ORDINANZA N. 59
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE “
- Guido NEPPI MODONA “
- Piero Alberto CAPOTOSTI “
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze del 19 febbraio, del 1° aprile e del 7 marzo 2003 dal Tribunale di Milano - sezione per il riesame, rispettivamente iscritte al n. 451, al n. 488 e al n. 576 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 28, 32 e 34, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 dicembre 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto che, con ordinanza in data 19 febbraio 2003 (r.o. n. 451 del 2003), il Tribunale di Milano - sezione per il riesame, chiamato a pronunciarsi sul ricorso avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con la quale era stata respinta l’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare, proposta dalla difesa di due indagati nei confronti dei quali, a seguito di dichiarazione di incompetenza da parte della Corte d’appello di Firenze e di trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, era stata emessa dal GIP del Tribunale di Milano nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, del codice di procedura penale “nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo articolo 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito”;
che il giudice a quo rileva che, nel rigettare l’istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, il giudice per le indagini preliminari non ha tenuto conto del fatto che, con la sentenza n. 292 del 1998, questa Corte ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo di durata massima della custodia cautelare, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorché si verifichi la regressione del procedimento a norma dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen.;
che, tuttavia, osserva il remittente, tale pronuncia aveva dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale, in quanto, mentre alcune pronunce si erano adeguate alla linea interpretativa affermata in quella sentenza, ritenendo che si dovesse considerare tutta la detenzione comunque sofferta dall’inizio di una determinata fase o grado fino al provvedimento che dispone il regresso, sommandola con quella successiva, altre pronunce, facendo leva sul limitato carattere vincolante delle sentenze interpretative di rigetto, avevano invece affermato che si dovessero congiungere alla detenzione in atto nella fase o grado in cui il procedimento era regredito solo i periodi di privazione della libertà già subiti nella fase o nel grado medesimi;
che era quindi intervenuta la pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 4 del 2000 (Musitano), la quale aveva accolto la seconda soluzione interpretativa sul rilievo che l’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. costituisce espressione del principio di autonomia dei singoli termini di fase, sicché, pur non potendosi prescindere dai principî affermati da questa Corte, secondo cui il divieto del superamento del doppio dei termini di fase deve applicarsi anche ai casi di regresso del procedimento, ciò nondimeno, ai fini del calcolo del doppio del termine di fase dovevano computarsi i soli periodi relativi a fasi tra loro omogenee e non anche tutti gli intervalli di tempo relativi a fasi diverse da quelle in cui il procedimento fosse regredito;
che tuttavia, prosegue il remittente, poiché dopo la sentenza “Musitano” questa Corte era stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla questione ribadendone l’infondatezza e confutando nel contempo la tesi seguita dalle sezioni unite, era sorto un nuovo contrasto, che aveva indotto le medesime sezioni unite a sollevare, con ordinanza 25 luglio 2002, n. 28, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo articolo 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito;
che in tale ordinanza, osserva il giudice a quo, le sezioni unite hanno rilevato come il metodo di calcolo proposto con la sentenza “Musitano” risulti coerente con la lettera dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. - secondo il quale i termini decorrono “di nuovo” a seguito di regresso, escludendo quindi che nel frattempo abbiano continuato a decorrere – e con la concezione “monofasica” o “endofasica” dell’impianto codicistico in materia di termini di custodia cautelare;
che, prosegue il remittente, le sezioni unite hanno altresì affermato che il suddetto metodo di calcolo si collega ai principî affermati dalla Corte costituzionale e in particolare a quello della proporzionalità del termine della custodia cautelare, posto che questo non può essere riferito alla sola gravità del reato, ma deve altresì essere ancorato alla ragionevole durata delle attività previste nella singola fase, non potendosi addossare all’autorità il rischio della invalidità del passaggio di fase in quanto non dovuto a comportamento colpevole dell’imputato;
che, ricorda ancora il giudice a quo, le sezioni unite, pur ribadendo che la soluzione fatta propria dalla sentenza “Musitano” soddisferebbe anche il principio della riduzione al minimo necessario della custodia cautelare, in quanto l’esperienza ha dimostrato che il calcolo comprensivo di tutti i termini interfase e quello dei soli termini omogenei non sarebbero di per sé e in astratto uno più favorevole e l’altro meno favorevole, hanno tuttavia ritenuto che questa interpretazione, benché costituzionalmente plausibile, non poteva essere riaffermata alla luce della ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, per avere tale pronuncia affermato che il cumulo di tutti i periodi è il solo coerente con l’art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la soluzione che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale;
che, peraltro, come affermato delle sezioni unite nella citata ordinanza, l’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., così come redatto, esprime invece una norma che impedisce di addizionare, al fine del superamento del doppio del termine finale di fase, periodi di detenzione sofferti in fasi o gradi diversi da quelli in cui il procedimento è regredito;
che il Tribunale di Milano, quindi, sulla base di tali argomentazioni e ritenuta la rilevanza della questione nel caso di specie, solleva la suindicata questione di legittimità costituzionale;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che la difesa erariale ricorda come questa Corte abbia già dichiarato manifestamente inammissibile la medesima questione, con ordinanza n. 243 del 2003, e soggiunge che il remittente, più che sollevare un dubbio di legittimità costituzionale, prospetta una questione meramente interpretativa che avrebbe potuto e dovuto risolvere autonomamente, adottando, anche se non condivisa, l’interpretazione conforme a Costituzione;
che, con ordinanza in data 1° aprile 2003 (r.o. n. 488 del 2003), il Tribunale di Milano – sezione per il riesame, chiamato a pronunciarsi sugli appelli proposti dai difensori di due imputati avverso le ordinanze con le quali il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva respinto la richiesta diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere per l’asserito intervenuto decorso del termine di durata massima della custodia stessa, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., “nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito”;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il remittente ricorda che identica questione è stata sollevata dalle sezioni unite con ordinanza n. 28 del 2002 e ritiene di “doversi conformare all’orientamento tracciato dalle sezioni unite, fatto proprio da questo ufficio anche in relazione a precedenti ricorsi (cfr. ricorso ex art. 310 cod. proc. pen. n. 1628 del 2002, che si allega e le cui motivazioni si condividono appieno e si richiamano integralmente)”;
che anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile essendo già stata decisa in tali termini con ordinanza n. 243 del 2003;
che, con ordinanza in data 7 marzo 2003 (r.o. n. 576 del 2003), il Tribunale di Milano – sezione per il riesame, chiamato a pronunciarsi sull’appello proposto avverso l’ordinanza emessa dalla Corte d’appello di Milano, con la quale era stata respinta la richiesta di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare formulata dalla difesa dell’imputato a seguito di annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza di condanna emessa dalla medesima Corte d’appello, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., “nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito”;
che le argomentazioni in ordine alla non manifesta infondatezza della questione sono identiche a quelle svolte nella ordinanza del medesimo Tribunale in data 19 febbraio 2003;
che, quanto alla rilevanza della questione, il remittente osserva che calcolando i soli termini omogenei, secondo il metodo “Musitano”, l’imputato non dovrebbe essere scarcerato, mentre dovrebbe esserlo se si calcolasse anche il periodo di tempo interfase;
che anche in tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile essendo già stata decisa in tali termini con ordinanza n. 243 del 2003.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima questione e che, pertanto, i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica pronuncia;
che l’ordinanza iscritta al n. 488 del 2003, nel motivare la non manifesta infondatezza della questione, si limita a fare rinvio alle argomentazioni svolte dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella ordinanza n. 28 del 2002, che dichiara di condividere e di fare proprie;
che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la motivazione dell’ordinanza di rimessione deve essere invece autosufficiente, non potendosi il giudice a quo limitare a richiamare per relationem il contenuto di altri atti o provvedimenti, anche se, in ipotesi, acquisiti agli atti del procedimento principale (ordinanze n. 335 e n. 60 del 2003 e n. 8 del 2002);
che, anche a prescindere dal suddetto rilievo, la questione sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione è stata dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza n. 243 del 2003, proprio in ragione delle argomentazioni in essa contenute, che il giudice a quo dichiara di fare proprie;
che tale soluzione, come già affermato da questa Corte nell’ordinanza n. 335 del 2003, non può non riguardare anche la questione sollevata con le altre due ordinanze, di contenuto identico a quella già scrutinata nel senso della manifesta inammissibilità con la citata pronuncia n. 243 del 2003.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, dal Tribunale di Milano - sezione per il riesame, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 gennaio 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2004.