SENTENZA N.219
ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Riccardo CHIEPPA Presidente
- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Alfio FINOCCHIARO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del 27 gennaio 2000 del Senato della Repubblica relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal sen. Roberto Centaro nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma – Ufficio 16, notificato il 20 novembre 2000, depositato in Cancelleria il 6 dicembre successivo ed iscritto al n. 58 del registro conflitti 2000.
Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica;
udito nell'udienza pubblica del 25 febbraio 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso del 2 giugno 2000, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla deliberazione assunta dalla Assemblea nella seduta del 27 gennaio 2000, con la quale - approvando la proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (Doc. IV-quater, n. 50) – è stato affermato che i fatti per i quali pende procedimento penale a carico del senatore Roberto Centaro, concernono opinioni espresse dal medesimo parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni.
Il ricorrente premette che – a seguito della querela proposta il 17 luglio 1998 dal dott. Giancarlo Caselli – era stato richiesto il rinvio a giudizio del senatore Centaro per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, in relazione alle dichiarazioni rese da quest’ultimo nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma il precedente 9 luglio, unitamente agli onorevoli Filippo Mancuso, Tiziana Maiolo e Gianfranco Micciché; dichiarazioni che, successivamente diffuse da varie agenzie giornalistiche, avevano tratto origine dal rifiuto dei parlamentari del gruppo di “Forza Italia” di partecipare ad un convegno sul riciclaggio, organizzato a Palermo per i giorni immediatamente successivi dalla Commissione parlamentare “antimafia”, della quale il senatore Centaro era componente. Illustrando alla stampa le ragioni di tale rifiuto, esso aveva stigmatizzato l’«intollerabile metodo di indagine con cui la Procura siciliana e di Milano operano nei confronti di Silvio Berlusconi, con una strategia di delegittimazione e di epurazione politica attraverso lo strumento giudiziario...e le indagini di Palermo proprio sul riciclaggio che si fondano su dichiarazioni de relato dimostrano un settarismo di stampo ideologico» (Adnkronos); così offendendo, secondo l’accusa, la reputazione del dott. Giancarlo Caselli, titolare, all’epoca, della Procura della Repubblica di Palermo.
Il ricorrente sottolinea in particolare come la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari avesse motivato la proposta di insindacabilità rilevando che il convegno in questione era stato promosso proprio dalla Commissione parlamentare “antimafia” e costituiva, pertanto, una attività inerente i compiti propri di tale organo; con la conseguenza che la partecipazione ad esso «concretava innegabilmente un’attività parlamentare, e, reciprocamente, la non partecipazione dell’intero gruppo (di “Forza Italia”) esprimeva a sua volta un comportamento rilevante sul piano parlamentare». Tanto più che – aveva pure sottolineato la Giunta – il senatore Centaro, in qualità di responsabile del gruppo di “Forza Italia” in seno alla medesima Commissione parlamentare, aveva precedentemente inviato al Presidente di quest’ultima una lettera, in cui aveva spiegato le ragioni per le quali il gruppo aveva deciso di non partecipare al convegno. Pertanto, concludeva la Giunta, «il comunicare questa decisione al Presidente della Commissione, da parte del responsabile del gruppo che la aveva adottata, integrava un atto di conseguente rilievo istituzionale, compiuto dal soggetto qualificato a realizzarlo»; con la conseguenza che la diffusione di tali ragioni attraverso la conferenza stampa immediatamente successiva, a sua volta, integrava «quella divulgazione della attività parlamentare che, pur non potendo costituire funzione parlamentare in senso tecnico, è a questa legata dal “nesso funzionale” richiesto» dalla giurisprudenza di questa Corte, per ritenere siffatta condotta attratta nell’alveo della garanzia sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Tali conclusioni sono state però contestate dal ricorrente. Esso - facendo leva sulla giurisprudenza, tanto costituzionale che di legittimità - ritiene, contrariamente all’assunto della Giunta, che «la missiva inviata dal senatore Centaro al Presidente della Commissione Antimafia per comunicare la decisione di Forza Italia di non prendere parte al Convegno di Palermo», non possa ritenersi «atto tipico di funzione parlamentare, né presupposto o consequenziale ad un atto tipico». Si tratterebbe, infatti, di un «atto non previsto dai regolamenti parlamentari, che fuoriesce dal campo applicativo del diritto parlamentare per assumere una connotazione ed un contenuto squisitamente politici», al punto che la stessa Giunta lo aveva definito come atto di «rilievo istituzionale», e non come atto funzionale. Conseguentemente – deduce il ricorrente – la riproduzione, in sede di conferenza stampa, del contenuto di tale comunicazione, da parte del senatore Centaro, non costituirebbe «divulgazione di opinione espressa in sede parlamentare»:con l’ovvio corollario di non godere, quindi, della relativa immunità, difettando il presupposto dell’originario esercizio di funzioni parlamentari. Da ciò la proposizione del conflitto in relazione alla deliberazione di insindacabilità, adottata dalla Assemblea del Senato; con la conseguente richiesta di dichiarare la non spettanza del corrispondente potere esercitato da quel ramo del Parlamento, e di annullare l’atto di cui si assume la illegittima adozione.
2. – Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 493 del 2000, ritualmente notificata al Senato della Repubblica, unitamente all’atto introduttivo del ricorso, e successivamente depositata, nei termini, con la prova delle avvenute notificazioni, nella cancelleria di questa Corte.
3. – Nel giudizio si è costituito il Senato della Repubblica – con atto di costituzione, peraltro, depositato fuori termine e deduzioni – concludendo per la reiezione del ricorso proposto.
4. – Nella trattazione del conflitto, questa Corte rilevava che, nell’atto introduttivo, l’autorità giudiziaria aveva espressamente fatto riferimento ad una lettera, con la quale il senatore Centaro aveva comunicato al Presidente della Commissione parlamentare “antimafia” la decisione del gruppo di “Forza Italia” di non partecipare al convegno di Palermo; lettera, la cui controversa natura di atto di esercizio di funzioni parlamentari aveva appunto costituito la premessa giuridica posta a base del conflitto. D’altra parte, di tale documento v’era traccia univoca anche nella relazione che aveva accompagnato il parere espresso dalla Giunta, posto che ad esso l’organo parlamentare aveva fatto espresso riferimento, segnalandone l’avvenuta acquisizione per iniziativa dello stesso parlamentare; quest’ultimo – come puntualizza la relazione – aveva, dopo la sua audizione, «trasmesso alla Giunta la missiva inviata al senatore Del Turco, unitamente ad altri documenti, quali alcune interrogazioni da lui presentate sul tema dei rapporti del mondo politico con l’operato di alcuni uffici giudiziari». Stante, quindi, l’evidente opportunità di acquisire agli atti del presente giudizio copia della lettera in questione, la Corte, con ordinanza istruttoria del 24 aprile 2002, invitava il Senato della Repubblica a trasmettere l’anzidetta documentazione.
5. – A seguito della notificazione della richiamata ordinanza istruttoria, il Presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, con nota pervenuta l’11 maggio 2002, trasmetteva copia della lettera - inviata l’8 luglio 1998 (come da protocollo di ricezione in pari data) dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari - segnalando che detto documento risultava agli atti della medesima Giunta, in quanto trasmesso dallo stesso senatore Centaro con lettera del 13 ottobre 1999.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma solleva conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, in relazione alla deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 27 gennaio 2000: deliberazione con la quale l’Assemblea ha approvato la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (doc. IV-quater, n. 50), di dichiarare che il fatto per il quale pende procedimento penale nei confronti del senatore Roberto Centaro davanti al medesimo Giudice, concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e ricade, pertanto, nell’ipotesi di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Il Giudice ricorrente ha premesso, in fatto, che nei confronti del sen. Centaro era stata formulata richiesta di rinvio a giudizio quale imputato del delitto di diffamazione aggravata a mezzo della stampa, per avere - nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma il 9 luglio 1998, a seguito della mancata partecipazione del gruppo di “Forza Italia” al convegno sul riciclaggio, organizzato a Palermo dalla Commissione parlamentare “antimafia” - rilasciato dichiarazioni, poi diffuse da varie agenzie di stampa, nelle quali si censurava «l’intollerabile metodo di indagine con cui la Procura siciliana e di Milano operano nei confronti di Silvio Berlusconi con una strategia di delegittimazione e di epurazione politica attraverso lo strumento giudiziario...e le indagini di Palermo proprio sul riciclaggio che si fondano su dichiarazioni de relato dimostrano un settarismo di stampo ideologico»; dichiarazioni – puntualizzava l’accusa – con le quali il parlamentare offendeva la reputazione del dott. Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica di Palermo.
Nel merito, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – secondo quanto dedotto dal Giudice ricorrente - aveva motivato la proposta di insindacabilità delle opinioni espresse dal senatore Centaro, rilevando che il convegno di Palermo era stato indetto dalla Commissione parlamentare “antimafia” e, quindi, costituiva una attività inerente i compiti della Commissione stessa; che il senatore Centaro aveva inviato al Presidente della Commissione una lettera, con la quale spiegava le motivazioni della decisione di non prendere parte al convegno, in qualità di responsabile del gruppo di “Forza Italia” in seno alla stessa Commissione; che tale comunicazione era, dunque, un atto di «rilievo istituzionale compiuto dal soggetto qualificato a realizzarlo»; che la comunicazione alla stampa di tale decisione integrava un momento divulgativo, legato da nesso funzionale ad attività parlamentare; che, infine, le dichiarazioni rese dal senatore Centaro, pur se connotate da «asprezza di toni e perentorietà di conclusioni», non travalicavano «i limiti ricostruiti dall’elaborazione giurisprudenziale per il concetto di opinione».
Invece, ad avviso del Giudice ricorrente, la lettera in questione non assumerebbe le caratteristiche di «atto tipico di funzione parlamentare, né presupposto o conseguenziale ad un atto tipico». A parere del ricorrente, infatti, si tratterebbe di un atto «non previsto dai regolamenti parlamentari, che fuoriesce dal campo applicativo del diritto parlamentare per assumere una connotazione ed un contenuto squisitamente politico»; tant’è che la stessa Giunta lo ha definito atto di «rilievo istituzionale», e non atto funzionale. L’avere, quindi, il senatore Centaro esternato agli organi di stampa il contenuto di quella lettera non rappresenterebbe, secondo il Giudice ricorrente, divulgazione di opinione espressa in sede parlamentare, e non godrebbe, pertanto, della relativa immunità: con l’ovvia conseguenza di rendere illegittima la contraria deliberazione adottata dal Senato.
2. – I rilievi svolti dal ricorrente non possono essere condivisi.
In primo luogo, l’attività svolta in seno ad organi parlamentari, quali certamente sono le Commissioni parlamentari di inchiesta, ha l’identica natura di quella svolta nelle altre articolazioni in cui i membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica sono chiamati a svolgere le proprie attribuzioni: la definizione di attività parlamentare – soprattutto agli effetti della garanzia della insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati, a norma dell’art. 68 della Costituzione – non può, infatti, ammettere arbitrarie limitazioni a seconda della “struttura” all’interno della quale le funzioni anzidette vengono ad essere in concreto esercitate. D’altra parte – e proprio con riferimento ad un conflitto promosso dalla autorità giudiziaria, a seguito della mancata trasmissione di atti da parte della Commissione parlamentare “antimafia” – questa Corte non ha mancato di sottolineare che è «compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta … raccogliere notizie e dati necessari per l’esercizio delle funzioni delle Camere; esse … hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo ad adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso. L’attività di inchiesta rientra, insomma, nella più lata nozione della funzione ispettiva delle Camere…» (v. sentenza n. 231 del 1975).
In secondo luogo, rileva non già la configurazione nominalistica degli atti che il singolo parlamentare compia quale componente di una determinata Commissione, ma la riconducibilità di essi allo svolgimento dei relativi lavori: così da esprimere l’esercizio in concreto delle attribuzioni inerenti la qualità rivestita nell’ambito di quell’organo. In tale prospettiva, erra il Giudice ricorrente laddove postula una sorta di automatica equivalenza tra l’atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione parlamentare, giacché la “tipizzazione”, che rileva agli effetti della garanzia di insindacabilità, non è quella che scaturisce dal nomen (valido solo sul piano meramente ricognitivo); ma è quella che, secondo un paradigma di effettività, deriva dalla riconducibilità degli atti all’esercizio delle attribuzioni proprie – anche se attuate in forma “innominata”, sul piano regolamentare – dei componenti i due rami del Parlamento. È l’atto del parlamentare, in sé e per sé considerato – e non necessariamente la sua riconducibilità agli schemi del regolamento parlamentare – a dover presentare quegli indici di riconoscimento della partecipazione ai lavori delle assemblee, delle commissioni e degli altri organi della Camera o del Senato, che valgano a qualificarlo come opinione manifestata nell’esercizio delle funzioni di membro del Parlamento. Solo in questa dimensione l’opinione potrà ritenersi insindacabile, giacché – alla stregua dell’equilibrato sistema di valori tracciato dalla Costituzione – garanzia e funzione sono inscindibilmente legate fra loro da un nesso che, reciprocamente, le definisce e giustifica: soltanto l’effettivo e concreto esercizio delle attribuzioni parlamentari ammette un’area di insindacabilità, a salvaguardia delle prerogative del Parlamento; così come, all’inverso, è solo e nei limiti di tale fondamentale esigenza che opera l’ambito della guarentigia costituzionale.
3. – Emerge, allora, con evidenza, che la lettera inviata dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia – ed acquisita agli atti del presente giudizio a seguito della ordinanza istruttoria di questa Corte – presenta le caratteristiche necessarie per poter essere inquadrata nel novero degli atti di esercizio della funzione parlamentare.
È anzitutto da escludere, infatti, che si trattasse di una comunicazione “privata”, giacché essa è stata indirizzata al presidente dell’organismo parlamentare da un componente dello stesso, nella qualità di rappresentante – e quindi di “portavoce” – del gruppo di “Forza Italia” in seno alla Commissione. Un atto, dunque, del tutto “ufficiale”, protocollato alla ricezione e, come tale, destinato a confluire nella documentazione della attività di quell’organismo, senza che rilevi – come pure sembra implicitamente adombrare il Giudice ricorrente – il carattere asseritamente “interno” che il contenuto di quell’atto eventualmente rivestiva, agli effetti delle relazioni o delle comunicazioni “esterne” che potevano promanare dalla stessa Commissione parlamentare.
Accanto a ciò, la natura dell’atto è confermata dal relativo contenuto, tutto concentrato nell’esprimere le ragioni politiche in forza delle quali il gruppo, nel cui nome il senatore Centaro si esprimeva, aveva deliberato di non partecipare al convegno di Palermo organizzato dalla stessa Commissione parlamentare: una comunicazione, dunque, inerente ai lavori “istituzionali” di quell’organo, inserita in un preciso contesto cronologico unitario (fra l’invio della lettera, la divulgazione nel giorno successivo, lo svolgimento del convegno in quest’ultima data); rispetto ad essa, il contenuto “politico” rappresentava null’altro che l’aspetto argomentativo sul quale era articolata “l’opinione” in forza della quale un gruppo di parlamentari, appartenenti alla Commissione, aveva reputato di astenersi dal partecipare ad una attività d’istituto.
Contrariamente all’assunto del ricorrente, non necessariamente l’atto «che assume una connotazione ed un contenuto squisitamente politico» perde per ciò stesso la natura parlamentare, giacché ciò che rileva è l’ambito funzionale entro cui l’atto si iscrive: se esso promana da una “fonte” parlamentare e si manifesta come esercizio delle attribuzioni proprie di quella funzione, è evidente che il suo contenuto comunicativo – abbia o meno risalto politico, tecnico o di altra natura – non presenta in sé aspetti significativi o dirimenti agli effetti dello scrutinio relativo alla applicabilità della garanzia sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione. Ne deriva che, pur tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano la comunicazione rivolta dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare “antimafia” – peculiarità essenzialmente riconducibili allo specifico contesto da cui quella comunicazione ha tratto causa ed origine - non è dubitabile che essa rivesta i caratteri dell’atto compiuto nell’esercizio delle funzioni parlamentari; sono pertanto insindacabili le successive dichiarazioni rese alla stampa, posto che in tale occasione il senatore Centaro si è nella sostanza limitato a riprodurre subito dopo – e, quindi, legittimamente a divulgare – il contenuto della più volte citata comunicazione. Il conflitto proposto nei confronti del Senato della Repubblica deve, dunque, risolversi in favore di quest’ultimo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che spetta al Senato della Repubblica affermare l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle dichiarazioni espresse dal senatore Roberto Centaro, secondo quanto deliberato dalla Assemblea del Senato in data 27 gennaio 2000.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2003.