esse si traducono in una temporanea e provvisoria sospensione dell’esercizio del potere regionale in attesa di un complessivo ridisegno dell’autonomia tributaria delle Regioni, nel quadro dell’attuazione del nuovo art. 119 Cost., nonché di una manovra che investe, da un lato, la struttura di un tributo indubitabilmente statale, quale è l’Irpef, destinato a modificazioni profonde, e, dall’altro, quella di un tributo, quale l’Irap, che è tuttora disciplinato dalla legge dello Stato. Né risulta dimostrato che le disposizioni producano una complessiva insufficienza dei mezzi finanziari a disposizione delle Regioni per l’adempimento dei loro compiti.

d) Considerazioni analoghe consentono, nella sentenza n. 431, di respingere il ricorso avverso la disposizione contenuta nella legge finanziaria 2003 che prevede talune proroghe di agevolazioni fiscali relative all’Irap inerenti all’agricoltura. Non condivisibile, in particolare, è ritenuta la tesi secondo cui ogni intervento sul tributo che comporti un minor gettito per le Regioni dovrebbe essere accompagnato da misure compensative per la finanza regionale. Non può, infatti, essere effettuata una atomistica considerazione di isolate disposizioni modificative del tributo, senza considerare nel suo complesso la manovra fiscale entro la quale esse trovano collocazione, ben potendosi verificare che, per effetto di plurime disposizioni di leggi, il gettito complessivo destinato alla finanza regionale non subisca riduzioni.

e) Anche il ricorso avverso la disposizione, contenuta nella legge finanziaria 2003, che dispone la fissazione delle basi di calcolo dei sovracanoni per la produzione di energia idroelettrica è stato respinto (sentenza n. 261). Tale disciplina, ribadisce la Corte, attiene alla materia del sistema finanziario e tributario degli enti locali e, in attesa di un intervento legislativo attuativo dell’art. 119 Cost., spetta tuttora al legislatore statale la potestà di dettare norme modificative, anche nel dettaglio, della disciplina dei sovracanoni.

6.3. I fondi speciali istituiti dallo Stato

In un’altra (nutrita) serie di pronunce, la Corte verifica la conformità all’art. 119 della Costituzione di alcuni fondi speciali istituiti dallo Stato.

a) Viene innanzi tutto in rilievo la disposizione della legge finanziaria 2002 che istituisce presso il Ministero dell’interno il Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni e che demanda ad un regolamento ministeriale il compito di dettare le disposizioni per la ripartizione del Fondo tra gli enti interessati.

La Corte, nella sentenza n. 16, sottolinea che nel nuovo contesto costituzionale di distribuzione delle competenze legislative, amministrative e finanziarie non possono trovare spazio interventi finanziari diretti dello Stato a favore dei Comuni, vincolati nella destinazione, per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi, fuori dall’ambito dell’attuazione di discipline dettate dalla legge statale nelle materie di propria competenza, o della disciplina degli speciali interventi finanziari in favore di determinati Comuni. Siffatte forme di intervento non sono ammissibili, in particolare, nell’ambito di materie e funzioni la cui disciplina spetta alla legge regionale, pur eventualmente nel rispetto (quanto alle competenze concorrenti) dei principi fondamentali della legge dello Stato.

Sulla scorta di tali affermazioni di principio, la disposizione impugnata viene dichiarata costituzionalmente illegittima. Ora, poiché la caducazione di tale norma non comportava diretto e immediato pregiudizio per diritti delle persone, la Corte ha ritenuto insussistenti ragioni di ordine costituzionale che si opponessero ad una dichiarazione di incostituzionalità in toto. Onde essere destinati alla finanza locale, i fondi in questione dovranno dunque essere assoggettati, se del caso, ad una nuova disciplina legislativa, che sia rispettosa della Costituzione.

b) Le considerazioni svolte nella sentenza n. 16 sono riproposte nella sentenza n. 49, che dichiarata la illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nella legge finanziaria 2002 che istituiscono ex novo il Fondo nazionale per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle regioni e degli enti locali e il fondo nazionale per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale.

c) Altresì illegittima risulta la disposizione della legge finanziaria 2004 che affida la gestione del Fondo istituito al fine di garantire il rimborso dei c.d. prestiti fiduciari in favore degli studenti capaci e meritevoli a Sviluppo Italia S.p.a., società interamente partecipata dallo Stato. In questo caso, le modalità di utilizzo del fondo di garanzia, attinente alla materia dell’istruzione, comportano scelte discrezionali relativamente ai criteri di individuazione degli studenti capaci e meritevoli che esigono un diretto coinvolgimento delle Regioni, in quanto titolari di potestà legislativa concorrente nella specifica materia. Di ciò – conclude la Corte nella sentenza n. 308 – non ha tenuto conto la disposizione in questione, che ha indebitamente riservato ogni potere decisionale ad organi dello Stato o ad enti ad esso comunque riferibili, quale, appunto la sopra menzionata società per azioni.

d) Costituzionalmente illegittima si rivela anche la disposizione della legge finanziaria 2003 nella è previsto l’intervento legislativo dello Stato in tema di asili nido, nonché la creazione di un Fondo statale di finanziamento dei datori di lavoro che realizzino asili nido o micro-nidi nei luoghi di lavoro.

A tale declaratoria, contenuta nella sentenza n. 320, si giunge rilevando che la disciplina degli asili nido ricade nell’ambito della materia dell’istruzione (sia pure in relazione alla fase pre-scolare del bambino), nonché, per altri versi, nella materia della tutela del lavoro, che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione affida parimenti alla potestà legislativa concorrente, con la conseguenza che in questi ambiti il legislatore statale può determinare soltanto i principi fondamentali della materia e non può dettare, quindi, una disciplina dettagliata ed esaustiva. In sostanza, si sottolinea ulteriormente che l’art. 117 della Costituzione vieta che in una materia di competenza legislativa regionale si prevedano interventi finanziari statali, seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative non derivanti dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze.

e) Sempre in linea di continuità con le pronunce che precedono (ed in particolare la sentenza n. 16), la Corte affronta, nella sentenza n. 423, i ricorsi proposti nei confronti delle disposizioni contenute nelle leggi finanziarie 2003 e 2004 riguardanti il Fondo per le politiche sociali. In premessa, si sottolinea che l’attuale sistema di finanziamento delle politiche sociali consiste nella previsione della regola generale secondo cui la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali si avvale di un finanziamento plurimo al quale concorrono, secondo competenze differenziate e con dotazioni finanziarie afferenti ai rispettivi bilanci, lo Stato, le Regioni e gli enti locali.

Dalla lettura delle caratteristiche che connotano la struttura e la funzione del Fondo, la Corte desume che lo stesso non è riconducibile ad alcuno degli strumenti di finanziamento previsti dal nuovo art. 119 della Costituzione. Da ciò non consegue, tuttavia, la sua soppressione, in quanto, per un verso, il Fondo è destinato a finanziare anche funzioni statali, e, per l’altro, la sua perdurante operatività per gli aspetti di incidenza sul sistema dell’autonomia finanziaria regionale si giustifica in via transitoria fino all’attuazione del nuovo modello delineato dall’art. 119 della Costituzione (si sottolinea, peraltro, che in questa fase non sono comunque ammesse nuove prescrizioni che incidano in senso peggiorativo sugli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore ovvero che contraddicano i principi fissati dallo stesso art. 119).

Alla luce di tali considerazioni e delle disposizioni costituzionali riguardanti l’autonomia finanziaria regionale, la Corte ritiene fondata la questione relativa alla prevista destinazione di almeno il 10 per cento delle risorse del Fondo «a sostegno delle politiche in favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l’acquisto della prima casa di abitazione e per il sostegno alla natalità». La disposizione pone, infatti, un preciso vincolo di destinazione nell’utilizzo delle risorse da assegnare alle Regioni in contrasto con i criteri ed i limiti che presiedono all’attuale sistema di autonomia finanziaria regionale, che – come già più volte evidenziato – non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale.

Viene, invece, respinta la doglianza volta a contestare che la quantità di risorse da destinare alla spesa sociale non sia stata concordata tra Stato e Regioni. Ciò in quanto spetta in via esclusiva allo Stato, nell’esercizio dei suoi poteri di regolazione finanziaria, stabilire quanta parte delle risorse debba essere destinata alla copertura della spesa sociale; il coinvolgimento delle Regioni – in ossequio al principio di leale cooperazione – deve essere assicurato solo nella fase di concreta ripartizione delle risorse finanziarie.

L’autonomia finanziaria regionale non è neppure violata dalla fissazione di un termine (ritenuto eccessivamente gravoso) per l’utilizzo delle risorse da parte degli enti destinatari: la disposizione che prevede tale fissazione risponde, infatti, all’esigenza di assicurare che le risorse non tempestivamente utilizzate siano rese nuovamente disponibili per gli scopi che la normativa si propone di raggiungere.

La declaratoria di illegittimità costituzionale, invece, colpisce la disposizione che assegna alla Federazione dei maestri del lavoro d’Italia un contributo annuo per far fronte a spese per diverse attività assistenziali. Al riguardo, la Corte, dopo aver rilevato che la Federazione svolge attività incidente, per profili diversi, su materie e funzioni di competenza regionale, ha modo di riaffermare che non è consentito al legislatore statale dettare specifiche disposizioni con le quali si conferiscono contributi finanziari che possono incidere su politiche pubbliche regionali.

Costituzionalmente illegittime sono anche le disposizioni che prevedono, l’una, l’erogazione alle persone fisiche di un contributo, finalizzato alla riduzione degli oneri effettivamente rimasti a carico per l’attività educativa di altri componenti del medesimo nucleo familiare presso scuole paritarie, e, l’altra, un intervento finanziario a favore delle Regioni che si determinino ad istituire il reddito di ultima istanza (quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale): siffatte previsioni incidono illegittimamente sulla sfera di competenza regionale, con finanziamenti caratterizzati da vincoli di destinazione in ambiti di materia spettanti alla competenza legislativa regionale (rispettivamente, «istruzione» e «servizi sociali»).

Per quanto riguarda, infine, la disposizione che prevede finanziamenti da destinare al potenziamento dell’attività di ricerca scientifica e tecnologica, la Corte sottolinea che la «ricerca scientifica», sebbene inclusa tra le materie appartenenti alla competenza concorrente, deve essere considerata non solo una «materia», ma anche un «valore» costituzionalmente protetto (ai sensi degli articoli 9 e 33 della Costituzione), ed è, in quanto tale, in grado di rilevare a prescindere da ambiti di competenze rigorosamente delimitati. Pertanto, la disposizione impugnata deve essere interpretata nel senso che essa è finalizzata a sostenere e potenziare esclusivamente quell’attività di ricerca scientifica in relazione alla quale è configurabile un autonomo titolo di legittimazione del legislatore statale.

6.4. Il ricorso all’indebitamento da parte delle Regioni

La sentenza n. 425 ha deciso in merito alle impugnative proposte avverso le disposizioni della legge finanziaria 2004 le quali prevedono che, «ai sensi dell’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, le Regioni a statuto ordinario, gli enti locali, le aziende e gli organismi di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento», e che «le Regioni a statuto ordinario possono, con propria legge, disciplinare l’indebitamento delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere e degli enti e organismi in qualunque forma costituiti, dipendenti dalla Regione, solo per finanziare spese di investimento».

Al riguardo, le Regioni a statuto speciale e la Provincia autonoma di Trento, ricorrenti, sostengono che, ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ad esse l’articolo 119, sesto comma, della Costituzione non potrebbe applicarsi se non nelle parti in cui comporti forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite loro, e che in ogni caso la individuazione delle nozioni di indebitamento e di investimento, ai fini dell’applicazione dell’art. 119, sesto comma, spetterebbe alla Regione (o alla Provincia).

La Corte dichiara non fondate le questioni. L’articolo 119, sesto comma, della Costituzione non introduce restrizioni all’autonomia finanziaria regionale, ma enuncia espressamente un vincolo – quello a ricorrere all’indebitamento solo per spese di investimento – che si applica anche alle Regioni a statuto speciale. La finanza delle Regioni a statuto speciale è infatti parte della «finanza pubblica allargata», nei cui riguardi lo Stato conserva poteri di disciplina generale e di coordinamento, nell’esercizio dei quali può chiamare anche le autonomie speciali a concorrere al conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi ai vincoli provenienti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, come quelli relativi al cosiddetto patto di stabilità interno. Di conseguenza non è illegittima l’estensione che la legge statale ha disposto, nei confronti di tutte le Regioni, della normativa attuativa.

Altre censure, sollevate anche da Regioni a statuto ordinario, concernono, da un lato, l’estensione dell’applicazione delle norme ad enti diversi da quelli espressamente indicati nell’art. 119, sesto comma, e, dall’altro, le restrizioni che si apportano alle nozioni di indebitamento e di investimento. Viene contestato inoltre il potere ministeriale di modificare con proprio decreto le tipologie di operazioni costituenti indebitamento ed investimento.

Le censure sono dichiarate in parte fondate ed in parte non fondate.

La Corte ritiene che la legge dello Stato possa porre regole specifiche che concretizzano ed attuano il vincolo di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione, in particolare definendo ciò che si intende per «indebitamento» e per «spese di investimento»: trattasi di nozioni il cui contenuto non può determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale, poiché si fondano su principi della scienza economica, ma che non possono non dare spazio a regole di concretizzazione connotate da una qualche discrezionalità politica. Ciò risulta del resto evidente qualora si tenga conto che le definizioni del legislatore statale derivano da scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovranazionale. Parimenti, la nozione di «indebitamento» è ispirata ai criteri adottati in sede europea, ai fini del controllo dei disavanzi pubblici, e si concretizza nella somma delle entrate che non possono essere portate a scomputo del disavanzo calcolato ai fini del rispetto dei parametri comunitari. Ciò posto, è chiaro come non si possa ammettere che ogni ente territoriale faccia in proprio le scelte di concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento: trattandosi di far valere un vincolo di carattere generale, che deve valere in modo uniforme per tutti gli enti, solo lo Stato può legittimamente provvedere a tali scelte.

Sono invece fondate le censure che investono le disposizioni che attribuiscono al Ministro dell’economia e delle finanze il potere di disporre con proprio decreto modifiche alle tipologie di «indebitamento» e di «investimento» stabilite ai fini di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione. Tali disposizioni conferiscono al Ministro una potestà il cui esercizio può comportare una ulteriore restrizione della facoltà per gli enti autonomi di ricorrere all’indebitamento per finanziare le proprie spese senza che sia osservato il rispetto del principio di legalità sostanziale, in forza del quale l’esercizio di un potere politico-amministrativo incidente sull’autonomia regionale (nonché sull’autonomia locale) può essere ammesso solo sulla base di previsioni legislative che predeterminino in via generale il contenuto delle statuizioni dell’esecutivo, delimitandone la discrezionalità.

6.5. Il patrimonio degli enti autonomi

Con la sentenza n. 427, la Corte ha modo di soffermarsi sulla disposizione dettata dall’art. 119, ultimo comma, della Costituzione (ai sensi della quale «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principî generali determinati dalla legge dello Stato»), in occasione dell’impugnativa concernente la norma che prevede che le istituzioni di assistenza e beneficenza e gli enti religiosi che perseguono rilevanti finalità umanitarie o culturali possono ottenere la concessione o locazione di beni immobili demaniali o patrimoniali dello Stato. La Corte esclude che l’intervento statale sia invasivo della competenza regionale individuata, a norma dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, come relativa alle «politiche sociali». A tal proposito, la Corte sottolinea che sino all’attuazione dell’ultimo comma dell’art. 119 della Costituzione e, pertanto, sino alla previsione da parte del legislatore statale dei principi per la attribuzione a Regioni ed enti locali di beni demaniali o patrimoniali dello Stato, detti beni restano a tutti gli effetti nella piena proprietà e disponibilità dello Stato.

La disposizione costituisce, in definitiva, una manifestazione del potere dominicale dello Stato di disporre dei propri beni e, come tale, non incontra i limiti della ripartizione delle competenze secondo le materie.

6.6. Il regime tributario della Regione Siciliana

Nel 2004, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su taluni rilevanti aspetti inerenti al particolare regime tributario che caratterizza la Regione Siciliana.

a) La sentenza n. 29 ha ad oggetto, in primo luogo, la disposizione statale che riserva allo Stato il gettito di imposte sostitutive correlate all’emersione di basi imponibili, destinandolo ad apposito fondo. Tale disposizione è stata impugnata in quanto asseritamente lesiva delle prerogative della Regione in materia finanziaria. Disattendendo la censura, la Corte ha sottolineato come, nel prevedere la destinazione del gettito delle entrate sostitutive, la disposizione richiama implicitamente il suo regime che si incentra sulla clausola di salvaguardia secondo cui l’applicazione delle disposizioni alle Regioni a statuto speciale ed alle Province di Trento e Bolzano avviene solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti».

Ne consegue che, trattandosi di un imposta sostitutiva di tributi di pacifica spettanza della Regione Siciliana, il gettito derivante dalle stesse non possa confluire nel fondo statale, perché ciò sarebbe in contrasto con la normativa di attuazione dello Statuto speciale, secondo la quale spettano alla Regione tutte le entrate tributarie erariali riscosse nel suo territorio, ad eccezione delle nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità dello Stato.

Per le ragioni sopra riportate, la Corte ritiene che anche la disposizione che prevede le modalità per la determinazione delle regolazioni contabili degli effetti finanziari derivanti per lo Stato, le Regioni e gli enti locali dalla disposizione di cui sopra non sia in contrasto con le fonti dell’autonomia siciliana: essa non pone, infatti, né un problema di riparto del gettito fiscale (essendo il gettito delle imposte sostitutive di spettanza regionale, per la cui attribuzione si fa ricorso all’ordinario sistema di versamento unitario dei tributi), né un problema di mancata partecipazione regionale alla determinazione del riparto stesso (in quanto l’eventuale ricorso a regolazioni contabili da effettuare in sede di Conferenza unificata per l’attuazione della normativa in questione può costituire, comunque, un momento di garanzia per la tutela degli interessi regionali).

Sempre nella stessa pronuncia, la Corte ribadisce il proprio orientamento secondo il quale lo Stato può disporre in merito alla disciplina sostanziale dei tributi da esso istituiti, anche qualora il correlativo gettito sia di spettanza regionale, purché non sia dimostrata una grave alterazione del rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte.

b) Nella sentenza n. 103, la Corte ritiene non lesivi dell’autonomia finanziaria della Regione Siciliana i decreti dirigenziali emessi in attuazione della legge finanziaria 1991, che prevedono la possibilità di stabilire, con apposito decreto ministeriale, i tempi e le modalità, nei rapporti tra le aziende di credito, i concessionari e la Banca d’Italia, per il riversamento all’erario delle somme relative all’acconto Iva versato dai contribuenti. L’affermazione, contenuta nei decreti, che gli acconti sono riversati al bilancio statale ad eccezione di determinati importi spettanti alla Regione Siciliana non può infatti, significare altro che detti ultimi importi debbano essere versati immediatamente alla cassa regionale, avendo quindi i decreti in questione valore di ordini di versamento di somme rivolti alla tesoreria provinciale in favore della regione. La Corte rileva, infine, che anche la statuizione secondo la quale le operazioni di conguaglio avvengono nell’anno successivo non determina uno iato di significato apprezzabile tra il momento di previsione dell’entrata e quello di effettivo versamento; ciò nella considerazione che il conguaglio, cui si ricorre perché l’esatto ammontare di quanto dovuto alla Regione può conoscersi solo a seguito delle operazioni tecniche del sistema di versamento unitario dei tributi, avviene entro margini temporali ristretti e comunque non è rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria.

c) In sede di conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione siciliana, la Corte, nella sentenza n. 306, ha affermato che non spetta allo Stato negare l’attribuzione alla Regione del gettito dell’imposta sulle assicurazioni, dovuta dagli assicuratori che hanno domicilio fiscale o la rappresentanza fuori dal territorio regionale, nell’ipotesi in cui i premi riscossi siano relativi a polizze di assicurazione rilasciate per veicoli a motore iscritti in pubblici registri automobilistici aventi sede nella Regione medesima, ovvero per le macchine agricole le cui carte di circolazione siano intestate a soggetti residenti nelle medesime province.

La Corte ha, quindi, respinto la tesi dello Stato, che correlava la spettanza del gettito ad un ristretto criterio di territorialità della riscossione, ricordando di aver già chiarito che le norme di attuazione dello Statuto hanno delineato un sistema di finanziamento sostanzialmente basato sulla devoluzione alla Regione del gettito dei tributi erariali riscossi nel suo territorio, e precisando che non è sempre decisivo il luogo fisico in cui avviene l’operazione contabile della riscossione, in quanto la normativa tende ad assicurare alla Regione il gettito derivante dalla capacità fiscale che si manifesta sul suo territorio.

Del pari infondata è stata ritenuta la tesi secondo cui il gettito dell’imposta sia ormai attribuito alle province, in quanto la normativa statale limita il trasferimento con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, mentre demanda alle Regioni a statuto speciale l’attuazione sul proprio territorio delle disposizioni sulla devoluzione del tributo alle province.

7. I referendum consultivi delle popolazioni locali

7.1. Il distacco di un Comune da una Regione e la sua aggregazione ad un’altra

La sentenza n. 334 ha deciso la questione di legittimità costituzionale sollevata dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, avente ad oggetto l’art. 42, secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352, nella parte in cui prescriveva che le richieste di referendum per il distacco da una Regione e l’aggregazione ad altra Regione di una o più Province o di uno o più Comuni dovessero essere corredate delle deliberazioni, identiche nell’oggetto, di tanti consigli di Province o di Comuni che rappresentassero almeno un terzo delle restanti popolazioni delle Regioni investite dall’avviato procedimento di distacco-aggregazione.

Il procedimento disegnato dalla disposizione legislativa, nel richiedere le deliberazioni di una quota consistente di consigli non direttamente interessati dalla variazione territoriale, appariva eccessivamente onerosa per i richiedenti, risolvendosi nella frustrazione del diritto di autodeterminazione dell’autonomia locale, la cui affermazione e garanzia è risultata invece tendenzialmente accentuata (attraverso l’introduzione dell’esplicito riferimento alla approvazione da parte della «maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati») a seguito della riforma dell’art. 132 della Costituzione avvenuta del 2001.

La Corte ha dunque rilevato che, «poiché il referendum previsto dalla disposizione costituzionale attualmente vigente mira a verificare se la maggioranza delle popolazioni dell’ente o degli enti interessati approvi l’istanza di distacco-aggregazione, deve coerentemente discenderne che la legittimazione a promuovere la consultazione referendaria spetta soltanto ad essi e non anche ad altri enti esponenziali di popolazioni diverse». Le valutazioni delle popolazioni non direttamente interessate non possono essere in grado di «contrastare ed annullare finanche le determinazioni iniziali (neppure giunte al di là dello stadio di semplici richieste) di collettività che intendano rendersi autonome o modificare la propria appartenenza regionale». Siffatte valutazioni trovano, semmai, «congrua tutela nelle fasi successive a quella della mera presentazione della richiesta di referendum», in ragione della natura meramente consultiva dello stesso.

 

7.2. Il mutamento di denominazione di un Comune

Conformandosi ad un indirizzo ampiamente consolidato, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 237, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa regionale con cui si modificava la denominazione di un Comune, senza che su tale determinazione fosse stata sollecitata la consultazione referendaria prescritta dall’art. 133, secondo comma, della Costituzione (e dalla corrispondente norma dello Statuto regionale). Nella specie, la Corte ha avuto modo di sottolineare, in particolare, che l’obbligo del referendum non viene meno neppure nel caso in cui si tratti di una semplice integrazione della denominazione, trattandosi, comunque, di una «modifica».

Capitolo IV

La Repubblica e gli ordinamenti sovranazionali

1. L’accertamento del contrasto tra diritto interno e diritto comunitario da parte dei giudici comuni

A proposito dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, di rilievo appare la sentenza n. 129, che ha risolto un conflitto di attribuzione tra la Regione Lombardia e lo Stato avente ad oggetto l’ordinanza di un giudice per le indagini preliminari che aveva disapplicato una legge regionale. Quest’ultima, in attuazione del regime di deroga previsto dall’art. 9 della direttiva 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979, autorizzava il prelievo venatorio di alcune specie di volatili: la decisione giurisdizionale muoveva dalla premessa che la competenza ad attivare autonomamente le deroghe previste dall’art. 9 della direttiva CEE 79/409 spettasse non già alle Regioni, bensì allo Stato.

L’iter logico seguito dal giudice si basava essenzialmente sulla constatazione che, «dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, quel nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica che [avrebbe giustificato] una disciplina di livello nazionale sarebbe [stato] ascrivibile […] all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, che riserva alla legislazione esclusiva statale la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema». Anziché concludere nel senso della illegittimità costituzionale della legge regionale, e rinviare conseguentemente alla Corte la questione inerente all’incompetenza della fonte, il giudice aveva tuttavia provveduto direttamente alla disapplicazione.

Ora, l’unica condizione che avrebbe reso legittima la disapplicazione era l’efficacia diretta dell’atto comunitario. Le incertezze riscontrabili nell’ordinanza in ordine al profilo della efficacia diretta, che il giudice non dimostrava e nemmeno affermava, e la denuncia di una incompatibilità che non si risolveva unicamente nel rapporto tra la direttiva e la legge regionale, ma richiedeva la necessaria intermediazione legislativa statale, confermavano, ad avviso della Corte, che tale sviluppo argomentativo aveva carattere meramente servente rispetto alla effettiva ratio decidendi, che consisteva nel denunciato vizio di incompetenza della legge regionale. La disapplicazione operata su tale premessa era pertanto dichiarata illegittima in quanto lesiva delle attribuzioni costituzionali della Regione ricorrente.

2. Il diritto comunitario nelle rationes decidendi della Corte

Tralasciando, in questa sede, l’esame puntuale dei casi che si sono posti in relazione a norme attuative di obblighi comunitari, possono segnalarsi alcuni esempi di decisioni nelle quali il riferimento al diritto comunitario si è integrato nella ratio decidendi al fine di rafforzare l’argomentazione esposta.

Così, onde dichiarare infondato un ricorso avverso una legge regionale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la Corte ha affermato che l’interpretazione data alla normativa impugnata dal ricorrente non poteva essere accolta, «anche alla luce del quadro normativo di riferimento, sia comunitario che nazionale» (sentenza n. 7).

Del pari, nel respingere i ricorsi regionali diretti contro una disposizione della legge finanziaria per il 2002, la sentenza n. 12 ha sottolineato che «le iniziative previste per il contenimento della influenza catarrale dei ruminanti in relazione ad allevamenti situati in territori individuati da decisioni comunitarie […] in diversi Stati membri della Comunità europea (Italia, Francia, Grecia) sono riconducibili alla materia di legislazione esclusiva statale “profilassi internazionale” (art. 117, secondo comma, lettera q), e toccano profili incidenti sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s), anch’essa riservata alla legislazione statale».

Le modifiche intervenute a livello di direttive comunitarie hanno fornito un elemento da cui trarre la deduzione secondo cui, anche se non si è prodotta una modifica del diritto statale, si è «sostanzialmente affiancato al preesistente sistema sulla disciplina igienica relativa alle sostanze alimentari un diverso sistema, di matrice europea, di garanzia sostanziale (e di controllo) sulle modalità di tutela dell’igiene dei prodotti alimentari», nel quale l’eliminazione dell’obbligo del «libretto di idoneità sanitaria» da parte di alcune Regioni trova una propria legittimità (sentenza n. 162).

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge regionale che dettava norme restrittive in tema di sperimentazione scientifica sugli animali si è fondata sul rilievo in base al quale, sebbene la normativa comunitaria autorizzasse gli Stati membri ad adottare o ad applicare anche «misure più rigide per la protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o per il controllo e la limitazione dell’uso degli animali in esperimenti», il legislatore statale, nell’esercizio del proprio potere di determinare i principi fondamentali della materia, non si era limitato a recepire il livello di tutela previsto dalla normativa comunitaria, ma aveva già direttamente dettato una disciplina in parte più rigida delle prescrizioni della direttiva europea, peraltro attraverso una regolamentazione uniforme per tutto il territorio nazionale (sentenza n. 166).

Anche l’illegittimità di una legge regionale in tema di istituzione di case da gioco è stata argomentata, tra l’altro, attraverso un richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che «ha affermato che spetta agli Stati membri determinare l’ampiezza della tutela dell’impresa con riferimento al gioco d’azzardo ed ha fondato la discrezionalità di cui devono godere le autorità nazionali, oltre che sulle sue dannose conseguenze individuali e sociali, proprio sugli elevati rischi di criminalità e di frode che ad esso si accompagnano» (sentenza n. 185).

Onde dichiarare l’inammissibilità di una questione con la quale si chiedeva alla Corte un intervento che, per il suo carattere apertamente «creativo», le era precluso, si è rilevato come «la disciplina oggetto dello scrutinio di costituzionalità appa[risse] destinata ad essere rivista nell’immediato dal legislatore […] nel quadro dell’attuazione di due direttive comunitarie: la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), che sostituisce ed abroga la direttiva 89/592/CEE, in attuazione della quale la disciplina dell’insider trading era stata originariamente introdotta nel nostro ordinamento; nonché la direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003, recante modalità di esecuzione di essa» (sentenza n. 382).

A tali decisioni, debbono poi aggiungersi quelle (in particolare, sentenze numeri 14 e 272) che, nel tratteggiare i limiti entro i quali lo Stato può esercitare la funzione di «tutela della concorrenza», hanno operato riferimenti – più o meno espliciti e diretti – alla definizione della nozione che è riscontrabile in ambito comunitario (sulla «tutela della concorrenza», v., amplius, supra, cap. III, par. 4.1.2).

Parimenti, con la sentenza n. 6 si è negato, attraverso riferimenti al diritto comunitario, che il concetto di «sicurezza», utilizzato nella legislazione sull’energia come «sicurezza dell’approvvigionamento di energia elettrica» e «sicurezza tecnica», potesse essere ricondotto alla materia «ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale», di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione.

Infine, una evidente centralità nella ratio decidendi è stata assunta dal diritto comunitario in merito ad una questione sollevata dal Consiglio di Stato, chiamato a fare applicazione, onde pronunciarsi sul rilascio di una concessione all’esercizio di impianti di radiodiffusione sonora, della disposizione che stabilisce che la maggioranza delle azioni o quote delle società concessionarie private di radiodiffusione sonora e televisiva, nonché delle società che direttamente o indirettamente le controllino, o comunque un numero di azioni o quote che consenta il controllo delle società o il loro collegamento, non può appartenere a persone fisiche, giuridiche, società con o senza personalità giuridica, di cittadinanza o nazionalità straniera, fatto salvo – tra l’altro – il caso di società costituite in Stati appartenenti alla Comunità economica europea.

Il rimettente interpretava la disposizione impugnata nel senso che essa, mentre escludeva che i soci delle società italiane concessionarie o controllanti delle medesime potessero essere in maggioranza di cittadinanza o nazionalità estera, non prevedeva lo stesso limite nei confronti delle società concessionarie o controllanti costituite in un altro Stato appartenente alla Comunità economica europea, realizzandosi, in tal modo, una «discriminazione a rovescio» a danno delle società italiane nei confronti di quelle di altri Stati comunitari.

Con la sentenza n. 86, rilevata la necessità di leggere il diritto positivo in conformità ai principi costituzionali e comunitari, è stata offerta una diversa interpretazione, in base alla quale debbono essere integralmente parificati i requisiti che debbono essere posseduti dalle società di altri Stati comunitari a quelli prescritti per le società di nazionalità italiana. La Corte ha sottolineato, in particolare, come la norma sia volta ad assicurare che l’influenza gestionale predominante collegata al controllo delle società concessionarie dell’esercizio di impianti di radiodiffusione sonora e televisiva sia riservata a soggetti appartenenti all’Italia o ad altri Stati della Comunità europea, «in linea anche con la preoccupazione di salvaguardare la “diversità culturale” europea (cfr. il tredicesimo “considerando” della direttiva n. 89/552/CEE del 3 ottobre 1989, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive), e di promuovere la trasmissione di “opere europee”, cioè prodotte con il prevalente contributo di soggetti appartenenti agli Stati della Comunità (secondo le regole di cui al capitolo III della citata direttiva n. 89/552/CEE)»: un siffatto intento «richiede che non solo le persone fisiche concessionarie, ma anche i soggetti che effettivamente controllino, direttamente o indirettamente, le società concessionarie, siano cittadini di uno Stato membro della Comunità (salve le deroghe ammesse in virtù del principio di reciprocità o di speciali accordi)», intento che sarebbe «palesemente frustrato» qualora «una società costituita in uno Stato europeo potesse conseguire la concessione ancorché posseduta in maggioranza, o controllata, da soggetti extracomunitari».

3. (Segue:) il rilievo del diritto internazionale

Sebbene meno frequentemente rispetto al diritto comunitario, anche il diritto internazionale è stato invocato in alcune occasioni, nell’ambito dell’iter logico che ha condotto ad una determinata soluzione giurisprudenziale.

Si segnalano, a tal proposito, le sentenze numeri 231 e 413.

La prima, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 314 del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in tema di estradizione passiva, non prevede la riparazione per ingiusta detenzione nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda dello Stato estero che si accerti carente di giurisdizione», ha sottolineato come, «con specifico riferimento alla detenzione a fini estradizionali, la Raccomandazione n. R(86)13 del 16 settembre 1986 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, in tema di applicazione pratica della Convenzione europea di estradizione, [contenga] l’invito agli Stati a “esaminare la propria legislazione, in modo da permettere alle persone detenute senza giustificati motivi ai fini dell’estradizione di esigere un indennizzo, alle stesse condizioni previste per la detenzione provvisoria ingiustificata”».

Nella seconda, è stato rilevato che la proposta interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 314, comma 3, del codice di procedura penale (impugnato «nella parte in cui non prevede, in caso di archiviazione del procedimento per morte del reo, la spettanza della riparazione per ingiusta detenzione qualora nello stesso procedimento o comunque sulla base dello stesso materiale probatorio si accerti nei confronti del coimputati che il fatto non sussiste») era avvalorata da significative indicazioni normative, anche di natura sovranazionale: «l’art. 2, n. 100, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, contenente la delega legislativa per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, enuncia la direttiva della riparazione dell’ingiusta detenzione, senza porre alcuna limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le ‘ragioni’ dell’ingiustizia; tra le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia relative ai diritti della persona e al processo penale, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, prevedono il diritto ad un equo indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione».

4. I rapporti tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia

Con precipuo riguardo ai rapporti tra la giurisdizione costituzionale e la giurisdizione comunitaria, si segnalano le ordinanze numeri 125 e 165, già menzionate nell’analisi dei profili processuali del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (cfr. supra parte I, cap. I, par. 11.1). La prima ha ordinato la restituzione degli atti al giudice rimettente tra l’altro in conseguenza del fatto che, dopo che la questione era stata sollevata, «la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza 13 novembre 2003, in causa C-294/01, si [era] pronunciata sulla questione pregiudiziale sollevata dallo stesso giudice a quo in un analogo procedimento (riguardante la medesima società […]), dichiarando che la direttiva n. 92/46/CEE osta[va] ad una normativa nazionale, quale quella dettata dalla legge n. 169 del 1989, “che fissa la data di scadenza del latte pastorizzato ad alta temperatura in modo tale che questo non possa eccedere il termine di quattro giorni successivi al confezionamento del prodotto”». La seconda ordinanza ha disposto il rinvio a nuovo ruolo di una questione sostanzialmente coincidente ad altra pendente dinnanzi alla Corte di giustizia.

5. Le Regioni ed il diritto comunitario

Notevole rilievo, relativamente alla disciplina della partecipazione delle Regioni al processo decisionale comunitario, ha avuto la sentenza n. 239, resa con riguardo all’art. 5 della legge n. 131 del 2003.

In tale decisione, la Corte ha affrontato varie censure sollevate dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Regione Sardegna, dichiarandole tutte non fondate.

La prima riguardava la presunta violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, derivante dal carattere di dettaglio delle norme dettate dallo Stato in una materia (quella dei «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni») affidata alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. La Corte ha rilevato come il titolo abilitativo di tale disciplina non risieda nel terzo comma, bensì nel quinto comma del medesimo articolo, che ha istituito «una competenza statale ulteriore e speciale»: con specifico riferimento alla procedura tramite la quale deve esplicarsi la partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alla c.d. «fase ascendente» del diritto comunitario, dunque, la Costituzione non ha previsto una competenza concorrente, bensì ha affidato alla legge statale il compito di stabilire la disciplina delle modalità procedurali di tale partecipazione.

Disattendendo la seconda censura, la Corte ha stabilito che lo strumento partecipativo derivante dalla partecipazione diretta delle Regioni, nell’ambito delle delegazioni del Governo, ad attività delle istituzioni comunitarie, secondo modalità da concordare in sede di Conferenza Stato-Regioni che tengano conto della particolarità delle autonomie speciali e che garantiscano, comunque, l’unitarietà della rappresentazione della posizione italiana da parte del Capo delegazione designato dal Governo, non può ritenersi inadeguato alla garanzia delle posizioni costituzionali delle Regioni; inoltre, la previsione della necessaria partecipazione di almeno un rappresentante delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome esclude che tali Regioni o Province possano far valere motivi di doglianza in relazione alla mancata indicazione di un numero minimo di rappresentanti regionali nelle delegazioni del Governo; infine, la perdurante competenza statale in tema di relazioni internazionali e con l’Unione europea esclude che nelle materie di legislazione regionale esclusiva la delegazione debba essere composta solo da rappresentanti delle Regioni.

Ad esiti analoghi ha condotto la censura incentrata sulla previsione concernente la possibilità per il Governo di designare come capo delegazione – in relazione a materie afferenti alla competenza residuale delle Regioni – un Presidente di Giunta di una Regione o di una Provincia autonoma, asseritamente illegittima in quanto non riferita anche alle materie di competenza primaria delle Regioni speciali o delle Province autonome in base agli statuti speciali. A tal riguardo, la previsione non può ritenersi irragionevole, alla luce della considerazione secondo la quale la rappresentanza italiana nei confronti dell’Unione europea deve necessariamente essere caratterizzata da una posizione unitaria; al contempo, la titolarità di particolari materie (non riconducibili all’art. 117, quarto comma, della Costituzione) da parte di una Regione ad autonomia speciale o di una Provincia autonoma non può legittimare una pretesa ad assumere la presidenza della delegazione italiana, dal momento che in questi casi nelle altre aree territoriali le funzioni corrispondenti spettano agli organi dello Stato.

Infine, immune dai vizi dedotti dalle ricorrenti è stata ritenuta anche la previsione in base alla quale si consente alle Regioni di far valere eventuali illegittimità degli atti normativi comunitari «davanti agli organi competenti», qualora la Conferenza Stato-Regioni, a maggioranza assoluta, rivolga al Governo una richiesta in tal senso: trattasi, in particolare, di una prerogativa che per le Regioni non è contemplata dalle fonti costituzionali e la cui disciplina è dunque pianamente riferibile alla discrezionalità del legislatore statale.

Altra decisione da segnalare è la sentenza n. 283, resa in sede di conflitto intersoggettivo tra la Provincia autonoma di Trento e lo Stato, in riferimento ad un decreto ministeriale che dettava la disciplina relativa alle attività connesse alla riproduzione animale, stabilendo che le Regioni avrebbero provveduto, entro sei mesi dalla sua emanazione, all’eventuale adeguamento della propria normativa in materia.

La disciplina normativa in questione concerneva ambiti che, alla luce dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, sono sicuramente riconducibili ad una delle competenze esclusive delle Province autonome, ed in cui pertanto, l’attuazione delle direttive comunitarie non può non spettare alle Province autonome.

Il regolamento oggetto del conflitto, non proclamandosi cedevole di fronte alla futura legislazione provinciale, né intendendo supplire ad una mancanza di normazione di fonte primaria, e, inoltre, non essendo esecutivo di una legge statale attuativa di direttive comunitarie, ma ponendosi esso medesimo come immediatamente attuativo di una direttiva comunitaria, arrecava quindi una lesione della competenza legislativa provinciale, pretendendo di condizionare l’esercizio di una potestà provinciale: da ciò l’annullamento dell’atto, previa declaratoria di spettanza alla Provincia dell’attribuzione in contestazione.

6. Il potere estero delle Regioni

Con la sentenza n. 238 la Corte ha operato lo scrutinio di costituzionalità dell’art. 6 della legge n. 131 del 2003, attuativo dell’art. 117 della Costituzione, nella parte in cui esso riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» [secondo comma, lettera a)], ed attribuisce alla competenza concorrente quella dei «rapporti internazionali […] delle Regioni» (terzo comma), prevedendo altresì che «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato» (nono comma) e che le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, «provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali […], nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza» (quinto comma).

Alla luce di tali previsioni, la Corte ha ritenuto che le disposizioni dell’art. 6, commi 1, 2 e 3, della legge n. 131 del 2003 siano state dettate in attuazione dei compiti che le disposizioni costituzionali appena citate affidano allo Stato (segnatamente, stabilire le «norme di procedura» che le Regioni debbono rispettare nel provvedere all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali, disciplinare le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza, disciplinare i «casi» e le «forme» della conclusione di accordi delle Regioni con altri Stati e di intese con enti territoriali di altri Stati), con il che si dimostra priva di fondamento la tesi della Provincia autonoma di Bolzano, ricorrente, secondo cui esse conterrebbero una normativa di dettaglio, mentre lo Stato dovrebbe limitarsi, in questa materia, a stabilire principi fondamentali, nell’esercizio della competenza concorrente in tema di rapporti internazionali delle Regioni.

Inoltre, le medesime disposizioni, ad avviso della Corte, non introducono regole ed istituti suscettibili di dar luogo ad indebite ingerenze di merito dello Stato nelle decisioni delle Regioni in questa materia, così ledendone l’autonomia.

In quest’ottica, attraverso una lettura costituzionalmente conforme delle disposizioni censurate, la Corte ha rilevato, in primo luogo, che i «criteri» e le «osservazioni» che l’organo governativo è abilitato a formulare rispetto alle iniziative e alle attività regionali ai fini dell’esecuzione degli accordi internazionali e alla stipulazione di intese con enti territoriali interni ad altri Stati sono sempre e soltanto relativi alle esigenze di salvaguardia delle linee della politica estera nazionale e di corretta esecuzione degli obblighi di cui lo Stato è responsabile nell’ordinamento internazionale; né potrebbero travalicare in strumenti di ingerenza immotivata nelle autonome scelte delle Regioni.

Analogamente, la possibilità per il Ministero degli affari esteri di «indicare principi e criteri da seguire nella conduzione dei negoziati» non possono essere intesi come direttive vincolanti in positivo quanto al contenuto degli accordi, bensì solo come espressione delle esigenze di salvaguardia degli indirizzi della politica estera, e dunque come specificazione del vincolo generale nascente a carico della Regione dalla riserva allo Stato della competenza a formulare e sviluppare tali indirizzi, e dal conseguente divieto di pregiudicarli con attività e atti di essi lesivi.

Quanto alla prevista collaborazione degli uffici diplomatici e consolari, la Corte ha evidenziato come si tratti in realtà di una possibilità di supporto tecnico, il cui utilizzo resta subordinato alla previa intesa con la Regione o con la Provincia autonoma.

In ordine alla necessità di un accertamento preventivo da parte del Ministero degli affari esteri della «opportunità politica» e della «legittimità» dell’accordo, tale previsione deve intendersi nel senso che esso non legittima alcuna ingerenza nelle scelte di opportunità e di merito attinenti all’esplicazione dell’autonomia della Regione: il Governo può legittimamente opporsi alla conclusione di un accordo da parte di una Regione solo quando ritenga che esso pregiudichi gli indirizzi e gli interessi attinenti alla politica estera dello Stato.

Una lettura costituzionalmente conforme si è imposta anche con riferimento alla previsione secondo cui la stipulazione degli accordi deve essere preceduta, a pena di nullità degli accordi medesimi, dal conferimento da parte del Ministero degli affari esteri dei «pieni poteri di firma»: quest’ultimo istituto ha il fine di dare certezza riguardo al fatto che il consenso prestato o la firma apposta al trattato siano realmente idonei a impegnare lo Stato nell’ordinamento internazionale, provenendo da chi ha i poteri rappresentativi a ciò necessari; poiché però, secondo il diritto interno, la Regione opera in base a poteri propri, e non come «delegata» dello Stato, una volta che sia attuato il procedimento di verifica preventiva circa il rispetto dei limiti e delle procedure prescritte, il Ministero degli affari esteri è tenuto a conferire i pieni poteri all’organo regionale competente per la stipulazione, e, dunque, non potrebbe discrezionalmente negarli.

Se la sentenza n. 238 fissa alcuni punti fermi, sul piano generale, in tema di esercizio dal parte delle Regioni del c.d. «potere estero», un’altra decisione merita di essere segnalata, non solo per l’interesse del caso di specie, ma anche per la circostanza che in essa il potere estero si interseca con quello della partecipazione delle autonomie territoriali alla politica comunitaria. Il riferimento va alla sentenza n. 258, specificamente concernente la conclusione di un accordo di cooperazione transfrontaliera, nell’ambito del programma comunitario denominato «Interreg III A, Italia-Austria». Nella specie, la Corte ha evidenziato come la preventiva intesa con lo Stato non sia necessaria, trattandosi di un atto strettamente correlato a (ed esecutivo di) precedenti atti normativi ed amministrativi regolati direttamente dal diritto comunitario, e risultando l’oggetto, le finalità, il campo di azione dell’accordo transfrontaliero definiti, oltre che nel testo dell’atto, da una serie di precedenti, tra i quali il documento unico di programmazione e il programma presentato dallo Stato alla Commissione delle Comunità europee e da questa successivamente approvato (conseguentemente, la Corte ha altresì dichiarato che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro per gli affari regionali emanare la nota con la quale si chiedeva alla Provincia autonoma di Bolzano di non procedere alla stipulazione di tali atti senza la preventiva intesa con il Governo).