Sentenza n. 247 del 1989

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SENTENZA N. 247

ANNO 1989

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4, n. 7 della legge 7 agosto 1982, n. 516 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, recante norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria. Delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per i reati tributari) promossi con ordinanze emesse il 15 marzo 1988 dalla Corte d'appello di Milano; il 21 settembre 1988 dal Tribunale di Isernia (n. 2 ordd.); il 23 settembre 1988 dal Tribunale di Lanusei; il 22 luglio 1988 dal Tribunale di Verbania; il 5 ottobre 1988 dal Tribunale di Salerno; il 22 settembre 1988 dal Tribunale di Lodi; il 4 luglio 1988 dal Tribunale di Torino (n. 4 ordd.) e il 25 maggio 1988 dal Tribunale di Isernia, iscritte rispettivamente ai nn. 400, 714, 715, 717, 740, 742, 746, 754, 755, 756, 757 e 761 del registro ordinanze 1988 e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 49 e 51/1a s.s. dell'anno 1988 e n. 1/1a s.s. dell'anno 1989.

Visto l'atto di costituzione di Galli Giuseppe nonché gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 1989 il Giudice relatore Renato Dell'Andro.

 

Considerato in diritto

 

 

1.poiché tutte le ordinanze in epigrafe propongono, in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost. (ed alcune, indicate in narrativa, anche in riferimento all'art. 3 Cost.) questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una stessa norma, i procedimenti relativi alle predette ordinanze possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

2.-Deve essere, anzitutto, respinta l'eccezione d'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7 della legge 7 agosto 1982, n. 516 (rectius: dell'art. 4, primo comma, n. 7 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, come convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516) sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato nelle difese in data 26 settembre 1988, alle quali gli atti d'intervento, relativi alle ordinanze che si vanno ad esaminare nel merito, rinviano.

Secondo l'Avvocatura generale la richiesta eliminazione delle parole < in misura rilevante> condurrebbe alla rimozione d'un limite alla punibilità e, pertanto, ad un ampliamento dell'area della repressione penale; non essendo consentito a questa Corte produrre effetti < manipolativi> di tal genere, la predetta questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile.

Questa Corte, come si avrà modo di precisare, concorda con l'Avvocatura generale nel ritenere la < misura rilevante> dell'alterazione del risultato della dichiarazione, di cui al delitto in esame, condizione per la concreta punibilità del delitto stesso: e, pertanto, non v'é dubbio che l'eliminazione dell'espressione < misura rilevante> dall'ipotesi delittuosa in discussione condurrebbe ad un allargamento della punibilità. Ma le citate ordinanze di rimessione configurano la predetta < misura rilevante> dell'alterazione del risultato della dichiarazione quale < elemento costitutivo> del medesimo; ove, pertanto, venisse dichiarato costituzionalmente illegittimo, per mancanza di tassatività, un elemento essenziale del delitto, < cadrebbe> l'intera fattispecie tipica del delitto stesso.

La questione di legittimità costituzionale prospettata dalle ordinanze di rimessione va valutata nel modo come e stata proposta: spetta al successivo esame di merito precisare l'esatta qualificazione giuridica dell'espressione < misura rilevante> e decidere, in base alle conclusioni dello stesso esame, l'accoglimento della richiesta contenuta nelle citate ordinanze, qualora la predetta < misura> venga ritenuta non sufficientemente determinata, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost. oppure il rigetto della precitata richiesta, nell'ipotesi che la < misura rilevante> in discussione venga ritenuta sufficientemente determinata, sempre in riferimento agli indicati parametri costituzionali.

3.-Nell'iniziare l'esame del merito della proposta questione di legittimità costituzionale va precisato che verrà usato il termine determinatezza (insieme al correlativo indeterminatezza) e non quello di tassatività, in primo luogo perché, esistendo autorevoli dottrine che ritengono distinti i significati dei due termini, seguendo le stesse dottrine, si tratta, in questa sede, appunto di decidere sulla determinatezza quale modo (di formulazione e, conseguentemente) di essere della norma (o di un suo elemento, la < misura rilevante>) di cui all'art. 4, n. 7 del citato decreto legge ed in secondo luogo perché, avendo il precetto> di determinatezza, sempre secondo le predette dottrine, contenuto più vasto ed intenso di quello di tassatività, l'uso del termine < determinatezza> consente di prescindere, in questa sede, dal dibattito relativo alla distinzione tra la specie-< tassatività> ed il genere-< determinatezza>, che appunto il primo (di specie) ricomprenderebbe senza in esso esaurirsi.

Poiché, peraltro, pur essendo la determinatezza una qualità delle norme (e dei suoi elementi essenziali) come risultano dagli enunciati legislativi, dall'interpretazione dei medesimi e dal loro precisarsi (o confondersi) attraverso l'applicazione, si è giustamente dubitato dell'utilità pratica d'un concetto generale di determinatezza, costruito attraverso connotati comuni alle norme determinate; e poiché, d'altra parte, per constatare se, nell'indicazione della predetta < misura rilevante>, si siano rispettati gli artt. 25, secondo comma e 3, primo comma, Cost., va preliminarmente precisata la posizione della predetta < misura> nel contesto della fattispecie di cui la misura stessa fa parte (l'indicazione legislativa d'un particolare dato può essere ritenuta sufficientemente determinata oppure no a seconda che lo stesso dato integri, o meno, un elemento costitutivo del reato); va qui anzitutto stabilita la posizione che la predetta < misura rilevante>, di cui all'art. 4, primo comma, n. 7 del citato decreto legge n. 429 del 1982, ha nel contesto dell'intera fattispecie prevista dallo stesso numero del citato comma.

Quel che non può esser, in ogni caso, metodologicamente consentito e < isolare> la < misura rilevante> dagli altri elementi della fattispecie nella quale tale < misura> e inserita per confrontare quest'ultima, e soltanto quest'ultima, con il precetto di determinatezza di cui agli artt. 25, secondo comma e 3, primo comma, Cost. Va, invero, ribadito che la determinatezza dell'indicazione legislativa del significato d'un termine (o d'una espressione) non può stabilirsi prescindendo dal rapporto che lo stesso termine ha con gli altri elementi della fattispecie e dalla relazione che l'intera fattispecie del delitto previsto dall'art. 4, n. 7 del più volte citato decreto legge ha con le altre ipotesi delittuose previste nello stesso articolo, con le ipotesi contravvenzionali di cui all'art. 1 dello stesso decreto e con il sistema tutto dei reati tributari.

V'é, invero, da ricordare che tocca alla giurisdizione ed alla dottrina, attraverso l'< istituzionalizzazione> della legge, o meglio attraverso i Rechtsinstitute, che accompagnano la legge e ne condizionano il significato, procedere a quel raccordo tra fatto e diritto che permette d'acquisire la certezza soggettiva sull'esito dei casi giudiziari: non e, pertanto, metodo logicamente corretto ritenere che la certezza e l'incertezza siano qualità proprie della natura di ogni singolo dato della fattispecie. Né va dimenticato che gran parte dei concetti c.d. < elastici>, che esprimono una realtà quantitativa o temporale attraverso termini necessariamente imprecisi, spesso costituiscono frutto d'un tentativo del legislatore di precisazione e delimitazione della sfera d'operatività di fattispecie troppo ampie o generiche.

Or la < misura rilevante>, di cui al delitto in esame, é, appunto, un < concetto elastico> che, come si chiarirà oltre, vale a delimitare la sfera d'operatività del delitto stesso.

Vero e che il principio di determinatezza e violato non tanto allorché e lasciato ampio margine alla discrezionalità dell'interprete (tale ampio margine costituisce soltanto un sintomo, da verificare, d'indeterminatezza) bensì quando il legislatore, consapevolmente o meno, s'astiene dall'operare < la scelta> relativa a tutto od a gran parte del tipo di disvalore d'un illecito, rimettendo tale scelta al giudice, che diviene, in tal modo, libero di < scegliere> significati tipici. Il legislatore, attraverso la norma qui in discussione ha, come si preciserà meglio oltre, chiaramente operato la scelta del tipo di disvalore insito nell'ipotesi in esame. Ogni frode, realizzata attraverso dissimulazione di componenti positivi o simulazione di componenti negativi del reddito, tale da alterare il risultato della dichiarazione, e, già in sé, in quanto almeno potenzialmente lesiva del bene giuridico tutelato, illecita: non può disconoscersi, infatti, che ogni frode, che comunque alteri il risultato della dichiarazione, e idonea a violare il potere d'accertamento tributario o la c.d. < trasparenza> della dichiarazione, anche se la misura rilevante dell'alterazione produce un aumento della quantità di pericolosità della frode.

La < misura rilevante> qui in discussione e, dunque, concetto elastico (quantitativo) che delimita la concreta operatività dell'illecito già tipizzato.

4.-Occorre qui procedere ad esaminare la posizione del dato < misura rilevante> nella fattispecie in esame, approfondendo l'intera struttura di quest'ultima, al fine di < riplasmare> il concetto che si assume indeterminato e svelarne il contrasto o l'aderenza al principio di determinatezza.

Scontato che il predetto principio, come la quasi unanime dottrina sottolinea, risulta elevato a dignità costituzionale (benché non s'evinca, immediatamente, dalla lettera dell'art. 25, secondo comma, Cost.) la verità di quanto precedentemente osservato viene confermata dalle stesse ordinanze di rimessione; in queste si assume che il contrasto del < dato> in oggetto, < misura rilevante>, con gli artt. 3, primo comma e 25, secondo comma, Cost., avviene in quanto lo stesso dato integrerebbe un elemento costitutivo del reato.

Sennonché, in tal modo, già all'inizio, si confonde l'alterazione del risultato della dichiarazione, di cui alla fattispecie tipica in esame, con la < misura rilevante> dell'alterazione stessa. Per vero, alcuni Autori ritengono che l'ipotesi delittuosa in discussione costituisca, strutturalmente, reato senza evento (naturalistico) mentre altra dottrina e dell'avviso che la stessa ipotesi integri un reato con evento (di pericolo): l'evento sarebbe, appunto, integrato dall'alterazione del risultato della dichiarazione. Si può qui prescindere, per ovvie ragioni di brevità, dalla predetta alternativa: anche quando s'accetti la configurazione della fattispecie tipica in discussione quale delitto con evento (di pericolo) quest'ultimo non può che consistere nell'alterazione (del risultato della dichiarazione) prevista dalla fattispecie stessa. La < misura rilevante> di tale alterazione non potrebbe, dunque, se mai, che costituire modalità realizzativa dell'evento e cioè indicazione < quantitativa> dell'evento stesso: e non risulta che, per il rispetto degli artt. 3, primo comma e 25, secondo comma, Cost., tutte le modalità < quantitative> dell'evento debbano esser legislativamente < determinate> allo stesso modo e per gli stessi fini degli elementi costitutivi del reato.

Ma, prescindendo da ciò, vanno qui proposte alcune osservazioni, dalle quali s'evince che la predetta < misura rilevante> non é, per sé, giuridicamente configurabile quale momento del contenuto d'un elemento costitutivo del reato: essa, infatti, non solo non fa parte del < dolo> (e ciò sarebbe già sufficiente per non poterla configurare quale parte del contenuto d'un elemento costitutivo del delitto in esame) ma neppure fonda, e tantomeno esaurisce, il contenuto offensivo del fatto: tal contenuto risulta, infatti, già tipicamente individuato attraverso il disvalore della condotta e dell'evento (per chi lo configuri) a prescindere dalla < misura rilevante> dell'alterazione della dichiarazione. Tutto sta a ben individuare il puntuale contenuto di disvalore della condotta del delitto in esame ed a non far gravitare, assurdamente, sulla < misura rilevante> dell'alterazione tutto o gran parte del contenuto offensivo del fatto.

La < misura rilevante> indica, invero, il < peso> del carico offensivo del delitto ma non entra, non fa parte della qualità offensiva del delitto stesso. Da ciò discende che soltanto quando il legislatore avesse fatto ruotare l'intero o gran parte del disvalore offensivo del fatto sulla < misura rilevante> dell'alterazione si sarebbero violati gli artt. 3, primo comma e 25, secondo comma, Cost.: solo in tal caso, infatti, il legislatore, sottraendosi alla < scelta> individuativa e determinativa del tipo d'illecito e rimettendo al giudice la stessa scelta (il giudice non sarebbe, peraltro, neppure minimamente vincolato) avrebbe reso lo stesso giudice veramente arbitro del lecito e dell'illecito.

5.-Il disvalore della condotta e dell'evento (per chi lo ritenga sussistente) già individuano ed esauriscono il contenuto offensivo del fatto: tal contenuto s'incentra, cioè, a prescindere dalla < quantità> dell'alterazione, esclusivamente sul disvalore del fatto in senso stretto, a cui rimane estranea la < misura rilevante>.

Le modalità tipiche della condotta del delitto in esame (dissimulazione di componenti positivi e simulazione di componenti negativi del reddito o del ricavo) assumono compiuto significato dal confronto sistematico con le altre ipotesi di frode fiscale, di cui all'art. 4, primo comma, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429 e con le ipotesi contravvenzionali previste dall'art. 1, secondo comma, dello stesso decreto legge.

Dal confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del citato decreto ed i delitti di cui ai numeri da 1 a 6 dello stesso art. 4 si desume che, come per questi ultimi delitti, anche per la realizzazione dell'ipotesi di cui al citato n. 7, non é sufficiente una condotta consistente nel solo omettere la dichiarazione di componenti positivi del reddito e (o) la sola dichiarazione della sussistenza di componenti negativi dello stesso reddito bensì é indispensabile che la condotta in esame si esprima in forme < corrispondenti> a quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale.

Il confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del decreto in discussione e le ipotesi contravvenzionali previste dal secondo comma dell'art. 1 dello stesso decreto convince ancor più che la condotta del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 deve esprimersi in forme oggettivamente artificiose, fraudolente. Ove la dissimulazione di componenti positivi del reddito (di cui al n. 7 dell'art. 4) potesse concretarsi in una mera omissione, la condotta in esame si sovrapporrebbe, in pratica, alle ipotesi contravvenzionali dell'art. 1, secondo comma; e ciò determinerebbe, peraltro, gravi contraddizioni sistematiche in quanto, poiché le predette contravvenzioni soggiacciono alla ben nota soglia di punibilità, al di sotto della stessa soglia potrebbe, paradossalmente, subentrare la punibilità a titolo di frode.

Per esigenze di corrispondenza simmetrica con la < dissimulazione> anche la < simulazione>, prevista dal delitto in esame, non può esser realizzata attraverso una semplice, mendace indicazione di componenti negativi del reddito: la < simulazione> di questi componenti, peraltro, non e neppur concepibile senza un supporto documentale contrario alla realtà.

6. - Nel rinviare alla prevalente dottrina per le altre motivazioni (che qui ovviamente non possono essere, una per una, ricordate) in ordine all'ora accolta interpretazione del significato della condotta del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del decreto legge n. 429 del 1982, va particolarmente sottolineato che soltanto la predetta interpretazione, mentre consente (é stato già rilevato in dottrina) di conferire alla condotta ed all'intera fattispecie tipica del delitto in esame il più alto grado possibile di conformità al fondamentale principio d'uguaglianza (evitando l'irragionevole disparità di trattamento, consistente nel sanzionare lo stesso comportamento, l'infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile e grave delitto quando concerne redditi di lavoro autonomo o d'impresa, derivanti da cessione di beni o prestazione di servizi) consente anche d'interpretare il significato dell'evento (per chi lo configuri) del delitto in discussione (alterazione del risultato della dichiarazione) quale risvolto della condotta frodatoria e così permette di dare all'intera fattispecie una chiara, netta significazione, che caratterizza l'intero disvalore offensivo tipico, a prescindere dalla < misura rilevante>: quest'ultima, in presenza d'un completo significato offensivo tipico del fatto, pur facendo parte della fattispecie in senso ampio (e dovendo anch'essa raggiungere un grado di determinatezza, come oltre si preciserà, idoneo non a garantire la libertà ma il principio d'uguaglianza) risulta, dunque, estranea alla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto in senso stretto, limitandosi a connotare soltanto la gravita dell'intera fattispecie del delitto in esame. In altre parole: qualsiasi alterazione del risultato della dichiarazione e idonea a frustrare la funzione d'accertamento fiscale ma soltanto allorché la predetta alterazione raggiunga la < misura rilevante> il legislatore ritiene opportuno il concreto intervento punitivo.

Un'attenta esegesi delle conseguenze dell'attività dissimulatoria o simulatoria previste dall'art. 4, n. 7 del decreto in discussione induce, in fatti, a nettamente distinguere la natura e funzione qualitativa, per sé, dell'alterazione, dalla natura quantitativa della < misura rilevante> e dalla funzione soltanto selettiva di quest'ultima.

Allorché si prescrive che la condotta, già qui esaminata, sia tale da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione (si configuri o meno un evento nell'ipotesi in esame) si connota il risultato stesso in base a due caratteristiche negative concorrenti, l'una di natura qualitativa (l'alterazione, che consiste nello scarto tra il vero ed il dichiarato) l'altra di natura quantitativa (la < misura rilevante>, che dipende dall'entità di tale divario). Le predette caratteristiche del risultato della dichiarazione, data la loro diversa natura e, soprattutto, la diversa funzione giuridica, non possono esser poste sullo stesso piano: esse, infatti, corrispondono a due diversissime esigenze di politica criminale.

In particolare, l'alterazione costituisce il risvolto indefettibile della condotta simulatoria o dissimulatoria già individuata; quest'ultima, introducendo componenti negativi fittizi od elidendo componenti positivi reali, non può non provocare una modificazione nel risultato della dichiarazione. La < misura rilevante> di tale modificazione rappresenta, invece, un quid pluris attraverso il quale il legislatore seleziona l'ambito delle frodi punibili.

In tal senso depone, in primo luogo, il rilievo secondo cui la < misura rilevante> non può ragionevolmente far parte dell'oggetto del dolo: esigere che il titolare di redditi di lavoro autonomo o d'impresa (il quale deve pur sempre agire < al fine d'evadere le imposte sui redditi o l'imposta sul valore aggiunto o di conseguire un indebito rimborso, ovvero di consentire l'evasione o indebito rimborso a terzi>) persegua intenzionalmente un'alterazione, in < misura rilevante>, finirebbe in pratica col vanificare l'incriminazione. Un tale coefficiente psicologico presupporrebbe, infatti, da parte dell'agente, un calcolo puntuale del profitto da indebitamente conseguire; mentre, di regola, la condotta simulatoria o dissimulatoria é tenuta secondo un criterio di < opportunità> criminosa che non implica affatto la determinazione del < risparmio fiscale> da ottenere.

Una conferma dell'estraneità, dell'indifferenza al dolo, della < misura rilevante> qui in discussione si ha considerando gli effetti della ritenuta dal reo presenza od assenza della stessa misura. Nessuno vorrà, infatti, sostenere, che sol perché il reo per errore ritiene assente dalla fattispecie in senso ampio da lui realizzata la misura rilevante dell'alterazione del risultato della dichiarazione, debba andare impunito, benché agisca con il dolo specifico d'evadere le imposte o di farle evadere da terzi e pur essendo pienamente consapevole di realizzare una condotta idonea ad alterare il risultato della dichiarazione. Come ovvio e che, non realizzandosi, in concreto, la < misura rilevante> dell'alterazione della dichiarazione, nulla importa che l'agente l'abbia erroneamente ritenuta presente. In sostanza, il fatto (in senso stretto) vietato e riprovevole é il compimento, per un particolare scopo illecito, degli atti fraudolenti di cui all'art. 4, n. 7 del decreto legge n. 429 del 1982 con la consapevolezza che gli atti stessi sono idonei ad alterare il risultato della dichiarazione ed anche con l'intenzione d'effettivamente alterare il risultato della dichiarazione, qualora si ritenga l'alterazione evento del delitto.

In secondo luogo, considerare la < misura rilevante> quale elemento costitutivo dell'offesa comporterebbe la necessita d'ammettere che il legislatore abbia in definitiva riconosciuto una sorta di fascia di < liceità> per la frode simulatoria o dissimulatoria che non attinga la dimensione quantitativa prevista. Ma ciò é paradossale, innanzitutto in termini di prevenzione generale, dato che il messaggio normativo, orientando il divieto alla sola alterazione < in misura rilevante> della dichiarazione, si risolverebbe in una sorta di invito a frodare con < senso della misura>.

Ma anche in termini sistematici l'idea che il contenuto offensivo del delitto in esame graviti sulla rilevanza dell'alterazione si rivela ben poco plausibile. Nelle disposizioni previste dai nn. 1- 6 dell'art. 4, primo comma, del decreto in discussione il disvalore del fatto s'incentra esclusivamente su condotte criminose di falsità, ideologica o materiale, la cui rilevanza penale prescinde da un qualsiasi apprezzamento di natura quantitativa: l'emissione d'una fattura per una singola operazione inesistente costituisce, ad es., delitto (art. 4, primo comma, n. 5) anche se l'importo del corrispettivo sia modesto. La valutazione dell'entità lesiva del fatto può soltanto determinare l'applicazione dell'attenuante prevista dal secondo comma dell'art. 4. Non si vede, allora, per quale ragione la frode contemplata dal n. 7 dell'art. 4 debba focalizzare il proprio disvalore lesivo sulla < misura rilevante> dell'alterazione, distaccandosi con ciò dal contesto delle altre frodi e determinando - come si è detto - la presenza d'una fascia di frodi simulatorie o dissimulatorie < penalmente consentite>.

Vero é che la misura rilevante dell'alterazione costituisce, soltanto, filtro selettivo, che non incide sulla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto, ma ne connota solo la gravita, contrassegnando il limite a partire dal quale l'intervento punitivo e ritenuto opportuno: l'esigenza di determinatezza correlata a tale requisito deve essere stimata tenendo ben conto ch'esso non fonda, e tanto meno esaurisce, il contenuto offensivo del fatto e che da esso il legislatore poteva addirittura prescindere, in linea di principio, limitandosi a sanzionare la condotta simulatoria o dissimulatoria risoltasi nell'alterazione del risultato della dichiarazione.

Va ancora aggiunto che l'interesse alla selezione dei fatti da concretamente punire in quanto alterano (o sono idonei ad alterare) < in misura rilevante> il risultato della dichiarazione, appartiene anch'esso allo Stato ma é estraneo al bene giuridico (interesse all'accertamento tributario, alla < trasparenza> ecc.) tutelato con l'incriminazione del delitto. Or lo Stato potrebbe, si é detto, prescindere dal soddisfare l'interesse alla selezione, ed eliminare cosi dalla fattispecie la condizione obiettiva, il filtro selettivo (la < misura rilevante>); ma se, invece, intende includere, nella fattispecie in senso ampio, la < misura rilevante>, deve rispettare la < parità di trattamento>, cioè deve sottostare al comando della determinatezza in funzione (non della tutela della libertà del soggetto ma) del principio d'uguaglianza ex art. 3, primo comma, Cost.

7. -Non v'é dubbio, infatti, che anche la previsione della < misura rilevante> qui in esame, come tutti i dati condizionanti la punibilità, debba soggiacere al principio di determinatezza: nei confronti della predetta < misura>, tuttavia, tal principio si esprime in termini diversi che non rispetto ai requisiti essenziali dell'offesa tipica, a causa della diversa funzione che la prima e questi ultimi sono chiamati a svolgere e del non esser richiesta, per le condizioni obiettive, la conoscenza dei dati assunti a contenuto delle medesime.

Il fatto offensivo costituente reato e, in quanto tale, < meritevole di pena>, nel senso che sono in esso presenti i requisiti sufficienti per tracciare il confine tra la sfera del lecito e quella dell'illecito e per giustificare il ricorso alla sanzione criminale. La previsione normativa deve essere, pertanto, espressa e resa in forma determinata, per assicurare, attraverso la certezza dell'incriminazione, la libertà dei cittadini. Non in tutti i fatti < meritevoli di pena> é però rinvenibile anche un'< esigenza effettiva di pena>: la punibilità del reato può (allora) essere subordinata ad elementi di varia natura, nei quali si cristallizza una valutazione d'opportunità politica, estranea al contenuto dell'offesa e dipendente dal modo con cui é apprezzata la sua rilevanza in concreto per l'ordinamento.

Tali elementi condizionanti fungono, in pratica, come si é più volte notato, da < filtro selettivo> nel ricorso alla sanzione criminale per fatti pur < meritevoli di pena>; ma, non concorrendo a definire il discrimine fra lecito ed illecito, non devono sottostare ad un'esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà (assicurata con la previsione di un'offesa dal contenuto tipico < tassativamente> definito) bensì in funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui < selezione repressiva> non può porsi in contrasto con il principio d'uguaglianza.

La precisazione sembra corrispondere al significato assunto dalle condizioni obiettive di punibilità nella prospettiva storica.

Com'é noto, l'apprezzamento discrezionale della punibilità dei reati rappresentava una costante nel diritto penale dell'antico regime, con forme svariate ed in dipendenza di molteplici fattori d'ordine personale, sociale e politico. Il diritto penale moderno, in nome di un'esigenza ugualitaria, ha sancito, invece, il principio del nesso indefettibile tra reato e punibilità; ma la consapevolezza che, in alcuni casi, tale nesso indefettibile contrastava con ragioni di opportunità obiettivamente rilevanti, ha indotto a mantenere, in tali casi, la presenza, in forma tipica, di elementi condizionanti la punibilità, perequando l'efficacia degli stessi elementi sul piano dell'uguaglianza e togliendo loro il carattere di privilegio arbitrario.

In questo senso la < misura rilevante> dell'alterazione del risultato della dichiarazione, di cui al delitto in esame, non pub essere ritenuta in contrasto con l'esigenza che l'elemento condizionante la punibilità non sia tale da determinare un'irragionevole disparità di trattamento nella repressione del reato cui inerisce. I criteri di stima forniti dalla giurisprudenza consentono, infatti, d'identificare come < misura rilevante> un dato non solo intrinsecamente significativo ma anche ragionevolmente perequato rispetto alla dimensione contributiva dell'autore della frode. Ed a diverse posizioni contributive devono corrispondere, nell'ipotesi delittuosa in esame, diverse conseguenze.

I criteri d'interpretazione che la giurisprudenza ha proposto, allo scopo d'attribuire alla < misura rilevante>, inserita nel quadro dell'intera fattispecie del delitto in esame, un significato < determinato>, evitano disparità di trattamento nella repressione del delitto di cui qui si discute.

Ricordato che, in generale, la giurisprudenza, seguendo un metodo indubbiamente condividibile, e cioè quello di far precedere l'indagine sul significato della < misura rilevante> di cui all'ipotesi prevista dal n. 7 dell'art. 4 del decreto legge più volte citato da un esame preliminare della struttura della stessa ipotesi (soltanto nel quadro dell'articolata struttura del delitto in discussione, lo si è avvertito all'inizio, e possibile raggiungere la migliore interpretazione del dato reale - concreta alterazione del risultato della dichiarazione-che deve rivelarsi di < misura rilevante>); ricordato che la stessa giurisprudenza ha, in qualche caso, ritenuto < fuori dubbio> essere la caratterizzazione fraudolenta della condotta (sorretta dal dolo specifico di cui alla prima parte dell'art. 4) a segnare, nel decreto in discussione, il passaggio dalle ipotesi contravvenzionali a quelle delittuose previste dall'art. 4 (e, appunto, la gravita obiettiva del fatto, determinata dalle sue potenzialità insidiose nonché la gravita del dolo riferito alla predetta condotta a giustificare le ipotesi delittuose); ricordato ancora che in alcune decisioni di merito si legge che, proprio perché l'arte 4 prevede ipotesi di frode, il legislatore, a differenza delle ipotesi contravvenzionali, ha voluto evitare la fissazione di limiti predeterminati che avrebbero costituito una vera e propria sfera d'impunita per delitti gravi e soggettivamente qualificati; vanno particolarmente ricordati i tre criteri proposti dalla giurisprudenza per interpretare il dato < misura rilevante>:

1) criterio percentuale, giacche la misura dell'alterazione del risultato della dichiarazione non può che esser valutata anzitutto mediante una proporzione fra quello che e stato e quello che doveva essere il predetto risultato;

2) criterio assoluto, idoneo ad eliminare ipotetiche violazioni dell'art. 3, secondo comma, Cost. (questo criterio si sostiene essere specificamente il portato d'una interpretazione adeguatrice);

3) criterio proporzionale all'entità dell'imposta suscettiva di essere evasa.

Non v'é dubbio che i criteri di < rilevanza> dell'alterazione prospettati dalla giurisprudenza corrispondono pienamente alla salvaguardia del principio d'uguaglianza. Il parametro della valutazione relativa (al rapporto fra reddito o ricavo dichiarato ed effettivo) e il parametro della valutazione proporzionale (al rapporto tra imposta pagata e imposta dovuta) si uniformano, infatti, all'esigenza d'un apprezzamento diversificato di situazioni formalmente omogenee ma sostanzialmente disuguali. E' chiaro, a tal proposito, che una stessa quantità di reddito (o di ricavo) sottratta all'imposizione non può assumere lo stesso significato se essa si riferisce ad un reddito (o ad un ricavo) complessivo di diversa entità: dissimulare un reddito di cento assume diversa portata a seconda che il reddito globale sia 200 o 2.000, trattandosi nell'un caso d'una evasione pari al 50% e nell'altro corrispondente, invece, al 5%. Ed é anche chiaro che nella prima ipotesi il tributo evaso potrà risultare minore che nel secondo, qualora si tratti di un'imposta progressiva.

D'altro canto questi due criteri non potrebbero, da soli, garantire il pieno rispetto del principio d'uguaglianza, se, a temperarne l'operatività, non intervenisse anche un criterio di valutazione assoluta, allo scopo d'evitare che situazioni sostanzialmente diverse possano ricevere un trattamento arbitrariamente uniforme, o irragionevolmente sperequato in una direzione opposta a quella del loro significato sostanziale. E' infatti evidente come la dissimulazione d'un reddito pari ad una certa entità possa anche, in termini percentuali, assumere un valore rilevante rispetto a soggetti di limitata capacita contributiva ed apparire invece irrisoria rispetto a soggetti che tale capacita possiedono in misura elevata. Sarebbe allora ingiustificatamente discriminatorio considerare rilevante l'alterazione attuata dai primi, e non rilevante quella dei secondi, perché, in definitiva, i soggetti a reddito più modesto subirebbero un < rischio penale> maggiore in dipendenza esclusiva delle loro condizioni economiche. Ma la necessità che la misura dell'alterazione assuma comunque una consistenza significativa in termini assoluti, a prescindere dall'ulteriore valutazione in termini relativi e proporzionali, evita sicuramente una simile, inaccettabile conseguenza.

I preindicati criteri costituiscono, in ogni caso, il portato d’un’interpretazione secondo Costituzione. Sicché, mentre é l'art. 3 Cost. a suggerire i criteri adottati dalla giurisprudenza, nell'interpretazione della < misura rilevante> qui in discussione, l'applicazione congiunta degli stessi criteri evita la violazione dell'art. 3 Cost.

Poiché la < misura rilevante> non concorre a determinare il discrimine tra lecito ed illecito ed ha, come si é più volte sottolineato, la funzione di selezionare tra i fatti di alterazione del risultato della dichiarazione (tutti già < meritevoli di pena>, in quanto potenzialmente violativi del bene giuridico tutelato) quelli da sottoporre a concreta punizione (quelli per i quali si pone un'< esigenza effettiva di pena>) la stessa misura non deve sottostare all'esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà individuale (già assicurata da tutti gli elementi, oggetto del dolo, costitutivi dell'offesa tipica: la < certezza> prodotta dalla determinatezza di questi ultimi elementi garantisce, infatti, la libera scelta del lecito o dell'illecito) ma soltanto all'esigenza di determinatezza originata dalla necessità di garantire che la < selezione repressiva> non violi il principio d'uguaglianza; va qui constatato che l'interpretazione adeguatrice, secondo Costituzione, della portata della < misura rilevante>, stabilita in base all'applicazione < congiunta> dei criteri innanzi indicati, non viola il principio d'uguaglianza.

E' l'art. 3 Cost. a suggerire l'uso dei citati criteri: non può, dunque, l'applicazione dei medesimi violare lo stesso articolo.

All'inizio si è sottolineato che la determinatezza (in funzione di garanzia della libertà od in funzione di tutela dell'uguaglianza) e un modo di essere delle norme (e dei suoi elementi) come risultano dagli enunciati legislativi, dall'interpretazione dei medesimi e dal loro precisarsi attraverso l'applicazione: si può ora concludere dichiarando che l'enunciato legislativo < misura rilevante> di cui all'art. 4, n. 7 del decreto legge n. 429 del 1982 e, nei limiti sopra indicati, sufficientemente determinata.

L'esaminata questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, n. 7, del più volte citato decreto legge n. 429 del 1982 va, conseguentemente, dichiarata non fondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, n. 7 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione dell'evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria) convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, sollevata con le ordinanze del 15 marzo 1988 della Corte d'appello di Milano (Reg. ord. n. 400/88); del 21 settembre 1988 (Reg. ord. nn. 714 e 715/88) e del 25 maggio 1988 (Reg. ord. n. 761/88) del Tribunale di Isernia; del 23 settembre 1988 del Tribunale di Lanusei (Reg. ord. n. 717/88); del 22 luglio 1988 del Tribunale di Verbania (Reg. ord. n. 740/88); del 5 ottobre 1988 del Tribunale di Salerno (Reg. ord. n. 742/88); del 22 settembre 1988 del Tribunale di Lodi (Reg. ord. n. 746/88) nonchè del 7 luglio 1988 del Tribunale di Torino (Reg. ord. n. 754/88, 755/88, 756/88 e 757/88).

 

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/05/89.

 

Francesco SAJA - Giovanni CONSO- Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.

 

Depositata in cancelleria il 16/05/89.

 

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Renato DELL'ANDRO, REDATTORE