Sentenza n. 39 del 2004

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SENTENZA N.39

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Riccardo                CHIEPPA                      Presidente

- Gustavo                 ZAGREBELSKY            Giudice

- Valerio                   ONIDA                                  "

- Carlo                      MEZZANOTTE                    "

- Fernanda                CONTRI                                "

- Guido                    NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto         CAPOTOSTI                         "

- Annibale                MARINI                                "

- Giovanni Maria      FLICK                                   "

- Francesco               AMIRANTE                          "

- Ugo                        DE SIERVO                          "

- Romano                 VACCARELLA                   "

- Paolo                      MADDALENA                     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza dell’11 dicembre 2002 dal Tribunale di Genova, iscritta al n. 66 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 ottobre 2003 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Genova, nel corso di un giudizio penale per i reati di violenza privata, esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e lesioni personali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale, nella parte in cui limitano gli accertamenti sulla persona dell’imputato e i successivi provvedimenti in ordine alla sospensione del procedimento alle sole ipotesi in cui, per infermità mentale, l’imputato non sia in grado di partecipare coscientemente al processo, e non prevedono invece l'applicazione della disciplina della sospensione del processo a tutti quei casi in cui, per infermità fisica di qualsiasi natura, oltre che psichica, l'imputato non sia in grado di esprimersi in modo compiuto né verbalmente, né attraverso la scrittura, né utilizzando un linguaggio convenzionale che sia traducibile avvalendosi di un interprete, e quindi sia impossibilitato a partecipare attivamente al processo, esercitando validamente la propria autodifesa.

Il giudice a quo riferisce in fatto che dalla disposta perizia risulta che l’imputato presenta esiti di un ictus cerebrale e, in particolare, è affetto da afasia, per cui gli è impossibile l'espressione verbale, e da emiparesi destra con plegia dell'arto superiore, cosicché non può scrivere e, con la mano sinistra, riesce solo "a firmare ed a scrivere piccoli e semplici vocaboli"; e che egli, pur sforzandosi di parlare, produce suoni vocali stereotipati incomprensibili. L’imputato, benché in grado di partecipare coscientemente al processo, sarebbe impossibilitato ad esprimersi correttamente sul piano verbale.

Il remittente muove dalla premessa secondo cui, nella disciplina vigente, non vi sarebbe alcuna norma che consenta, in un caso concreto avente tali caratteristiche, di sospendere o anche solo di rinviare il dibattimento.

In particolare, il giudice a quo ritiene non applicabile l'art 420-ter, richiamato dall'art. 484 cod. proc. pen., in quanto non si verserebbe in un'ipotesi di assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro impedimento. L'imputato, in effetti, potrebbe venire in udienza, né la partecipazione al processo risulterebbe in qualche modo dannosa per la sua salute. Neppure risulterebbe applicabile, ad avviso del remittente, la disciplina dettata dagli articoli 70 e ss. cod. proc. pen., relativa alle ipotesi di imputato che, per infermità mentale, non è in grado di partecipare coscientemente al processo. Infatti dalla perizia risulta che l’imputato, avendo un grado sufficiente di coscienza e di capacità di intervento critico, può partecipare coscientemente al processo, per cui del tutto arbitrario e non consentito sarebbe il richiamo alla citata disciplina. Non potrebbe, infine, neppure applicarsi la disciplina dettata dall'art. 119 cod. proc. pen., relativamente alla partecipazione del sordo, del muto e del sordomuto ad atti del procedimento, in quanto l’imputato, colpito da ictus in età avanzata e quindi solo da poco tempo non in grado di esprimersi, non utilizza un "linguaggio" convenzionale che possa essere sottoposto alla "traduzione" di un interprete, ma solo emette suoni inarticolati e compie gesti privi di un significato codificato, che solo la sensibilità e l’abitualità di rapporto delle persone che gli vivono vicine rende in qualche misura comprensibili. In conclusione l’imputato, non potendo parlare, non potendo scrivere correntemente e non potendo essere inteso nelle sue espressioni gestuali e vocali da un interprete, avendo solo la capacità di farsi intendere quando esprime assenso o dissenso e poco più, non avrebbe alcun modo di comunicare compiutamente né con il suo difensore né, tanto meno, nell'ambito del processo.

Ad avviso del Tribunale, qualora si ritenesse di poter comunque celebrare il dibattimento, non sussistendo alcuna norma che ne consenta la sospensione, verrebbero gravemente compromesse le possibilità di difesa dell’imputato, sia sotto il profilo dell’impossibilità di narrare compiutamente al difensore la propria versione dei fatti, al fine di concordare la più adeguata linea difensiva, sia sotto il profilo di esercitare adeguatamente l'autodifesa. Di qui, stante l’impossibilità di trovare una adeguata risposta nel diritto vigente, se non forzando la lettera della legge oltre ogni limite consentito, il dubbio di legittimità costituzionale degli articoli 70, 71, 72 cod. proc. pen., nei termini sopra indicati.

Quanto alla rilevanza della questione, il giudice ne motiva la sussistenza affermando che l'accoglimento di essa legittimerebbe la sospensione del processo con periodico riesame della situazione fisica dell’imputato sino a quando, eventualmente, egli non riuscisse a recuperare in modo sufficiente l'uso della parola, o la capacità di scrivere, tanto da consentirgli di narrare i fatti.

In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale osserva che costringere l'imputato a subire un processo in cui egli, di fatto, non è in grado di partecipare attivamente e in modo costruttivo, significherebbe pregiudicare l'esercizio dell'inviolabile diritto di difesa, sotto il profilo del diritto di autodifendersi, che è costituzionalmente sancito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione e che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto prevalente rispetto al diritto di essere giudicato. Il diritto di difesa, rileva il remittente, nel sistema adottato dall'ordinamento italiano è imperniato sul concorso dell'attività difensiva dell'imputato con quella del difensore tecnico ma, pur articolandosi attraverso i due poli dell’autodifesa e dell’assistenza tecnica, le rispettive posizioni conservano, di regola, carattere di piena autonomia e la prima (l'autodifesa) assume certamente un carattere indefettibile e prioritario e non può essere sostituita dalla seconda che, pur integrando, nei casi previsti dalla legge, necessariamente l'altra, è pur sempre condizionata ad un atto di libera scelta da parte dell'interessato e, solo in difetto, da un atto di doverosa integrazione da parte del giudice. Conseguentemente, celebrare il processo senza che le possibilità di autodifesa dell'imputato siano effettive, comporterebbe, ad avviso del giudice a quo, la violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Applicando la normativa processuale vigente, risulterebbe altresì violato il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, in quanto verrebbero trattate in modo assolutamente differente situazioni che per molti aspetti sono assimilabili: la posizione di chi non è neppure in grado di capire il valore del processo e di ciò che avviene nel suo ambito e quella di chi, pur comprendendolo, non è comunque in grado, alla stregua dell'incapace, di interferire, in modo costruttivo per le proprie esigenze difensive, nel processo stesso.

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

L’Avvocatura osserva che sulla questione la Corte si sarebbe già pronunciata con la sentenza n. 281 del 1995. Conclude quindi affinché la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Considerato in diritto

1. – La questione sollevata dal Tribunale di Genova investe gli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale, relativi alla sospensione del processo nel caso in cui "lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento", censurati "nella parte in cui limitano gli accertamenti sulla persona dell’imputato e i successivi provvedimenti in ordine alla sospensione del procedimento alle sole ipotesi in cui, per infermità mentale, l’imputato non sia in grado di partecipare coscientemente al processo, e non prevedono invece l’applicazione della disciplina della sospensione del processo a tutti quei casi in cui, per infermità fisica di qualsiasi natura, oltre che psichica, l’imputato non sia in grado di partecipare attivamente al processo, esercitando validamente la propria autodifesa".

Il remittente muove dalla premessa secondo cui l’imputato del processo a quo è stato riconosciuto dal perito in possesso di un grado sufficiente di coscienza e di capacità di intervento critico, e dunque in grado di partecipare coscientemente al processo, ma, a causa degli esiti di un ictus, è impossibilitato ad esprimersi correttamente sul piano verbale e a scrivere, né utilizza un linguaggio convenzionale che possa essere tradotto da un interprete come accade nel caso delle persone mute. Egli ritiene dunque che non siano applicabili nella specie né gli artt. 70-72 cod. proc. pen., né l’art. 119 cod. proc. pen. relativo alla partecipazione del muto agli atti del procedimento, e nemmeno l’art. 420-ter cod. proc. pen. sull’impedimento a comparire dell’imputato, poiché il suo stato di infermità non comporterebbe impossibilità di comparire. Poiché, stante questa situazione, l’imputato non sarebbe in grado di partecipare "attivamente e in modo costruttivo" al processo, ne risulterebbe pregiudicato il suo diritto di difesa, e soprattutto il diritto di autodifesa, con violazione dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione. Sarebbe inoltre violato l’art. 3 della Costituzione, in quanto verrebbero trattate in modo diverso situazioni per molti aspetti assimilabili, vale a dire, da un lato, la posizione di chi non è neppure in grado di capire il valore del processo, dall’altro quella di chi, pur comprendendolo, non è in grado di intervenire "in modo costruttivo per le proprie esigenze difensive" nel processo stesso.

2. – La questione non è fondata, in quanto non è esatta la ricostruzione del sistema normativo operata dal giudice a quo.

Come il remittente esattamente avverte, la garanzia costituzionale del diritto di difesa comporta la necessità che l’imputato sia in grado non solo di essere fisicamente presente, se lo ritiene, al processo, ma anche di partecipare in modo consapevole e attivo alla vicenda processuale, ovviamente con le modalità consentite dalla sua complessiva personalità, interloquendo con gli altri soggetti del processo medesimo, allo scopo di esercitare l’autodifesa, e di comunicare con il proprio difensore, quindi anche con la possibilità di esprimersi essendo percepito e compreso (cfr. sentenza n. 341 del 1999).

Se ad assicurare la possibilità di presenziare fisicamente al processo è intesa la disciplina sul rinvio per legittimo impedimento a comparire dell’imputato (art. 420-ter cod. proc. pen.), e se a garantire la possibilità di percepire o di esprimersi, nel caso di difficoltà ad udire o a parlare dell’imputato, sovviene la disciplina che assicura l’assistenza di un interprete nell’ipotesi di sordità o mutismo dell’imputato (art. 119 cod. proc. pen., come risulta dalla pronuncia additiva di cui alla sentenza n. 341 del 1999), l’ipotesi invece in cui l’impossibilità di partecipare attivamente al processo dipenda dalla situazione mentale dell’imputato è contemplata dagli artt. 70, 71 e 72 cod. proc. pen.

L’art. 70 prevede il ricorso ad un accertamento peritale quando "vi è ragione di ritenere che, per infermità mentale" – non più necessariamente sopravvenuta al fatto (sentenza n. 340 del 1992) –, "l’imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo"; a sua volta l’art. 71 dispone che, se a seguito di tale accertamento "risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento", quest’ultimo è sospeso (sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere), facendosi poi luogo ogni sei mesi ad ulteriori accertamenti "sullo stato di mente dell’imputato", in vista di una revoca della sospensione "non appena risulti che lo stato mentale dell’imputato ne consente la cosciente partecipazione al procedimento" (art. 72).

Anche se l’art. 70 letteralmente si riferisce ad ipotesi di "infermità mentale", il sistema normativo è chiaramente volto a prevedere la sospensione ogni volta che lo "stato mentale" dell’imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo. Partecipazione che non può intendersi limitata alla consapevolezza dell’imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessariamente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa. Ciò significa che quando non solo una malattia definibile in senso clinico come psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell’imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione – nel senso ampio che si è detto – al processo, questo non può svolgersi. Alla verifica di tale situazione è diretto l’accertamento peritale, sulle cui risultanze si esercita il controllo del giudice, ispirato ai principi ora enunciati.

Ove poi risultasse che lo stato mentale dell’imputato ne consente, di per sé, la partecipazione consapevole e attiva al processo, e sussistono solo ostacoli alla espressione verbale o scritta e alla reciproca comprensione, derivanti da impedimenti, collegati ad uno stato di infermità, all’udito o alla parola dell’imputato, troverebbero applicazione le regole dell’art.119 cod. proc. pen., che prevede il diritto all’assistenza di un "interprete, scelto di preferenza fra le persone abituate a trattare" con l’imputato, al fine di consentirgli di "potere comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa" (così nella estensione che la disposizione ha subito per effetto della sentenza n. 341 del 1999 di questa Corte).

Non sussiste dunque la lacuna di tutela del diritto di difesa denunciata dal remittente.

Nemmeno, di conseguenza, ha fondamento la censura di violazione del principio di eguaglianza. Una volta riconosciuto che in tutti i casi in cui lo "stato mentale" dell’imputato, nel senso ampio che s’è detto, ne impedisca la consapevole e attiva partecipazione al processo, si applica il sistema degli artt. 70, 71 e 72 cod. proc. pen., non vi è luogo ad alcuna disparità ingiustificata di trattamento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 70 (Accertamenti sulla capacità dell’imputato), 71 (Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato) e 72 (Revoca dell’ordinanza di sospensione) del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 gennaio 2004.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2004.