ORDINANZA N.96
ANNO 2004
repubblica italiana
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfonso QUARANTA
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 7 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), promosso con ordinanza del 20 febbraio 2003 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma nei procedimenti penali riuniti a carico di Federighi Raffaello, iscritta al n. 288 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Udito nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2004 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 20 febbraio 2003, pervenuta il 7 aprile 2003, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), "nella parte in cui non prevede che i praticanti avvocati dopo il conseguimento dell’abilitazione possano comparire dinanzi agli organi giudiziari militari per quegli stessi reati per i quali ciò è loro riconosciuto dinanzi al giudice di pace ed al tribunale in composizione monocratica";
che il remittente osserva come oggi i tribunali militari operino "in un quadro normativo (e culturale) contrassegnato da un inarrestabile avvicinamento del rito militare alle regole della giurisdizione ordinaria", nel quale è stato abrogato fra l’altro l’art. 53 del regio decreto 9 settembre 1941, n. 1022 (Ordinamento giudiziario militare), che disciplinava la difesa davanti ai tribunali militari (allora definiti) territoriali;
che in tale nuovo quadro occorrerebbe valutare la legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 479 del 1999, il quale – argomenta il giudice a quo – mentre nulla dispone per la difesa nelle cause penali davanti ai tribunali militari, prevederebbe che negli affari di competenza del giudice di pace e dinanzi al tribunale in composizione monocratica i praticanti abilitati possano esercitare la difesa nelle cause per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva, nonché per i reati elencati alla lettera b, numero 2, di detto art. 7;
che, ad avviso del remittente, sarebbe irragionevole, e perciò lesivo dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, escludere la possibilità del patrocinio del praticante avvocato abilitato dinanzi ai tribunali militari per quegli stessi reati per i quali egli può assumere la difesa dinanzi al giudice di pace o davanti al tribunale in composizione monocratica: e ciò anche se nel processo penale militare non si applica il c.d. rito monocratico, atteso che tale esclusione non sarebbe fondata sull’esigenza di assicurare la capacità tecnica del difensore, ma esclusivamente sulla specialità dell’ordinamento militare;
che sotto la denominazione di pena detentiva, cui fa riferimento l’art. 7 in esame, sarebbe compresa anche la reclusione militare;
che, inoltre, dubbi di costituzionalità sussisterebbero anche in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto precludere all’imputato di un reato militare, punito con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, la possibilità di farsi assistere da un praticante abilitato ne potrebbe limitare ingiustificatamente l’esercizio del diritto di difesa;
che il remittente osserva che il praticante abilitato non può svolgere la propria attività professionale in relazione a qualsiasi reato attribuito alla cognizione dei tribunali militari, anche quando, come nel caso di specie, si tratti del giudice dell’udienza preliminare, di per sé monocratico, mentre a norma dell’art. 7 della legge n. 479 del 1999 e dell’art. 13 del codice di procedura penale potrebbe difendere davanti al tribunale in composizione monocratica un imputato per un reato militare connesso con un reato comune più grave, rientrante comunque fra quelli per i quali è prevista la competenza del giudice monocratico;
che il giudice a quo conclude osservando che la questione è rilevante, atteso che l’imputato, il quale ha nominato fra i propri difensori un praticante abilitato, è chiamato a rispondere di reati militari (disobbedienza aggravata e concorso in simulazione di infermità pluriaggravata) per i quali è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni.
Considerato, preliminarmente, che il remittente fa riferimento, come tertium comparationis e, al tempo stesso, come norma di cui chiede l’estensione ai processi davanti ai tribunali militari, ad un testo dell’art.7 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 che non è quello in vigore, oggi e al momento in cui è stata emessa l’ordinanza di rimessione;
che, infatti, l’art. 2-terdecies del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, ha sostituito la lettera b di detto art. 7, relativa agli affari penali nei quali è consentito ai praticanti avvocati abilitati di esercitare l’attività professionale ai sensi dell’art. 8 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, recante: "Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore", con un nuovo testo, in cui non si fa più riferimento direttamente ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni e ad una serie di reati nominati (già di competenza del pretore), bensì ai "reati previsti dall’articolo 550 del codice di procedura penale" (identificati con le contravvenzioni ovvero con i delitti puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva e con i reati nominativamente indicati, solo parzialmente coincidenti con quelli già elencati nel previgente testo dell’art. 7, lettera b, numero 2, della legge n. 479 del 1999), assumendo dunque come criterio l’applicabilità del procedimento con citazione diretta di cui all’art. 550 del codice di procedura penale, novellato dalla legge n. 479 del 1999, che esclude l’udienza preliminare, nell’ambito del rito davanti al giudice monocratico: rito che, per giurisprudenza ormai consolidata e ricordata dallo stesso remittente, non trova invece applicazione davanti ai tribunali militari, tant’è che, nella specie, il giudizio principale è in corso davanti al giudice dell’udienza preliminare;
che, anche a prescindere da ciò, l’art. 7 della legge n. 479 del 1999 impugnato non fa che specificare la disciplina – ivi espressamente richiamata – del patrocinio da parte dei praticanti avvocati abilitati, recata dall’art. 8 della legge professionale per gli avvocati (r.d.l. n. 1578 del 1933), il quale si riferisce ai soli procedimenti davanti alla giurisdizione ordinaria, ed in particolare a quelli già di competenza del pretore; mentre il patrocinio davanti a tutte le giurisdizioni speciali (tra le quali rientra quella dei tribunali militari) è separatamente disciplinato dall’art. 7 della stessa legge professionale, ai sensi del quale "davanti a qualsiasi giurisdizione speciale la rappresentanza, la difesa e l’assistenza possono essere assunte soltanto da un avvocato ovvero da un procuratore assegnato ad uno dei Tribunali del distretto della Corte d’appello e sezioni distaccate, nel quale ha sede la giurisdizione speciale" (oggi soltanto da un avvocato), senza che sia prevista alcuna possibilità di patrocinio da parte dei praticanti avvocati abilitati;
che il remittente ignora tale normativa e non impugna né l’art. 8, né l’art. 7 della legge professionale;
che, pertanto, la questione si appalesa manifestamente inammissibile per erronea individuazione della norma alla quale può farsi risalire l’effetto impeditivo lamentato dal giudice a quo.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2004.