ORDINANZA N.243
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Riccardo CHIEPPA, Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze del 25 luglio 2002 della Corte di cassazione – sezioni unite penali e del 3 ottobre 2002 del Tribunale - sezione per il riesame di Milano, iscritte rispettivamente al n. 434 e al n. 545 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2002 e nella edizione straordinaria, prima serie speciale, del 27 dicembre 2002.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nelle camere di consiglio del 26 febbraio 2003 e del 21 maggio 2003 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto che con ordinanza in data 25 luglio 2002 le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, "nella parte in cui impedisce di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo articolo 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito";
che il giudice a quo riferisce di essere stato investito della interpretazione delle disposizioni censurate allorché, intervenuta l’ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, si erano nuovamente verificati i medesimi contrasti che una precedente sentenza delle sezioni unite (la n. 4 del 2000, Musitano), si era proposta di risolvere;
che l’ordinanza ricorda come, con la sentenza n. 292 del 1998, la Corte costituzionale, disattendendo la costante lettura invalsa nella giurisprudenza, aveva ritenuto che un’interpretazione adeguata del sistema normativo consentiva di concludere che l’art. 304, comma 6, del codice di procedura penale, costituiva limite estremo e meccanismo di chiusura della disciplina della custodia cautelare, sicché il superamento del doppio dei termini di fase era causa di scarcerazione anche nelle ipotesi di regressione del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.);
che, prosegue il remittente, sorgeva tuttavia contrasto in sede di legittimità non già sulla possibilità di aderire alla decisione di questa Corte, bensì sul modo con cui calcolare il termine finale in caso di regressione: parte della giurisprudenza riteneva che si dovesse considerare tutta la detenzione comunque sofferta dall’inizio di una determinata fase o grado fino al provvedimento che dispone il regresso, sommandola con quella successiva, mentre altre pronunce affermavano che si dovessero congiungere alla detenzione in atto nella fase o grado in cui il procedimento era regredito solo i periodi di privazione della libertà già subiti nella fase o nel grado medesimo;
che le sezioni unite – si ricorda ancora nell’ordinanza – con la sentenza Musitano accoglievano la seconda soluzione interpretativa, sul rilievo che l’art. 303, comma 2, del codice di procedura penale, nello stabilire che, in caso di regressione, i termini "decorrono di nuovo", evidentemente esclude che i termini stessi abbiano continuato a decorrere;
che quella sentenza ha quindi affermato che il codice aveva accolto una concezione monofasica o endofasica, come era desumibile dal fatto che il legislatore distingue fra termine di fase e termine complessivo, mentre in nessuna disposizione verrebbe in considerazione un periodo "interfasico", con la conseguenza che, quando l’art. 303, comma, 2, cod. proc. pen., fa riferimento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si possono sommare, nel rispetto dell’art. 304, comma 6, solo entità omogenee, e cioè i periodi trascorsi nella stessa fase;
che l’anzidetta sentenza delle sezioni unite, sebbene dichiari esplicitamente di non aver reperito nella ricordata pronuncia di questa Corte alcun suggerimento circa il sistema di computo dei termini, offrirebbe, in vari passaggi della motivazione, argomenti idonei a collegare l’interpretazione prescelta ai principî costituzionali che questa Corte aveva affermato, e cioè il principio di proporzionalità e quello della riduzione al minimo necessario del sacrificio della libertà personale;
che ad avviso del remittente, che riprende e sviluppa argomenti riferibili alla precedente sentenza delle sezioni unite, la proporzionalità dei termini di custodia cautelare non può razionalmente prescindere dalle attività previste nella singola fase, durante la quale deve essere consentito, permanendo la custodia, il compimento di specifici atti processuali, con la conseguenza che imputare alla fase in cui il procedimento regredisce l’intervallo in cui non era dato svolgere le attività proprie di quella fase significherebbe scardinare l’assetto delle esigenze che erano state contemperate;
che anche il principio della riduzione al minimo del sacrificio della libertà personale verrebbe, secondo questa logica, rispettato, poiché il periodo trascorso nella fase intermedia verrebbe bensì "sterilizzato", ma non perduto, in quanto "accreditato" alla fase di competenza ed a questa sommato quando il procedimento l’avrà raggiunta;
che in questo modo il sacrificio per il soggetto sarebbe comunque di carattere transitorio e non potrebbe paragonarsi – in un equilibrato bilanciamento degli interessi – agli effetti di rottura del sistema che il criterio del cumulo indifferenziato irragionevolmente è in grado di provocare;
che tuttavia questa interpretazione costituzionalmente plausibile appare azzardata alla luce della ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, dalla quale sorgerebbe anzi il dubbio che il criterio della cumulabilità dei soli segmenti omogenei contrasti con le suindicate disposizioni costituzionali, in quanto la Corte ha comunque affermato che il cumulo di tutti i periodi è il solo coerente con l’art. 13 Cost., che impone di privilegiare la soluzione che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale;
che pertanto le sezioni unite, sul presupposto "che l’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. esprime una norma che, sia pure considerando i principî più volte ricordati e quindi – forse – in contrasto con essi, impedisce di addizionare, nel calcolo del doppio del termine finale di fase, periodi di detenzione sofferti in fasi o gradi diversi da quelli in cui il procedimento è regredito", chiedono a questa Corte, "nel rispetto delle reciproche attribuzioni, di intervenire sulla disposizione indicata con una pronunzia caducatoria, se il dubbio dovesse rivelarsi fondato";
che identica questione è stata sollevata dal Tribunale - sezione per il riesame di Milano con ordinanza del 3 ottobre 2002, negli stessi termini e con le medesime argomentazioni sviluppate dalla Corte di cassazione;
che è intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che infatti, ad avviso della difesa erariale, la questione, avendo ad oggetto la legittimità di una certa interpretazione della norma che, propugnata da una precedente decisione della Corte di cassazione, è stata espressamente ritenuta non corretta dall’ordinanza n. 529 del 2000, si ridurrebbe ad un quesito meramente interpretativo, che i rimettenti avrebbero dovuto risolvere adottando l’interpretazione conforme a Costituzione, ancorché non condivisa;
che l’Avvocatura dello Stato osserva, in via subordinata, che, quand’anche fosse vero quanto sostenuto nelle ordinanze di rimessione, "il dettato dell’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. che residuerebbe come non toccato dalle precedenti pronunzie della Corte […] ben potrebbe avere una propria giustificazione in riferimento alla struttura del processo penale e al canone generale dell’autonomia dei termini di fase ispirato a principî egualmente meritevoli di tutela, quale, in primis, l’esigenza di tutela della collettività", profilo, questo, che sembrerebbe non essere stato preso in considerazione dai rimettenti.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima questione, sicché i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
che la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui impedisce di computare ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, cod. proc. pen., i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diverso da quelli in cui il procedimento è regredito, è manifestamente inammissibile, e analoga decisione deve riguardare l’ordinanza del Tribunale - sezione per il riesame di Milano che ne ricalca l’iter argomentativo;
che infatti, più che motivare la non manifesta infondatezza della questione, entrambe le ordinanze di rimessione si propongono di dimostrare la coerenza con i parametri evocati dell’opposta soluzione secondo la quale, in caso di regressione del procedimento, devono essere computati soltanto i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi omogenee;
che i giudici a quibus muovono dalla premessa che, secondo la sentenza di questa Corte n. 292 del 1998, l’articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale costituisce limite estremo e meccanismo di chiusura della disciplina della custodia cautelare, sicché il superamento del doppio dei termini di fase è causa di scarcerazione anche nelle ipotesi di regressione del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.);
che in particolare i remittenti ricordano che nella citata sentenza la soluzione indicata discendeva dall’applicazione dei principî di proporzionalità dei termini di custodia cautelare e di riduzione al minimo necessario del sacrificio della libertà personale;
che, va soggiunto, poco dopo questa Corte era tornata sulla questione con l’ordinanza n. 429 del 1999, la quale riaffermava come soluzione costituzionalmente obbligata quella secondo cui il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione determina la perdita di efficacia della custodia anche se quei termini hanno iniziato a decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo;
che era poi intervenuta la sentenza Musitano (Cass., sez. un., n. 4 del 2000), per la quale, quando l’articolo 303, comma 2, fa riferimento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si potrebbero sommare solo entità omogenee, e cioè periodi di custodia cautelare trascorsi nella stessa fase;
che ben due ordinanze di questa Corte avevano però ribadito come costituzionalmente vincolata, in forza del valore espresso dall’art. 13 Cost., l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche nei casi di regressione del procedimento (ordinanza n. 214 del 2000), e non avevano mancato di avvertire che l’orientamento seguito è il solo coerente con l’art. 13 Cost., il quale impone di privilegiare la soluzione interpretativa che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale (ordinanza n. 529 del 2000);
che nonostante la univocità delle pronunce di questa Corte, i remittenti sostengono che nella ricordata sentenza Musitano vi fosse un evidente collegamento tra l’interpretazione prescelta circa il computo dei termini in caso di regressione e i principî costituzionali affermati da questa Corte nella ricordata sentenza n. 292 del 1998;
che invero, si sostiene nelle ordinanze di rimessione, il principio di proporzionalità dovrebbe essere inteso nel senso di consentire, permanendo la custodia cautelare, il compimento di specifici atti processuali, e ciò impedirebbe di imputare alla fase in cui il procedimento regredisce un periodo di restrizione della libertà personale durante il quale non è dato svolgere le attività proprie di quella fase;
che, secondo i giudici a quibus, anche se in caso di regressione non vengono conteggiati i periodi di detenzione sofferti in fasi non omogenee, la garanzia dell’art. 13 Cost. e il principio del minor sacrificio della libertà personale non risulterebbero vanificati, poiché tali periodi verrebbero computati in futuro, quando il procedimento avrà raggiunto la fase successiva;
che dunque, per affermare la soluzione posta a base dell’odierna questione, le ordinanze di rimessione non adducono una lettura degli articoli 303, comma 2, e 304, comma 6, cod. proc. pen. condotta alla stregua della sola legislazione ordinaria, ma muovono proprio da una interpretazione dei principî costituzionali che presidiano la materia, subordinando però il principio di proporzionalità all’appagamento delle esigenze della fase processuale e riducendo il principio del minor sacrificio della libertà personale ad una sorta di "credito di libertà" spendibile nelle eventuali fasi successive;
che peraltro non viene qui in rilievo l’accezione, più o meno ristretta, dei principî costituzionali che i remittenti assumono, quanto la struttura argomentativa delle ordinanze di rimessione, che si fondano sull’interpretazione contenuta nell’ordinanza n. 529 del 2000 di questa Corte, proprio mentre riservano ad essa, sul piano della consistenza di quei principî, critiche severe;
che tanto meno può essere ritenuto ammissibile un simile approccio alla giustizia costituzionale se si considera che l’ordinanza delle sezioni unite, oltre ad apparire perplessa (in una motivazione tutta protesa, nella sostanza, a dimostrare l’infondatezza della questione, il denunciato contrasto si riduce ad un laconico "forse"), si chiude con l’esplicito invito al "rispetto delle reciproche attribuzioni", come se a questa Corte fosse consentito affermare i principî costituzionali soltanto attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpretare le leggi alla luce della Costituzione;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
La Corte costituzionale
riuniti i giudizi
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, e dal Tribunale - sezione per il riesame di Milano, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 giugno 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2003.