Sentenza n. 409 del 1995

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SENTENZA N. 409

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 2, e dell'art. 1, comma 6, della legge 8 agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento economico e di quiescenza del personale di magistratura ed equiparato), promossi con quattro ordinanze emesse il 2 febbraio 1994 e il 21 ottobre 1993 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, il 14 febbraio 1994 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio e il 27 aprile 1994 dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, iscritte rispettivamente ai nn. 359, 360, 710 e 722 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26, 49 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di costituzione di Sergio Pochettino e di Vincenzo Biagini, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 2 maggio 1995 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi gli Avvocati Giovanni Vanin per Sergio Pochettino, Tommaso Palermo per Vincenzo Biagini e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.-- La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, con ordinanza 2 febbraio 1994 (R.O. n. 359 del 1994), ha sollevato, in riferimento all'art. 136 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge 8 agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento economico e di quiescenza del personale di magistratura ed equiparato).

L'ordinanza è stata emessa nel corso di un giudizio promosso da Matteo Ferrante, magistrato in pensione e Maria Manganaro, vedova del dott. Calabrò, anch'egli magistrato in pensione, che chiedevano il riconoscimento del trattamento pensionistico sulla base della retribuzione spettante a magistrati, procuratori ed avvocati dello Stato in servizio, assumendo come parametro non già lo stipendio vigente nel 1983, ma lo stipendio tabellare con tutti gli adeguamenti intervenuti sino al 1° gennaio 1988, data della riliquidazione della loro pensione; con richiesta, altresì, da parte di uno dei ricorrenti, dell'adeguamento anche per gli anni successivi al 1988.

Il remittente rammenta, anzitutto, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 501 del 1988, ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge 17 aprile 1985, n. 141, nella parte in cui non veniva disposta, a favore dei magistrati collocati a riposo anteriormente al 1° luglio 1983, la riliquidazione della pensione sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione degli artt. 3 e 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, con decorrenza dal 1° gennaio 1988.

Rileva, altresì, che, in applicazione della sentenza stessa, la Corte dei conti, con molteplici pronunzie, ha riconosciuto in favore dei ricorrenti il diritto alla riliquidazione delle pensioni, con la detta decorrenza dal 1° gennaio 1988, sulla base del trattamento stipendiale conseguente all'applicazione delle tabelle della legge n. 27 del 1981 e degli adeguamenti periodici di cui all'art. 2 della stessa legge, con i benefici degli artt. 3 e 4 della legge n. 425 del 1984 e con il diritto alle successive riliquidazioni automatiche (c.d. "proiezione nel futuro" del meccanismo di adeguamento delle pensioni).

Nel frattempo, tuttavia, è entrata in vigore la legge 8 agosto 1991, n. 265, la quale, all'art. 2, comma 1, esclude dalla riliquidazione, al 1° gennaio 1988, delle pensioni spettanti ai magistrati collocati a riposo anteriormente al 1° luglio 1983, gli adeguamenti periodici di cui all'art. 2 della legge n. 27 del 1981. Rilevata la discriminazione che ne consegue fra quei ricorrenti per i quali il giudice di merito si era già pronunciato e quelli per i quali la causa non era ancora stata posta in decisione, l'ordinanza rammenta che la Corte, con sentenza n. 42 del 1993, ha già dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 265 del 1991, sollevata in relazione agli artt. 3, 36, 38 e 136 della Costituzione. Ciò nonostante, il remittente ritiene di riproporre la questione di costituzionalità del predetto comma 1 dell'art. 2, segnatamente sotto il profilo della violazione dell'art. 136 della Costituzione, "non avendo la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 42 del 1993 trattato direttamente detto profilo ritenendolo verosimilmente assorbito nella più generale affermazione di esercizio della discrezionalità da parte del legislatore nella materia de qua".

Secondo il giudice a quo, l'applicazione al caso concreto della sentenza n. 501 del 1988 della Corte costituzionale consegue ad una attività interpretativa che l'ordinamento giuridico demanda esclusivamente al giudice di merito, non consentendo l'art. 136 della Costituzione un qualsiasi intervento del legislatore, la cui attività sarebbe viziata da carenza assoluta di competenza legislativa.

Il contrasto della norma denunciata con l'art. 136 sarebbe maggiormente significativo nel caso di specie, dal momento che la stessa norma "si pone in conflitto sia con la pronuncia di incostituzionalità, sia con la costante interpretazione del giudice di merito attraverso una sostanziale riproduzione della disciplina dichiarata costituzionalmente illegittima, avente efficacia per il periodo già trascorso".

2.-- La stessa Sezione giurisdizionale -- nel corso di un giudizio instaurato da Giuseppe Tristano, magistrato della Corte dei conti, che aveva impugnato l'atto amministrativo con il quale si era proceduto alla riliquidazione del suo trattamento pensionistico -- ha, con ordinanza 21 ottobre 1993 (R.O. n. 360 del 1994), sollevato, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 136 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 1, comma 6, della legge n. 265 del 1991. Il giudice remittente premette che, con precedenti pronunce della Corte dei conti, era stato riconosciuto all'interessato, cessato dal servizio in data 13 gennaio 1985, il diritto al computo, nella base pensionabile, degli importi per classi di stipendio e aumenti biennali comunque maturati nella posizione di provenienza, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 425 del 1984 e il diritto alla riliquidazione della pensione, a decorrere dal 1° gennaio 1988, secondo le misure stipendiali vigenti a tale data per il personale in servizio, nonchè il diritto a conseguire in futuro gli adeguamenti triennali previsti per tale personale dall'art. 2 della legge n. 27 del 1981. Per effetto delle disposizioni censurate il predetto trattamento viene trasformato in assegno personale, destinato a precludere al pensionato l'attribuzione dei futuri miglioramenti economici fino al riassorbimento. Il remittente è, peraltro, dell'avviso che le disposizioni di cui all'art. 2, comma 1, e all'art. 1, comma 6, della legge 8 agosto 1991, n. 265, sia no in contrasto, rispettivamente, con gli artt. 136 e 24 della Costituzione.

Quanto alla prima disposizione, rilevato che essa è diretta a disciplinare soltanto gli effetti già prodottisi nella sfera giuridica degli interessati (tant'è che è destinata al personale cessato prima del 1° luglio 1983) a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988, l'ordinanza rileva che la stessa Sezione aveva posto nel corso di altro giudizio la medesima questione "in relazione, però, anche all'assetto futuro e non solo passato del rapporto pensionistico" e che la Corte non ha affrontato "direttamente" quest'ultima questione ritenendola probabilmente assorbita nell'ambito dell'affermazione di carattere generale circa la sussistenza nella materia della discrezionalità del legislatore. Il remittente ritiene che, se rientra nel potere del legislatore dettare una diversa disciplina per il tempo posteriore a quello cui fa riferimento la sentenza della Corte costituzionale, non spetta "al legislatore interpretare o comunque disporre, anche con norme formalmente autonome e indipendenti dalla pronuncia costituzionale, in ordine agli effetti che derivano direttamente dalle decisioni del giudice delle leggi", dal momento che questo compito è "riservato al giudice di merito".

Perciò, "la norma denunciata, anche quando dovesse essere perfettamente in linea con il contenuto della sentenza" che pretende di interpretare o applicare, sarebbe "viziata da assoluta carenza di competenza legislativa".

A proposito, poi, dell'art. 1, comma 6, il giudice remittente premette che la legge n. 265 del 1991 è intervenuta quando si era ormai formata sulla materia una serie di pronunce giudiziali passate in giudicato e quando la norma autenticamente interpretata - - ci si riferisce, in particolare, all'art. 5 della legge n. 425 del 1984, ma, precisa l'ordinanza, lo stesso discorso vale anche per la sentenza n. 501 del 1988 -aveva ricevuto attuazione da parte delle competenti amministrazioni.

Sarebbe perciò evidente che il legislatore ha inteso togliere effetti, almeno parziali, ed efficacia alle decisioni già definitivamente assunte tanto in sede giudiziaria che amministrativa, impedendo al ricorrente, in violazione dell'art. 24 della Costituzione, di fruire a titolo di tratta mento di quiescenza delle maggiori somme attribuitegli con decisione della stessa Corte dei conti, passata in giudicato.

3.-- Nel corso di un giudizio, promosso da Sergio Pochettino ed altri -- tutti magistrati che richiedevano la "perequazione del trattamento di quiescenza in godimento sulla base del trattamento economico dei magistrati di pari qualifica in servizio" -- la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, con ordinanza del 14 febbraio 1994 (R.O. n. 710 del 1994), ha anch'essa sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 265 del 1991. La Corte remittente -- nel rammentare che la sentenza n. 42 del 1993 non ha escluso un nuovo intervento del giudice costituzionale in caso di rinnovata divergenza fra le pensioni dei magistrati e l'andamento delle retribuzioni, che superasse un ragionevole rapporto di corrispondenza, sia pure tendenziale ed imperfetto -- ritiene che la attuale situazione delle posizioni pensionistiche dei magistrati ricorrenti debba essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, "proprio per il pesante divario" che ormai separa il trattamento oggi fruito dai magistrati in servizio di pari qualifica dalle pensioni di quelli collocati in quiescenza da alcuni anni ed anche per la rilevante disparità di situazioni che si è venuta a creare tra magistrati in posizioni analoghe.

Nel riportare i dati quantitativi che comproverebbero la lamentata divaricazione, dovuta al più rapido dinamismo economico, in favore del solo personale in servizio, provocato dalle disposizioni della legge n. 425 del 1984, che, peraltro, non hanno introdotto modifiche negli elementi del rapporto di impiego dei magistrati, l'ordinanza osserva che, avendo la legge n. 265 del 1991 escluso che, nella riliquidazione delle pensioni al primo gennaio 1988, si possa tener conto degli aumenti conseguiti fino a tale data dal personale in servizio, "i magistrati in pensione sono oggi privi di un qualsivoglia meccanismo di adeguamento delle pensioni nel corso del tempo", essendo stati travolti "i principi dell'adeguamento costante delle pensioni al trattamento di attività e dell'eguaglianza del trattamento di quiescenza a parità di servizi prestati e funzioni esercitate". Nella presente situazione delle pensioni dei magistrati, non sarebbe dato perciò "individuare più l'esercizio di una discrezionalità legislativa nell'attuare -- sia pur variamente -- l'adeguamento costante tra i due tronconi del trattamento retributivo", bensì "una completa negazione di quel principio e di quella 'solidarietà' tra lavoratori e pensionati, cui si deve affiancare una solidarietà più ampia dell'intera collettività".

Il notevole divario attualmente sussistente tra il trattamento di attività e il trattamento di pensione, quest'ultimo così come è regolato dalla legge n. 265 del 1991, renderebbe perciò, rilevante, secondo il giudice a quo, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 8 agosto 1991, n. 265, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.

4.-- Infine, con un'altra ordinanza del 27 aprile 1994 (R.O. n. 722 del 1994), emessa nel corso di un giudizio instaurato da Vincenzo Faraci, magistrato collocato in quiescenza dal 23 agosto 1985 che richiedeva la riliquidazione del suo trattamento pensionistico, assumendo come parametro non già lo stipendio vigente nel 1983, ma quello tabellare con tutti gli adeguamenti fino al 1° gennaio 1988, come pure per gli anni successivi, la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento all'art. 136 della Costituzione, questione di costituzionalità dell'art. 2, comma 2, della legge n. 265 del 1991, riproponendo le argomentazioni esposte nella precedente ordinanza del 2 febbraio 1994 (R.O. n. 359 del 1994).

5.-- In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate infondate.

Negli atti di intervento, aventi tutti analogo contenuto, depositati per i giudizi di cui alle ordinanze della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana del 25 febbraio 1994 (R.O. n. 359 del 1994) e del 21 ottobre 1993 (R.O. n. 360 del 1994) nonchè all'ordinanza della Sezione giurisdizionale della stessa Corte per la Regione Lazio del 14 febbraio 1994 (R.O. n. 710 del 1994), l'Avvocatura, richiamata la sentenza n. 501 del 1988, osserva che la Corte costituzionale, se, da un lato, ha affermato la garanzia dell'adeguamento del trattamento pensionistico al trattamento economico del personale in servizio, dall'altro ha riconosciuto il potere del legislatore di graduare le misure di adeguamento secondo propri parametri di ragionevolezza e quindi di discrezionalità. Richiamando anche ordinanza n. 95 del 1991 e la sentenza n. 42 del 1993, l'Avvocatura sostiene che da tali pronunce deriva la infondatezza della questione di legittimità dell'art. 2 della legge n. 265 del 1991, che può ben ritenersi una misura di parziale implementazione del trattamento nei sensi sopra illustrati, da parte del legislatore "in capo al quale sussisterebbe, in forza della sentenza n. 501 del 1988 un mero vincolo "di principio". Nell'atto di intervento depositato per il giudizio di cui all'ordinanza della Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana del 27 aprile 1994 (R.O. n. 722 del 1994), nonchè in altre due memorie del 7 luglio del 1994 e dell'8 luglio 1994 (depositate per i già richiamati giudizi di cui al R.O. n. 359 del 1994 e al R.O. n. 360 del 1994), l'Avvocatura ribadisce la tesi dell'infondatezza della questione di legittimità del predetto art. 2, in riferimento all'art. 136 della Costituzione, non essendo dato, infatti, ravvisare "eccesso di potere legislativo là dove si dettino norme meramente esecutive o comunque in linea con l'orientamento manifestato dal giudice costituzionale". Quanto all'art. 24 della Costituzione, invocato in rapporto alla disposizione di cui all'art. 1, comma 6, della legge n. 265 del 1991, si rammenta che la giurisprudenza della Corte ha affermato la legittimità di norme retroattive, anche indipendentemente dal loro eventuale carattere interpretativo, nei limiti del rispetto del principio di ragionevolezza e purchè non si pongano in contrasto con principi o valori costituzionali specificamente protetti ovvero con precedenti giudicati.

6.-- Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite le parti private Vincenzo Biagini e Sergio Pochettino, ricorrenti nel giudizio pendente innanzi alla Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti.

Nella memoria depositata, la difesa del Biagini, dopo aver sottolineato il divario sussistente tra il trattamento economico dei magistrati in servizio e di quelli collocati in quiescenza, osserva che la sentenza n. 42 del 1993 della Corte costituzionale "ha ritenuto censurabile il potere discrezionale del legislatore, in presenza di una non ragionevole divaricazione tra pensione e retribuzione, contrastante con gli artt. 3 e 36 della Costituzione".

La parte rammenta anche che, in sede di approvazione della legge n. 265 del 1991, le Commissioni riunite giustizia e affari costituzionali della Camera rilevarono l'insufficienza della legge medesima, ai fini della risoluzione delle questioni poste dalla disparità di trattamento tra i magistrati in servizio e quelli in pensione.

Infine, nel ribadire le censure prospettate nell'ordinanza di rimessione, afferma che la disposizione impugnata impedisce l'applicazione della sentenza n. 501 del 1988 della Corte costituzionale, "ripristinando una normativa con cui vengono perseguiti esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione", atteso che, con detta decisione, fu espressa l'esigenza, in conformità agli artt. 3 e 36 della Costituzione, del "costante adeguamento del trattamento di quiescenza dei magistrati e categorie assimilate alle retribuzioni del personale in attività di servizio".

Rilevato, poi, che "la mancata inclusione dell'art. 2 della legge n. 27 del 1981, nel meccanismo di riliquidazione, nonchè la limitazione del la sua applicazione ai magistrati collocati a riposo anteriormente al 1° luglio 1983" ostacola ogni raccordo tra evoluzione degli stipendi ed evoluzione delle pensioni, si assume che, a parità di qualifica ed anzianità tra magistrati e categorie assimilate, deve essere corrisposta la stessa pensione, indipendentemente dall'anno di collocamento in pensione.

Nella memoria depositata dalla difesa di Sergio Pochettino, pur riconoscendosi che la questione sollevata è la medesima che è stata già decisa dal la Corte con la sentenza n. 42 del 1993, si insiste sul rilevante aggravamento della divaricazione tra i trattamenti economici dei magistrati in servizio e in quiescenza e si ribadiscono le censure prospettate nell'ordinanza.

Considerato in diritto

1.-- Le ordinanze in epigrafe investono sotto vari profili la legge 8 agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento economico e di quiescenza del personale di magistratura ed equiparato), chiamando la Corte a stabilire:

a) se l'art. 2, commi 1 e 2, della legge stessa, nell'escludere dalla riliquidazione delle pensioni dei magistrati e categorie equiparate gli adeguamenti previsti per il personale in servizio dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, violi l'art. 136 della Costituzione, per aver disatteso il giudicato di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988 (ordinanze della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, di cui al R.O. nn. 359, 360 e 722 del 1994);

b) se l'art. 1, comma 6, della medesima legge, nel trasformare in assegno personale riassorbibile i benefici pensionistici conseguiti in applicazione dell'art. 5 della legge n. 425 del 1984 e dell'art. 2 della legge n. 27 del 1981, contrasti con l'art. 24 della Costituzione, togliendo effetti, almeno parziali, a decisioni definitivamente assunte tanto in sede giudiziaria che amministrativa e vanificando persino il giudicato (ordinanza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana di cui al R.O. n. 360 del 1994);

c) se il predetto art. 2 contrasti con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, per il divario che si riscontra fra il trattamento di attività fruito dai magistrati in servizio e quello di pensione dei magistrati collocati in quiescenza da alcuni anni (ordinanza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, di cui al R.O. n. 710 del 1994).

2.-- Poichè le questioni sollevate dalle varie ordinanze, in ordine al medesimo testo di legge, sono identiche o quantomeno connesse, i giudizi possono essere riuniti e decisi con una unica sentenza.

3.-- La prima di esse concerne l'art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 265 del 1991, il quale esclude le pensioni spettanti a magistrati, procuratori ed avvocati dello Stato dagli adeguamenti periodici di cui all'art. 2 della legge n. 27 del 1981.

I giudici remittenti, nell'assumere che tale esclusione contrasta con il decisum della precedente sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988, rammentano, essi stessi, che la questione ha già formato oggetto di esame da parte della Corte medesima, con la sentenza n. 42 del 1993. Ritengono, nondimeno, di poterla riproporre, non avendo, a loro avviso, la Corte affrontato, in quest'ultima pronunzia, "direttamente detto profilo ritenendolo verosimilmente assorbito nella più generale affermazione di esercizio della discrezionalità del legislatore nella materia de qua".

Una delle ordinanze in particolare (R.O. n. 360 del 1994) adombra una lettura di detta ultima pronunzia, nel senso che la questione, sia pur concernendo l'assetto futuro e passato del rapporto pensionistico, non sarebbe stata "direttamente" affrontata con riguardo a questo secondo profilo.

Osserva al riguardo la Corte che la questione, così come prospettata, fa leva non tanto sui risultati ai quali la predetta sentenza è pervenuta, quanto sulla linea argomentativa seguita dalla medesima per affrontare la tematica della presunta violazione dell'art. 136 della Costituzione. Ma non pare che questo possa essere elemento idoneo a far ritenere che la Corte non abbia affrontato il problema oggi riproposto. Infatti, al di là delle distinzioni adombrate dal remittente, la richiamata sentenza n. 42 del 1993, nell'evidenziare l'impossibilità di far derivare dalla precedente sentenza n. 501 del 1988 "un'immediata e completa estensione -- anche per il futuro -- dell'adeguamento a tutti i pensionati", non manca di richiamare anche ordinanza n. 95 del 1991, alle cui motivazioni mostra chiaramente di aderire là dove rileva, con affermazione del tutto generale, che il legislatore, nell'escludere dalla riliquidazione delle pensioni il meccanismo di adeguamento, aveva esercitato una discrezionalità sua propria, onde esulava dai limiti del controllo di legittimità costituzionale l'operazione additiva consistente in una mera trasposizione dell'istituto dell'adeguamento automatico nel settore pensionistico.

I passaggi della motivazione della sentenza n. 42 del 1993 testè ricordati confermano, dunque, che il profilo della dedotta illegittimità, ai sensi dell'art. 136 della Costituzione, della disposizione censurata forma parte integrante della ratio decidendi allora adottata. Le stesse ragioni di allora portano, perciò, a ritenere la questione, così come oggi riproposta, manifestamente infondata.

4. -- Del pari infondata è la seconda questione, concernente la legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della medesima legge n. 265 del 1991, che, ad avviso del giudice a quo, togliendo effetti, almeno parziali, a decisioni definitivamente assunte tanto nella sede giudiziaria che amministrativa e vanificando i giudicati, confliggerebbe con l'art. 24 della Costituzione.

Occorre considerare che il predetto art. 1 della legge n. 265 del 1991, nel fornire, al comma 4, l'interpretazione autentica della precedente normativa sull'inquadramento economico dei magi strati contenuta nell'art. 5 della legge n. 425 del 1984, ha stabilito, con la disposizione censurata (comma 6), che i maggiori trattamenti spettanti o in godimento per effetto di interpretazioni difformi, sono conservati ad personam e riassorbiti con la normale progressione economica di carriera o con i futuri miglioramenti dovuti sul trattamento di quiescenza.

A parte l'improprietà del parametro invocato dal giudice remittente, vale a dire l'art. 24 della Costituzione, che concerne il diritto alla tutela giurisdizionale, ma non i rapporti fra esercizio della funzione legislativa ed esercizio della funzione giurisdizionale o amministrativa, è evidente che, con la norma denunciata, il legislatore dispone solo per l'avvenire, prevedendo un riassorbimento di quanto conseguito, senza incidere su quanto già corrisposto per effetto della sentenza, bensì eliminando, con il meccanismo della gradualità temporale proprio del riassorbimento nella progressione economica, esiti privilegiati di trattamento economico. In questi limiti, come la Corte ha già avuto occasione di affermare in consimili fattispecie (sentenza n. 413 del 1988), non è configurabile nella norma impugnata -a meno che non si voglia ipotizzare una intangibilità de futuro ed in perpetuo di quanto conseguito per effetto del giudicato stesso -- nè lo svuotamento del contenuto del giudicato nè l'impiego della funzione legislativa per invadere l'ambito riservato dalla Costituzione alle altre funzioni.

E questo tanto più che, nel nostro sistema costituzionale, non è interdetta, nei limiti della ragionevolezza, l'emanazione di disposizioni che modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti.

5.-- Resta da esaminare la questione sollevata dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio (R.O. n. 710 del 1994), che denuncia l'art. 2 della legge n. 265 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, lamentando il divario cui la disposizione darebbe luogo fra trattamento in attività di servizio e trattamento di pensione.

Anche quest'ultima questione va ritenuta non fondata.

Lo svolgimento della legislazione in materia consente, infatti, di rilevare che i modi attraverso i quali perseguire l'obiettivo dell'aggiornamento delle pensioni dei pubblici dipendenti possono essere, in via di principio, due e cioè la c.d. riliquidazione, consistente nell'allineare le pensioni al trattamento di attività di servizio di volta in volta disposto con apposita legge, e la c.d. perequazione automatica, consistente in un meccanismo normativamente predeterminato, che adegui periodicamente i trattamenti di quiescenza agli aumenti retributivi intervenuti mediamente nell'ambito delle categorie del lavoro dipendente.

E questo è tanto vero che il trattamento di quiescenza dei dipendenti civili dello Stato, mentre è sempre stato ancorato, al momento della cessazione dal servizio, al trattamento economico di attività (art. 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e successive modificazioni ed integrazioni), ha avuto invece diverse soluzioni quanto al problema dell'adeguamento nel tempo. Il legislatore, dopo aver, in un primo momento, seguito il criterio di estendere i miglioramenti economici concessi al personale in servizio anche a quello in quiescenza, attraverso il meccanismo della riliquidazione della pensione, operata con apposito provvedimento legislativo, ha ritenuto, poi, di dover individuare, per ragioni alle quali non risultano estranei anche i ritardi con i quali intervenivano le leggi di riliquidazione, un meccanismo di perequazione volto ad agganciare in via permanente, senza deroghe e ritardi, le pensioni alla dinamica salariale.

Pertanto, la legge 29 aprile 1976, n. 177 ha istituito per le pensioni dei dipendenti statali e delle altre categorie indicate dalla legge stessa (art. 1) un collegamento annuale fra le pensioni e la dinamica delle retribuzioni, per la cui realizzazione -- dopo una breve fase transitoria (non oltre il 1978) durante la quale sarebbe stato utilizzato l'indice valevole per l'aggancio alla dinamica salariale del settore privato -- era prevista (art. 2) una determinazione concordata fra Governo e parti sindacali degli incrementi medi dei trattamenti economici fondamentali ed accessori, fissi e continuativi, dovuti con carattere di generalità per tutte le categorie del personale in attività di servizio, incrementi da quantificarsi in un indice utilizzabile per la perequazione dei trattamenti di quiescenza.

Sia pure attraverso alterne vicende che hanno indotto, talora, il legislatore a fare ancora ricorso al sistema della riliquidazione e sia pure attraverso modalità che sono venute a risultare diverse da quelle come sopra previste, il sistema della perequazione ha funzionato in questi anni, ponendo così in atto, nell'ordinamento delle pensioni dei pubblici dipendenti, meccanismi di rivalutazione secondo regole che, anche per effetto della norma interpretativa di cui all'art. 3 della legge 17 aprile 1985, n. 141, hanno, come questa Corte ha avuto occasione di rilevare nella sentenza n. 501 del 1988, per destinatari anche i magistrati.

È certo, comunque, che solo in casi particolari il legislatore, per tener conto delle esigenze di determinate categorie, ha ritenuto invece di agganciare automaticamente la pensione allo stipendio dettando apposite disposizioni (art. 2, secondo comma, della legge 27 ottobre 1973, n. 629, recante "Nuove disposizioni per le pensioni privilegiate ordinarie in favore dei superstiti dei caduti nell'adempimento del dovere appartenenti ai corpi di polizia") che rappresentano vere e proprie norme speciali.

Aggiungasi, inoltre, che a garantire il mantenimento, nel tempo, del potere d'acquisto delle pensioni dello Stato, il regime di adeguamento delle pensioni stesse è stato perfezionato (art. 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 e art. 24 della legge 28 febbraio 1986, n. 41), attraverso l'aggancio agli indici reali di svalutazione.

Tale disciplina ha fatto sì, pertanto, che i magistrati e le categorie ad essi assimilate, così come altri dipendenti di pubbliche amministrazioni, abbiano goduto, nella misura e nelle forme stabilite dal legislatore, dell'aggancio delle loro pensioni alla dinamica salariale e della rivalutazione delle pensioni stesse secondo gli appositi indici determinati dall'ISTAT, fruendo periodicamente, attraverso detti istituti, della possibilità di mantenere sostanzialmente fermo il potere di acquisto della pensione originariamente liquidata, e di garantire così alla stessa la proporzione rispetto alla retribuzione esistente al momento dell'originaria liquidazione.

6.-- Il giudice remittente, attraverso la denuncia dell'art. 2 della legge n. 265 del 1991 -- il quale ha escluso che alle pensioni dei magistrati, riliquidate in conformità alla sentenza della Corte n. 501 del 1988, accedano anche gli adeguamenti periodici di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 -- tende ad ottenere una pronunzia che prenda in considerazione "il pesante divario" che, ad avviso dell'ordinanza, ormai separa il trattamento di attività oggi fruito dai magistrati in servizio di pari qualifica dalle pensioni di quelli collocati in quiescenza da alcuni anni, all'uopo invocando i precetti degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.

Va, anzitutto, ricordato che questa Corte, pur affermando (sentenza n. 26 del 1980) che la proporzionalità e l'adeguatezza della pensione devono essere assicurate anche in prosieguo rispetto all'epoca del collocamento a riposo, in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta, ha ripetutamente escluso che la Costituzione garantisca al pensionato un'automatica estensione dei miglioramenti retributivi riconosciuti al personale in servizio.

Vero è che la sentenza n. 501 del 1988 si mostra incline a collocare il problema dell'aggiornamento delle pensioni nel filone della riliquidazione, anzichè in quello della perequazione; ma ciò, lungi dal consentire di desumere, dalla via seguita, l'indicazione di una regola inderogabile, si spiega, a rettamente intendere la portata di detta pronunzia, con la peculiare contingente situazione che la stessa ha preso in considerazione e cioè la modifica della struttura delle retribuzioni dei magistrati con effetto retroattivo, vale a dire dal 1° luglio 1983, a seguito della legge n. 425 del 1984, che veniva a porre la necessità di un corrispondente riallineamento delle pensioni in essere alla stessa data. E, del resto, la stessa sentenza non manca di sottolineare che "appartiene alle valutazioni del legislatore ordinario" disporre i mezzi per attuare il principio dell'adeguamento delle pensioni, così confermando che le diverse leggi che, nel tempo e con riferimento alle varie categorie, hanno proceduto alla riliquidazione, sono espressione di scelte discrezionali motivate sempre in ragione della peculiarità dei casi e delle situazioni, ma non certo adempimento satisfattivo, di per sè e a prescindere dalle specifiche esigenze, di aspettative costituzionalmente rilevanti. In sostanza, come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (sentenza n. 226 del 1993), non rappresenta vulnerazione di alcun canone costituzionale il fatto che il legislatore, nel prevedere un meccanismo di adeguamento delle retribuzioni del personale in servizio, non abbia parallelamente esteso analogo adeguamento ai trattamenti pensionistici della medesima categoria.

E questo tanto più quando tale meccanismo appaia elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, con la peculiare ratio di attuare il precetto costituzionale dell'indipendenza e di evitare che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri (sentenza n. 42 del 1993). Un elemento, dunque, di cui non si può considerare necessitata la trasposizione anche al settore pensionistico, trattandosi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore, non più sussistendo in tale momento l'esigenza che ne aveva giustificato l'attribuzione nella vigenza del rapporto di servizio.

7. -- In conclusione, riaffermato il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della pensione, da garantirsi non solo con riferimento al momento del collocamento a riposo, ma anche in prosieguo, in relazione alle variazioni del potere di acquisto della moneta, e rilevato che, all'attualità, tutto ciò appare assicurato dai meccanismi perequativi e rivalutativi esistenti, può dirsi che spetta al legislatore ragionevolmente soddisfare nel tempo detta esigenza, escludendo, peraltro, che questo comporti, inderogabilmente, un costante e periodico allineamento delle pensioni al corrispondente trattamento di attività di servizio.

Naturalmente, e soltanto in mancanza di modificazioni strutturali e funzionali della prestazione lavorativa, il verificarsi di un irrazionale discostamento fra i due dati di riferimento può costituire uno degli indici sintomatici della non idoneità del meccanismo in concreto prescelto a preservare la costante sufficienza della pensione, in modo da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa (sentenza n. 226 del 1993 già citata).

Peraltro, la situazione per il momento esistente, sul cui livello hanno nel tempo inciso vari interventi perequativi e riliquidativi, non è tale da concretare violazione degli invocati parametri costituzionali e il problema può soltanto porsi per l'avvenire nel caso di variazioni significative della proporzionalità, nel più ampio contesto della generale politica economica e avuto riguardo soprattutto alle risorse disponibili, come elemento di prudente attenzione affidata alla discrezionalità del legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 2, della legge 8 agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento economico e di quiescenza del personale di magistratura ed equiparato), sollevata, in riferimento all'art. 136 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana con ordinanze in data 2 febbraio 1994 (R.O. n. 359 del 1994), 21 ottobre 1993 (R.O. n. 360 del 1994) e 27 aprile 1994 (R.O. n. 722 del 1994);

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della stessa legge, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, con ordinanza in data 21 ottobre 1993 (R.O. n. 360 del 1994);

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge medesima, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, con ordinanza in data 14 febbraio 1994 (R.O. n. 710 del 1994).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 27 luglio 1995.