Ordinanza n. 529/2000

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ORDINANZA N. 529

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Francesco GUIZZI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 23 febbraio 2000 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, iscritta al n. 298 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza in data 23 febbraio 2000, ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale, “nella parte in cui prevede che il limite del doppio dei termini previsti dall’art. 303, comma 1, cod. proc. pen. sia parimenti applicabile all’ipotesi di regresso del procedimento di cui all’art. 303, comma 2, cod. proc. pen., oltre che all’ipotesi di evasione dell’interessato di cui all’art. 303, comma 3, cod. proc. pen., con conseguente irragionevole equiparazione di situazioni tra loro sostanzialmente eterogenee”;

che il remittente riferisce che l’imputato nei confronti del quale si procede, catturato dopo un periodo di latitanza e successivamente all’emissione del decreto di citazione a giudizio, aveva subito condanna in primo grado con sentenza poi annullata dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria per nullità del decreto che ne aveva disposto il giudizio, sicché il procedimento era regredito alla fase delle indagini preliminari;

che nell’ordinanza di rimessione si precisa che la difesa dell’imputato ha dedotto il superamento del doppio del termine massimo di fase previsto per le indagini preliminari, computando l’intero periodo di custodia cautelare dal momento della cattura a quello della sentenza d’appello;

che il giudice a quo assume che il limite finale di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., pari al doppio dei termini di custodia cautelare previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen., debba essere calcolato tenendo conto soltanto dei segmenti di custodia cautelare “omogenei”, relativi cioè alla medesima fase, senza computare quelli relativi a fasi diverse e anteriori al provvedimento che ha determinato la regressione del procedimento;

che su queste premesse il trattamento riservato all’imputato in caso di regressione del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.) appare al remittente irragionevolmente equiparato a quello dell’evaso (art. 303, comma 3, cod. proc. pen.), in quanto, mentre il primo soggiace sine culpa all’evento ripristinatorio del corso dei termini, il secondo vi ha dato illecitamente causa;

che, in particolare, l’equiparazione delle due situazioni (regressione del procedimento ed evasione), ai fini della operatività del limite massimo di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che impone trattamenti identici per situazioni omogenee e discipline ragionevolmente differenziate per situazioni diverse;

che, secondo il giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione anche per “l’incongruenza sistematica” e “l’irrazionalità complessiva dell’istituto”, derivanti dal fatto che “il doppio del termine massimo di una fase non può mai verificarsi prima del compimento del termine massimo semplice”, sicché la estensione della regola di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. ai casi di cui all’art. 303, commi 2 e 3, dello stesso codice potrebbe operare soltanto “nelle ipotesi in cui si siano verificate più regressioni del procedimento o più evasioni e conseguenti catture, ovvero un regresso od una evasione, con successiva cattura, indefettibilmente contrappuntati però da vicende di sospensione del decorso dei termini massimi di custodia cautelare, a norma dell’art. 304 cod. proc. pen”;

che in giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.

Considerato che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, nel promuovere questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dell’art. 304, comma 6, del codice di procedura penale, muove dal presupposto interpretativo che questa disposizione, nella parte in cui prevede che la custodia cautelare non possa comunque superare il doppio dei termini di cui all’art. 303, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen., si riferisca esclusivamente ai periodi di custodia cautelare tra loro omogenei, relativi cioè ad una stessa fase, e non debbano perciò essere calcolati, ai fini del raggiungimento del termine massimo, periodi di custodia cautelare sofferti in fasi diverse;

che, posta questa interpretazione, la disposizione censurata gli appare in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, poiché, nel prevedere che il limite del doppio dei termini previsti dall’art. 303, comma 1, cod. proc. pen. sia parimenti applicabile nell’ipotesi di regresso del procedimento di cui all’art. 303, comma 2, cod. proc. pen. e in quella di evasione di cui all’art. 303, comma 3, cod. proc. pen., determinerebbe una irragionevole equiparazione di situazioni tra loro sostanzialmente eterogenee, in quanto nel caso di regressione del procedimento l’imputato soggiace sine culpa all’evento ripristinatorio del corso dei termini di fase, mentre nel caso di evasione vi ha dato illecitamente causa;

che un’ulteriore censura è avanzata dal remittente sempre in riferimento all’art. 3 della Costituzione, a causa della irrazionalità e della incongruenza sul piano sistematico che deriverebbero proprio dall’interpretazione che egli ritiene di poter dare dell’art. 304, comma 6, riferendo il doppio dei termini ivi previsto soltanto alle fasi omogenee: in tal modo – argomenta il giudice a quo – la disciplina dei termini massimi di custodia cautelare, sia nel caso di regressione del procedimento ex art. 303, comma 2, sia in quello di evasione dell’imputato ex art. 303, comma 3, avrebbe un limitatissimo ambito di applicazione (le sole ipotesi di più evasioni o più regressioni del procedimento), giacché ben prima dello spirare del termine massimo verrebbe sempre raggiunto il termine di fase;

che entrambi i profili di censura muovono dall’erroneo presupposto interpretativo che ai fini del termine massimo di cui all’art. 304, comma 6, vadano calcolati soltanto i periodi di custodia cautelare subiti dall’imputato in fasi omogenee;

che a un simile errore non può certo avere indotto la sentenza n. 292 del 1998 di questa Corte, giacché, contrariamente a quanto ha ritenuto la stessa Corte di cassazione a sezione unite (19 gennaio 2000, n. 4), in quella sentenza, come risultava chiaramente dalla stessa esposizione dei fatti, si trattava di imputato che aveva visto regredire il suo procedimento e aveva subito custodia cautelare in fasi non omogenee, e proprio in ragione di ciò la relativa questione era stata ritenuta rilevante e decisa nel merito mediante una soluzione interpretativa coerente con i principî di proporzionalità della pena e di inviolabilità della libertà personale;

che va qui ribadito quanto già affermato da questa Corte nella anzidetta sentenza e nelle successive ordinanze nn. 429 del 1999 e 214 del 2000, e cioé che l’uso dell’avverbio “comunque” nell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. esprime in tutta la sua pregnanza l’idea del carattere assoluto e non condizionato della imposizione di un termine finale alla custodia cautelare, con la conseguenza che deve essere ritenuta costituzionalmente obbligata in forza del valore espresso dall’art. 13 della Costituzione, l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se quel termine sia stato sospeso, prorogato o sia cominciato nuovamente a decorrere a seguito della regressione del processo;

che la scelta del legislatore è stata quella di introdurre uno sbarramento finale, ragguagliato anche alla durata dei termini di fase comunque modulata (sentenza n. 292 del 1998), e destinato ad operare oggettivamente ed in ogni caso come limite assoluto, sicché non appare affatto irragionevole che tale sbarramento riguardi anche l’ipotesi di evasione dell’imputato di cui all’art. 303, comma 3, cod. proc. pen.;

che, infatti, una volta stabilito che l’art. 13 della Costituzione impone di «individuare il limite estremo, superato il quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere “sproporzionato” in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema» (sentenza n. 292 del 1998), non vi è luogo ad introdurre distinzioni riferite alle ragioni che hanno determinato il nuovo corso del termine, come del resto risulta dal testo dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., che esplicitamente richiama i primi tre commi dell’art. 303;

che i profili di “incongruenza sistematica” e di “irrazionalità complessiva dell’istituto”, anch’essi denunciati dal giudice a quo, derivano proprio dall’erronea interpretazione dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., dalla quale prende le mosse l’ordinanza di rimessione;

che, infatti, se si include nel calcolo del termine finale di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. anche la custodia cautelare subita dall’imputato in fasi diverse – seguendo l’indirizzo reiteratamente espresso da questa Corte e oggi ribadito come il solo coerente con l’art. 13 della Costituzione, che impone di privilegiare la soluzione interpretativa che riduca al minimo il sacrificio della libertà personale – la disposizione censurata mantiene integra la sua naturale sfera di applicazione e non resta limitata, come ipotizza il remittente, ai casi eccezionali di molteplici regressioni del procedimento o di pluralità di evasioni;

che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.

Francesco GUIZZI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 novembre 2000.