Sentenza n. 292 del 1998

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SENTENZA N.292

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Prof. Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 novembre 1996 dal Tribunale di Reggio Calabria, iscritta al n. 756 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 aprile 1998 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Reggio Calabria – adito quale giudice di appello de libertate – premette in fatto che, nell’ambito di un procedimento regredito al pubblico ministero a seguito di sentenza di incompetenza per territorio pronunciata dal Tribunale di Milano, il difensore di due imputati ha proposto domanda di scarcerazione per decorso dei termini massimi di custodia cautelare, in quanto dalla data dell’arresto (giugno 1994) alla pronuncia del decreto che dispone il giudizio (luglio 1996) erano già decorsi più di due anni, termine, questo, superiore al doppio del termine di fase – nella specie pari ad anni uno, a norma dell’art. 303, comma 1, lettera a), numero 3, cod. proc. pen. – e dunque eccedente il limite previsto dall’art. 304, comma 6, del codice di rito. A seguito della reiezione di tale domanda, veniva interposto gravame, oggetto del giudizio a quo, nel corso del quale la difesa degli appellanti eccepiva in linea subordinata l’illegittimità costituzionale dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3, 24 e 76 Cost., in quanto disciplina limitata al solo caso di sospensione e non estensibile alle ipotesi previste dall’art. 303, comma 2, del medesimo codice, con conseguente irragionevole disparità di trattamento delle due situazioni.

A parere del giudice a quo, tuttavia, il riferimento alla disciplina dettata dall’art. 304 cod. proc. pen. risulterebbe inconferente, in quanto relativa all’istituto della sospensione dei termini di custodia cautelare ed ai conseguenti limiti cronologici. Trattandosi nella specie di processo regredito, le uniche questioni che rilevano sarebbero infatti quelle relative al superamento dei termini di fase e di quelli complessivi, che, invece, risultano entrambi rispettati.

Ciò posto, ritiene peraltro il giudice a quo di dover sollevare, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorchè si verifichi la situazione prevista nel comma 2 del medesimo art. 303. A tal proposito il rimettente individua, quale termine di raffronto dal quale scaturirebbe una ingiustificata disparità di trattamento, proprio la disciplina introdotta dall’art. 304, comma 6, come novellata ad opera della legge 8 agosto 1995, n. 332. A parere del giudice a quo, infatti, la materia che attiene al verificarsi degli eventi interruttivi del corso dei termini massimi della custodia cautelare (art. 303, comma 2: ripristino del dies a quo del termine di fase per ogni evento interruttivo), presenterebbe una evidente omogeneità di contenuto e di effetti rispetto a quella della sospensione dei termini medesimi (art. 304), in quanto "entrambi gli istituti rappresentano degli accidenti che si verificano nel cammino del procedimento, perlopiù indipendenti dalla volontà – eventualmente ostruzionistica o defatigatoria – dell’imputato".

La omogeneità degli istituti, osserva ancora il rimettente, sarebbe pure confermata dalle modifiche apportate all’art. 304 cod. proc. pen. dalla legge n. 332 del 1995, essendo stati introdotti un limite ragguagliato (nel doppio) al termine massimo di fase ed un limite rapportato (con l’aumento della metà) al termine complessivo previsto dall'art. 303, comma 4, codice procedura penale. Da ciò, dunque, l’irragionevole disparità di disciplina, in quanto mentre nelle ipotesi previste dall’art. 303, comma 2, é stato mantenuto il solo riferimento al termine complessivo indicato nel comma 4 dello stesso articolo, nelle situazioni "sostanzialmente omogenee" descritte dall’art. 304 i limiti temporali di legittimità della custodia cautelare sono ora riferiti anche ai termini della fase in corso.

2. – Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. A parere dell’Avvocatura, pur essendo condivisibile "il giudizio sulla sostanziale identità di ratio tra le ipotesi disciplinate all’art. 304 e quelle di cui all’art. 303, comma 2", non é "praticabile" l’estensione di disciplina sollecitata dal giudice a quo, attese le peculiarità che caratterizzano il caso del regresso del procedimento o del rinvio ad altro giudice, posto che "la fase cui il rimettente vorrebbe riferito il termine di custodia é, per legge, tamquam non esset". Estendere, dunque, la disciplina prevista per la sospensione dei termini di custodia cautelare alla ipotesi di regressione del processo, equivarrebbe ad operare una scelta tra diverse opzioni che spetta alla esclusiva discrezionalità del legislatore.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Reggio Calabria solleva, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo di durata massima della custodia cautelare, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorchè si verifichi la situazione descritta nel comma 2 del medesimo articolo. Dopo aver disatteso l’eccezione della difesa, volta a coinvolgere nel dubbio di legittimità costituzionale l’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., trattandosi di disciplina inconferente nella specie in quanto riferita all’istituto della sospensione dei termini di custodia cautelare ed ai suoi limiti cronologici, il giudice a quo ritiene, tuttavia, che sia proprio quella disciplina a dover fungere da termine di comparazione sulla cui base apprezzare l’irragionevole diversità di trattamento prevista dalla norma impugnata, nella parte in cui non prevede l’identico limite di durata della custodia nei casi previsti dall’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. Infatti, osserva il rimettente, la materia che attiene al verificarsi degli eventi interruttivi del corso dei termini della custodia cautelare, quale disciplinata dal menzionato art. 303, comma 2, del codice di rito, presenta una evidente omogeneità di contenuto e di effetti con quella della sospensione dei termini di durata delle misure prevista dall’art. 304 dello stesso codice, trattandosi, in entrambi i casi, di istituti che rappresentano degli "accidenti" che si verificano nel corso del procedimento, "per lo più indipendenti dalla volontà – eventualmente ostruzionistica o defatigatoria – dell’imputato", ed aventi incidenza sul computo dei termini di durata massima della custodia. Il nuovo testo dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., il quale ha indicato, come parametro temporale, il cui superamento determina la scarcerazione dell’imputato, il doppio del termine massimo della fase in cui si sono verificate le sospensioni, ha dunque finito per rendere – ad avviso del giudice rimettente – non solo differenziato, ma anche eterogeneo, il trattamento delle situazioni regolate dall’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., giacchè mentre per queste é stato mantenuto il solo riferimento al termine complessivo previsto dal quarto comma dello stesso articolo, per le situazioni sostanzialmente omogenee descritte dall’art. 304 del codice di rito, i limiti di legittimità della durata della custodia sono ora riferiti anche ai termini della fase in corso. Da qui il denunciato contrasto con l’art. 3 della Carta fondamentale.

La questione di legittimità che il tribunale rimettente sottopone all’esame di questa Corte, si radica, dunque, su un composito reticolo di disposizioni ed istituti che il giudice a quo pone a raffronto, per evidenziare la sopravvenuta incoerenza della disciplina che presidia la durata complessiva della custodia cautelare nell’ipotesi prevista dall’art. 303, comma 2, del codice di procedura penale. Tale disposizione, infatti, stabilisce che, nel caso di regressione del procedimento o di rinvio ad altro giudice, dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, decorrono ex novo i termini cosiddetti intermedi o di fase previsti dal comma 1 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento. A fronte di tale nuova decorrenza – che evidentemente incide in senso negativo sullo status libertatis della persona sottoposta a custodia cautelare – opererebbe, dunque, come unico sbarramento temporale, il termine di durata complessiva previsto dal comma 4 dello stesso art. 303, giacchè la previsione sancita dal nuovo testo del comma 6 dell’art. 304, in base alla quale "la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3", rinverrebbe il suo confine applicativo nei soli casi in cui i termini di custodia cautelare siano stati sospesi a norma dello stesso art. 304.

2. – La questione é infondata, nei sensi che qui di seguito si illustreranno, dovendosi nella specie pervenire ad una diversa ricostruzione dell’intricato quadro normativo di riferimento, secondo una prospettiva che privilegi quella che, a parere di questa Corte, é l’unica soluzione ermeneutica enucleabile dal sistema e che si appalesa in linea con i valori della Carta fondamentale.

3. – La materia dei termini di durata massima della custodia cautelare, sulla quale questa Corte é stata in più occasioni chiamata ad intervenire, ha ormai raggiunto un livello di complessità tale da rendere opportuna qualche breve notazione ricostruttiva che tenga conto, anche, delle numerosissime stratificazioni e interpolazioni che il sistema ha subito, fino alla più recente legge n. 332 dell’agosto 1995. Sono note, anzitutto, le ragioni per le quali il legislatore ebbe ad introdurre – in epoca ormai lontana (1984) – la previsione di termini di fase in aggiunta ad un termine di durata complessiva della custodia cautelare: con essi, infatti, si intendeva impedire ai giudici di gradi diversi di "utilizzare", quanto ai tempi della rispettiva fase del procedimento, la maggiore celerità della fase istruttoria. Col tempo, vari istituti, al cui conio ed alla cui variegata disciplina hanno non poco contribuito singole ma purtroppo ricorrenti emergenze succedutesi negli anni, sono venuti ad incidere sul computo dei termini di durata massima della custodia cautelare: fra questi, in particolare, la "sterilizzazione" dei termini di fase per i giorni di udienza e per quelli impiegati per la deliberazione della sentenza; la proroga, incidente anch’essa sui termini di fase; la sospensione, infine, operante sia per i termini di fase che per la durata complessiva. E’ evidente, quindi, che proprio con riferimento a quest’ultimo istituto – ma non certo con portata circoscritta allo stesso – fosse necessaria la previsione di un "limite finale" invalicabile, giacchè, altrimenti, la quiescenza sine die del decorso dei termini si sarebbe posta in palese contrasto con l’art. 13 della Costituzione. Da qui la previsione che la durata della custodia cautelare non potesse "comunque superare" i due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, introdotta nel nuovo testo dell’art. 272 del codice abrogato dall’art. 3 della legge 28 luglio 1984, n. 398. Una espressione, quella di "limite", il cui valore semantico di confine estremo della custodia é stato non a caso usato, nell’art. 1, comma 2, dal decreto-legge 1° marzo 1991, n. 60, convertito dalla legge 22 aprile 1991, n. 133, dedicato proprio alla interpretazione autentica degli artt. 297 e 304 del nuovo codice.

4. – L’intera cadenza dell’art. 272 del codice abrogato era di lettura sufficientemente agevole e il sistema, prescindendo da alcune variabili, come la proroga dei termini di fase per taluni reati e la "sterilizzazione" degli stessi termini per i giorni di udienza, poteva così sinteticamente svilupparsi: termini di fase (con la decorrenza ex novo nei casi di regressione), durata complessiva, sospensione di tutti i termini (di fase e complessivi), limite finale. Quest’ultimo seguiva, nel testo dell’articolo, il comma dedicato alla sospensione, ma nessuno ha mai dubitato del fatto che quella previsione avesse portata autonoma, nel senso che la sua applicazione non poteva in alcun modo ritenersi condizionata dal fatto che la custodia avesse o meno subito un periodo di sospensione. Nei casi di regressione del processo, dunque, il nuovo decorso dei termini di fase non poteva "comunque" determinare il superamento del limite dei due terzi della pena prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, comportando l’obbligo di immediata scarcerazione ove quel limite fosse risultato più favorevole dei termini di durata complessiva previsti dal sesto comma dello stesso art. 272 del codice abrogato.

La previsione di tale limite, mantenuta intatta nel nuovo codice (anche se, con scelta assai discutibile, iscritta nel testo dell’art. 304, dedicato alla sospensione), rappresenta una evidente attuazione del canone di proporzionalità, nel senso che, come la custodia può essere imposta soltanto se risulti proporzionata alla entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata (art. 275, comma 2), allo stesso modo la durata della misura non può eccedere lo stesso parametro, perchè non si corra il rischio di una consumazione della pena in fase custodiale. Il carattere della proporzionalità deve ora riflettersi anche sulla nuova previsione dettata dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., giacchè la circostanza che il legislatore abbia fatto regredire ad ipotesi residuale, operante solo "se più favorevole" rispetto ai nuovi limiti (il doppio dei termini di fase e l’aumento della metà dei termini di durata complessiva) il vecchio termine ragguagliato ai due terzi del massimo della pena prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, dimostra all’evidenza l’identico ed alternativo valore che i tre limiti assumono nel sistema. Ne deriva, quindi, che il limite del doppio dei termini di fase, proprio perchè rispondente a quel principio, aderisce anch’esso alla funzione che la norma é chiamata a svolgere: individuare il limite estremo, superato il quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere "sproporzionato" in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema. Fungendo, pertanto, da meccanismo di "chiusura" della disciplina dei termini, la previsione di cui qui si tratta era e resta "autonoma" rispetto al corpo dell’articolo nel quale si trova inserita, al punto che la stessa – una volta che nel nuovo codice venivano scissi i vari contenuti del precedente articolo 272 codice procedura penale in una pluralità di articoli – sarebbe stata meglio collocata in una disposizione a sè stante.

L’avverbio "comunque", che contrassegna la disciplina sancita dal comma 6 dell’art. 304 cod. proc. pen., vale, del resto, a far superare ogni residuo dubbio in proposito: ritenere, infatti, che il limite finale operi solo per i casi di sospensione equivarrebbe a tradire non soltanto la storia e la funzione di quel limite, ma anche, e innanzi tutto, il più che esplicito dettato normativo. Se il legislatore del 1995 ha inteso costruire quel limite come riferito anche ai fenomeni che comunque possono interferire con la disciplina dei termini di fase, l’interprete ne deve trarre le ovvie conseguenze, specie quando, come nel caso in esame, la soluzione ermeneutica si appalesi come l’unica conforme a Costituzione.

Cade quindi la premessa stessa della tesi sostenuta dal giudice a quo e, con essa, il fondamento del dubbio di costituzionalità devoluto alla attenzione della Corte. Ma v’é di più. L’art. 304, comma 6, come si é già accennato, introduce un limite massimo per i termini di fase, stabilendo che "la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303, comma 1, 2 e 3". Ebbene, la portata del richiamo é di essenziale rilievo ai fini di una corretta interpretazione della norma. Occorre osservare, infatti, che, mentre il comma 1 dell’art. 303 disciplina effettivamente la "durata" della custodia nelle varie fasi e gradi sino alla sentenza irrevocabile, i commi 2 e 3 non attengono alla durata in sè, ma alla decorrenza ex novo dei termini nella ipotesi di regressione del processo o di evasione. Ciò sta a significare che se fosse valido il ragionamento del giudice a quo, sarebbe bastato per il legislatore richiamare il comma 1 dell’art. 303, giacchè in quella prospettiva i commi 2 e 3 non vengono assolutamente in discorso. Argomenti testuali e logico-sistematici impongono pertanto di assegnare a quel richiamo l’unico senso che ad esso può essere attribuito: vale a dire che il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della custodia, anche se quei termini sono stati sospesi, prorogati o – per stare al caso che qui interessa – sono cominciati a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo. Interpretazione, questa, d’altra parte aderente alla ratio di favor che ha ispirato il legislatore del 1995, ad un effettivo recupero della scelta di introdurre uno sbarramento finale ragguagliato anche alla durata dei termini di fase comunque modulata, e, infine, alla stessa logica dell’art. 13 della Carta fondamentale, la quale impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale.

Accedere alla interpretazione del giudice a quo, d’altra parte, indurrebbe a conclusioni paradossali anche sul piano sistematico. Mentre, infatti, e per stare agli stessi rilievi del rimettente, l’eventuale condotta ostruzionistica e defatigatoria dell’imputato, comportante la sospensione a norma dell’art. 304, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., consentirebbe allo stesso di "beneficiare" del limite previsto dal comma 6 del medesimo articolo, l’identico limite non opererebbe, invece, nei casi di regressione o di rinvio ad altro giudice che l’imputato (del tutto "incolpevole") é costretto a subire, derivando di regola la regressione o il rinvio da un "errore" in cui é incorsa la stessa autorità giudiziaria. Un paradosso, questo, che il legislatore non può certo aver inteso assecondare e che il testo normativo non legittima in alcun modo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 303, comma 4, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Calabria con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1998.

Presidente: Giuliano VASSALLI

Redattore: Giuliano VASSALLI

Depositata in cancelleria il 18 luglio 1998.