Ordinanza n. 371 del 2004

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ORDINANZA N. 371

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Valerio                   ONIDA                                       Presidente

- Carlo                      MEZZANOTTE                          Giudice

- Fernanda                CONTRI                                     "

- Piero Alberto          CAPOTOSTI                              "

- Annibale                 MARINI                                     "

- Franco                    BILE                                           "

- Giovanni Maria      FLICK                                         "

- Francesco               AMIRANTE                               "

- Ugo                        DE SIERVO                               "

- Romano                  VACCARELLA                         "

- Paolo                      MADDALENA                          "

- Alfio                       FINOCCHIARO                        "

- Alfonso                  QUARANTA                              "

- Franco                    GALLO                                       "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) e dell’art. 17, comma 1, lettera f), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale), promosso con ordinanza del 6 marzo 2003 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di L.G., iscritta al n. 308 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2003.

  Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nella camera di consiglio del 27 ottobre 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Torino ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

  a) dell’art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), che prevede, per i reati di competenza del giudice di pace, l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione;

  b) dell’art. 17, comma 1, lettera f), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale) e dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, per contrasto con gli artt. 25, secondo comma, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione;

  che il giudice a quo — investito del processo penale nei confronti di persona imputata del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme sulla disciplina della circolazione stradale (art. 590, primo e terzo comma, cod. pen.), processo nel quale la persona offesa querelante si era costituita parte civile — premette, in punto di fatto, che, alla stregua delle risultanze dibattimentali, il reato oggetto di giudizio aveva prodotto un danno di particolare tenuità, attesa la modestia delle lesioni cagionate alla vittima; che il fatto appariva, altresì, di natura «occasionale»; che il grado della colpa (ove la si ritenesse provata) risultava minimo; che sussistevano, infine, esigenze di lavoro dell’imputato, suscettibili di venir pregiudicate dall’ulteriore corso del procedimento;

  che ricorrerebbero, pertanto, tutte le condizioni per la pronuncia di una sentenza che dichiari di non doversi procedere per la «particolare tenuità del fatto», ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000: disposizione, questa, che, dettata per il procedimento penale davanti al giudice di pace, è applicabile, in forza dell’art. 63 del medesimo decreto legislativo, anche quando reati di competenza di detto giudice (quale quello oggetto del procedimento a quo) vengano giudicati da giudici diversi;

  che ad avviso del rimettente, tuttavia, il citato art. 34 violerebbe l’art. 76 Cost., risultando viziato da eccesso di delega in rapporto al criterio direttivo di cui all’art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 468 del 1999, che prevedeva l’introduzione, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, «di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato»;

  che la norma di delega doveva ritenersi finalizzata, infatti, unicamente alla previsione, da parte del legislatore delegato, di un rito semplificato, e non già di una rinuncia pura e semplice alla potestà punitiva dello Stato: e ciò sia per il significato assunto nell’uso comune e nella prassi giudiziaria dalla formula «definizione del procedimento»; sia per l’argomento di ordine sistematico ricavabile dalla circostanza che la legge n. 468 del 1999 non prevedeva la possibilità di definire il processo davanti al giudice di pace tramite riti alternativi, come invece avviene per il processo ordinario;

  che il giudice a quo riconosce, peraltro, che l’opinione prevalente è nel senso che il criterio direttivo in questione evocasse uno strumento deflattivo basato proprio sulla rinuncia alla potestà punitiva statale: prospettiva nella quale, tuttavia — risultando la delega legislativa, in ipotesi, correttamente attuata — non solo l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, ma anche l’art. 17, comma 1, lettera f), della legge n. 468 del 1999, che ne costituisce la base, si esporrebbero ad ulteriori e distinte censure di costituzionalità;

  che le norme impugnate violerebbero, in particolare, i principi di stretta legalità, soggezione del giudice soltanto alla legge ed obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (artt. 25, secondo comma, 101, secondo comma, e 112 Cost.), in quanto demanderebbero al giudice di stabilire, caso per caso, se l’esercizio dell’azione penale, pur in presenza di un fatto tipico — come tale, «per definizione» lesivo dell’interesse tutelato — sia nondimeno «ingiustificato» rispetto a quest’ultimo, sulla base di indici (quali l’esiguità del danno o del pericolo, l’occasionalità del fatto e il grado della colpevolezza) «meramente apparenti» ed «insuscettibili di … un’applicazione pratica che non sfoci nell’arbitrio»;

  che, infatti, quanto all’«esiguità del danno o del pericolo» — premesso come nel nostro sistema l’esercizio dell’azione penale resti in via generale precluso, in base all’art. 49, secondo comma, cod. pen., solo quando il danno o il pericolo siano radicalmente assenti, mentre la loro particolare lievità rileva solo ai fini dell’eventuale attenuazione della pena — il rimettente assume che, nell’ipotesi in esame, verrebbe affidata al giudice una valutazione «concettualmente ed operativamente impossibile», se non in termini di mero arbitrio, in virtù della quale la modestia del danno si trasformerebbe inconcepibilmente in assenza di danno;

  che, d’altro canto, il requisito dell’«occasionalità del fatto» — prestandosi ad una pluralità di diverse opzioni interpretative — risulterebbe non sufficientemente determinato, tanto più in rapporto alla funzione, attribuitagli dalle norme impugnate, di discriminare ciò che è penalmente rilevante da ciò che non lo è;

che quanto, ancora, alla condizione relativa al «grado di colpevolezza» — evocativa, secondo il rimettente, dell’intensità del dolo o del grado della colpa — varrebbe parimenti il rilievo per cui dolo e colpa o sussistono, ancorché poco intensi, ed allora l’esercizio dell’azione penale non potrebbe ritenersi «ingiustificato»; ovvero non sussistono, ed allora l’imputato dovrebbe essere assolto «perché il fatto non costituisce reato»; in nessun modo il giudice potrebbe invece compiere «da solo», senza una «precisa guida normativa», quel «salto» che porta a trasformare una colpa lieve in assenza di colpa;

che il giudice a quo ricorda, infine, di aver già in precedenza sollevato, nel medesimo giudizio, le questioni di costituzionalità dianzi esposte: questioni che, nell’occasione, erano state peraltro dichiarate manifestamente inammissibili da questa Corte con ordinanza n. 34 del 2003, in quanto proposte unitamente ad altri profili di incostituzionalità, che avevano finito per rendere contraddittorio il quesito;

che — omessi ora tali ultimi profili — il rimettente rileva come il permanere dei dubbi di legittimità costituzionale renda doveroso adire nuovamente la Corte;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

Considerato che il Tribunale di Torino sottopone nuovamente all’esame di questa Corte, nell’ambito del medesimo procedimento, due delle quattro questioni di legittimità costituzionale — inerenti all’istituto dell’esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto, riguardo ai reati di competenza del giudice di pace — già dichiarate manifestamente inammissibili con ordinanza n. 34 del 2003;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, al giudice a quo non è precluso sollevare una seconda volta la medesima questione nel corso dello stesso grado del giudizio, allorché la Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimuovibili dal giudice a quo, poiché tale iniziativa non contrasta col disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., in tema di non impugnabilità delle decisioni della Corte stessa (cfr., a contrario, ex plurimis, sentenza n. 12 del 1998; ordinanze n. 63 del 2003 e n. 87 del 2000): ciò, peraltro, alla ovvia condizione che il giudice a quo abbia eliminato il vizio che in precedenza impediva l’esame nel merito della questione (cfr. sentenza n. 433 del 1995);

che, nella specie — riproponendo solo due delle quattro questioni precedentemente sollevate (ossia unicamente quelle intese ad espungere l’istituto denunciato dall’ordinamento; e non anche quelle volte a rimuovere talune condizioni di operatività dell’istituto stesso, col risultato di dilatarne l’ambito) — il giudice rimettente ha eliminato il motivo di inammissibilità, rilevato nella citata ordinanza n. 34 del 2003, inerente al carattere complessivamente contraddittorio del quesito;

che nella medesima ordinanza, tuttavia, questa Corte aveva ulteriormente evidenziato come le due questioni oggi riproposte apparissero comunque irrilevanti nel giudizio a quo, in quanto — per affermazione dello stesso giudice rimettente — l’applicabilità dell’istituto in discorso risultava nel caso concreto preclusa, ai sensi dell’art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000, dall’opposizione per facta concludentia della persona offesa;

che l’odierna ordinanza di rimessione — nell’affermare che ricorrerebbero, viceversa, nella specie tutte le condizioni per la declaratoria di esclusione della procedibilità — omette completamente di prendere in esame il requisito della mancata opposizione della persona offesa;

che le questioni debbono essere dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili.

  Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) e dell’art. 17, comma 1, lettera f), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale), sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 76, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2004.

Valerio ONIDA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2004.