Sentenza n. 382 del 2004

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SENTENZA N. 382

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Valerio                 ONIDA                                          Presidente

- Carlo                    MEZZANOTTE                          Giudice

- Guido                  NEPPI MODONA                      "

- Piero Alberto       CAPOTOSTI                              "

- Annibale              MARINI                                     "

- Franco                 BILE                                           "

- Giovanni Maria   FLICK                                         "

- Francesco            AMIRANTE                               "

- Ugo                     DE SIERVO                               "

- Romano               VACCARELLA                         "

- Paolo                   MADDALENA                          "

- Alfio                    FINOCCHIARO                        "

- Alfonso               QUARANTA                              "

- Franco                 GALLO                                       "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 180 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) e dell’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1994), promossi con ordinanze del 10 giugno 2003 del Tribunale di Siracusa nel procedimento penale a carico di M. C. S. ed altri e del 6 ottobre 2003 del Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di G. C. ed altri, rispettivamente iscritte al n. 658 del registro ordinanze 2003 ed al n. 48 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, 1a serie speciale, dell’anno 2003 e n. 9, 1a serie speciale, dell’anno 2004.

  Visti l’atto di costituzione di M. C. S. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 16 novembre 2004 e nella camera di consiglio del 17 novembre 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

  uditi l’avvocato Enzo Musco per M. C. S. e l’avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. — Con le due ordinanze, di analogo tenore, indicate in epigrafe il Tribunale di Siracusa ed il Tribunale di Roma hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale:

  a) dell’art. 180 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui, nel prevedere il delitto di abuso di informazioni privilegiate (insider trading), «non contiene parametri sufficientemente determinati per stabilire quando l’influenza sul prezzo dei titoli determinata dalla condotta incriminata debba considerarsi “sensibile”»;

  b) del medesimo art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, nella parte in cui commina, per il suddetto delitto, una pena superiore a quella indicata nella legge delega 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1994); ovvero — in alternativa — dell’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della citata legge n. 52 del 1996, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 76 della Costituzione, nella parte in cui non stabilisce l’entità della pena che il legislatore delegato avrebbe dovuto comminare per le violazioni omogenee e di pari offensività rispetto a quelle già disciplinate da leggi vigenti, tra le quali rientra il reato di insider trading.

  I giudici a quibus — investiti di processi penali nei confronti di persone imputate del reato di cui all’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998 — rilevano come tale articolo, al comma 3, definisca l’«informazione privilegiata», cui si riferiscono gli abusi penalmente repressi, come «un’informazione specifica di contenuto determinato, di cui il pubblico non dispone, concernente strumenti finanziari o emittenti di strumenti finanziari, che, se resa pubblica, sarebbe idonea a influenzarne sensibilmente il prezzo».

  Ad avviso dei rimettenti, tale formula normativa non individuerebbe in modo preciso la fattispecie criminosa astratta, così da consentire all’interprete, nel ricondurre ad essa un’ipotesi concreta, di esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile: e ciò avuto riguardo segnatamente al requisito dell’idoneità dell’informazione, una volta resa pubblica, ad influenzare «sensibilmente» il prezzo.

Se è vero, infatti, che spesso le norme penali si limitano ad una descrizione «elastica» del precetto per realizzare nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato, tale tecnica d’intervento non potrebbe però spingersi fino al punto di rendere indeterminata la condotta penalmente rilevante. Nell’ipotesi in esame, il legislatore non poteva, in effetti, predeterminare tutte le informazioni idonee ad influenzare il prezzo dei titoli; ma avrebbe dovuto comunque fornire all’interprete adeguati parametri, onde permettergli di stabilire in quali casi l’impatto dell’informazione sul mercato finanziario — tenuto conto di tutte le altre variabili esistenti al momento in cui l’agente si è avvalso dell’informazione stessa — potesse determinare una variazione «sensibile» dei corsi. L’incertezza conseguente all’assenza di tali indicazioni impedirebbe, per contro, di distinguere a priori i comportamenti leciti da quelli illeciti, onde l’agente saprebbe di aver commesso un reato solo a seguito dell’interpretazione operata dal giudice sulla base di una valutazione del tutto discrezionale.

  Sotto tale profilo, la norma incriminatrice si porrebbe dunque in contrasto tanto con il principio di tassatività dell’illecito penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.; quanto con quello di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., che rimarrebbe in specie vulnerato dai contrastanti apprezzamenti giurisprudenziali indotti dalla «vaghezza» della norma stessa.

  La questione sarebbe, d’altra parte, rilevante nei giudizi a quibus, in quanto una eventuale pronuncia di accoglimento inciderebbe direttamente sulla valutazione della condotta degli imputati, la quale, «parametrata a criteri precisi», potrebbe non costituire il delitto contestato.

  I rimettenti rilevano, per altro verso, che l’art. 3, comma 1, lettera c), della legge delega n. 52 del 1996 — legge sulla cui base il d.lgs. n. 58 del 1998 è stato emanato — attribuiva al legislatore delegato, in deroga ai limiti precedentemente posti dalla stessa norma, la facoltà di stabilire, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi ivi indicati, sanzioni penali o amministrative «identiche» a quelle già comminate dalle leggi vigenti per violazioni omogenee e di pari offensività. Con la formula «sanzioni identiche» — di per sé non univoca, secondo i giudici a quibus — il legislatore delegante avrebbe potuto alternativamente intendere, quanto al reato in questione, o una pena uguale, sia per genere che per entità, a quella comminata dall’art. 2 della legge 17 maggio 1991, n. 157 (Norme relative all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in valori mobiliari e alla Commissione nazionale per le società e la borsa), che in precedenza disciplinava l’insider trading, vale a dire la reclusione fino ad un anno e la multa fino a lire trecento milioni (recte: da lire dieci milioni a lire trecento milioni); oppure una pena uguale esclusivamente nel genere, e non pure nel quantum, a quella ora indicata.

Nel primo caso, peraltro, l’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998 violerebbe l’art. 76 Cost. per eccesso di delega, avendo il legislatore delegato stabilito una pena — reclusione fino a due anni e multa fino a lire seicento milioni (recte: da lire venti milioni a lire seicento milioni) — superiore a quella fissata dalla legge di delegazione. Nel secondo caso, sarebbe invece la citata disposizione della legge n. 52 del 1996 a porsi in contrasto con gli artt. 76 e 25, secondo comma, Cost., per non aver stabilito il quantum di pena con cui sanzionare le violazioni considerate, con conseguente indeterminatezza del criterio di delega.

  Anche tale seconda questione sarebbe rilevante nei giudizi a quibus, stante l’incidenza che il suo accoglimento avrebbe sulla valutazione della condotta degli imputati.

  2. — In ambedue i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.

  Quanto alla prima questione — dopo aver ricordato come la pressoché costante giurisprudenza costituzionale abbia ritenuto legittimo il ricorso del legislatore a concetti «elastici» nella definizione delle fattispecie di reato, sul rilievo che ogni norma, in quanto descrittiva di fattispecie astratte, sconta comunque un margine di indeterminatezza nell’individuazione dei comportamenti concreti da sussumere in essa — la difesa erariale osserva come l’esigenza di determinatezza dell’illecito penale si connoti in maniera diversa a seconda degli elementi di fattispecie presi in considerazione. Conformemente a quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 247 del 1989, essa si porrebbe ad un livello più alto rispetto agli elementi costitutivi, ossia a quelli che concorrono a definire il discrimine tra il lecito e l’illecito: elementi tra i quali non potrebbe peraltro annoverarsi il dato quantitativo espresso nell’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998 dall’avverbio «sensibilmente». Nella specie, difatti, il comportamento vietato e riprovevole — espressivo del contenuto offensivo tipico della fattispecie, posta a tutela del corretto funzionamento, della trasparenza e della credibilità del mercato — consisterebbe nello sfruttamento di un’informazione di cui il pubblico non dispone, con la consapevolezza che tale informazione, se resa pubblica, sarebbe idonea ad influenzare il prezzo dello strumento finanziario di riferimento. L’elemento quantitativo, inerente al carattere «sensibile» di tale influenza, si limiterebbe, per converso, ad assolvere una funzione di «filtro selettivo», che, senza incidere sulla «dimensione intrinsecamente lesiva» del fatto, ne connota solo la gravità, segnando il punto a partire dal quale l’intervento punitivo è ritenuto opportuno.

Col prevedere l’elemento in questione, d’altro canto, il legislatore nazionale si sarebbe doverosamente allineato alla definizione di informazione privilegiata posta in sede comunitaria dall’art. 1 della direttiva n. 89/592/CEE, ed ora riprodotta nella direttiva 2003/6/CE sugli abusi di mercato: direttiva, quest’ultima, che, secondo quanto si legge nel «considerando» n. 44, «rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti … dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», la quale, all’art. 49, sancisce a sua volta i principi della legalità e proporzionalità dei reati e delle pene.

Se è vero, inoltre, che, in assenza di riferimenti numerici, la valenza dell’elemento in parola appare prima facie sfuggente, pur tuttavia, legare tale insopprimibile (proprio perché imposto a livello comunitario) riferimento quantitativo ad un dato percentuale, avrebbe reso praticamente impossibile il giudizio sull’idoneità  ex ante dell’informazione ad alterare il prezzo del valore mobiliare: giacché, ove la «prognosi postuma» dovesse “coprire” anche un preciso valore numerico, essa rimarrebbe «confinata nel regno dell’irrealtà». Il ricorso ad una clausola «flessibile» sarebbe reso ineluttabile anche dalla natura eminentemente relativa della nozione di «influenza sensibile», strettamente collegata alle caratteristiche dello strumento finanziario al quale la notizia privilegiata si riferisce: rispetto ad un titolo relativamente stabile, infatti, anche una variazione di pochi punti percentuali potrebbe essere considerata significativa; mentre rispetto ad uno strumento finanziario «fisiologicamente» soggetto ad oscillazioni, difficilmente si potrebbe giungere alla medesima conclusione.

La valutazione in ordine alla capacità dell’informazione di incidere sensibilmente sul corso di un dato strumento finanziario potrebbe giovarsi, per altro verso, di «consolidate regole di esperienza». Al riguardo, verrebbe segnatamente in rilievo la disposizione dell’art. 114, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 58 del 1998, la quale — ponendosi come una sorta di pendant della norma impugnata — stabilisce che «gli emittenti quotati e i soggetti che li controllano informano il pubblico dei fatti che accadono nella loro sfera di attività e in quella delle società controllate, non di pubblico dominio e idonei, se resi pubblici, a influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziari». Sulla base di tale prescrizione — oltre che delle specificazioni fornitene dalla CONSOB nell’esercizio delle sue prerogative — le società quotate pubblicano quotidianamente una molteplicità di informazioni, generando così prassi alle quali l’interprete potrebbe utilmente attingere nell’effettuazione dell’apprezzamento di cui si tratta; senza considerare, poi, che sul legame tra le informazioni e le variazioni del prezzo degli strumenti finanziari esiste una «copiosissima» letteratura economico-finanziaria.

Quanto alla seconda questione, attinente al regime sanzionatorio della fattispecie, la difesa erariale osserva come la riformulazione delle disposizioni in tema di insider trading e la determinazione delle relative sanzioni — contrariamente a quanto ritenuto dai giudici rimettenti — non dovessero uniformarsi ai principi e criteri direttivi di cui all’art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996. Tali principi e criteri si riferiscono, infatti, ai «decreti legislativi di cui all’articolo 1» della legge delega, ossia ai decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie comprese nell’elenco di cui all’allegato A della legge stessa, tra le quali non figura la direttiva 89/592/CEE, già in precedenza recepita con la legge n. 157 del 1991. La disciplina dell’insider trading presente nel d.lgs. n. 58 del 1998 si fonderebbe piuttosto sull’art. 8 della legge n. 52 del 1996, nella parte in cui delegava il Governo ad emanare testi unici delle disposizioni dettate in attuazione della delega prevista dall’art. 1, coordinando con esse le norme vigenti nelle stesse materie ed apportando a queste ultime le integrazioni e le modificazioni necessarie al predetto coordinamento; nonché sull’art. 21 della medesima legge, che al comma 3 prevedeva che – in sede di riordinamento normativo, a norma dell’art. 8, delle materie concernenti gli intermediari, i mercati finanziari e mobiliari e gli altri aspetti comunque connessi – le sanzioni amministrative e penali potessero essere «coordinate con quelle già comminate da leggi vigenti in materia bancaria e creditizia per violazioni che siano omogenee e di pari offensività».

In ogni caso, anche l’art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996 prevedeva che si stabilissero, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi, sanzioni penali o amministrative identiche a quelle eventualmente comminate dalle leggi vigenti per violazioni omogenee e di pari offensività. La legge delega, pertanto — nel conferire al legislatore delegato il potere di riordinare l’intera materia dei reati relativi al mercato finanziario — avrebbe rimesso, per l’un verso o per l’altro, allo stesso legislatore delegato la concreta determinazione del quantum di pena: e ciò in un’ottica di armonizzazione tra sanzioni similari destinate a «convivere» all’esito dell’adozione dei decreti delegati; non già tra sanzioni destinate a «succedersi» tra loro in relazione ad una medesima fattispecie di reato, com’è per quelle comminate in tema di insider trading, dapprima dall’art. 2 della legge n. 157 del 1991 e poi dall’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998.

Lo stesso art. 2 della precedente legge, d’altra parte – se pure fissava in via generale, nel comma 5, la pena della reclusione fino ad un anno e della multa da lire dieci milioni a lire trecento milioni – prevedeva, nei commi 3 e 7, il raddoppio di tale pena per i reati commessi da azionisti di controllo, amministratori e soggetti similari, nonché da ministri e sottosegretari di Stato in particolari circostanze. Nel riordino operato dal testo unico del 1998, essendo scomparse tali figure speciali di insider trading, la pena sarebbe stata unificata al livello più alto, in un’ottica di omogeneizzazione di indiscutibile competenza del legislatore delegato.

  3. — Nel giudizio di costituzionalità promosso dal Tribunale di Siracusa si è altresì costituito M. C. S., imputato nel processo a quo, il quale ha chiesto, preliminarmente, che questa Corte sollevi innanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 52 del 1996 in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost., conformemente all’eccezione già sollevata nell’ambito del giudizio principale e ritenuta manifestamente infondata dal giudice rimettente. Ad avviso della parte privata, l’assoluta genericità della delega legislativa avrebbe infatti “lacerato” il necessario rapporto tra potere esecutivo e legislativo, affidando al primo scelte di criminalizzazione di esclusiva competenza del secondo.

  Quanto al resto, la parte privata insta per l’accoglimento delle questioni di costituzionalità sollevate dal giudice a quo.

Considerato in diritto

  1. — I Tribunali di Siracusa e di Roma, con ordinanze di tenore pressoché identico, sollevano due questioni di legittimità costituzionale inerenti alla disciplina del reato di abuso di informazioni privilegiate (insider trading).

  I giudici rimettenti dubitano, in primo luogo, della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., dell’art. 180 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, nella parte in cui — nel definire l’«informazione privilegiata» come «un’informazione specifica di contenuto determinato, di cui il pubblico non dispone, concernente strumenti finanziari o emittenti di strumenti finanziari, che, se resa pubblica, sarebbe idonea ad influenzarne sensibilmente il prezzo» — «non contiene parametri sufficientemente determinati per stabilire quando l’influenza sul prezzo dei titoli determinata dalla condotta incriminata debba considerarsi “sensibile”».

  In assenza, infatti, di specifiche indicazioni riguardo ai casi nei quali l’impatto dell’informazione sul mercato finanziario — tenuto conto di tutte le altre variabili esistenti al momento in cui l’agente si è avvalso dell’informazione stessa — può determinare una variazione «sensibile» dei corsi, la fattispecie criminosa astratta non risulterebbe descritta in modo preciso, così da consentire all’interprete, nel ricondurre ad essa un’ipotesi concreta, di esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile. In tale situazione di incertezza, non sarebbe dunque possibile distinguere a priori i comportamenti leciti da quelli illeciti, onde l’agente saprebbe di aver commesso un reato solo a seguito dell’interpretazione operata dal giudice sulla base di una valutazione del tutto discrezionale: con conseguente vulnus tanto del principio di determinatezza della fattispecie incriminatrice che del principio di uguaglianza, quest’ultimo in rapporto ai contrastanti apprezzamenti giurisprudenziali indotti dalla «vaghezza» della norma.

  I giudici a quibus censurano, in secondo luogo, il regime sanzionatorio della fattispecie, ventilando alternativamente o un vizio di eccesso di delega (art. 76 Cost.) dello stesso art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998; ovvero la violazione degli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost. ad opera dell’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della legge delega 6 febbraio 1996, n. 52.

  Quest’ultima disposizione — osservano i rimettenti — attribuiva al legislatore delegato la facoltà di stabilire sanzioni penali o amministrative «identiche» a quelle già comminate dalle leggi vigenti, per violazioni omogenee e di pari offensività. Il concetto di «identità» delle sanzioni — in assunto non univoco — potrebbe essere peraltro interpretato, quanto al reato in questione, in due modi diversi. Si potrebbe ritenere, cioè, da un lato, che il legislatore delegante intendesse riferirsi ad una pena uguale, sia per genere che per entità, a quella comminata dall’art. 2 della legge 17 maggio 1991, n. 157, che in precedenza disciplinava l’insider trading (reclusione fino ad un anno e multa da lire dieci milioni a lire trecentomilioni): nel qual caso, tuttavia, l’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998 si porrebbe in contrasto col criterio di delega, avendo previsto una pena superiore (reclusione fino a due anni e multa da lire venti milioni a lire seicentomilioni).

  In alternativa, l’«identità» potrebbe ritenersi riferita esclusivamente al genere, e non anche all’entità, della sanzione contemplata dalla norma anteriore. In questa ipotesi, sarebbe peraltro l’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della legge n. 52 del 1996 a ledere i parametri costituzionali dianzi indicati, per non aver stabilito il quantum di pena con cui reprimere la violazione de qua, enunciando, così, un criterio di delega indeterminato.

  2. — Stante l’identità sostanziale delle questioni sollevate dalle due ordinanze di rimessione, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.

  3.1. — La prima questione, sollevata da entrambi i giudici rimettenti, è inammissibile.

  Nel denunciare un difetto di determinatezza della figura criminosa di cui all’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, connesso alla genericità del requisito dell’idoneità dell’informazione privilegiata ad influenzare «sensibilmente» il prezzo di strumenti finanziari, i giudici rimettenti non chiedono, tuttavia, né che la Corte rimuova, dalla descrizione della fattispecie penale, il solo avverbio «sensibilmente» (intervento che, peraltro, determinerebbe un effetto in malam partem, dilatando il perimetro di operatività dell’incriminazione); né, in senso opposto, che la Corte cancelli nella sua interezza la norma incriminatrice censurata.

  Come emerge non soltanto dal dispositivo delle ordinanze di rimessione, ma anche dalla motivazione in punto di rilevanza, i giudici a quibus invocano piuttosto l’addizione, alla formula definitoria dell’«informazione privilegiata», di «parametri» atti a rendere più puntuale e sicura l’identificazione dell’elemento di fattispecie in discorso. La rilevanza della questione nel giudizio principale, infatti, discenderebbe – secondo quanto si afferma nelle predette ordinanze — non già dalla circostanza che, in caso di pronuncia di accoglimento, gli imputati dovrebbero essere senz’altro assolti (come ovviamente avverrebbe qualora si fosse chiesta la rimozione dell’intera norma incriminatrice); quanto piuttosto dal fatto che, ove la questione venisse accolta, la condotta ascritta agli imputati medesimi — valutata alla stregua di «criteri precisi» — «potrebbe non integrare il delitto loro contestato».

  I giudici rimettenti non specificano peraltro in alcun modo quali siano, in concreto, i «parametri sufficientemente determinati» di cui essi auspicano l’introduzione: postulando, così, una operazione di “riempimento” dei contenuti della norma che — al di là di ogni rilievo circa la validità delle censure su cui il quesito si fonda — si palesa comunque estranea, per il suo carattere apertamente “creativo”, ai poteri di questa Corte, rimanendo eventualmente affidata alla discrezionalità del legislatore.

A quest’ultimo riguardo, va rilevato come la disciplina oggetto dello scrutinio di costituzionalità appaia in effetti destinata ad essere rivista nell’immediato dal legislatore — anche per l’aspetto che specificamente interessa in questa sede — nel quadro dell’attuazione di due direttive comunitarie: la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), che sostituisce ed abroga la direttiva 89/592/CEE, in attuazione della quale la disciplina dell’insider trading era stata originariamente introdotta nel nostro ordinamento; nonché la direttiva 2003/124/CE della Commissione del 22 dicembre 2003, recante modalità di esecuzione di essa.

Infatti, mentre l’art. 1, numero 1, della direttiva 2003/6/CE contiene una nuova definizione dell’«informazione privilegiata», peraltro non troppo dissimile, nella sostanza, da quella già presente nella direttiva 89/592/CEE; l’art. 1 della direttiva 2003/124/CE — nella specifica prospettiva di «accrescere la certezza del diritto per i partecipanti al mercato» (v. il «considerando» n. 3) — reca, a sua volta, indicazioni complementari intese a puntualizzare ulteriormente la definizione suddetta, sia per quanto attiene al «carattere preciso» della notizia, sia per quel che riguarda il requisito dell’«importanza del suo impatto potenziale sui prezzi degli strumenti finanziari o degli strumenti derivati connessi». E, in correlazione a tali previsioni, la modifica della disposizione censurata è già di fatto prevista nel progetto di legge comunitaria per il 2004, in corso di approvazione da parte del Parlamento.

  3.2. — La seconda questione, anch’essa sollevata da entrambi i rimettenti, è manifestamente inammissibile.

  Anche a voler prescindere, infatti, dalla prospettazione in forma ancipite del quesito — che già di per sé costituirebbe motivo di inammissibilità, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, ordinanze n. 128, n. 159 e n. 299 del 2003) — è dirimente il rilievo che il quesito stesso poggia su un erroneo presupposto interpretativo: quello, cioè, che la disciplina dell’abuso di informazioni privilegiate contenuta nel d.lgs. n. 58 del 1998 sia stata emanata sulla base della delega di cui all’art. 1, e quindi dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996.

  La citata legge delega prevedeva, in realtà, un intervento normativo, nel settore degli intermediari e dei mercati finanziari, articolato in due fasi successive. Essa delegava anzitutto il Governo a dare attuazione al complesso di direttive comunitarie comprese nell’allegato A alla legge stessa (art. 1): direttive tra le quali non figurava la direttiva 89/592/CEE del 13 novembre 1989, sul coordinamento delle normative concernenti le operazioni effettuate in possesso di informazioni privilegiate (insider trading), per l’evidente ragione che essa era già stata in precedenza attuata dalla legge n. 157 del 1991. Nell’allegato erano invece comprese le direttive 93/6/CEE e 93/22/CEE, relative, rispettivamente, ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari e all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi: direttive la cui attuazione — ai sensi del comma 2 dell’art. 21 della legge delega, che dettava i principi e criteri direttivi specifici per la materia — doveva avvenire nel termine di centoventi giorni dall’entrata in vigore della legge stessa (termine più breve di quello generale di un anno stabilito dall’art. 1).

  È solo a tale prima fase — sfociata nel decreto legislativo 23 luglio 1996, n. 415 (Recepimento della direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari e della direttiva 93/6/CEE del 15 marzo 1993 relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi), cui la disciplina dell’abuso di informazioni privilegiate rimaneva affatto estranea — che si riferiscono, in effetti, i principi e criteri direttivi in materia sanzionatoria enunciati dall’art. 3, comma 1, lettera c), della legge delega: ciò desumendosi chiaramente dall’alinea dello stesso art. 3, in forza del quale i principi e criteri in questione erano destinati a presiedere all’emanazione dei «decreti legislativi di cui all’articolo 1».

  L’art. 8 della legge delega affidava, per altro verso, all’esecutivo il distinto compito di emanare — nel più ampio termine di due anni — testi unici volti a coordinare le disposizioni attuative delle direttive comunitarie con le norme vigenti nelle stesse materie, apportando a queste ultime «le integrazioni e modificazioni necessarie al predetto coordinamento». Con specifico riferimento alle citate direttive 93/6/CEE e 93/22/CEE, l’art. 21, comma 3, della legge delega prevedeva altresì che «in sede di riordinamento normativo delle materie concernenti gli intermediari, i mercati finanziari e mobiliari e gli altri aspetti comunque connessi, cui si provvederà ai sensi dell’articolo 8, le sanzioni amministrative e penali potranno essere coordinate con quelle già comminate da leggi vigenti in materia bancaria e creditizia per violazioni che siano omogenee e di pari offensività», salvi possibili interventi di depenalizzazione nei limiti ivi indicati; mentre il successivo comma 4 dello stesso articolo abilitava il Governo a modificare, nella medesima sede, la disciplina delle società emittenti titoli sui mercati regolamentati, secondo criteri di rafforzamento della tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza. Ed è in base a questa seconda e distinta delega legislativa — non sovrapponibile nei contenuti alla prima, anche per quanto concerne i profili di ordine sanzionatorio — che è stato emanato il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al d.lgs. n. 58 del 1998, nel quale la disciplina dell’abuso delle informazioni privilegiate ha trovato posto quale materia indubbiamente concernente «i mercati finanziari e mobiliari».

  L’erronea premessa normativa, sulla quale si basa la questione di costituzionalità, viene dunque a risolversi, quanto alla prima delle due censure formulate in via alternativa dai giudici rimettenti — l’asserita illegittimità costituzionale dell’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, per violazione dell’art. 76 Cost. — in una errata individuazione della norma della legge di delegazione, alla cui stregua dovrebbe essere verificato il supposto vizio di eccesso di delega; e, quanto alla seconda censura — la pretesa illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della legge n. 52 del 1996, per violazione degli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost. — nell’impugnazione di una norma inconferente.

  Le considerazioni che precedono escludono, d’altra parte, che possa trovare accoglimento l’istanza della parte privata, con cui questa Corte è stata sollecitata a sollevare dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996, per violazione degli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost., sotto il profilo della assoluta genericità della delega in materia penale ivi contenuta, anche per quel che concerne le stesse scelte di criminalizzazione: trattandosi, come detto, di delega che non si pone affatto a fondamento della disciplina dell’abuso di informazioni privilegiate dettata dal d.lgs. n. 58 del 1998.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

  riuniti i giudizi,

  1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 180 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Siracusa e dal Tribunale di Roma con le ordinanze indicate in epigrafe;

  2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 180 del decreto legislativo n. 58 del 1998, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, o, in alternativa, dell’art. 3, comma 1, lettera c), ultima parte, della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1994), in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 76 della Costituzione, sollevate dal Tribunale di Siracusa e dal Tribunale di Roma con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1  dicembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2004.