ORDINANZA N.251
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale e dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, promosso con ordinanza del 10 luglio 2003 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di T.C. ed altri, iscritta al n. 1017 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 14 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale e dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui prevedono l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen., senza stabilire i modi in cui può avvenire la limitazione dell’inviolabilità del domicilio;
che la Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso per cassazione proposto dagli imputati avverso la sentenza di appello che — confermando in gran parte quella di primo grado — li aveva ritenuti responsabili di plurimi delitti di illegale detenzione, cessione ed acquisto di sostanze stupefacenti;
che l’affermazione di responsabilità si basava principalmente sui risultati — oltre che di intercettazioni telefoniche — di intercettazioni di comunicazioni tra presenti eseguite nell’abitazione di uno degli imputati: risultati dei quali due dei ricorrenti avevano dedotto l’inutilizzabilità, denunciando, in specie, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva escluso la necessità di uno specifico decreto che autorizzasse l’introduzione di persone nella predetta abitazione, al fine di collocare le microspie utilizzate per la captazione dei colloqui;
che le intercettazioni ambientali in questione erano state autorizzate in quanto si procedeva per reati compresi nell’elenco di cui all’art. 266 cod. proc. pen. e si erano ritenuti sussistenti i presupposti di ammissibilità del mezzo — meno rigorosi di quelli ordinari — stabiliti dall’art. 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 in rapporto ai delitti di criminalità organizzata (tali dovendo considerarsi quelli oggetto del giudizio a quo): e, cioè, in deroga all’art. 267 cod. proc. pen., l’esistenza di sufficienti (anziché gravi) indizi di reato e la necessità (anziché l’assoluta indispensabilità) delle intercettazioni per lo svolgimento delle indagini;
che la captazione dei colloqui era avvenuta tramite microspie inserite nelle scatole delle prese telefoniche, "anche se" — per affermazione della sentenza impugnata — non erano note "né le modalità né i tempi di introduzione nell’alloggio" per il loro collocamento;
che gli ufficiali di polizia giudiziaria sentiti come testi avevano peraltro dichiarato che le microspie erano state installate da "personale tecnico" nel corso delle operazioni di allaccio dei telefoni: circostanza a fronte della quale il giudice di secondo grado "non (aveva) escluso" che l’accesso nel domicilio fosse avvenuto con il consenso del titolare;
che, ad avviso della Corte rimettente, tale assunto non potrebbe essere tuttavia condiviso, in quanto l’impiego di un mezzo fraudolento — entrare nel luogo di privata dimora per allacciare il telefono, ma approfittarne per installare microspie — è condotta che, traendo in inganno il titolare dello ius excludendi, offende, senza il consenso di quest’ultimo, la tranquillità e la riservatezza della vita domestica tutelate dall’art. 14 Cost.: onde essa potrebbe essere tollerata dall’ordinamento solo con le garanzie previste dalla norma costituzionale;
che "a rigore logico", d’altra parte, la libertà di domicilio — intesa come diritto di preservare da interferenze esterne determinati luoghi in cui si svolge la vita privata di ciascun individuo — verrebbe lesa non dalle sole intrusioni corporali, ma da qualsiasi captazione di conversazioni domestiche, indipendentemente dal fatto che questa avvenga con microspie installate nell’abitazione o nascoste in oggetti spediti in essa, ovvero con microfoni direzionali a distanza o apparecchi similari collocati all’esterno;
che, conseguentemente, mentre la captazione di conversazioni che si svolgono fuori dei luoghi di privata dimora atterrebbe soltanto alla sfera di applicazione dell’art. 15 Cost. (libertà e riservatezza della corrispondenza), l’intercettazione di comunicazioni che avvengono nei predetti luoghi interferirebbe congiuntamente sull’ambito applicativo tanto dell’art. 15 Cost. che dell’art. 14 Cost. (libertà e riservatezza del domicilio);
che, in tale prospettiva, le norme impugnate, nel regolare l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen., violerebbero l’art. 14 Cost., "almeno" nella parte in cui non stabiliscono i modi in cui può avvenire la limitazione dell’inviolabilità del domicilio;
che questa Corte avrebbe in effetti chiarito, con la sentenza n. 135 del 2002, che il secondo comma dell’art. 14 Cost. — che nella specie viene in rilievo, trattandosi di atto invasivo dettato da esigenze di giustizia — non circoscrive le possibili limitazioni della libertà domiciliare ai soli mezzi tipici di ricerca della prova costituti da ispezioni, perquisizioni e sequestri, espressamente menzionati nel precetto costituzionale, dovendo il legislatore e l’interprete tener conto anche di altre forme di intrusione sconosciute al Costituente e divenute attuali per effetto dei progressi tecnologici; né intende discriminare tra forme di intrusione palesi (quali appunto ispezioni, perquisizioni e sequestri) e forme di intrusione occulte (quali i moderni mezzi di captazione sonora);
che la norma costituzionale permette, però, la limitazione della libertà domiciliare soltanto nei casi e nei modi stabiliti dalla legge (riserva di legge) e per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione);
che, per converso, tanto l’art. 266, comma 2, cod. proc. pen. che l’art. 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 si limiterebbero ad individuare i "casi" nei quali l’autorità giudiziaria può disporre l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi di cui all’art. 614 cod. pen., senza disciplinare minimamente i "modi" con cui detta intercettazione può essere realizzata, i quali, pertanto, potrebbero essere stabiliti dal giudice e dal pubblico ministero — nell’ambito delle rispettive competenze di cui agli artt. 267 e 268 cod. proc. pen. — al di fuori di qualsiasi referente normativo;
che i "modi" rilevanti ai fini del rispetto dell’evocato parametro costituzionale — "modi" che, come affermato da questa Corte con ordinanza n. 304 del 2000, spetterebbe "al legislatore determinare nei limiti previsti dalla Costituzione" — non riguarderebbero, infatti, le procedure di autorizzazione, verbalizzazione e registrazione, disciplinate dai citati artt. 267 e 268 cod. proc. pen.; ma atterrebbero propriamente alle modalità operative con le quali deve effettuarsi l’intrusione nella sfera domiciliare, affinché si realizzi un equilibrato bilanciamento tra il diritto individuale e le esigenze investigative connesse all’esercizio dell’azione penale (sulla falsariga, ad esempio, di quanto prevede l’art. 251 cod. proc. pen. per l’esecuzione di perquisizioni domiciliari);
che, per queste ragioni, non sarebbe dunque condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora — costituendo una naturale modalità attuativa dell’intercettazione di comunicazioni tra presenti — dovrebbe ritenersi, da un lato, ammessa dalla legge (in particolare, dal comma 2 dell’art. 266 cod. proc. pen.); e, dall’altro lato — in quanto funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti — non lesiva dell’art. 14 Cost.: precetto, quest’ultimo, che andrebbe necessariamente coordinato, al pari di quello dell’art. 15 Cost., con l’anzidetto interesse pubblico, tutelato dall’art. 112 Cost.;
che tale tesi, difatti, non solo si porrebbe in contrasto con la citata ordinanza n. 304 del 2000 di questa Corte, nella quale si precisa che le modalità operative delle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora "non richiedono necessariamente una intrusione arbitraria nel domicilio", giacché la moderna tecnologia offre la possibilità di intercettare conversazioni domestiche con apparecchi collocati all’esterno; ma risulterebbe altresì inaccettabile per la più radicale ragione che qualsiasi captazione di conversazioni nel domicilio, anche se effettuata con apparecchi esterni, configura comunque una lesione dell’inviolabilità domiciliare che deve rispettare i parametri imposti dall’art. 14 Cost., ancorché avvenga per soddisfare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale;
che la Corte rimettente rimarca, da ultimo, come il quesito di costituzionalità sollevato risulti rilevante nel giudizio a quo, giacché dalla sua soluzione dipenderebbe l’utilizzabilità o meno delle intercettazioni ambientali eseguite, e quindi la valutazione delle prove assunte a fondamento della responsabilità degli imputati;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.
Considerato che la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 14 Cost., dell’art. 266, comma 2, cod. proc. pen. e dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, censurando, in specie, che le norme impugnate — nel prevedere l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen. — si limitino a stabilire i "casi" in cui può avvenire la compressione della libertà di domicilio, senza però regolarne i "modi";
che la rilevanza della questione nel giudizio a quo viene motivata dalla Corte rimettente con l’esigenza di stabilire se siano o meno utilizzabili i risultati delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti, eseguite all’interno dell’abitazione di uno degli imputati, sui quali in larga misura si fonda la sentenza di condanna impugnata con ricorso per cassazione;
che, al riguardo, si deve peraltro osservare come — secondo quanto riferito nella stessa ordinanza di rimessione — gli imputati ricorrenti nel giudizio principale abbiano dedotto l’inutilizzabilità dei predetti risultati, non già sulla base di una ‘diretta’ denuncia di incostituzionalità delle norme impugnate, quanto piuttosto sotto il profilo della mancanza di uno specifico provvedimento dell’autorità giudiziaria che autorizzasse l’introduzione nell’abitazione, al fine di collocare le apparecchiature (microspie) utilizzate per la captazione dei colloqui;
che la Corte rimettente, a propria volta, sembrerebbe postulare in modo sufficientemente chiaro che, alla stregua della disciplina vigente, la determinazione delle modalità operative delle c.d. intercettazioni ambientali domiciliari — anche per quanto attiene, dunque, all’ingresso fraudolento o clandestino nel luogo di privata dimora per la collocazione degli apparati di captazione sonora — non resti affidata alla polizia giudiziaria, ma spetti piuttosto al giudice ed al pubblico ministero "nell’ambito delle rispettive competenze di cui agli artt. 267 e 268 cod. proc. pen.": dolendosi invero essa Corte solo del fatto che la determinazione dell’autorità giudiziaria abbia luogo "indipendentemente da qualsiasi parametro normativo" (in sostanza, sarebbe in materia soddisfatta la riserva di giurisdizione posta dall’art. 14, secondo comma, Cost., ma non la riserva di legge);
che, al tempo stesso, il giudice a quo dichiara di dissentire dall’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’ingresso nel domicilio invito domino dovrebbe considerarsi ammesso dalla legge in quanto "naturale modalità attuativa" del mezzo investigativo in parola: orientamento il cui logico corollario è che l’autorizzazione a detto ingresso risulterebbe implicita nello stesso decreto autorizzativo dell’intercettazione; e tale dissenso il rimettente motiva anche con il richiamo alle affermazioni contenute nell’ordinanza n. 304 del 2000 di questa Corte, per cui le modalità operative delle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora "non richiedono necessariamente una intrusione arbitraria nel domicilio";
che, a fronte di quanto precede, manca, però, nell’ordinanza di rimessione una conseguenziale delibazione circa la fondatezza dell’eccezione di inutilizzabilità sopra ricordata, costituente lo specifico oggetto dell’impugnazione sottoposta alla Corte rimettente: delibazione che pure si presentava — segnatamente alla luce delle premesse interpretative dianzi esposte — come logicamente pregiudiziale rispetto alla proposizione dell’incidente di costituzionalità, sul piano della necessaria verifica della sua rilevanza;
che ove infatti fosse vero, da un lato, che l’ingresso invito domino nel domicilio per la collocazione delle apparecchiature presuppone, de iure condito — a pena di inutilizzabilità dei risultati dell’operazione — uno specifico provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria; e, dall’altro lato, che tale provvedimento non è rinvenibile nel caso di specie, la questione di costituzionalità proposta rimarrebbe — nella stessa prospettiva della Corte rimettente, che qualifica come lesiva dello ius excludendi alios l’introduzione nell’abitazione concretamente avutasi nel giudizio a quo — priva di rilievo in tale giudizio: le intercettazioni in contestazione risulterebbero, difatti, comunque inutilizzabili, a prescindere dalla soluzione del quesito;
che la riscontrata assenza di indicazioni sul punto nell’ordinanza di rimessione si risolve, pertanto, in un difetto di motivazione sulla rilevanza, atto a rendere — in conformità della costante giurisprudenza di questa Corte — manifestamente inammissibile la questione sollevata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale e dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, sollevata, in riferimento all’art. 14 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2004.