Sentenza n. 30 del 2004

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SENTENZA N.30

 

ANNO 2004

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

- Riccardo         CHIEPPA                  Presidente

 

- Gustavo          ZAGREBELSKY      Giudice

 

- Valerio            ONIDA                            “

 

- Carlo               MEZZANOTTE              “

 

- Fernanda         CONTRI                          “

 

- Guido             NEPPI MODONA          “

 

- Piero Alberto  CAPOTOSTI                   “

 

- Annibale         MARINI                          “

 

- Franco             BILE                                “

 

- Giovanni Maria FLICK                                       “

 

- Francesco        AMIRANTE                    “

 

- Ugo                 DE SIERVO                    “

 

- Romano          VACCARELLA              “

 

- Paolo               MADDALENA               “

 

- Alfio               FINOCCHIARO             “

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 2, del decreto-legge 27 dicembre 1989, n. 413, (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico dei dirigenti dello Stato e delle categorie ad essi equiparate, nonché in materia di pubblico impiego), convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 37; articolo 5 del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344, (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonché disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito, con modificazioni, in legge 23 gennaio 1991, n. 21, articoli 2, 3 e 4 del decreto-legge 7 gennaio 1992, n. 5, (Autorizzazione di spesa per la perequazione del trattamento economico dei sottufficiali dell’arma dei Carabinieri in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 277 del 3-12 giugno 1991 e all’esecuzione di giudicati, nonché perequazione dei trattamenti economici relativi al personale delle corrispondenti categorie delle altre forze di polizia), convertito, con modificazioni, in legge 6 marzo 1992, n. 216, promosso con ordinanza del 20 febbraio 2002 dalla Corte dei conti – sezione seconda giurisdizionale centrale, sull’appello proposto da Feliciani Nevio contro Ministero della difesa, iscritta al n. 148 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2002.

 

  Visti l’atto di costituzione dell’Università di Parma, nella qualità di erede di Feliciani Nevio nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

  udito nell’udienza pubblica del 25 novembre 2003 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

 

  uditi gli avvocati Giuseppe Polini e Filippo De Jorio per l’Università di Parma, nella qualità di erede di Feliciani Nevio nonché l’Avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ordinanza emessa in data 20 febbraio 2002, la Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, di “tutte o alcune” delle seguenti norme: art. 1, comma 2 del decreto-legge 27 dicembre 1989, n. 413 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico dei dirigenti dello Stato e delle categorie ad essi equiparate, nonché in materia di pubblico impiego), convertito nella legge 28 febbraio 1990, n. 37; dell’art. 5 del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344 (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonché disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 gennaio 1991, n. 21; degli artt. 2, 3 e 4 del decreto-legge 7 gennaio 1992, n. 5 (Autorizzazione di spesa per la perequazione del trattamento economico dei sottufficiali dell'arma dei Carabinieri in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 277 del 3-12 giugno 1991 e all'esecuzione di giudicati, nonché perequazione dei trattamenti economici relativi al personale delle corrispondenti categorie delle altre forze di polizia), convertito, con modifiche, dall’art. 1 della legge 6 marzo 1992, n. 216.

 

La rimettente premette di essere chiamata a giudicare sull’appello proposto dal sig. Nevio Feliciani avverso la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna n. 179 del 1995, con la quale era stata respinta la domanda del sig. Feliciani volta ad ottenere la ridefinizione del proprio trattamento pensionistico sulla base dei miglioramenti retributivi disposti con le leggi censurate.

 

Espone il giudice a quo di avere in precedenza già sollevato, avanti a questa Corte, in un giudizio analogo, questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge in questa sede censurate, chiedendo che fosse accertato se tali norme violassero la “ragionevole corrispondenza” che, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve sussistere tra trattamento di attività e trattamento di quiescenza. Nell’ordinanza di remissione, inoltre, si dà conto della sentenza n. 62 del 1999, con cui questa Corte aveva dichiarato non fondata la questione di costituzionalità delle norme censurate posta in quella circostanza.

 

La Corte dei conti, tuttavia, su conforme eccezione dell’appellante, solleva nuovamente la questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni di legge sostenendo che, poiché nella sentenza n. 62 del 1999 la Corte non avrebbe valutato se fosse venuta meno la ragionevole corrispondenza tra pensione e stipendio, non avrebbe fugato i sospetti di incostituzionalità denunciati dal giudice a quo.

 

2. – In particolare, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che il rapporto tra pensione e trattamento di attività, instaurato con il decreto-legge 16 settembre 1987, n. 379 (Misure urgenti per la concessione di miglioramenti economici al personale militare e per la riliquidazione delle pensioni dei dirigenti civili e militari dello Stato e del personale ad essi collegato ed equiparato), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, primo comma, della legge 14 novembre 1987, n. 468, (e reso applicabile anche ai lavoratori collocati a riposo in data anteriore al 1° gennaio 1979 con la sentenza della Corte n. 1 del 1991), avrebbe subito una progressiva alterazione a seguito dei miglioramenti introdotti con le leggi n. 37 del 1990, n. 21 del 1991 e n. 216 del 1992 le quali avrebbero determinato, rispettivamente, un incremento degli assegni di attività del 15%, di un ulteriore 15% e del 9%. Da ciò sarebbe derivato “circa il 47% di decremento netto del trattamento pensionistico nei confronti di un pari grado che sia andato in pensione successivamente all’introduzione degli aumenti suddetti”. Tale divario tra pensioni e stipendi contrasterebbe con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione. Le norme censurate infatti avrebbero determinato una ingiustificabile disparità di trattamento tra lavoratori collocati a riposo, dipendente dalla sola data di pensionamento, “non essendo ragionevole che tra due persone che hanno prodotto la stessa quantità e qualità di lavoro, ed abbiano la stessa posizione giuridica nei confronti della pubblica amministrazione, quello più anziano (e perciò con bisogni maggiori) riscuota uno stipendio differito, o pensione, vistosamente inferiore a quello di un suo collega più giovane (con bisogni minori) che abbia avuto lo stesso sviluppo di carriera”. Né a giustificazione di una tale disparità di trattamento potrebbero invocarsi, ad avviso della Corte dei conti, “difficoltà di bilancio”, del tutto inconferenti sul piano giuridico.

 

Pertanto, la rimettente chiede a questa Corte di verificare se sia stata vulnerata la ragionevole corrispondenza tra pensione e trattamento di attività e di dichiarare conseguentemente l’illegittimità costituzionale delle norme censurate nella parte in cui non prevedono l’estensione dei benefici da esse contemplati al personale già collocato in quiescenza.

 

3. – E’ intervenuta in giudizio l’Università di Parma, in persona del Rettore, quale erede universale di Feliciani Nevio, la quale ha chiesto l’accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte dei conti. Nella propria memoria la parte privata dà ampiamente conto sia dei motivi della precedente ordinanza di rimessione della Corte dei conti, sia dell’istanza di revocazione, per errore di fatto, presentata avverso la sentenza n. 62 del 1999 e archiviata con decreto del Presidente della Corte.

 

Nel merito, lamenta la disparità di trattamento determinata dalle norme censurate in quanto gli aumenti da esse introdotti si applicherebbero unicamente a coloro che sono andati in pensione dopo il 1989, mentre ne resterebbero esclusi coloro che sono stati collocati a riposo anteriormente, nonostante abbiano prodotto la stessa quantità e qualità di lavoro. Secondo la difesa, le norme censurate, inoltre, avrebbero reintrodotto il fenomeno delle “pensioni d’annata” censurato dalla Corte con la sentenza n. 1 del 1991.

 

Osserva ancora la parte privata che la giurisprudenza costituzionale, fino al 1993, ha sempre ribadito l’esistenza dei principi di proporzionalità della pensione rispetto alla retribuzione, della ragionevole corrispondenza tra trattamento di quiescenza e trattamento di attività, carattere imprescindibile dell’art. 36 della Costituzione, collegamento continuo tra pensione e retribuzione anche nel prosieguo.

 

Successivamente, invece, la Corte si sarebbe fatta carico delle esigenze connesse alle “disponibilità di bilancio”, così affermando che le esigenze del diritto devono cedere di fronte a quelle dell’economia e delle scelte politiche, con conseguente “affievolimento di ogni aspettativa giuridica di cui non si riconosca la fondamentalità”.

 

Le norme censurate contrasterebbero con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione in quanto avrebbero determinato un divario tra il dirigente militare pensionato anteriormente all’entrata in vigore delle norme censurate e quello collocato a riposo successivamente, di circa 20 milioni di lire all’anno, “con l’aggravante che il pensionato più anziano ha bisogni – intuitivamente – maggiori del pensionato più giovane”.

 

4. – E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. Priva di pregio sarebbe infatti la censura di “omessa pronuncia” mossa dalla rimettente avverso la sentenza di questa Corte n. 62 del 1999 in quanto essa sarebbe correttamente e congruamente motivata. Nel merito delle censure prospettate dalla Corte dei conti, la difesa erariale, richiamando le considerazioni svolte nella memoria depositata nel giudizio concluso con la sentenza n. 62 del 1999 e che viene allegata, sostiene che rientrerebbe nei poteri del legislatore modificare leggi preesistenti ponendo limiti temporali di efficacia delle nuove norme e che, comunque, non sussisterebbe alcun principio che imponga l’automatico adeguamento delle pensioni alle retribuzioni.

 

5. – Nel corso dell’udienza pubblica la parte privata, dopo aver ribadito le argomentazioni svolte nella memoria ed aver insistito per l’accoglimento della questione, ha – in subordine – richiesto a questa Corte una decisione monitoria con la quale si inviti il legislatore a rendere obbligatorio, in ogni futura disposizione legislativa o contratto collettivo nazionale di lavoro, pubblico o privato, l’inserimento di una previsione che tenga conto dei lavoratori già in quiescenza.

 

Considerato in diritto

 

1. – La Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale, dubita, con riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 27 dicembre 1989, n. 413 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico dei dirigenti dello Stato e delle categorie ad essi equiparate, nonché in materia di pubblico impiego), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 37; dell’art. 5 del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344 (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonché disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 gennaio 1991, n. 21; degli artt. 2, 3 e 4 del decreto-legge 7 gennaio 1992, n. 5 (Autorizzazione di spesa per la perequazione del trattamento economico dei sottufficiali dell'arma dei Carabinieri in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 277 del 3-12 giugno 1991 e all'esecuzione di giudicati, nonché perequazione dei trattamenti economici relativi al personale delle corrispondenti categorie delle altre forze di polizia), convertito, con modifiche, dall’art. 1 della legge 6 marzo 1992, n. 216.

 

Ritiene la Corte rimettente che le norme censurate, poiché non estendono i benefici da esse contemplati per il personale in servizio anche al personale già collocato in quiescenza anteriormente alla data della loro entrata in vigore, contrasterebbero con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, in quanto creerebbero una ingiustificata disparità di trattamento tra pensionati, determinata unicamente dalla data in cui sono stati collocati a riposo, nonostante essi abbiano prodotto la stessa quantità e qualità di lavoro. Le medesime norme, inoltre, avrebbero determinato un irragionevole divario tra stipendi e pensioni di dimensioni intollerabili, violando il principio di proporzionalità ed adeguatezza della pensione.

 

2. – La riproposizione da parte dello stesso giudice rimettente – sia pure nell’ambito di un diverso giudizio – di una questione già esaminata e le interpretazioni della precedente giurisprudenza costituzionale in materia alla base dell’ordinanza di rimessione, rendono opportuno riesaminare la questione alla luce delle più recenti evoluzioni normative, al tempo stesso ripercorrendo – a fini chiarificatori – le soluzioni cui è pervenuta questa Corte in tema di perdurante adeguatezza dei trattamenti pensionistici nel settore del pubblico impiego.

 

Riconoscendo alla pensione natura di retribuzione differita, la Corte costituzionale ha sempre affermato che essa deve essere proporzionata alla qualità e quantità di lavoro prestato e deve comunque essere idonea ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, nel pieno rispetto dell’art. 36 Cost.

 

L’art. 38, secondo e quarto comma, della Costituzione, inoltre, riconosce il diritto dei lavoratori a “che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” anche tramite “organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”.

 

L’azione di integrazione anche economica tramite interventi a carico della finanza pubblica appare tanto più necessaria in presenza di un significativo allungamento della vita dei cittadini, e del conseguente prolungamento del periodo nel quale è anzitutto il trattamento pensionistico ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al pensionato e ai suoi familiari (pur senza escludere la necessità di forme di assistenza sociale e sanitaria pienamente adeguate).

 

In questo contesto, è particolarmente importante che siano individuate le modalità per garantire effettivamente che il trattamento pensionistico sia adeguato non solo al momento del collocamento a riposo, ma anche successivamente, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta (si vedano, in particolare, le sentenze n. 409 del 1995; n. 96 del 1991; n. 501 del 1988).

 

Mentre non esiste un principio costituzionale che possa garantire l’adeguamento costante delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio corrispondente, l’individuazione di meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni è riservata alla valutazione discrezionale del legislatore, operata sulla base di un “ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti (…), compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa” (sentenza n. 119 del 1991; nello stesso senso, cfr. ordinanza n . 531 del 2002; sentenze n. 457 del 1998 e n. 226 del 1993), ma con il limite, comunque, di assicurare “la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona” (sentenza n. 457 del 1998).

 

Questa Corte ha peraltro affermato che l’eventuale verificarsi di un irragionevole scostamento tra i due trattamenti – ove siano comparabili i relativi profili professionali – può costituire un indice della non idoneità del meccanismo scelto dal legislatore ad assicurare la sufficienza della pensione in relazione alle esigenze del lavoratore e della sua famiglia (sentenza n. 409 del 1995; n. 226 del 1993).

 

3. – Per un lungo periodo, in realtà, il legislatore nazionale ha cercato di garantire un collegamento delle pensioni relative al settore del pubblico impiego alla successiva dinamica retributiva, ma a questa scelta sembra aver da tempo  ormai rinunciato, sia per evidenti problemi relativi alla finanza pubblica, sia anche per profonde trasformazioni che sono intervenute nella disciplina del pubblico impiego. Al di là di singole leggi per specifiche categorie, con le quali nel passato si era provveduto ad adeguare le pensioni al successivo andamento dei livelli retributivi, con la legge 29 aprile 1976, n. 177 (Collegamento delle pensioni del settore pubblico alla dinamica delle retribuzioni. Miglioramento del trattamento di quiescenza del personale statale e degli iscritti alle casse pensioni degli istituti di previdenza) è stato configurato un meccanismo di perequazione automatica che avrebbe consentito l’adeguamento periodico delle pensioni di tutte le diverse categorie del pubblico impiego agli incrementi stipendiali intervenuti, secondo un indice che avrebbe dovuto essere concordato tra il Governo e le parti sindacali. Rimasta inapplicata questa legge, il medesimo intento successivamente è stato ancora perseguito, ma sempre più raramente, con alcune leggi ad hoc.

 

Nell’ambito di questo tipo di legislazione, quando la riliquidazione appariva affetta da irragionevoli disparità di trattamento, questa Corte è stata chiamata a sindacarne la legittimità costituzionale: ad esempio, ciò è avvenuto con la sentenza n. 1 del 1991 (richiamata impropriamente dalla Corte dei conti e dalla parte privata), concernente la riliquidazione per legge delle pensioni dei dirigenti, civili e militari, dello Stato, effettuata sulla base di incrementi stipendiali successivi al collocamento a riposo, ma irragionevolmente limitata ai soli lavoratori collocati in quiescenza a partire da una certa data e dalla quale erano invece esclusi  coloro che erano andati in pensione anteriormente.

 

Peraltro il legislatore, già in periodo alquanto risalente, al fine di garantire il mantenimento del potere di acquisto delle pensioni in generale, aveva disposto l’adeguamento dei trattamenti pensionistici agli indici reali di svalutazione (art. 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1984” e art. 24 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 1986”); su questa linea, soprattutto in epoca più recente, il legislatore per fronteggiare gravi esigenze di contenimento della spesa pubblica ed allo scopo – enunciato nell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo, ha consapevolmente svincolato i trattamenti pensionistici dall’andamento delle successive retribuzioni e cercato di salvaguardarne nel tempo il potere d’acquisto e l’adeguatezza attraverso il solo meccanismo della perequazione automatica dell’importo alle variazioni del costo della vita.

 

In attuazione di tale delega, il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ha disposto –  all’art. 11 – che gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni si applicano sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale e con effetto dal 1° gennaio di ogni anno, stabilendo che tali aumenti vengano calcolati “applicando all’importo della pensione spettante alla fine di ciascun periodo la percentuale di variazione che si determina rapportando il valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati, relativo all’anno precedente il mese di decorrenza dell’aumento, all’analogo valore medio relativo all’anno precedente”. La stessa norma, peraltro, rinviava ad ulteriori aumenti eventualmente stabiliti con la legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia nazionale.

 

Successivamente, la legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure di stabilizzazione della finanza pubblica), all’art. 59, comma 4, ha disposto che la perequazione automatica delle pensioni, prevista dal citato articolo 11, costituisca, a decorrere dal 1998, l’unica forma di adeguamento delle prestazioni pensionistiche, “con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all’evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio”.

 

Le modalità di applicazione del meccanismo di rivalutazione delle pensioni sono state definite dall’art. 34 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), mentre l’art. 69 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) ha fissato la misura entro la quale si applica l’indice di rivalutazione automatica a decorrere dal 1° gennaio 2001 (limitandola al 90%, per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici compresi tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS, e al 75% per le fasce di importo superiori a cinque volte il predetto trattamento minimo).

 

In attuazione delle disposizioni sopra richiamate, annualmente, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con il Ministro del lavoro, viene determinata la percentuale di variazione sulla cui base devono essere calcolati gli aumenti di perequazione automatica delle pensioni.

 

Se questa recente evoluzione legislativa è chiaramente orientata nel senso di salvaguardare nel tempo il potere d’acquisto e l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici unicamente attraverso il meccanismo della perequazione automatica dell’importo alle variazioni del costo della vita, essa risulta sostanzialmente anche coerente sia con il prevalente carattere contributivo assunto dal sistema pensionistico a seguito della riforma introdotta dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), sia anche con la profonda riforma che ha interessato il pubblico impiego ed in particolare la dirigenza pubblica, il cui trattamento economico è, per la parte accessoria, correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità ed ai risultati conseguiti (art. 24 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”).

 

Mentre tutto ciò rende sempre più difficile riferirsi allo scostamento tra le pensioni e le successive modificazioni dei diversi trattamenti stipendiali, il perdurante necessario rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (ordinanza n. 241 del 2002; ordinanza n. 439 del 2001; ordinanza n. 254 del 2001). Con la conseguenza che il verificarsi di irragionevoli scostamenti dell’entità delle pensioni rispetto alle effettive variazioni del potere d’acquisto della moneta, sarebbe indicativo della inidoneità del meccanismo in concreto prescelto ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia mezzi adeguati ad una esistenza libera e dignitosa nel rispetto dei principi e dei diritti sanciti dagli artt. 36 e 38 della Costituzione.

 

4. – Sulla base delle considerazioni svolte, è possibile esaminare le censure mosse dalla rimettente.

 

Infondata è la questione sollevata con riferimento all’art. 3 della Costituzione.

 

Le norme impugnate si limitano a disporre aumenti stipendiali per il personale in servizio alla data della loro entrata in vigore, mentre non contengono alcuna disposizione relativamente al trattamento economico del personale già in quiescenza.

 

Alla luce del costante orientamento di questa Corte, la circostanza che il legislatore, nel prevedere un incremento delle retribuzioni del personale in servizio, non lo abbia esteso anche alle pensioni già liquidate, non costituisce violazione di alcun canone costituzionale.

 

Indubbiamente tale mancata estensione produce uno scostamento tra trattamenti pensionistici maturati in tempi diversi, ma, a differenza di quanto sostiene la rimettente, tale conseguenza non contrasta di per sé con l’art. 3 della Costituzione, essendo giustificata dal diverso trattamento economico di cui i lavoratori hanno goduto durante il rapporto di servizio e che era vigente nei diversi momenti in cui i relativi trattamenti pensionistici sono maturati (ordinanza n. 162 del 2003; sentenza n. 180 del 2001).

 

5. – Anche la questione prospettata con riferimento agli artt. 36 e 38 della Costituzione, è infondata.

 

Il rispetto dell’art. 36 Cost., in origine assicurato da un trattamento proporzionato alla qualità e quantità di lavoro prestato, è stato successivamente perseguito con un meccanismo di adeguamento al costo della vita (previsto dal d.lgs. n. 503 del 1992 e dalla legge n. 448 del 1998 sopra richiamati), che il giudice rimettente non ha preso in considerazione in rapporto alla permanente necessità che il trattamento pensionistico rimanga adeguato ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2 del decreto-legge 27 dicembre 1989, n. 413 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico dei dirigenti dello Stato e delle categorie ad essi equiparate, nonché in materia di pubblico impiego), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 37; dell’art. 5 del decreto-legge 24 novembre 1990, n. 344, (Corresponsione ai pubblici dipendenti di acconti sui miglioramenti economici relativi al periodo contrattuale 1988-1990, nonché disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 gennaio 1991, n. 21; degli artt. 2, 3 e 4 del decreto-legge 7 gennaio 1992, n. 5 (Autorizzazione di spesa per la perequazione del trattamento economico dei sottufficiali dell'arma dei Carabinieri in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 277 del 3-12 giugno 1991 e all'esecuzione di giudicati, nonché perequazione dei trattamenti economici relativi al personale delle corrispondenti categorie delle altre forze di polizia), convertito con modifiche, dall’art. 1 della legge 6 marzo 1992, n. 216, sollevate dalla Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.

 

Riccardo CHIEPPA, Presidente

 

Ugo DE SIERVO, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2004.