SENTENZA N. 246
ANNO 2004Commento alla decisione di
Tommaso F. Giupponi
(per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 18 gennaio 2000 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Filippo Mancuso nei confronti del dott. Gian Carlo Caselli e del dott. Francesco Saverio Borrelli, promosso con ricorso del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, notificato il 4 settembre 2000, depositato in cancelleria il 13 successivo ed iscritto al n. 42 del registro conflitti 2000.
Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;
udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2004 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;
udito l’avvocato Roberto Nania per la Camera dei deputati.
Ritenuto in fatto
1. Con ricorso del 20 gennaio 2000 (recte: 20 marzo 2000, secondo quanto risulta da successiva ordinanza di correzione di errore materiale), depositato nella cancelleria di questa Corte il 4 maggio 2000, il Giudice dell’udienza preliminare (GUP) del Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati a seguito della deliberazione, adottata dall’Assemblea nella seduta del 18 gennaio 2000 (atti Camera, doc. IV-quater, n. 99), con la quale è stata approvata la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere di dichiarare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale nei confronti del deputato Filippo Mancuso concernono opinioni espresse dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Nel ricorso si evidenzia che il deputato Mancuso è imputato del reato di diffamazione a mezzo stampa in relazione a dichiarazioni rese in occasione di un convegno di partito, tenutosi in Benevento nel giugno 1997, e riportate sia dall’agenzia ANSA, sia da vari quotidiani. In particolare, dal capo di imputazione risultano le seguenti affermazioni: "La continua pioggia di dichiarazioni rilasciate dai P.M. di Milano e Palermo, di queste due tribune eversive, è un atto che, considerato nella sua gravità, rappresenta un dato del costume negativo del Paese […] si tratta di delitti morali, politici da parte di una congrega di personaggi la quale, priva di cultura del diritto e di senso dello Stato, dà fuori con attività che si possono considerare autenticamente terroristiche". Tali affermazioni, secondo il pubblico ministero che ha chiesto il rinvio a giudizio, sarebbero offensive della reputazione del dott. Gian Carlo Caselli e del dott. Francesco Saverio Borrelli, Procuratori della Repubblica, rispettivamente, presso il Tribunale di Palermo e di Milano.
Ciò premesso il ricorrente sostiene che la pronuncia di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati sarebbe contestabile per la mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 68, primo comma, Cost.; conseguentemente, vi sarebbe stata un’illegittima interferenza nelle attribuzioni dell’autorità giudiziaria.
A tal riguardo il GUP rileva che la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha ritenuto, nella sua relazione, che le frasi pronunciate dal deputato dovevano essere collocate in un determinato contesto politico-parlamentare. Più volte, infatti, l’on. Mancuso aveva criticato, nel corso di interventi svolti nell’ambito di lavori parlamentari, in Assemblea e in commissione antimafia, nonché attraverso interrogazioni, l’eccessiva tendenza ad esternazioni di carattere lato sensu politico degli organi della pubblica accusa. Il giudice ricorrente evidenzia ancora che, a conforto di siffatta linea, la difesa dell’imputato ha sostenuto che il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese dal parlamentare al di fuori degli atti tipici e l’attività di parlamentare va individuato "in quella sorta di continuità logica e di coerenza, ravvisabile tra l’atto incriminato e le scelte politiche del parlamentare, tradotte anche in puntuali atti funzionali tipici, pregressi o contestuali che siano". Ed è proprio in tale prospettiva - ricorda sempre il ricorrente – che la stessa difesa ha evidenziato come di particolare rilievo la circostanza secondo cui nel corso della XIII legislatura (ambito temporale in cui si è verificato il fatto oggetto dell’imputazione) l’on. Mancuso rivestiva anche la carica di Vice Presidente della Commissione parlamentare antimafia e in tale qualità, oltre che in quella di deputato, si "è sempre occupato con impegno serio e costante del delicato tema della Giustizia, delle tare che ne viziano e ne ostacolano la corretta amministrazione", denunciando eccessi, abusi e sconfinamenti di taluni uffici giudiziari.
Il ricorrente ritiene invece che le frasi oggetto dell’imputazione nei confronti dell’on. Mancuso non abbiano alcun concreto riferimento all’attività parlamentare del deputato e che il diverso giudizio espresso dall’Assemblea costituisca un’erronea valutazione dei presupposti richiesti per il giudizio di insindacabilità. A sostegno del conflitto si richiama infatti la giurisprudenza di questa Corte sul requisito della connessione tra le opinioni espresse dal parlamentare e l’esercizio delle relative funzioni come indefettibile presupposto di legittimità della deliberazione parlamentare di insindacabilità (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000). La riproduzione all’esterno delle Camere di dichiarazioni già espresse in un atto parlamentare é insindacabile solo ove sia riscontrabile corrispondenza sostanziale di contenuti con l’atto parlamentare, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche. La funzione parlamentare - osserva il ricorrente - non può coincidere con l’intera attività politica del membro delle Camere.
Sicché, ad avviso del GUP del Tribunale di Roma, mentre le affermazioni concernenti la valutazione delle dichiarazioni delle Procure di Milano e di Palermo come dati di "costume negativo del paese" è da intendersi "quale critica funzionalmente connessa all’attività di parlamentare dell’on. Mancuso", non potrebbero invece ricondursi in tale ambito la qualificazione di "tribune eversive", riferita alle due procure, l’attribuzione sostanziale alle stesse della commissione di "delitti morali e politici", la qualificazione di organi che esercitano la funzione giurisdizionale quale "congrega di personaggi", l’attribuzione a tali organi, oltre che dell’"assenza di cultura del diritto e di senso dello Stato", anche dello svolgimento di attività "autenticamente terroristiche".
Secondo il ricorrente, le affermazioni e i giudizi da ultimo evidenziati si ricollegherebbero soltanto formalmente al soggetto della frase "la continua pioggia di dichiarazioni", ma da esso si allontanerebbero "per sfociare in una polemica diretta con tutte le attività svolte dalle suddette procure […] finendo per attribuire ad organi investiti della potestà repressivo-punitiva dello Stato, la commissione di delitti contro la collettività".
Ed è proprio sotto l’indicato profilo che le espressioni dell’on. Mancuso non risulterebbero collegate funzionalmente alla sua attività di parlamentare, così da giustificare la proposizione del presente conflitto, la cui risoluzione è demandata a questa Corte.
2. Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 388 del 27 luglio 2000. A seguito di essa, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha notificato il ricorso e l’ordinanza alla Camera dei deputati in data 4 settembre 2000 ed ha depositato tali atti, con la prova dell’avvenuta notificazione, il successivo 13 settembre 2000.
3. Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, la quale ha chiesto, in via preliminare, che il conflitto venga dichiarato inammissibile e, in subordine e nel merito, che la Corte dichiari che spettava ad essa Camera affermare l’insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni rese dall’on. Filippo Mancuso ed oggetto del procedimento penale pendente dinanzi al giudice ricorrente.
La difesa della Camera, dopo aver ricostruito la vicenda che ha dato origine al presente conflitto, osserva anzitutto che già "la fisionomia della sede esterna", nel cui ambito sono state espresse le opinioni incriminate, "deponeva univocamente a favore del collegamento tra le opinioni stesse e l’attività politico-parlamentare", trattandosi di un convegno al quale hanno partecipato numerosissimi parlamentari di ogni parte politica, alcuni dei quali nella veste di componenti della commissione giustizia e delle commissioni di inchiesta antimafia e stragi.
In sostanza, proprio per le sue modalità organizzative, il convegno "si presentava come una sorta di prosecuzione del dibattito politico-parlamentare intorno ai temi del funzionamento della giustizia e della lotta alla criminalità"; in ciò è da riconoscersi – secondo la Camera - una particolare qualificazione della "sede", che riveste valore probante ai fini della compenetrazione tra le opinioni espresse e le funzioni parlamentari.
La difesa della Camera dei deputati sostiene, poi, che il nesso funzionale tra le opinioni espresse dall’on. Mancuso e l’esercizio delle funzioni parlamentari, positivamente apprezzato dalla delibera di insindacabilità, si coglierebbe proprio nei temi ricorrentemente affrontati nella sua attività di deputato e cioè sia "quello della denunzia della crisi della amministrazione della giustizia nel nostro Paese e delle ragioni che, sempre a suo avviso, ne sarebbero alla base"; sia, più in particolare, quello delle esternazioni dei magistrati.
Sotto il primo aspetto andrebbe considerato anzitutto l’intervento dell’on. Mancuso, nella sua qualità di componente della commissione antimafia, del 16 ottobre 1996, in sede di dibattito sulla modifica dell’art. 11 del codice di procedura penale (concernente la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).
Quanto al secondo tema rileverebbero l’interrogazione n. 3/04305, del 23 settembre 1999, su commenti giornalistici a firma del dott. Gian Carlo Caselli, già Procuratore della Repubblica di Palermo, "aventi ad oggetto argomenti attinenti alle sue specifiche competenze, nonché valutazioni politiche"; ed ancora, la successiva interrogazione n. 3/04680, del 23 novembre 1999, con riferimento agli interventi del dottor Caselli della Procura di Palermo e del dottor Davigo della Procura di Milano nel corso di un incontro sulla riforma costituzionale sul giusto processo, nella quale si censurava "la loquacità, ormai tristemente consolidata, dei due magistrati che esorbita certamente dalla sfera intangibile della libertà di opinione".
Ad avviso della Camera dei deputati, non è poi senza rilievo il fatto che l’atteggiamento di controllo critico nei confronti delle Procure di Milano e di Palermo nonché la polemica nei confronti delle relative "esternazioni" integri "una parte significativa del dibatto parlamentare delle ultime legislature, com’è confermato da una vera e propria messe di atti ispettivi in materia che precedono largamente la presa di posizione dell’on. Mancuso" (interrogazione n. 4/08683 dell’on. Sgarbi in data 21 marzo 1995; interrogazione n. 4/04073 del 10 ottobre 1996 dell’on. Saponara). In tal senso è significativo che la stessa Corte costituzionale abbia attribuito rilievo anche al "complessivo contesto parlamentare nel quale erano state manifestate le espressioni di critica nei confronti del potere giudiziario" (sentenze n. 417 del 1999 e n. 375 del 1997). E che le esternazioni dei magistrati delle Procure di Palermo e di Milano avessero determinato "un clima di forte tensione polemica" costituirebbe un fatto notorio, tale da comprovare che la riprovazione della "continua pioggia di dichiarazioni" manifestata dal deputato Mancuso "non viene dal nulla, ma dev’essere inquadrata e spiegata alla luce, appunto, di un contesto parlamentare che aveva già ampiamente officializzato la sua reattività a riguardo".
Del resto lo stesso giudice ricorrente, sostiene ancora la difesa della Camera, ha ammesso che la critica mossa in tale circoscritto ambito dall’on. Mancuso va intesa quale critica funzionalmente connessa all’attività del parlamentare. Non sarebbe invece per nulla condivisibile quanto lo stesso giudice sostiene in relazione alle ulteriori dichiarazioni del medesimo deputato, che reputa sostanzialmente slegate dal soggetto della frase "la continua pioggia di dichiarazioni" e, come tali, costituenti una polemica diretta con tutte le attività svolte dalle suddette procure.
Secondo la Camera sarebbe questo un tentativo implausibile "di rompere la unitarietà logico-linguistica della dichiarazione resa dall’on. Mancuso", giacché anche le ulteriori, sebbene aspre, asserzioni polemiche "assolvono alla funzione di rafforzare, rendendone inequivocabile la gravità nel giudizio del dichiarante, il motivo polemico cruciale ossia quello concernente le esternazioni dei pubblici ministeri".
La difesa della Camera ritiene peraltro che, anche nell’ipotesi in cui non si voglia accedere a siffatta ricostruzione, la sussistenza degli estremi della insindacabilità non potrebbe essere negata in forza del contenuto degli atti ispettivi posti in essere dal medesimo parlamentare, i quali inequivocabilmente stigmatizzano le anomalie, a suo avviso, riscontrabili nell’operato degli uffici della procura (per quanto riguarda la Procura di Milano: l’interrogazione 4/02359 del 24 luglio 1996; l’interpellanza 2/00592 del 3 luglio 1997; la mozione n. 1/00289, del 2 luglio 1998. In riferimento alla Procura di Palermo: l’interpellanza n. 2/00252 del 21 ottobre 1996; la mozione n. 1/00202 del 30 ottobre 1997. Agli atti menzionati si aggiungerebbero poi: l’interpellanza n. 2/00967, del 12 marzo 1998; gli interventi di cui allo stenografico d’aula n. 632, del 1° gennaio 1999 e n. 568, del 14 luglio 1999. Ed ancora: gli interventi di cui allo stenografico d’aula n. 323, dell’11 marzo 1998; n. 341, del 15 aprile 1998; n. 369, del 10 giugno 1998; n. 737, del 9 giugno 2000; n. 749, del 27 giugno 2000; l’interrogazione n. 3/04680, del 23 novembre 1999).
Del resto, conclude la Camera, il rapporto di corrispondenza tra le dichiarazioni dell’on. Mancuso e le attività parlamentari appena rammentate non potrebbe essere disconosciuto o anche sminuito in forza del rilievo di una carenza di stretta connessione a puntuali atti parlamentari, perché così opinando si verrebbe ad estromettere aprioristicamente dal campo di operatività della garanzia costituzionale tutte quelle dichiarazioni che, in ragione della loro "densità politica", esprimono una più forte vocazione alla tutela costituzionale, "atteso che detta tutela è preordinata anche ad assicurare, nel quadro della democrazia pluralistica, la libertà di svolgimento del rapporto di comunicazione tra i rappresentanti ed i cittadini".
4. Con memoria depositata in prossimità dell’udienza la Camera dei deputati ha insistito anzitutto per l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili.
In primo luogo, per la assoluta incertezza in ordine alla identificazione del soggetto che ha inteso sollevare il conflitto. Non sarebbe infatti chiaro dalla lettura del ricorso se il proponente abbia avanzato conflitto di attribuzione nella qualità di giudice dell’udienza preliminare ovvero nella qualità di giudice per le indagini preliminari, giacché nel corpo dell’atto si fa riferimento al "giudice dell’udienza preliminare", ma la sua sottoscrizione è ricondotta al "giudice per le indagini preliminari", così come da quest’ultimo proviene la richiesta di notificazione del ricorso alla Camera dei deputati.
Altro profilo di inammissibilità del ricorso riguarderebbe la mancata indicazione dell’oggetto della domanda, costituendo l’espressa e compiuta enunciazione del petitum requisito essenziale ai fini della corretta instaurazione del giudizio per conflitto, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 364 del 2001, n. 31 e n. 206 del 2002). La Camera evidenzia che nel dispositivo del ricorso è presente soltanto "una generica richiesta rivolta alla Corte di risoluzione del conflitto": in tal modo il giudice ricorrente "ha semplicemente evidenziato il potere dovere di decidere senza assolvere conseguentemente all'onere di indicazione dell'oggetto della domanda".
Ed ancora, il ricorso sarebbe inammissibile in quanto il giudice ricorrente ha proceduto ad una prima notifica di esso alla Camera dei deputati antecedentemente al deposito presso la Corte costituzionale ai fini del giudizio di ammissibilità del conflitto; notifica che, sempre prima del giudizio di ammissibilità, è stata effettuata anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e del Senato della Repubblica. Secondo la Camera in tal modo sarebbe stato "completamente sovvertito lo schema legale che, a mente della legge n. 87 del 1953, è proprio del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato" riguardante l’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. In sostanza il vizio di inammissibilità rileverebbe sotto più aspetti: sia per la "prematura ufficializzazione" del ricorso prima che la positiva conclusione del vaglio di ammissibilità lo potesse consentire, sia per "l’indebito coinvolgimento quali parti del conflitto di soggetti istituzionali che avrebbero dovuto restarne estranei", con conseguenti gravi incertezze in ordine "al tipo di conflitto che il giudice ha inteso avanzare, con ciò evidenziandosi una ennesima ragione di inammissibilità del conflitto stesso".
Ulteriore ragione di inammissibilità deriverebbe, ad avviso della Camera, dalla sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge 20 giugno 2003, n. 140, recante disposizioni di attuazione dell’art. 68 Cost., il cui art. 3, comma 1, di immediata applicazione, introdurrebbe "nuovi fattori di valutazione in ordine alla estensione della garanzia di insindacabilità ed alla ponderazione del collegamento tra dichiarazioni esterne ed attività parlamentare". Ciò dovrebbe comportare almeno una "rivalutazione" da parte del giudice ricorrente "della effettiva sussistenza nella specie dei presupposti per l’elevazione del conflitto".
Un ultimo motivo di inammissibilità andrebbe ravvisato, secondo la difesa della parte resistente, in una "anomala" impostazione del conflitto, per cui talune frasi pronunciate dall’on. Mancuso (quelle che stigmatizzano la prassi della "continua pioggia di dichiarazioni" che avrebbe caratterizzato l’attività degli uffici delle Procure di Milano e di Palermo, rappresentando un "dato del costume negativo del Paese") sarebbero riconducibili alla sua attività di parlamentare, mentre non lo sarebbero "talune singole parole" ("tribune eversive"; "attività autenticamente terroristiche"; "congrega di personaggi"; "assenza di cultura del diritto e di senso dello Stato"; "delitti morali e politici") "che pure sono sintatticamente e logicamente connesse alla critica rivolta alla prassi delle esternazioni". Non sarebbe infatti ammissibile un conflitto che pretenda di "opporre alla compiutezza della delibera di insindacabilità non già una diversa valutazione della opinione", bensì "singoli frammenti o singole parole scorporati dall’insieme della dichiarazione e che solo in tale contesto sono idonei ad integrare gli estremi di una opinione". In tal modo il conflitto non avrebbe più ad oggetto le "opinioni" espresse dal deputato, ma soltanto "singole ed isolate parole assunte nel loro nudo e crudo senso lessicale".
Nel merito, la difesa della Camera ribadisce che le affermazioni in oggetto vanno lette nella loro interezza e cioè come una reiterazione, seppure "in un crescendo di intensità e radicalità critica", della "medesima valutazione politica di estrema gravità" della prassi delle esternazioni da parte degli organi delle procure; sicché, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice confliggente, è l’intera dichiarazione a risultare connessa alla attività parlamentare che ha investito il tema in questione.
Anche nell’ipotesi in cui si ritenesse possibile frazionare l’opinione espressa e scorporare le frasi suddette dal tema delle esternazioni, la Camera afferma che permarrebbe intatto il legame con l’attività parlamentare e la conseguente operatività della garanzia costituzionale e ciò in ragione dei numerosi atti ed interventi in cui l’on. Mancuso, al di là del tema delle esternazioni, ha espresso il proprio netto dissenso dal modo di operare delle procure con attinenza alle più diverse vicende.
Né può ritenersi priva di rilievo la circostanza che, alla luce della giurisprudenza costituzionale sull’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 (sentenza n. 120 del 2004), occorre valorizzare l’"inscindibile legame tra conflitto e singola fattispecie"; e la fattispecie oggetto del presente giudizio sarebbe caratterizzata dall’essere state le dichiarazioni rese in un convegno di partito, qualificabile come prosecuzione del dibattito politico-parlamentare sui medesimi temi. E in questa prospettiva dovrebbe altresì tenersi conto – a riprova ancora una volta della continuità delle posizioni critiche assunte dall’on. Mancuso e "della conseguente lettura sotto tale univoco segno degli atti parlamentari" - del fatto che egli, nella qualità di Ministro di grazia e giustizia, ha disposto apposite ispezioni ministeriali presso le Procure di Milano e di Palermo, a causa delle quali è stato destinatario della mozione di sfiducia individuale messa a votazione nominale dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995.
Considerato in diritto
1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati a seguito della deliberazione, adottata dall’Assemblea nella seduta del 18 gennaio 2000 (atti Camera, doc. IV-quater, n. 99), con la quale è stata approvata la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere di dichiarare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale nei confronti del deputato Filippo Mancuso concernono opinioni espresse dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Il giudice ricorrente rammenta che l’on. Mancuso è imputato di diffamazione a mezzo stampa, in relazione a dichiarazioni rese a giornalisti in occasione di un convegno di partito, tenutosi in Benevento nel giugno 1997, e riprese sia dall’agenzia ANSA, sia da vari quotidiani, ritenute offensive della reputazione dei Procuratori della Repubblica di Palermo e di Milano, dott. Gian Carlo Caselli e dott. Francesco Saverio Borrelli. Le dichiarazioni oggetto dell’incriminazione, così come contestate nel capo di imputazione, sono quelle di seguito riportate: "La continua pioggia di dichiarazioni rilasciate dai P.M. di Milano e Palermo, di queste due tribune eversive, è un atto che, considerato nella sua gravità, rappresenta un dato del costume negativo del Paese […] si tratta di delitti morali, politici da parte di una congrega di personaggi la quale, priva di cultura del diritto e di senso dello Stato, dà fuori con attività che si possono considerare autenticamente terroristiche".
Ad avviso del Giudice dell’udienza preliminare (GUP) del Tribunale di Roma, mentre le affermazioni concernenti la valutazione delle dichiarazioni delle anzidette Procure della Repubblica come dati del "costume negativo del paese" sarebbero da intendere "quale critica funzionalmente connessa all’attività di parlamentare", non potrebbero invece ricondursi a tale ambito la definizione di "tribune eversive" riferita alle due procure, l’attribuzione sostanziale alle stesse della commissione di "delitti morali e politici", la qualificazione di organi che esercitano la funzione giurisdizionale quale "congrega di personaggi", l’attribuzione a tali organi, oltre che dell’"assenza di cultura del diritto e di senso dello Stato", anche dello svolgimento di attività "autenticamente terroristiche". Secondo il ricorrente, queste ultime affermazioni esorbiterebbero dal contesto delle altre dichiarazioni e rappresenterebbero "una polemica diretta con tutte le attività svolte dalle suddette procure […] finendo per attribuire ad organi investiti della potestà repressivo-punitiva dello Stato la commissione di delitti contro la collettività".
Di qui la proposizione del conflitto di attribuzione avverso la delibera di insindacabilità del 18 gennaio 2000, che sarebbe stata adottata in assenza dei presupposti richiesti dall’art. 68, primo comma, Cost., con conseguente illegittima interferenza nelle attribuzioni dell’autorità giudiziaria.
2. Deve essere preliminarmente dichiarata l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità proposte dalla Camera dei deputati.
2.1. Con una prima eccezione si lamenta l’assoluta incertezza circa il soggetto che ha sollevato il conflitto. Dalla lettura del ricorso risulta però evidente che il giudice confliggente è il GUP del Tribunale di Roma e non già il Giudice per le indagini preliminari (GIP). Ciò in quanto, sebbene nell’intestazione dell’atto si faccia riferimento anche all’ufficio del GIP e sebbene nel dattiloscritto in calce all’atto lo scrivente così si identifichi, la parte espositiva del ricorso, assai puntuale nel descrivere il processo dal quale è originato il conflitto, chiarisce che il ricorrente procede come GUP e che il conflitto è stato sollevato proprio in sede di udienza preliminare.
2.2. Ci si duole poi del fatto che, avendo il ricorrente proceduto ad una prima notifica del ricorso alla Camera dei deputati, nonché a notifica nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri e del Senato della Repubblica, antecedentemente al deposito del ricorso stesso presso la Corte costituzionale necessario all’instaurazione della fase di ammissibilità, lo schema legale del conflitto di attribuzione tra poteri sarebbe stato sovvertito, coinvolgendo soggetti ad esso estranei e provocando incertezze anche sul "tipo di conflitto che il giudice ha inteso avanzare".
Contrariamente a quanto reputa la Camera, non vi è dubbio che il ricorso sia stato proposto per attivare un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato avverso la delibera di insindacabilità concernente le dichiarazioni rese dal deputato Mancuso ed oggetto di procedimento penale. Né incertezze sul tipo di giudizio può suscitare la pluralità di notificazioni effettuate dal ricorrente ancor prima della delibazione di ammissibilità alla quale questa Corte deve procedere senza contraddittorio ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87; le predette notificazioni sono infatti ultronee, ma non hanno alcun effetto invalidante sui successivi atti del giudizio.
2.3. Si sostiene, ancora, che la sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge 20 giugno 2003, n. 140, recante disposizioni di attuazione dell’art. 68 Cost., il cui art. 3, comma 1, è di immediata applicazione, dovrebbe comportare la "rivalutazione" da parte del giudice ricorrente "della effettiva sussistenza nella specie dei presupposti per l’elevazione del conflitto". Ma, come ha chiarito questa Corte nella sentenza n. 120 del 2004, la predetta disposizione non altera il contenuto dell’art. 68, primo comma, Cost.; non si pone, dunque, per il ricorrente alcuna necessità di rivalutare i presupposti sostanziali del conflitto.
2.4. Un’ulteriore eccezione della Camera concerne l’asserita inammissibilità del ricorso per mancata indicazione del petitum.
Il ricorrente nega che la delibera di insindacabilità della Camera dei deputati sia fondata sui presupposti richiesti dall’art. 68, primo comma, Cost. e, conseguentemente, denuncia un’illegittima interferenza nelle attribuzioni dell’autorità giudiziaria. Ciò è sufficiente ad esplicitare la sostanza della "pretesa" che il giudice confliggente introduce nel presente giudizio, ponendo questa Corte in condizione di deliberare sul merito del conflitto (art. 38 della legge n. 87 del 1953).
2.5. Con un’ultima eccezione la Camera dei deputati assume che il conflitto avrebbe una impostazione "anomala", giacché alcune frasi pronunciate dall’on. Mancuso sarebbero riconducibili all’attività di parlamentare, mentre non lo sarebbero "talune singole parole […] che pure sono sintatticamente e logicamente connesse alla critica rivolta alla prassi delle esternazioni". Ne conseguirebbe l’inammissibilità del conflitto che non avrebbe più ad oggetto le "opinioni" espresse dal deputato, ma soltanto "singole ed isolate parole assunte nel loro nudo e crudo senso lessicale".
Ma più che un profilo di inammissibilità del conflitto, l’argomentazione della Camera investe il merito di questo e sarà quindi esaminata più oltre.
3. Il ricorso è fondato.
Il giudice ricorrente sostiene che solo talune delle espressioni usate dall’on. Mancuso nel corso del convegno tenutosi in Benevento nel giugno 1997, e oggetto dell’imputazione per cui pende il procedimento penale, potrebbero reputarsi coperte dalla prerogativa dell’insindacabilità, di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione. A suo avviso, il nesso funzionale con l’attività parlamentare sussisterebbe solo in relazione alla valutazione critica sulla "continua pioggia di dichiarazioni" da parte delle Procure della Repubblica di Milano e Palermo e al costituire queste un dato del "costume negativo del paese", ma non già in relazione alla qualificazione di "tribune eversive" riferita alle due procure, all’attribuzione alle stesse di "delitti morali e politici", alla loro definizione come "congrega di personaggi" caratterizzata dall’"assenza di cultura del diritto e di senso dello Stato", nonché dallo svolgimento di attività "autenticamente terroristiche". Tali espressioni solo in apparenza sarebbero ricollegabili al soggetto della frase "la continua pioggia di dichiarazioni"; assumerebbero invece una propria autonomia in quanto "polemica diretta con tutte le attività svolte dalle suddette procure […] finendo per attribuire ad organi investiti della potestà repressivo-punitiva dello Stato la commissione di delitti contro la collettività".
Quella del GUP del Tribunale di Roma è una ricostruzione che non può dirsi implausibile o addirittura anomala ed illogica in base alla considerazione che non potrebbe essere frammentata in più frasi distinte la unitaria dichiarazione del parlamentare, la quale costituirebbe una "opinione" ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. soltanto se apprezzata nel suo complesso. In una pluralità di dichiarazioni rese in un unico contesto è possibile individuare espressioni che, in quanto provviste di autonomo significato, sono separatamente valutabili ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso funzionale tra opinioni espresse extra moenia ed attività parlamentare.
4. Questa Corte è chiamata a verificare se le predette affermazioni si ricolleghino ad attività proprie del parlamentare e, dunque, a discernere le opinioni riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali della libertà di espressione, da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare, avvalendosi dell’unico saldo criterio desumibile dal primo comma dell’art. 68 Cost.: quello del c.d. "nesso funzionale".
4.1. Si deve escludere che le dichiarazioni sulle quali verte il presente giudizio siano riconducibili all’esercizio di funzioni parlamentari.
Dalla copiosa documentazione prodotta dalla Camera dei deputati si evince una generica comunanza di temi o di argomenti rispetto al tenore delle affermazioni oggetto della delibera di insindacabilità.
In tal senso depongono numerosi atti parlamentari tipici, sia precedenti che appena successivi alle dichiarazioni rese nel giugno 1997. Così, in particolare, le interrogazioni del 24 luglio e del 15 ottobre del 1996, concernenti, la prima, la mancata sottoposizione a procedimento disciplinare di un magistrato della Procura della Repubblica di Milano, e, la seconda, vicende legate ad intercettazioni telefoniche. Ed ancora, le interpellanze del 21 ottobre 1996 e del 3 luglio 1997, riguardanti rispettivamente dichiarazioni di un collaboratore di giustizia utilizzate dalla Procura della Repubblica di Palermo ed asserite calunnie nei confronti di un deputato che sarebbero state suggerite ad un collaboratore di giustizia da un magistrato della Procura della Repubblica di Milano. Ed infine, l’intervento in Aula del 16 ottobre 1996, concernente la proposta di modifica dell’art. 11 del codice di procedura penale sulla competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati; e la mozione del 30 ottobre 1997, ancora sui temi della collaborazione dei pentiti con l’autorità giudiziaria e delle intercettazioni telefoniche.
Pur non potendosi disconoscere che l’operato di una parte della magistratura è stato oggetto dell’attività parlamentare dell’on. Mancuso, è agevole osservare che i richiamati atti parlamentari vertono su fatti ed episodi particolari che non toccano il tema specifico delle esternazioni dei magistrati delle Procure della Repubblica di Milano e di Palermo, tema al quale erano dedicate le predette dichiarazioni oggetto della delibera di insindacabilità. Non è, infatti, sufficiente a fondare un giudizio positivo sull’esistenza di un nesso funzionale con riguardo alle particolari dichiarazioni oggi all’esame di questa Corte la circostanza che il deputato Mancuso, nel corso della sua attività parlamentare, abbia, con variabile intensità polemica, criticato l’operato di organi giudiziari.
Non mancano, invero, atti parlamentari che presentano una qualche attinenza col tema delle esternazioni di magistrati (segnatamente, le interrogazioni del 23 settembre e del 23 novembre 1999, sull’attività c.d. "giornalistica" del dott. Caselli e sulle esternazioni di quest’ultimo e di altro magistrato della Procura della Repubblica di Milano nel corso di un convegno). Così come si rinvengono, nella documentazione prodotta, atti parlamentari che, pur non riferendosi specificatamente al predetto tema, contengono espressioni similari a quelle oggetto delle dichiarazioni in esame e che si collocano in un arco temporale che va dal marzo 1998 al giugno 2000. Ma il fatto che si tratta di atti successivi e di molto alle dichiarazioni da cui è sorto il presente conflitto recide ogni possibile collegamento tra gli uni e le altre e priva le dichiarazioni rese extra moenia della necessaria copertura parlamentare.
4.2. La difesa della Camera richiama, infine, due atti tipici che non provengono dal deputato Mancuso, ma da altri parlamentari (interrogazione n. 4/08683 dell’on. Sgarbi in data 21 marzo 1995 e interrogazione n. 4/04073 del 10 ottobre 1996 dell’on. Saponara); atti con i quali, in effetti, si affronta, criticamente, il tema delle esternazioni dei magistrati delle Procure della Repubblica di Milano e di Palermo.
Tuttavia, al di là della questione se un deputato possa giovarsi, ai fini della non sindacabilità di sue dichiarazioni, dell’attività parlamentare posta in essere sul medesimo tema da altri membri delle Camere, è assorbente il rilievo che i due atti non sarebbero comunque idonei, in ragione del loro contenuto, ad offrire copertura parlamentare alle affermazioni dell’on. Mancuso, giacché in nessuno di essi si rinvengono affermazioni analoghe.
5. In conclusione, la deliberazione di insindacabilità delle dichiarazioni di cui si tratta, votata dalla Camera dei deputati in data 18 gennaio 2000, ha violato l’art. 68, primo comma, Cost., e ha leso in tal modo le attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente.
La delibera di insindacabilità deve, pertanto, essere annullata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spetta alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali è in corso davanti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma il procedimento penale a carico del deputato Filippo Mancuso, di cui al ricorso in epigrafe, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;
annulla, per l’effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 gennaio 2000 (doc. IV-quater, n. 99).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2004.