SENTENZA N. 161
ANNO 2004
Commenti alla decisione di
I. Luca Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte
di giustizia e Corte costituzionale italiana (passando attraverso i principi
supremi dell’ordinamento costituzionale…) (dal sito di Consulta Online)
II. Nicola Mazzacuva,
A proposito di
‘interpretazione creativa’ tra diritto penale, principi costituzionali e
direttive comunitarie (dal sito di Consulta OnLine)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori
Giudici:
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfonso QUARANTA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come sostituiti
dall’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli
illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma
dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); dell’art. 1 del d.lgs. 11
aprile 2002, n. 61, e dell’art. 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega
al Governo per la riforma del diritto societario); dell’art. 11, comma 1, lettera a),
numero 1, della legge 3 ottobre 2001, n. 366, e dell’art. 2621, terzo e quarto
comma, del codice civile, come sostituito dall’art. 1 del d.lgs. 11 aprile
2002, n. 61, promossi con ordinanze del 19 settembre 2002 del Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Forlì, dell’11 dicembre 2002 del
Tribunale di Melfi e del 12 febbraio 2003 del Tribunale di Milano,
rispettivamente iscritte al n. 535 del registro ordinanze 2002 e ai nn. 171 e 400 del registro ordinanze 2003 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 50, 1a serie speciale, dell’anno 2002 e nn. 14 e 26, 1a
serie speciale, dell’anno 2003.
Visti gli atti
di costituzione di G. F., U. L. e A. Z. nonché gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 9 marzo 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria
Flick;
uditi gli
avvocati Lucio Lucia e Vittorio Virga per G.F., Giorgio Pirroni per U. L.,
Edda Gandossi e Alessandro Sammarco
per A. Z. e l’ avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.1. — Con l’ordinanza indicata in epigrafe
il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, primo
comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, degli artt. 2621 e 2622 del
codice civile, come sostituiti dall’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile
2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le
società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n.
366).
Il giudice a quo premette, in punto di
fatto, che il 4 maggio 2001 l’erede legittimo del socio di una società in nome
collettivo, deceduto ab intestato, aveva sporto
«denuncia-querela» nei confronti del fratello — coerede e «gestore» della
predetta società — lamentando che questi, investito della richiesta di
liquidazione della propria quota, gli aveva offerto una somma del tutto
inadeguata rispetto al reale valore dell’azienda sociale. Il denunciante aveva
dedotto, altresì, che la «situazione patrimoniale societaria» presentata dal
denunciato «alla Confartigianato di Cesenatico, per la redazione del bilancio
al 31 dicembre 1999», esponeva dati assai diversi da quelli risultanti dalla
dichiarazione di successione presentata dal medesimo ad un notaio.
Instaurato un procedimento penale nei
confronti del denunciato per i reati di tentata truffa (artt. 56 e 640 cod. pen.) e false comunicazioni sociali (art. 2621 cod. civ.),
il pubblico ministero, all’esito delle indagini, aveva formulato richiesta di
archiviazione, non accolta tuttavia dal giudice rimettente, che aveva
conseguentemente fissato udienza in camera in consiglio.
Essendo nelle more sopravvenuto il
d.lgs. n. 61 del 2002, modificativo delle disposizioni penali in materia di
società, il denunciante aveva proposto, in base alla disposizione transitoria
di cui all’art. 5 del medesimo decreto legislativo, querela in ordine al reato
di cui al nuovo art. 2622 cod. civ.: querela che il rimettente ritiene tuttavia
priva di ogni effetto per mancata osservanza delle forme prescritte a pena di
nullità dagli artt. 333 e 337 cod. proc. pen., ed in
particolare perché presentata — sia quanto al testo che quanto alla
sottoscrizione del querelante e del suo difensore — in copia fotostatica.
Irregolarità, questa, che ad avviso del giudice a quo non potrebbe considerarsi sanata dal successivo «atto di
ratifica», redatto in calce e sottoscritto da un ufficiale di polizia
giudiziaria e dal querelante, nel quale pure si conferma il contenuto della
querela: e ciò sia perché tale conferma esulerebbe dai poteri accertativi del
pubblico ufficiale che riceve la querela, il quale sarebbe chiamato unicamente
a stabilire l’identità del querelante; sia perché la sottoscrizione del verbale
di ratifica da parte di quest’ultimo non potrebbe essere riferita al contenuto
della querela, in quanto posta in calce ad altro atto; sia, infine, perché la
ratifica potrebbe sanare un atto viziato, ma non un atto inesistente, quale
sarebbe quello mancante di sottoscrizione.
Posto, quindi, che il fatto di false
comunicazioni sociali ascritto alla persona sottoposta alle indagini, di cui
all’originario art. 2621 cod. civ., risulterebbe attualmente riconducibile alle
due distinte ipotesi criminose — di natura rispettivamente contravvenzionale e
delittuosa — previste dai nuovi artt. 2621 e 2622 dello stesso codice (come
sostituiti dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002), il giudice a quo conclude che in ordine all’ipotesi
delittuosa di cui all’art. 2622 cod. civ. dovrebbe essere disposta, allo stato,
l’archiviazione per difetto di querela; mentre la fattispecie di cui all’art.
2621 cod. civ. (perseguibile d’ufficio), anche in caso di rigetto della
richiesta di archiviazione e di «imputazione coatta», dovrebbe essere
«considerata secondo la sua nuova natura contravvenzionale», con ogni conseguenza
anche in ordine ai termini di prescrizione.
Ad avviso del rimettente, peraltro, i
citati artt. 2621 e 2622 cod. civ. dovrebbero considerarsi costituzionalmente
illegittimi sotto plurimi profili.
Premesso che le ipotesi criminose
previste dalle norme denunciate integrerebbero una «fattispecie a formazione
progressiva» — venendo punita, nell’un caso, la «dichiarazione infedele», e
nell’altro «la dichiarazione infedele a cui consegua un danno specifico e
concreto per singoli soci e creditori» — il giudice a quo assume, anzitutto, che il «combinato disposto» delle due
norme violerebbe l’art. 3 Cost., in rapporto alla diversità delle «risposte
repressive» da esse rispettivamente contemplate: una diversità tale da
implicare addirittura il passaggio da un illecito contravvenzionale ad altro di
natura delittuosa, con conseguente esclusione della punibilità della forma
tentata del reato di cui all’art. 2621 cod. civ. L’identità del dolo specifico
che caratterizza le due fattispecie — costituito dall’intenzione di ingannare i
soci o il pubblico e dal fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto
profitto — renderebbe infatti irragionevole tale sperequazione; né varrebbe, in
contrario, il rilievo che l’evento di danno, costitutivo dell’ipotesi
delittuosa, deve riflettersi nella relativa componente psicologica, dato che
l’elemento differenziale si esaurirebbe nella rappresentazione — anche in
termini di mera accettazione del rischio, ossia di dolo eventuale — di un danno
causato a terzi (soci e creditori) quale conseguenza di una «primaria e diversa
volontà di base», comune alle due ipotesi (la frode in danno dei soci o del
pubblico).
La natura contravvenzionale del reato
previsto dall’art. 2621 cod. civ. risulterebbe, inoltre, in sé e per sé, del
tutto inadeguata rispetto alle caratteristiche oggettive e soggettive del fatto
incriminato, e perciò contrastante con la funzione rieducativa della pena,
sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., la quale implica che la sanzione
penale debba essere ragionevolmente proporzionata ai fatti riconducibili allo
specifico paradigma punitivo. In via di principio, infatti, il modello della
contravvenzione è indicativo della «parvitas materiae» e implica la punibilità anche a titolo di
semplice colpa: donde la sua incoerenza con una figura criminosa, quale quella
delle false comunicazioni sociali, che, sul piano oggettivo, si traduce — alla
luce di una consolidata giurisprudenza di legittimità, formatasi in rapporto al
vecchio testo della norma incriminatrice — in un
fatto «altamente lesivo di un bene pubblico», quale la «trasparenza del
mercato, fattore primario e fondante di una moderna società liberale»; e, sul
piano soggettivo, lungi dall’essere punibile indifferentemente a titolo di dolo
o di colpa, richiede il dolo nella sua forma più intensa (il dolo specifico).
La natura contravvenzionale del reato
di cui all’art. 2621 cod. civ. risulterebbe peraltro lesiva anche del principio
di uguaglianza, sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, essa
implicherebbe una irragionevole disparità di trattamento delle false
comunicazioni sociali rispetto ad altri reati di frode lesivi del medesimo
interesse alla trasparenza del mercato, quali, in specie, i reati di
aggiotaggio «comune» (art. 501 cod. pen.) e
«speciale» (art. 2637 cod. civ., come sostituito dal d.lgs. n. 61 del 2002),
configurati come delitti e puniti con la pena della reclusione fino ad un
massimo, rispettivamente, di tre e cinque anni. Dall’altro lato, la natura
contravvenzionale dell’illecito renderebbe non più perseguibile, ai sensi degli
artt. 9 e 10 cod. pen., la falsità ex art. 2621 cod. civ. commessa
all’estero: con la conseguenza che, nel caso di bilanci consolidati di gruppi
di società con ramificazioni internazionali, il falso consumato in una società
controllata avente sede all’estero — ma i cui effetti lesivi dell’interesse
pubblico alla trasparenza del mercato «si determinano, identicamente, nel
bilancio della controllante italiana», e quindi nel territorio dello Stato —
resterebbe «inopinatamente» esente da pena, a differenza di tutti gli altri
falsi in bilancio «non ‘viziati’ ab origine in
questo modo».
Il rimettente dubita, altresì, della
legittimità costituzionale dell’art. 2622 cod. civ., nella parte in cui prevede
la perseguibilità a querela per il reato di "falso con danno” da esso
delineato. La circostanza che tale reato postuli la lesione di interessi
patrimoniali di singoli soci o creditori non escluderebbe, infatti, la sua
natura «ontologicamente plurioffensiva», giacché
detta lesione discenderebbe «imprescindibilmente» dalla pregressa offesa di un
interesse diffuso e indisponibile, quale quello alla trasparenza del mercato:
interesse peraltro evocato in modo esplicito dalla norma incriminatrice,
allorché richiede l’intento dell’agente di ingannare il pubblico.
In aggiunta a ciò, i soggetti
legittimati alla proposizione della querela si troverebbero in concreto nella
impossibilità di esercitare il relativo diritto, non disponendo di strumenti
per verificare la sussistenza della falsità integratrice del reato. I soci
potrebbero infatti prendere visione del bilancio, unitamente ai suoi allegati,
dopo che questo è depositato, ma senza poter conoscere le modalità ed i
passaggi della sua redazione. Non varrebbero a tal fine strumenti come il
diritto di consultazione riconosciuto dall’originario art. 2489 cod. civ. ai
soci di società a responsabilità limitata (circoscritto, per costante
giurisprudenza, ai soli libri contabili, senza estendersi alle altre
scritture); o come la facoltà, prevista dallo stesso articolo, di chiedere la
revisione della gestione (accordata — al pari di quella di denuncia al
tribunale ex art. 2409 cod. civ. — ad
una minoranza qualificata, e non anche al socio uti singulus); ovvero ancora come la
presenza del collegio sindacale (organo che, quando esiste, è normalmente
espressione della maggioranza, e non potendo comunque ipotizzarsi, per il socio
titolare del diritto di querela, un onere di ricognizione «mediata»
dall’intervento dei sindaci); mentre, poi, i creditori sociali risulterebbero
privi anche delle limitate facoltà di accesso riconosciute ai soci. In
quest’ottica, il regime di perseguibilità a querela finirebbe per condurre, pur
in presenza della lesione di un preminente interesse pubblico, alla sostanziale
impunità degli autori del falso, con conseguente violazione degli artt. 24,
primo comma, e 3 Cost.
La stessa procedibilità d’ufficio,
prevista dall’art. 2622 cod. civ. con riferimento alle società quotate,
risulterebbe d’altro canto «illusoria» e foriera di possibili disparità di
trattamento, avuto riguardo al caso in cui la società quotata sia una holding che controlla società non
quotate. Alla stregua, infatti, di quanto affermato dalla giurisprudenza di
legittimità, gli amministratori della società controllante non risponderebbero
penalmente della falsità del bilancio consolidato, ove questa derivi da dati
contabili contenuti nei bilanci delle società controllate, non essendo titolari
di alcun potere di accertamento sulla veridicità dei dati trasmessi dalla
società del gruppo: onde la falsità del bilancio consolidato di società
quotate, che derivi da falsità dei bilanci di società controllate non quotate,
non sarebbe, in realtà, perseguibile d’ufficio.
Da ultimo, il rimettente osserva come
il regime di perseguibilità a querela si presenti irragionevole e lesivo del
principio di uguaglianza anche in rapporto all’istituto della remissione. Posto
che fra le ipotesi criminose previste dagli artt. 2621 e 2622 cod. civ. sarebbe
ravvisabile — anche alla luce della clausola di salvezza con cui la prima delle
due norme esordisce — un rapporto di specialità, la remissione della querela
per il reato di cui all’art. 2622 cod. civ. escluderebbe, per il suo effetto
estintivo, anche la configurabilità del reato di cui all’art. 2621 cod. civ.;
con la conseguenza che ragioni transattive di natura privata verrebbero a
prevalere su un interesse pubblico comunque tutelato dall’ordinamento tramite
il citato art. 2621 cod. civ.: in sostanza, l’iniziativa conciliatoria del
singolo «danneggiato patrimoniale» precluderebbe la tutela diffusa degli
«ingannati».
1.2. — Nel giudizio di
costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
Ad avviso della difesa erariale, la
questione sarebbe irrilevante nel giudizio a
quo, quantomeno con riferimento all’art. 2622 cod. civ., in quanto la
dichiarata nullità della querela — proposta per il nuovo reato di cui al citato
articolo — impedirebbe al giudice rimettente ogni possibile giudizio.
Nel merito, la diversa configurazione
dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. — contravvenzione l’uno,
delitto l’altro — non potrebbe essere ritenuta contrastante con l’art. 3 Cost.
sul solo rilievo dell’identità del dolo specifico che connota le due
fattispecie, in quanto tale assunto presupporrebbe la possibilità di
confrontare il dolo specifico richiesto da norme incriminatrici
«in modo assoluto ed astratto», isolandolo dagli altri elementi delle
fattispecie.
Né potrebbe ventilarsi il contrasto
del nuovo art. 2621 cod. civ. con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., sotto
il profilo della proporzionalità della sanzione, facendo leva sulla pregressa
giurisprudenza della Corte di cassazione in ordine all’oggettività giuridica
della fattispecie, dovendo essere riconosciuta al legislatore ordinario la
facoltà di una «diversa graduazione» dell’interesse protetto rispetto alla
legge precedente.
Il medesimo rilievo impedirebbe di
ravvisare nel regime di perseguibilità a querela del reato di cui all’art. 2622
cod. civ. una violazione dell’art. 24, primo comma, Cost.: e ciò a prescindere
dalla considerazione che il giudice a quo,
identificando nella previsione di una condizione di procedibilità un
impedimento alla tutela in giudizio di diritti soggettivi o interessi
legittimi, confonderebbe la garanzia costituzionale inerente a tale tutela con
l’obbligatorietà dell’azione penale, prevista da altra norma costituzionale,
della quale è titolare il pubblico ministero.
2.1. — Con l’ordinanza indicata in
epigrafe il Tribunale di Melfi ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto
legislativo 11 aprile 2002, n. 61 e dell’art. 11 della legge 3 ottobre 2001, n.
366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), nella parte in
cui hanno modificato il termine di prescrizione del reato di false
comunicazioni sociali previsto dalle norme vigenti anteriormente alla riforma.
Il giudice a quo premette di essere investito, a seguito di decreto del
giudice dell’udienza preliminare del 28 giugno 2000, del processo nei confronti
di persone imputate del reato di false comunicazioni sociali di cui
all’originario art. 2621 cod. civ., relativamente a fatto commesso negli anni
1993-1994.
L’originario art. 2621 cod. civ.
configurava le false comunicazioni sociali come delitto perseguibile d’ufficio,
punendolo con la pena della reclusione da uno a cinque anni, oltre la multa:
sicché, ai sensi degli artt. 157 e 160 cod. pen., il
termine di prescrizione del reato era di dieci anni, prolungabili fino a
quindici in presenza di cause di interruzione.
Il d.lgs. n. 61 del
A fronte di ciò, il fatto contestato
agli imputati — riconducibile al nuovo art. 2621 cod. civ. (che si porrebbe in
indiscutibile rapporto di successione rispetto alla vecchia fattispecie) —
risulterebbe dunque prescritto, a differenza di quanto avverrebbe ove si
applicasse il termine di prescrizione originario.
Il rimettente ritiene, tuttavia, che
la modifica del termine prescrizionale operata dalle norme impugnate, in
combinato disposto con gli artt. 157 e 160 cod. pen.,
si ponga in contrasto con il parametro costituzionale della razionalità.
Al riguardo, il giudice a quo osserva preliminarmente, sul piano
dell’ammissibilità della questione, come la più recente giurisprudenza di
questa Corte abbia ammesso la possibilità di un sindacato di costituzionalità
sulle norme penali di favore, pur a fronte del principio di irretroattività
della legge penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., ritenendo che —
fermo il divieto di sottoporre a pena (o a pena più grave) fatti disciplinati
in modo più favorevole al momento della commissione — il requisito della
rilevanza della questione sussista ogni qualvolta dalla decisione possano
comunque derivare effetti giuridici (in specie, sulla formula di
proscioglimento o sulla base normativa della pronuncia del giudice a quo). La stessa giurisprudenza
costituzionale, d’altro canto, nell’affermare che l’art. 25 Cost. attribuisce
in via in esclusiva al legislatore il potere di creare e modificare le
fattispecie penali, precludendo alla Corte qualunque pronuncia manipolativa di
queste ultime, avrebbe tuttavia sempre riconosciuto l’ammissibilità del
sindacato quando si tratti di verificare il rispetto del principio di
uguaglianza, nonché la razionalità della norma.
La questione di costituzionalità —
che non attiene alla natura ed all’entità della pena, ma esclusivamente al
termine di prescrizione — dovrebbe pertanto considerarsi ammissibile:
giacché, da un lato, essa inerisce alla razionalità della norma impugnata; e,
dall’altro, non implicherebbe comunque una applicazione retroattiva in senso
sfavorevole della fattispecie incriminatrice, ma
soltanto — essendo il fatto oggetto di giudizio anteriore all’entrata in vigore
della norma modificativa — l’assoggettamento dello stesso al termine di
prescrizione già previsto al momento della sua commissione (la situazione, per
tale aspetto, sarebbe perfettamente analoga a quella conseguente alla mancata
conversione di decreti-legge contenenti norme penali di favore).
Quanto, poi, alla non manifesta
infondatezza della questione, il rimettente assume che l’attuale termine di
prescrizione del reato di false comunicazioni sociali non produttive di danno
patrimoniale ai soci o ai creditori, di cui all’art. 2621 cod. civ.,
risulterebbe palesemente irrazionale, in quanto — in contraddizione con la
stessa scelta legislativa di prevedere la punibilità di una determinata
condotta — assicurerebbe di fatto l’impunità della medesima.
In proposito, si dovrebbe infatti
considerare che tra il momento di commissione del reato in esame (da cui inizia
a decorrere il termine prescrizionale) e quello in cui la relativa notizia
perviene all’autorità intercorre, di solito (come, del resto, nel caso oggetto
del giudizio a quo), un considerevole
lasso temporale; che l’accertamento dell’elemento oggettivo dell’illecito è
difficile e complesso (collegandosi a violazioni di tipo contabile ed economico
e richiedendo, normalmente, l’esame di una massa notevole di documenti, spesso
di non facile reperimento); che altrettanto complesso è l’accertamento
dell’elemento soggettivo, il quale, a differenza delle altre ipotesi contravvenzionali, implica un «particolarissimo dolo
specifico intenzionale»; che, sempre a differenza delle altre contravvenzioni,
l’art. 33-bis cod. proc. pen. attribuisce la cognizione del reato al collegio (meno
"agile” del giudice monocratico), con conseguente necessità di passaggio
attraverso il «filtro» dell’udienza preliminare (udienza resa dalle recenti
riforme particolarmente articolata); che, infine, il nostro sistema processuale
contempla tre gradi di giurisdizione ed una fase dibattimentale la quale, in
quanto ispirata ai principi accusatori, si presenta anch’essa particolarmente
complessa ed articolata.
In una simile situazione, il processo
per il reato in parola sarebbe quindi destinato a concludersi
"fisiologicamente” — anche a prescindere, cioè, da situazioni contingenti che
limitino l’«efficienza» del singolo ufficio giudiziario — con una declaratoria
di estinzione del reato per prescrizione.
Se, d’altra parte, la determinazione
dei termini di prescrizione dei singoli reati è materia oggetto di ampia
discrezionalità legislativa, tale discrezionalità non potrebbe spingersi
tuttavia fino al punto di stabilire, irrazionalmente, un termine che impedisca a priori di definire il processo in
tempo utile. Sotto questo profilo, la scelta censurata comporterebbe sia una
irragionevole disparità di trattamento della fattispecie criminosa considerata
rispetto al complesso degli altri fatti cui il legislatore ha attribuito
rilevanza penale, stabilendo però un termine di prescrizione che non esclude la
possibilità di definire il processo prima dell’estinzione del reato; sia una
altrettanto irragionevole equiparazione della fattispecie stessa all’insieme
delle contravvenzioni punite con l’arresto, la quale non tiene conto delle
peculiarità — segnatamente in punto di elemento soggettivo e di cognizione collegiale,
con necessaria celebrazione dell’udienza preliminare — che allungano la durata
dei processi per il reato in parola.
A tale ultimo proposito, il
rimettente indica come specifico termine di raffronto l’abrogato art. 9 del
decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione
in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la
definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con
modificazioni, in legge 7 agosto 1982, n. 516, che, in deroga all’art. 157 cod.
pen., prevedeva un termine di prescrizione di sette
anni per alcune contravvenzioni in materia tributaria: e ciò proprio in
considerazione della complessità delle indagini contabili ed economiche — peraltro analoghe a quelle richieste dal reato
di cui all’art. 2621 cod. civ. — necessarie ai fini dell’accertamento delle
violazioni. Tale ratio troverebbe
conferma nella successiva riforma della materia operata dal d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205):
infatti il legislatore, da un lato, nel riformulare le fattispecie contravvenzionali tributarie non abrogate, le ha
trasformate in delitti; e, dall’altro, ha eliminato la deroga all’art. 157 cod.
pen., in quanto il più ampio termine di prescrizione,
conseguente a tale qualificazione, risultava già di per sé idoneo a soddisfare
le esigenze connesse alle difficoltà di accertamento.
Non si comprenderebbe, pertanto, perché
il legislatore, a fronte di fattispecie che presentano analoghe difficoltà di
accertamento, in un caso (contravvenzioni tributarie) ne abbia tenuto
adeguatamente conto nel fissare i termini di prescrizione; ed in un altro caso
(contravvenzione di cui all’art. 2621 cod. civ.) le abbia invece totalmente
trascurate.
2.2. — Nel giudizio di
costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
La difesa erariale rileva,
preliminarmente, che in sede di sindacato sulla ragionevolezza dell’esercizio
della discrezionalità legislativa non è possibile invocare genericamente delle
alternative alla scelta attuata dal legislatore, poiché, così facendo, si
invade il campo della discrezionalità riservata ad esso; occorre, invece,
dimostrare che detta scelta è incoerente rispetto al sistema in cui si
inserisce. Sotto questo profilo, peraltro, il tertium comparationis invocato dal giudice
rimettente — costituito dallo speciale regime della prescrizione previsto per
le contravvenzioni tributarie dall’art. 9 del d.l. n. 429 del 1982, convertito,
con modificazioni, in legge n. 516 del 1982 — sarebbe «del tutto inutilizzabile»,
dato che il citato art. 9 risulta ormai abrogato dall’art. 25 del d.lgs. n. 74
del 2000. Per un verso, infatti, una norma abrogata non potrebbe essere
utilmente invocata come tertium comparationis,
al fine di desumerne la violazione del principio di uguaglianza, ad opera di
una norma vigente; e, per un altro verso, a seguito del d.lgs. n. 74 del 2000,
nel nuovo sistema dei reati tributari non compare più alcuna deroga alla
disciplina ordinaria della prescrizione, onde, sotto questo profilo, i due
sistemi posti a confronto risultano, allo stato, assolutamente omogenei.
D’altro canto, l’argomento sul quale
si fonda la denuncia di irragionevolezza della scelta legislativa formulata dal
giudice a quo — ossia la complessità
dell’accertamento del reato, la quale implicherebbe la necessità di prevedere
una prescrizione più lunga di quella ordinaria — sarebbe confutabile sia in
linea di principio che in linea di fatto.
Sotto il primo profilo, l’istituto
della prescrizione rappresenterebbe attuazione del diritto del cittadino
sottoposto a procedimento penale — in rapporto al quale è prevista dall’art.
27, secondo comma, Cost. la presunzione di non colpevolezza — ad essere
giudicato in un tempo ragionevole: diritto garantito tanto dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo che dal novellato art. 111 Cost., nella parte in
cui sancisce il principio della ragionevole durata del processo. In questa
prospettiva, l’applicazione ad una nuova fattispecie di reato del termine
ordinario di prescrizione costituisce dunque la regola, mentre la previsione di
un termine speciale rappresenterebbe l’eccezione: e sarebbe semmai l’eccezione
— non già la regola — a dover essere giustificata dal legislatore in termini di
ragionevolezza.
Sul piano concreto, poi, è proprio
seguendo il ragionamento del giudice a
quo che si perverrebbe a conseguenze di dubbia costituzionalità. La
complessità dell’accertamento dei reati e la lentezza dei relativi processi non
basterebbero, difatti, a giustificare una deroga al regime ordinario, non
potendo considerarsi ragionevole la scelta di un legislatore che — anziché
introdurre norme che accelerino i processi, in accordo con i principi enunciati
negli accordi internazionali e nella stessa Costituzione — operasse viceversa
nel senso di allungare i termini di prescrizione, dilatando così indirettamente
la durata dei procedimenti giudiziari.
3.1. — Con l’ordinanza in epigrafe il
Tribunale di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art.
11, comma 1, lettera a), numero 1),
della legge 3 ottobre 2001, n.366, nella parte in cui — nel dettare i principi
e criteri direttivi per la riforma della disciplina penale delle società
commerciali, oggetto di delega legislativa al Governo — prescrive di precisare,
quanto alla nuova formulazione del reato di false comunicazioni sociali, «che
le informazioni false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare
sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e
finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, anche
attraverso la previsione di soglie quantitative»; nonché nella parte in cui
prescrive, agli stessi fini, di «prevedere idonei parametri per i casi di
valutazioni estimative», per violazione dell’art. 76 della Costituzione;
b) dell’art.
2621, terzo e quarto comma, del codice civile, come modificato dal d.lgs. n. 61
del 2002 — che dà attuazione ai criteri di delega dianzi indicati — per
violazione degli artt. 3, 25, 76 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 8 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di
pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta
a Parigi il 17 dicembre 1997 e ratificata con legge 29 settembre 2000, n. 300.
L’ordinanza osserva, in via
preliminare, come i quesiti di costituzionalità sollevati — inerenti alle
«soglie di punibilità» che caratterizzano la nuova disciplina delle false
comunicazioni sociali — debbano considerarsi ammissibili alla luce della
giurisprudenza di questa Corte. Secondo quest’ultima, infatti, sarebbe
possibile sottoporre a sindacato di costituzionalità, anche in malam partem, le «norme penali di favore» — ossia le norme
che abbiano l’effetto di escludere o attenuare la responsabilità penale in favore dell’agente — dato che l’invalidazione
di tali disposizioni non determina la configurazione di nuove fattispecie
penali, ma si limita a ricondurre alle norme penali comuni casi che la
disposizione impugnata vi abbia, in ipotesi, arbitrariamente sottratto. Tale
sarebbe, appunto, l’effetto della caducazione delle
soglie di punibilità censurate, la quale, senza creare alcuna nuova norma
penale, varrebbe soltanto a riportare le falsità rimaste al di sotto delle
soglie nell’ambito della «norma generale» di cui allo stesso art. 2621 cod.
civ.
Le questioni sarebbero inoltre
rilevanti nel giudizio a quo, in
quanto il pubblico ministero — nel riformulare l’originaria imputazione per
adeguarla alle sopravvenute modifiche legislative, riconducendola dapprima
all’ipotesi di cui all’art. 2622 cod. civ. e poi, preso atto della mancanza di
querela, a quella dell’art. 2621 cod. civ. — non ha contestato il superamento
delle soglie: circostanza che, d’altra parte, non potrebbe neppure reputarsi
contestata implicitamente, stante il tenore delle imputazioni che, «attribuendo
il valore delle omissioni oggetto del reato a più annualità, non consente,
tramite il raffronto con i bilanci, di considerare all’evidenza superate le
soglie in relazione alle singole annualità».
In simile situazione, l’accoglimento
delle questioni inciderebbe dunque sulla formula di proscioglimento che il
Tribunale rimettente è chiamato ad adottare. Infatti, sulla base dell’attuale
normativa, proprio a fronte della mancata contestazione di uno degli «elementi
costitutivi» della fattispecie (il superamento delle soglie), gli imputati
dovrebbero essere prosciolti perché il fatto non è più previsto dalla legge
come reato; invece, nel caso di abolizione delle soglie, andrebbe dichiarata la
prescrizione del reato contravvenzionale contestato. Tale differenza, alla
stregua di quanto affermato da questa Corte con sentenza n. 148 del 1983,
varrebbe senz’altro ad integrare il requisito della rilevanza.
Quanto alla non manifesta infondatezza
delle questioni, il giudice a quo
osserva che l’art. 11, comma 1, lettera a),
numero 1), della legge di delegazione legislativa n. 366 del 2001 dava mandato
all’esecutivo di precisare, in sede di revisione della fattispecie criminosa
delle false comunicazioni sociali, che «le informazioni false od omesse devono
essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della
situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al
quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie quantitative»;
nonché di «prevedere idonei parametri per i casi di valutazioni estimative». A
fronte di tale criterio direttivo, il decreto legislativo n. 61 del 2002, nel
riformulare gli artt. 2621 e 2622 cod. civ., ha quindi escluso la punibilità
sia «se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la
rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della
società», e comunque «se le falsità o le omissioni determinano una variazione
del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al
5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1 per
cento»; sia, in ogni caso, quando il fatto è «conseguenza di valutazioni
estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore
al 10 per cento da quella corretta».
Ad avviso del giudice a quo, la previsione che subordina la sussistenza del reato ad una
alterazione «sensibile» della realtà — previsione contenuta tanto nella legge
delega che nel decreto legislativo — contrasterebbe, per la sua
indeterminatezza, con i principi di tassatività e di uguaglianza, sanciti dagli
artt. 25 e 3 Cost. La formula normativa risulterebbe, infatti, talmente
«astratta» che non sarebbe possibile attribuirle un contenuto «oggettivo,
coerente e razionale»: sicché, da un lato, essa lascerebbe al giudice il
compito, «svincolato da ogni parametro prefissato», di darle «concretezza»; e,
dall’altro lato, proprio per l’inevitabile arbitrarietà di simile operazione,
aprirebbe la via a contrastanti soluzioni giurisprudenziali.
Quanto poi all’introduzione delle
soglie numeriche, la formulazione della legge delega risulterebbe — tanto con
riferimento alle falsità e alle omissioni, che in relazione alle valutazioni —
così generica da tradursi in una delega «in bianco», lesiva come tale del
precetto costituzionale dell’art. 76 Cost., alla luce della cui corretta
lettura la legge di delegazione legislativa deve contenere principi e criteri
direttivi effettivamente idonei ad orientare l’attività normativa del Governo.
La previsione di generiche «soglie quantitative», senza alcun parametro di
riferimento, non sarebbe infatti idonea ad indirizzare in alcun modo l’attività
normativa del legislatore delegato, il cui ambito di intervento risulterebbe
pertanto sganciato da ogni criterio prestabilito.
La determinazione delle soglie
contenuta nel decreto legislativo, d’altro canto, «proprio in quanto esulante
dalla previsione della legge delega», violerebbe anche il principio della
riserva assoluta di legge, di cui agli artt. 25, secondo comma, e 76 Cost., in
base al quale resterebbe esclusa la possibilità che decreti governativi
integrino il contenuto precettivo della norma penale in mancanza di direttrici
fissate nella legge delega.
Il legislatore delegato, inoltre,
avrebbe attuato l’indicazione «vaga e generica» della legge delega procedendo
alla «tipizzazione» delle soglie e spingendosi sino alla previsione di soglie
percentuali, senza peraltro fornire alcuna spiegazione della scelta, se non in
rapporto alla soglia del cinque per cento del risultato di esercizio. La
giustificazione al riguardo addotta — consistente nel richiamo al criterio in
assunto ritenuto corretto dalla Security
and Exchange Commission degli Stati Uniti —
risulterebbe peraltro «non veritiera», in quanto detta Autorità non solo non
avrebbe avallato quel margine di tolleranza, seguito per prassi da alcune
società di revisione nel sindacato sulle valutazioni di bilancio (e comunque
escluso per le ipotesi di frode); ma lo avrebbe anzi fatto oggetto di specifica
censura, giudicando irragionevole e contrastante con il diritto statunitense la
pretesa di subordinare la rilevanza delle falsità di bilancio al superamento di
soglie quantitative prefissate.
In ordine alle valutazioni, d’altro
canto, la relazione al d.lgs. n. 61 del
La scelta adottata, in punto di
parametrazione delle soglie di punibilità, risulterebbe in ogni caso arbitraria
e contrastante con il canone di ragionevolezza: infatti, a fronte della finalità
— che pure la relazione governativa assegna alla figura criminosa in
questione — di «salvaguardare quella fiducia che deve poter essere riposta da
parte dei destinatari nella veridicità dei bilanci e delle comunicazioni
dell’impresa organizzata in forma societaria», verrebbero privati di rilievo
penale, tramite il meccanismo delle soglie, fatti suscettibili di pregiudicare
gravemente la capacità informativa delle comunicazioni sociali. Risultati
finali apparentemente corretti potrebbero essere difatti frutto di
falsificazioni di poste che sono superiori di per sé alla «franchigia»
prevista, ma si neutralizzano reciprocamente: con la conseguenza che la
sanzione penale resterebbe esclusa pure a fronte di falsità di rilevanti
proporzioni e, dunque, gravemente lesive dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice. D’altra parte, i parametri stabiliti dal
legislatore delegato — lungi dal limitarsi ad evitare la punibilità di
comportamenti scarsamente offensivi — si tradurrebbero in una «offerta di
impunità» per coloro che più abilmente, sfruttando anche le dimensioni
dell’impresa, pongano in essere alterazioni assai sensibili della
rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della
società; in sostanza, la responsabilità penale verrebbe a dipendere non dallo
spessore del mendacio rapportato alle esigenze informative del destinatario (e
quindi al bene oggetto della tutela penale), ma da fattori sganciati dal
«processo lesivo» degli interessi protetti.
Il meccanismo delle soglie si porrebbe
inoltre in contrasto con la Convenzione OCSE del 17 dicembre 1997 sulla lotta
alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni commerciali
internazionali, ratificata con legge n. 300 del 2000. L’art. 8 di tale
Convenzione prevede, al comma 1, che «per combattere la corruzione di pubblici
ufficiali stranieri in modo efficace», ciascuna Parte debba «adottare le misure
necessarie, nel quadro delle proprie leggi e regolamenti concernenti la tenuta
di libri e scritture, la diffusione di rendiconti finanziari, le norme sulla
contabilità e la verifica dei conti, per vietare la istituzione di contabilità
fuori bilancio, l’effettuazione di operazioni non registrate o non
adeguatamente identificate, l’iscrizione di spese inesistenti, l’iscrizione di
passività il cui oggetto sia indicato in modo scorretto e l’uso di documenti
falsi, da parte di imprese soggette a dette leggi e regolamenti, allo scopo di
corrompere pubblici ufficiali stranieri o di occultare tale corruzione»; e
soggiunge, al comma 2, che ciascuna Parte deve altresì «prevedere sanzioni
civili, amministrative o penali efficaci, proporzionate e dissuasive per tali
omissioni e falsificazioni di libri e scritture contabili e delle comunicazioni
finanziarie di tali imprese». Tale disposizione — la cui importanza per la
realizzazione dei fini della Convenzione è sottolineata nel relativo
«commentario», adottato dalla Conferenza negoziale unitamente al testo —
sarebbe essenzialmente diretta ad impedire o scoraggiare la costituzione di «fondi
neri» utilizzabili a scopo di corruttela: attagliandosi, per tale aspetto, ai
fatti contestati nel giudizio a quo,
che si sostanziano per l’appunto nella creazione di riserve occulte.
Se, peraltro, le prescrizioni in
materia di contabilità hanno l’evidenziata funzione di prevenire fatti prodromici alla corruzione, tale funzione sarebbe
suscettibile di venir compromessa da qualunque alterazione dei dati contabili,
a prescindere dai suoi rapporti con il risultato economico o il patrimonio
della società e dall’entità del danno cagionato. Introducendo soglie
proporzionali atte a rendere penalmente lecite anche falsità molto rilevanti,
la norma impugnata si porrebbe pertanto in aperto contrasto con il disposto
della Convenzione e, quindi, con il principio stabilito dall’art. 117, primo
comma, Cost., in forza del quale la legislazione statale e regionale deve
rispettare non solo la Costituzione, ma anche i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario ed internazionale: vincoli che, quanto
all’ordinamento internazionale, comprenderebbero anche quelli scaturenti da
fonti convenzionali.
3.2. — Nel giudizio di
costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha
chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
La difesa erariale dubita,
preliminarmente, dell’ammissibilità delle questioni sotto il profilo della
rilevanza. L’affermazione dell’ordinanza di rimessione — secondo cui il
pubblico ministero, nel riformulare l’imputazione per adeguarla alla nuova
normativa, non avrebbe contestato, neppure implicitamente, il superamento delle
soglie — non potrebbe essere infatti condivisa; si dovrebbe ritenere, al
contrario, che il pubblico ministero, con tale formulazione, abbia inteso
comunque riferirsi ad una falsità costituente reato, in quanto superiore al
limite di non punibilità: circostanza, questa, che renderebbe irrilevanti le
questioni proposte. In ogni caso, sarebbe stato onere del giudice verificare,
prima di porre i quesiti di costituzionalità, il mancato superamento in
concreto delle soglie: mentre, per contro, egli afferma espressamente di non
sapere se ciò sia avvenuto, così che la rilevanza delle questioni risulterebbe
meramente ipotetica. Comunque, se pure il fatto oggetto del giudizio a quo rientrasse nelle ipotesi di non
punibilità introdotte dal legislatore del 2002, la rilevanza resterebbe esclusa
dalla circostanza che il fatto stesso non potrebbe essere più perseguito ai
sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen.
Nel merito, l’Avvocatura generale
contesta la denunciata violazione dell’art. 76 Cost., rilevando come i principi
e criteri direttivi dettati dalla legge delega fossero, sul punto,
assolutamente chiari e specifici: l’intenzione del legislatore delegante era
infatti quella di condizionare la rilevanza penale della falsità ad un
requisito di portata generale, costituito dalla sensibilità dello scostamento
tra il risultato contabile dichiarato e quello reale, consentendo peraltro di
avvalersi anche di una determinazione quantitativa di soglie di rilevanza.
A tali criteri direttivi il
legislatore delegato avrebbe dato, d’altro canto, puntuale attuazione,
stabilendo un principio generale di irrilevanza del falso che non determini una
sensibile alterazione del risultato globale dell’esercizio; e precisando al
tempo stesso, con l’introduzione dei limiti percentuali, che modesti
scostamenti dal risultato complessivo non sono comunque punibili. Né tale
sistema avrebbe affidato al giudice una eccessiva discrezionalità: ben maggiore
sarebbe, semmai, quella riconosciutagli dal previgente art. 2621, numero 1),
cod. civ. nell’identificazione dello stesso concetto dei «fatti non rispondenti
al vero», non accompagnato da alcuna specificazione circa le modalità del
relativo accertamento.
Quanto, poi, alla possibilità che la
nuova disciplina lasci esenti da pena scostamenti anche rilevanti di singole
poste, ove lo squilibrio sia compensato da altre poste, in modo tale che non ne
risulti alterato il risultato finale del documento contabile, la soluzione non
sarebbe affatto irragionevole: e ciò perché ai terzi interesserebbe che il
bilancio rispecchi lo stato economico-finanziario dell’impresa, sia in termini
di solvibilità che di affidabilità complessiva.
Per quanto riguarda la censura che fa
riferimento alla Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici
ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, la finalità
delle disposizioni in materia di contabilità, di cui all’art. 8, sarebbe
unicamente quella di vietare l’istituzione di «fondi neri», utilizzabili quale
provvista per la corruzione: onde tali disposizioni non potrebbero valere come
criterio direttivo generale per tutta la normativa interna statale in tema di
veridicità delle scritture contabili, le cui finalità sarebbero evidentemente
diverse e più ampie. Ma anche qualora il riferimento dovesse considerarsi
pertinente, resterebbe il fatto che il comma 2 del citato art. 8 non prevede la
sanzione penale come unico mezzo di contrasto delle violazioni; al contrario,
il legislatore nazionale è lasciato libero di scegliere tra sanzioni civili,
amministrative o penali, comunque efficaci in relazione alla finalità
perseguita: e, nel caso del legislatore italiano, la scelta di non punire con
sanzione penale il falso tenue non significherebbe che questo non venga più
considerato illecito, poiché il suo autore rimane responsabile nei confronti
della società, dei soci e dei creditori, in base alle norme civili e
societarie.
3.3. — Nel giudizio di
costituzionalità si è altresì costituito U. L., imputato nel processo a quo, chiedendo che le questioni siano
dichiarate inammissibili o, in subordine, manifestamente infondate.
Ad avviso della parte privata, le questioni
sarebbero irrilevanti nel giudizio a quo,
giacché, per espressa affermazione del giudice rimettente, il superamento delle
soglie di punibilità — sulle quali vertono i quesiti di costituzionalità — non
è stato contestato nella specie dal pubblico ministero.
Tali questioni tenderebbero inoltre
ad introdurre — tramite la piena "riespansione” della
fattispecie penale conseguente alla richiesta abolizione delle soglie — una
disciplina più rigorosa del reato di false comunicazioni sociali,
surrettiziamente ripristinatoria della previgente
normativa, ritenuta (soggettivamente) più conforme alle esigenze della
repressione penale: esito da ritenere peraltro precluso, stante
l’inammissibilità, a fronte della fondamentale riserva di legge di cui all’art.
25 Cost., di ogni questione di costituzionalità finalizzata ad inasprire norme incriminatrici ed a porre in discussione le scelte di
politica criminale del legislatore. Né, d’altro canto, l’ostacolo potrebbe
essere aggirato facendo appello alla (peraltro oscillante) giurisprudenza di
questa Corte in tema di «norme penali di favore», trattandosi di qualificazione
che non compete affatto alle previsioni censurate. Queste ultime — lungi dallo
stabilire, secondo il tratto tipico della categoria, ingiustificate impunità o
immunità a favore di determinati soggetti — rappresenterebbero soltanto
applicazioni pratiche del «principio di frammentarietà e offensività»
dell’illecito penale: principio a fronte del quale il legislatore non punisce
con la sanzione penale qualsiasi lesione dei beni giuridici, ma modula le
fattispecie criminose in base a valutazioni politico-criminali di sua esclusiva
spettanza.
Quanto al merito delle questioni, la
censura di violazione dell’art. 76 Cost. sarebbe manifestamente infondata. A
fronte del «naturale rapporto di riempimento che lega la norma delegata a
quella delegante» — rapporto il quale esclude che le funzioni del legislatore
delegato siano limitate ad una mera «scansione linguistica» delle prescrizioni
del delegante — un sindacato della Corte, in riferimento al parametro
costituzionale evocato, sarebbe possibile solo nel caso in cui la legge delega
ometta del tutto di determinare i criteri e le direttive cui si deve attenere
il legislatore delegato; non sarebbe invece ammissibile un sindacato sul grado
di specificazione dei criteri e delle direttive medesime, che è viceversa
censurato dal giudice a quo
relativamente alle prescrizioni in materia di «soglie quantitative» e
«valutazioni estimative».
Del pari manifestamente infondata
sarebbe la censura di violazione della Convenzione OCSE. Secondo la difesa,
questa Corte ha chiarito, in relazione alla normativa comunitaria, come le
relative disposizioni non possano ritenersi sempre e comunque prevalenti su
quelle di diritto interno che si pongano in contrasto con esse; vige al
contrario il limite del rispetto dei principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale, tra i quali rientra quello di riserva di legge in
materia penale di cui all’art. 25 Cost. Ciò premesso, la difesa osserva come
l’art. 8 della predetta Convenzione — norma peraltro non attinente direttamente
alla materia dei reati societari, ma a quella della corruzione, non
necessariamente collegata alla prima — lungi dall’imporre l’adozione di un
preciso strumento, lasci agli Stati firmatari ampia libertà di scelta riguardo
ai rimedi per raggiungere lo scopo comune, e segnatamente riguardo al tipo di
sanzione — civile, amministrativa o penale — più opportuna per i fatti
considerati: in tal modo prevedendo implicitamente che il legislatore nazionale
possa anche fare a meno, in tutto o in parte, della sanzione penale. D’altro
lato, nessun rilievo critico sarebbe stato in concreto espresso dall’OCSE nei
confronti della disciplina dettata dal d.lgs. n. 61 del 2002: anzi, le misure di
attuazione della Convenzione in Italia avrebbero ricevuto il pieno
apprezzamento dell’organismo internazionale, e segnatamente dell’apposito
Gruppo di lavoro incaricato a norma dell’art. 12 della Convenzione stessa.
3.4. — Si è inoltre costituito nel giudizio
di costituzionalità G. F., imputato nel processo a quo, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente
infondate.
Quanto alla questione di
costituzionalità dell’art. 11, comma 1, lettera a), numero 1), della legge n. 366 del 2001, sollevata con
riferimento all’art. 76 Cost., la parte privata rileva preliminarmente come
manchi un «interesse concreto» all’impugnativa della sola legge delega — nella
parte in cui non detta norme precettive
immediatamente applicabili — senza una congiunta analoga impugnazione della
legge delegata, nella specie viceversa censurata sotto altro profilo.
In ogni caso, la dedotta violazione
dell’art. 76 Cost. sarebbe insussistente, poiché una declaratoria di
illegittimità costituzionale è prospettabile, in rapporto al parametro evocato,
là dove la legge delega sia priva dell’indicazione dei principi e criteri
direttivi; il sindacato di costituzionalità non potrebbe invece investire il
grado di specificazione di questi ultimi, non potendo ritenersi che i principi
e criteri direttivi debbano essere così vincolanti da non lasciare alcun
margine di discrezionalità al Governo. D’altra parte, la norma di delega
impugnata — allo scopo, ritenuto primario dal legislatore delegante, di
contenere l’impiego indiscriminato della fattispecie del falso in bilancio — ha
fissato il principio dell’introduzione di soglie di punibilità; ed ha
individuato, altresì, due criteri — uno «quantitativo» ed uno «sostanziale»
(«tale da alterare sensibilmente …») — la cui ulteriore determinazione è stata
rimessa al Governo: soluzione, questa, che non potrebbe ritenersi in alcun modo
contrastante con l’art. 76 Cost., il quale non preclude affatto l’uso di
«clausole generali».
Quanto, poi, alla questione di
costituzionalità dell’art. 2621, terzo e quarto comma, cod. civ., la previsione
— dettata dal legislatore delegato sulla base dei predetti principi e criteri
direttivi — in forza della quale la punibilità resta esclusa in difetto di una
alterazione «sensibile» della rappresentazione della situazione economica,
patrimoniale o finanziaria della società, non attribuirebbe affatto al giudice
un’ampia e incontrollata discrezionalità. La valutazione del giudice
assumerebbe, difatti, un ruolo decisivo solo nei casi residuali in cui — non
trovando in alcun modo applicazione le soglie percentuali — le falsità o le
omissioni «siano realmente idonee ad indurre in errore i destinatari delle
comunicazioni arrecando anche un danno patrimoniale ai soci o ai creditori»:
prospettiva, questa, nella quale le nuove fattispecie sarebbero dunque
caratterizzate da «una estrema precisione», con conseguente insussistenza della
pretesa violazione degli artt. 3, 25 e 76 Cost.
Né, da ultimo, sarebbe ravvisabile la
violazione dell’art. 117 Cost., per contrasto con l’art. 8 della Convenzione
OCSE, il quale — al fine di lotta alla corruzione (reato peraltro non
contestato nel giudizio a quo) — non
prevede l’obbligo degli Stati aderenti di introdurre norme penali, ma li lascia
liberi di scegliere il tipo di sanzioni (civili, amministrative o penali)
ritenute più opportune: fermo restando, in ogni caso, che la norma
extranazionale resta subordinata al principio della riserva di legge dello
Stato in materia penale.
3.5. — Si è costituito, infine, A. Z.
— anch’egli imputato nel processo a quo
— chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
Quanto alla prima questione, anche
secondo questa difesa occorrerebbe distinguere — in rapporto al precetto di cui
all’art. 76 Cost. — tra la mancata specificazione di criteri e direttive e la
loro totale assenza; solo quest’ultima situazione potrebbe integrare una
patologia costituzionalmente rilevante. Nella specie, per contro — a
prescindere dal fatto che la previsione di cui all’art. 11, comma 1, lettera a), numero 1), della legge n. 366 del
2001 sarebbe, in realtà, «articolata e di dettaglio» — il Tribunale rimettente
avrebbe richiesto alla Corte proprio una valutazione sul grado di
specificazione, censurando in definitiva il fatto che il delegante non abbia
anticipato la scelta politico-criminale che l’essenza stessa del decreto
legislativo vuole affidata all’organo delegato: e ciò in contrasto con il
consolidato orientamento di questa Corte, che fa salvo il potere dell’esecutivo
di valutare le specifiche situazioni da disciplinare.
Riguardo all’asserita
indeterminatezza del requisito dell’alterazione sensibile, la censura di
costituzionalità si risolverebbe nella proposizione di un mero problema
interpretativo, inerente al rapporto che deve intercorrere tra il suddetto
requisito e le soglie percentuali. Essa, in ogni caso, sarebbe priva di
fondamento, ove si convenga che attraverso la previsione delle soglie
quantitative si ottiene un limite certo alla punibilità della falsa
informazione societaria.
Infondato sarebbe, altresì, il
sospetto di violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 8 della
Convenzione OCSE. A fronte della libertà di scelta tra sanzioni civili,
amministrative o penali, accordata dalla Convenzione ai singoli legislatori
nazionali, solo l’assenza di qualunque strumento sanzionatorio — e non già
l’inosservanza di un inesistente obbligo di ricorso alla sanzione penale —
potrebbe integrare l’eccepita violazione della norma pattizia:
norma da ritenere, per contro, ampiamente rispettata dal legislatore italiano
già tramite la tutela assicurata dalla disciplina civilistica, la quale
contempla strumenti quali l’impugnazione della delibera di approvazione del
bilancio, le azioni di responsabilità contro gli amministratori e il ricorso ex art. 2409 cod. civ. D’altro canto, la
domanda di sindacato sulle scelte politico-criminali del legislatore nazionale
non terrebbe conto del principio di riserva di legge in materia penale,
rientrante tra i principi fondamentali che costituiscono un limite insuperabile
all’ingresso di «norme comunitarie» nell’ordinamento italiano. Il tutto senza
considerare che la stessa OCSE avrebbe espresso un giudizio di piena
compatibilità, senza alcun rilievo critico, nei confronti della legge italiana
di ratifica della Convenzione e della successiva normativa di attuazione.
Considerato in diritto
1. — Il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Forlì solleva tre distinte questioni di
legittimità costituzionale concernenti la nuova disciplina delle false
comunicazioni sociali prevista dagli artt. 2621 e 2622 cod. civ., come
sostituiti dall’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61
(Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società
commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Il rimettente assume, in primo luogo,
che il «combinato disposto» delle due norme — le quali delineerebbero una
«fattispecie a formazione progressiva», reprimendo l’una la «dichiarazione
infedele», e l’altra «la dichiarazione infedele a cui consegua un danno
specifico e concreto per singoli soci e creditori» — violi l’art. 3 Cost. in
rapporto alla diversità delle risposte repressive da esse rispettivamente
prefigurate, che implica il passaggio da un illecito contravvenzionale (art.
2621 cod. civ.) ad altro di natura delittuosa (art. 2622 cod. civ.); con
conseguente non configurabilità della forma tentata del primo. L’identità del
dolo specifico — di inganno dei soci o del pubblico e di ingiusto profitto —
che caratterizza le due figure criminose renderebbe infatti irragionevole tale
scarto sanzionatorio; né basterebbe far leva, in contrario, sul rilievo che
l’evento di danno, costitutivo dell’ipotesi delittuosa, deve riflettersi nella
relativa componente psicologica: e ciò in quanto l’elemento differenziale si
esaurirebbe nella rappresentazione — anche in termini di mera accettazione del
rischio, ossia di dolo eventuale — di un danno causato a terzi (soci e
creditori) quale conseguenza di una «primaria e diversa volontà di base»,
comune alle due ipotesi (la frode in danno dei soci o del pubblico).
Il giudice a quo ritiene, in secondo luogo, che l’art. 2621 cod. civ. — nel
configurare il reato di false comunicazioni sociali come illecito
contravvenzionale — contrasti con gli artt. 27, terzo comma, e 3 Cost. Il primo
dei due parametri sarebbe compromesso, in particolare, a fronte della manifesta
inadeguatezza del modulo contravvenzionale rispetto alle caratteristiche
oggettive e soggettive dell’illecito: quest’ultimo, per un verso, si
tradurrebbe in un fatto lesivo di un interesse pubblico primario, quale quello
alla trasparenza del mercato; e, per un altro verso, lungi dall’essere punibile
indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, richiede il dolo nella sua forma
più intensa (il dolo specifico). L’art. 3 Cost. risulterebbe a sua volta
vulnerato sotto un duplice profilo: la irragionevole disparità di trattamento
della fattispecie criminosa considerata rispetto ad altri reati di frode lesivi
del medesimo interesse alla trasparenza del mercato, quali, in assunto, i
delitti di aggiotaggio (artt. 501 cod. pen. e 2637
cod. civ.), ben più severamente repressi; e la impossibilità di perseguire, ai
sensi degli artt. 9 e 10 cod. pen., i fatti commessi
all’estero, con conseguente asserita impunità — nel caso di bilanci consolidati
di gruppi internazionali — del falso consumato in una società controllata
avente sede all’estero, ma i cui effetti lesivi dell’interesse pubblico alla
trasparenza del mercato si determinino nel territorio dello Stato.
In terzo luogo e da ultimo, il
giudice rimettente impugna, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo comma,
Cost., l’art. 2622 cod. civ., nella parte in cui prevede la perseguibilità a
querela delle false comunicazioni sociali che hanno cagionato danno ai soci o
ai creditori, allorché si tratti di fatto commesso nell’ambito di società non
quotate. L’art. 3 Cost. sarebbe leso, in specie, sotto tre diversi aspetti.
Anzitutto, per la irragionevole subordinazione all’iniziativa privata della
perseguibilità di un reato anch’esso lesivo del fondamentale interesse pubblico
alla trasparenza del mercato, tramite la cui preliminare offesa transita la
lesione degli interessi patrimoniali dei soci e dei creditori. Poi, per la
ritenuta impossibilità di perseguire d’ufficio la falsità del bilancio consolidato
di società quotate che derivi da falsità dei bilanci di società controllate non
quotate: si dovrebbe infatti escludere — secondo il rimettente — alla stregua
della giurisprudenza di legittimità formatasi in rapporto all’originario art.
2621 cod. civ., che in simile ipotesi gli amministratori della società
controllante rispondano penalmente della falsità del bilancio consolidato, in
quanto privi di poteri di accertamento della veridicità dei dati trasmessi
dalle società del gruppo. Infine, per l’irragionevole prevalenza accordata —
con riferimento all’istituto della remissione della querela — a soluzioni
conciliative di natura privata rispetto all’esigenza di tutela diffusa dei
soggetti tratti in inganno. Posto, infatti, che tra le ipotesi criminose
previste dagli artt. 2621 e 2622 cod. civ. sarebbe ravvisabile — anche alla
luce della clausola di salvezza con cui la prima delle due norme esordisce — un
rapporto di specialità, la remissione della querela per il delitto di cui
all’art. 2622 cod. civ. escluderebbe, per il suo effetto estintivo, anche la
configurabilità della contravvenzione di cui al precedente art. 2621: con la
conseguenza che iniziative transattive private finirebbero per prevalere su un
interesse pubblico comunque tutelato dall’ordinamento tramite il citato art.
2621 cod. civ. Per quel che concerne, poi, l’art. 24, primo comma, Cost., il
precetto costituzionale risulterebbe violato in quanto i soggetti legittimati
alla proposizione della querela — soci e creditori — si troverebbero nella
pratica impossibilità di esercitare il relativo diritto, non disponendo di
strumenti conoscitivi adeguati al fine di verificare la sussistenza della
falsità integratrice del reato.
2. — Il Tribunale di Melfi dubita
della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 1
del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, e dell’art. 11 della legge
delega 3 ottobre 2001, n. 366, nella parte in cui hanno modificato il termine
di prescrizione del reato di false comunicazioni sociali previsto dalle norme
vigenti anteriormente alla riforma. Più in particolare, il rimettente lamenta
che l’originario termine di prescrizione del delitto di cui al previgente art.
2621, numero 1), cod. civ. — pari a dieci anni, prolungabili fino ad un massimo
di quindici in presenza di atti interruttivi — risulti ora ridotto, per il
reato di cui all’art. 2621 cod. civ. — in base alle disposizioni generali degli
artt. 157 e 160 cod. pen., trattandosi di
contravvenzione punita con la pena dell’arresto — a soli tre anni, prolungabili
al massimo fino a quattro e mezzo.
La questione di costituzionalità, ad
avviso del giudice a quo, sarebbe
ammissibile alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte in tema
di sindacato sulle norme penali di favore e di rispetto dei principi di
uguaglianza e di ragionevolezza, in quanto concerne esclusivamente il termine
di prescrizione e non anche l’entità della pena; fermo restando il principio di
irretroattività in malam
partem, che nella specie verrebbe comunque
rispettato, essendo il fatto oggetto di giudizio anteriore alla norma
modificativa.
Ciò premesso, il rimettente assume
che il nuovo termine di prescrizione, per la sua eccessiva brevità, impedirebbe
sistematicamente e «fisiologicamente» — a fronte delle rilevanti difficoltà di
accertamento della fattispecie criminosa e della sua attribuzione alla
cognizione del giudice collegiale (ex
art. 33-bis, comma 1, lettera d, cod. proc. pen.),
con correlata necessità di celebrazione dell’udienza preliminare — di definire
il processo prima che sopravvenga l’estinzione del reato. Situazione, questa,
che implicherebbe, per un verso, una irrazionale contraddizione della stessa
scelta legislativa di sottoporre a pena le false comunicazioni sociali, assicurandone
di fatto l’impunità; per un altro verso, una altrettanto irragionevole
disparità di trattamento del reato di cui all’art. 2621 cod. civ. rispetto al
complesso degli altri fatti cui il legislatore ha attribuito rilievo penale,
stabilendo però un termine di prescrizione che non esclude la possibilità di
definire il processo in tempo utile; e, per un altro verso ancora, una
irragionevole equiparazione del medesimo reato a tutte le altre contravvenzioni
punite con l’arresto, pur in presenza di elementi differenziali — quali,
appunto, le difficoltà di accertamento e la cognizione collegiale — che
dilatano la durata del processo.
Al riguardo, il giudice a quo evoca come tertium comparationis la disposizione di cui
all’art. 9 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con
modificazioni, in legge 7 agosto 1982, n. 516, che stabiliva per determinate
contravvenzioni in materia tributaria — caratterizzate, in tesi, da difficoltà
di accertamento analoghe a quelle del reato di cui all’art. 2621 cod. civ. —
termini di prescrizione più lunghi di quelli ordinari: e ciò proprio nella
prospettiva di evitare una sistematica estinzione del reato prima della
pronuncia definitiva. Tale ratio
troverebbe conferma nella successiva riforma della materia attuata dal d.lgs.
10 marzo 2000, n. 74, con la quale il legislatore, nel riformulare le
fattispecie contravvenzionali tributarie non
abrogate, le ha trasformate in delitti, eliminando correlativamente la deroga
all’art. 157 cod. pen., in quanto il più ampio
termine di prescrizione — conseguente alla nuova qualificazione — risultava già
di per sé idoneo a soddisfare l’esigenza dianzi indicata.
3. — La nuova disciplina delle false
comunicazioni sociali è sottoposta altresì a scrutinio di costituzionalità dal
Tribunale di Milano, con specifico ed esclusivo riguardo ai previsti limiti di
"significatività” penale della falsa od omessa informazione: limiti correlati
tanto al requisito dell’alterazione sensibile della rappresentazione della
situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo al
quale essa appartiene; quanto alla fissazione di specifiche «soglie
quantitative» di rilevanza del fatto.
Il Tribunale rimettente muove dalla
premessa che i quesiti di costituzionalità sollevati — tendenti alla rimozione
dei predetti limiti — debbano considerarsi ammissibili alla luce della
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui è possibile sottoporre a sindacato
di costituzionalità, anche in malam partem, le «norme
penali di favore», ossia le norme che abbiano l’effetto di escludere o
attenuare la responsabilità penale in favore
dell’agente; e ciò perché l’invalidazione di tali disposizioni non determina la
configurazione di nuove fattispecie penali, ma si limita a ricondurre alle
norme penali comuni casi che la disposizione impugnata, in ipotesi, abbia loro
arbitrariamente sottratto. Tale sarebbe, appunto, l’effetto della caducazione delle limitazioni censurate, la quale — senza
creare alcuna nuova norma penale — varrebbe soltanto a riportare le falsità
rimaste al di sotto delle soglie di rilevanza nell’ambito della «norma
generale» di cui allo stesso art. 2621 cod. civ.: incidendo quindi, in tale
ottica, sulla formula di proscioglimento che il Tribunale rimettente dovrebbe
adottare nel caso di specie (dichiarazione dell’intervenuta prescrizione,
anziché proscioglimento perché il fatto non è più previsto dalla legge come
reato, stante la mancata contestazione del superamento delle soglie da parte
del pubblico ministero).
Su tale premessa, il giudice a quo impugna quindi, in primo luogo,
per contrasto con l’art. 76 Cost., l’art. 11, comma 1, lettera a), numero 1), della legge 3 ottobre
2001, n. 366, nella parte in cui — nel dettare i principi e criteri direttivi
della riforma della disciplina penale delle società commerciali, oggetto di
delega legislativa al Governo — prescrive di precisare, quanto alla nuova
formulazione del reato di false comunicazioni sociali, «che le informazioni
false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione
della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del
gruppo al quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie
quantitative»; nonché nella parte in cui prescrive, agli stessi fini, di
«prevedere idonei parametri per i casi di valutazioni estimative». Ad avviso
del rimettente, si sarebbe difatti al cospetto di una «delega in bianco», in
quanto la previsione di generiche «soglie quantitative», non accompagnata
dall’indicazione di specifici parametri di riferimento, non sarebbe idonea ad
indirizzare in alcun modo l’attività normativa del legislatore delegato.
Il rimettente dubita, per altro
verso, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale dell’art. 2621,
terzo e quarto comma, cod. civ., come sostituito dall’art. 1 del d.lgs. n. 61
del 2002, che alla predetta norma di delega ha dato attuazione.
La disposizione denunciata
violerebbe, anzitutto, i principi di determinatezza dell’illecito penale e di
uguaglianza, di cui agli artt. 25 e 3 Cost., nella parte in cui subordina la
sussistenza del reato ad una alterazione «sensibile» della rappresentazione
della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del
gruppo di appartenenza. Il disposto normativo risulterebbe, difatti, talmente astratto
da non poter essere riempito di «contenuto oggettivo, coerente e razionale»,
lasciando così aperta la via all’arbitrio giudiziale e alla creazione di
contrastanti orientamenti applicativi (nella motivazione dell’ordinanza — ma
non nel dispositivo — tale censura viene riferita anche alla corrispondente
previsione che figura nell’art. 11, comma 1, lettera a, numero 1, della legge delega n. 366 del 2001).
Il terzo ed il quarto comma dell’art.
2621 cod. civ. si porrebbero inoltre in contrasto con gli artt. 25, secondo
comma, e 76 Cost., nella parte in cui delineano una serie di soglie di
punibilità a carattere percentuale: in specie, escludendo «comunque» la
punibilità delle falsità o delle omissioni che determinano una variazione del
risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al
cinque per cento, o una variazione del patrimonio netto non superiore all’uno
per cento; nonché escludendo la punibilità dei fatti conseguenti a valutazioni
estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore
al dieci per cento da quella corretta. Da un lato, infatti, le soglie di
punibilità introdotte dal decreto legislativo — in mancanza della fissazione di
direttive nella legge delega — verrebbero ad integrare il contenuto precettivo
della norma penale in contrasto con il principio della riserva assoluta di
legge. Da un altro lato, il legislatore delegato avrebbe attuato la generica
indicazione della legge delega stabilendo soglie percentuali "tipizzate”, senza
spiegare le ragioni delle sue scelte, ovvero fornendo giustificazioni «non
veritiere» o non pertinenti rispetto all’oggetto della delega. Così, in
particolare, non sarebbe veritiera la giustificazione addotta dalla relazione
al d.lgs. n. 61 del 2002 riguardo alla soglia del cinque per cento del
risultato di esercizio; secondo la relazione la soglia esprimerebbe un criterio
ritenuto corretto dalla SEC (Security and
Exchange Commission) degli Stati Uniti: in
realtà, invece, detta Autorità, lungi dall’avallare un simile margine di
tolleranza — seguito per prassi da alcune società di revisione nel sindacato
sulle valutazioni di bilancio (e comunque escluso per le ipotesi di frode) — lo
avrebbe apertamente censurato, giudicando irragionevole e contrastante con il
diritto statunitense la pretesa di subordinare la rilevanza delle falsità di
bilancio al superamento di soglie quantitative prestabilite. Non sarebbe
pertinente, poi, la giustificazione addotta riguardo alla soglia in materia di
valutazioni estimative, che la relazione governativa afferma essere stata
mutuata dalla recente normativa penale tributaria: con ciò, peraltro, fondando
l’esercizio del potere discrezionale conferito al Governo su soluzioni adottate
in una materia diversa da quella oggetto della delega legislativa e su criteri
«tecnico-normativi» ad esso estranei, posto che l’evasione d’imposta è in ogni
caso direttamente correlata all’entità del mendacio che sottrae la base
imponibile.
Il sistema delle soglie vulnererebbe,
ancora, l’art. 3 Cost., in quanto — in contrasto con la finalità di tutela
della fiducia nella veridicità dei bilanci e delle comunicazioni dell’impresa
societaria, assegnata dallo stesso legislatore alla norma incriminatrice
impugnata — lascerebbe esenti da pena fatti idonei a pregiudicare gravemente la
capacità informativa delle comunicazioni sociali (come nel caso di falsità di
poste di bilancio superiori di per sé alle soglie, che però si neutralizzino
reciprocamente); e farebbe altresì dipendere la responsabilità penale non dallo
spessore del mendacio in rapporto alle esigenze informative del destinatario —
costituenti il bene oggetto di tutela — ma da fattori ad esse estranei.
Sarebbe violato, infine, l’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione OCSE sulla lotta
alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni commerciali
internazionali — fatta a Parigi il 17 dicembre 1997 e ratificata
dall’Italia con legge 29 settembre 2000, n. 300 — che impone alle Parti di
prevedere adeguate sanzioni per le violazioni contabili delle imprese, al fine
di impedire la creazione di «fondi neri» utilizzabili a scopo di corruttela:
finalità, questa, frustrata dalla introduzione di soglie di punibilità che — in
quanto parametrate percentualmente al risultato
economico di esercizio o al patrimonio netto della società — renderebbero
penalmente lecite falsità anche molto rilevanti.
4. — Poiché le questioni di
costituzionalità attengono, in parte, alle medesime norme e risultano comunque
tra loro connesse, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con
un’unica decisione.
5. — Le questioni sollevate dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì sono manifestamente
inammissibili, avendo il rimettente offerto una motivazione insufficiente, implausibile e contraddittoria — nei singoli passaggi —
circa la loro rilevanza nel procedimento a
quo.
Nel formulare i quesiti di
costituzionalità — che investono, nella sostanza, i primi due il trattamento
sanzionatorio della fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 2621 cod.
civ.; e il terzo il regime di perseguibilità a querela del delitto di cui al
successivo art. 2622 (quando si tratti di società non quotate) — il rimettente
ne afferma infatti la rilevanza nel procedimento a quo sulla base di un triplice assunto, e cioè: a) che il fatto di false comunicazioni
sociali, relativo a società non quotata, per cui si procede sarebbe attualmente
riconducibile tanto all’ipotesi contravvenzionale che a quella delittuosa; b) che mancherebbe peraltro, nella
specie, la condizione di procedibilità del delitto; c) che, in conseguenza di ciò, il fatto dovrebbe essere valutato
come ipotesi contravvenzionale.
Riguardo al primo assunto, il
rimettente omette tuttavia di spiegare per quale ragione la falsità oggetto del
procedimento principale integrerebbe, oltre alla contravvenzione, anche il
delitto: puntualizzazione viceversa indispensabile a fronte della preliminare
narrazione della vicenda concreta contenuta nella stessa ordinanza di
rimessione, dalla quale non emerge che detta falsità abbia cagionato
concretamente un danno patrimoniale al soggetto offeso, tanto che alla persona
sottoposta alle indagini è stato ascritto il concorrente reato di truffa
soltanto tentata.
Nel ravvisare, poi, il difetto della
condizione di procedibilità del delitto, il giudice a quo, da un lato, non specifica perché non consideri idonea, a tal
fine, l’originaria notitia criminis, che
egli stesso pure qualifica come «denuncia-querela»; dall’altro lato e comunque,
fornisce una motivazione implausibile in ordine alla
presunta inefficacia dell’ulteriore querela proposta per iscritto dalla persona
offesa successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 61 del
Infine, nelle premesse dell’ordinanza
di rimessione il giudice a quo
postula — come segnalato — che la mancata proposizione della querela per il
delitto lasci salva la possibilità di perseguire ex officio come contravvenzione il falso dannoso per i soci o i
creditori (formulando, di conseguenza, autonome censure di costituzionalità in
ordine all’art. 2621 cod. civ.). Al contrario, nella parte finale dell’ordinanza
stessa — allorché si duole del regime di perseguibilità a querela del delitto —
egli afferma espressamente che la remissione della querela impedirebbe di
configurare nel fatto l’ipotesi contravvenzionale, stante il rapporto di
specialità che intercorrerebbe tra gli artt. 2621 e 2622 cod. civ. Non viene in
alcun modo chiarito, tuttavia, per quale ragione due evenienze primo visu
omologhe, quanto al risultato del difetto della condizione di procedibilità —
mancata proposizione e remissione della querela — dovrebbero determinare
conseguenze diametralmente opposte sul versante considerato.
Le manchevolezze dell’ordinanza di
rimessione in punto di motivazione sulla rilevanza, ora evidenziate,
comportano, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, l’inammissibilità
delle questioni (cfr., ex plurimis, ordinanze n. 119,
n. 199 e n. 238 del 2002);
esse risultano, in tal senso, assorbenti rispetto ad ogni ulteriore profilo di
inammissibilità, ed in particolare a quelli — pur evidenti — connessi al tenore
dei primi due quesiti, con i quali si censura il trattamento punitivo della
fattispecie di cui all’art. 2621 cod. civ. senza neppure specificare, tra
l’altro, in quale direzione dovrebbe concretamente esplicarsi l’ipotetico
intervento "correttivo” della Corte.
6. — La questione sollevata dal
Tribunale di Melfi è, del pari, manifestamente inammissibile.
Il giudice a quo — nel dolersi del fatto che le norme impugnate abbiano
modificato il regime anteriore delle false comunicazioni sociali in punto di
prescrizione, in maniera tale da rendere praticamente impossibile l’esaurimento
delle attività processuali prima dell’estinzione del reato — chiede difatti a questa Corte di
sottoporre la figura contravvenzionale di cui all’art. 2621 cod. civ. ad un
termine di prescrizione diverso e più lungo rispetto a quello stabilito per la
generalità delle contravvenzioni punite con l’arresto dall’art. 157, primo
comma, numero 5), cod. pen., e coincidente, in
specie, con il termine di prescrizione dell’abrogata fattispecie delittuosa già
prevista dall’originario art. 2621, numero 1), cod. civ.
A prescindere da ogni altro possibile
rilievo circa i limiti dei poteri di questa Corte allorché si discuta di
interventi in peius
sulla disciplina della prescrizione, risulta tuttavia evidente come una
soluzione di tal fatta — lungi dal potersi considerare costituzionalmente
obbligata, nella stessa prospettiva del rimettente — avrebbe carattere non solo
spiccatamente "creativo”, ma addirittura totalmente "eccentrico”, in una cornice
di sistema. Tale soluzione implicherebbe difatti una frattura, extra ordinem,
tra natura dell’illecito e regime della prescrizione, attraverso la quale il
"declassamento” delle false comunicazioni sociali da delitto a contravvenzione
(in assenza del danno patrimoniale per i soci o i creditori), attuato dalla
riforma del 2002, si accompagnerebbe al mantenimento, per la nuova ipotesi
contravvenzionale, del termine di prescrizione già proprio del delitto.
In realtà, è palese come la riduzione
del termine di prescrizione, oggetto di doglianza, rappresenti una conseguenza
"naturale” dell’opzione, fatta "a monte” dal legislatore, per il modulo
contravvenzionale: ed è questa opzione che assume, semmai, una valenza
derogatoria rispetto alle linee generali del sistema sanzionatorio, tenuto
conto sia delle particolari e complesse note di disvalore che contrassegnano la
condotta costitutiva del reato in parola; sia del fatto che esso richiede un
dolo intenzionale-specifico a contenuto plurimo (animus decipiendi et lucrandi). Peculiarità,
queste, che allontanano la figura dal modello "ordinario” della
contravvenzione, quale illecito a carattere più o meno marcatamente
preventivo-cautelare e punibile anche a titolo di semplice colpa.
Senonché, non è comunque ipotizzabile che la
scelta derogatoria "a monte” (adozione dello schema contravvenzionale per un
fatto che presenta i tratti ordinariamente propri del delitto) possa essere
"neutralizzata” pro parte — ossia
quanto ai riflessi sui termini di prescrizione — tramite una pronuncia di
questa Corte che introduca una anomalia "a valle” (applicazione ad una
contravvenzione del termine di prescrizione valevole per un delitto ormai
abrogato); in specie "recuperando” — come pretende il giudice a quo — la ratio sottesa ad altra previsione derogatoria anch’essa ormai non
più presente nell’ordinamento (quella dell’art. 9 del decreto-legge n. 429 del
1982, convertito, con modificazioni, in legge n. 516 del
7.1. — Inammissibili sono infine le
questioni sollevate dal Tribunale di Milano.
Prendendo anzitutto in esame — per le
ragioni di priorità logica che più oltre si chiariranno — le censure inerenti
alle soglie di punibilità a carattere percentuale, va rilevato come dette
questioni risultino espressamente finalizzate ad ottenere una pronuncia che —
tramite la rimozione delle soglie stesse — estenda l’ambito di applicazione
della norma incriminatrice di cui all’art. 2621 cod.
civ. a fatti che attualmente non vi sono compresi.
All’adozione della pronuncia invocata
osta, tuttavia, il secondo comma dell’art. 25 Cost., il quale — per costante
giurisprudenza di questa Corte — nell’affermare il principio secondo cui
nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima
del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via
additiva nuovi reati o che l’effetto di una sua sentenza possa essere quello di
ampliare o aggravare figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi
riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore (cfr., ex plurimis, sentenze n. 49 del
2002; n. 183,
n. 508 e n. 580 del 2000;
n. 411 del 1995).
Contrariamente a quanto sostiene il
giudice a quo, non vale richiamarsi,
in senso opposto, all’orientamento di questa Corte che ha ritenuto suscettibili
di sindacato di costituzionalità, anche in
malam partem, le c.d.
norme penali di favore: ossia le norme che stabiliscano, per determinati
soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che
risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni (cfr., tra le altre, sentenze n. 25
del 1994; n. 167
e n. 194 del
1993; n. 148
del 1983). Orientamento, questo, fondato — quanto all’esigenza di rispetto
del principio di legalità — essenzialmente sul rilievo che l’eventuale ablazione
della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di
ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo
stesso legislatore (fermo restando, altresì, il divieto di applicazione
retroattiva del regime penale più severo ai fatti commessi sotto il vigore
della norma di favore rimossa).
Al riguardo, non può essere infatti
condiviso l’assunto del rimettente, secondo cui le soglie di punibilità di cui
discute si presterebbero ad essere ricomprese nell’anzidetta categoria
normativa, perché la loro soppressione, senza creare alcuna nuova norma penale,
varrebbe soltanto a ricondurre le falsità rimaste al di sotto dei limiti
percentuali nell’ambito della «norma generale» di cui allo stesso art. 2621
cod. civ. Tale ragionamento porta invero a confondere le norme penali di favore
con gli elementi di selezione dei fatti meritevoli di pena che il legislatore
ritenga di introdurre in sede di descrizione della fattispecie astratta,
nell’esercizio di scelte discrezionali "primarie” di politica criminale, di sua
esclusiva spettanza.
Alla stregua dell’opinione largamente
maggioritaria, le soglie di punibilità contemplate dall’art. 2621 cod. civ.
integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto: e la stessa ordinanza di
rimessione non esita, del resto, a qualificarle espressamente come «elementi
costitutivi» del reato. Ma la conclusione non potrebbe essere diversa neppure
qualora si aderisse alla tesi minoritaria che assegna alle soglie il ruolo di
condizioni di punibilità. Nell’una prospettiva e nell’altra, difatti, si tratta
comunque di un elemento che "delimita” l’area di intervento della sanzione
prevista dalla norma incriminatrice, e non già
"sottrae” determinati fatti all’ambito di applicazione di altra norma, più
generale: un elemento, dunque, che esprime una valutazione legislativa in
termini di "meritevolezza” ovvero di "bisogno” di pena, idonea a caratterizzare
una precisa scelta politico-criminale.
Tale scelta — pur a fronte di una
generale tendenza alla valorizzazione dei c.d. "indici di esiguità” del fatto
espressi da elementi numerici nella delimitazione delle fattispecie penali —
può presentare più o meno ampi margini di opinabilità, avuto riguardo alla
natura degli interessi coinvolti ed agli effetti indotti dalla concreta
architettura delle soglie di punibilità a carattere percentuale. Ma resta
comunque una scelta sottratta al sindacato di questa Corte, la quale non
potrebbe, senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato
dall’art. 25, secondo comma, Cost. al legislatore, sovrapporre ad essa —
tramite l’intervento ablativo invocato — una diversa strategia di
criminalizzazione, volta ad ampliare l’area di operatività della sanzione
prevista dalla norma incriminatrice.
A riprova dell’assunto, è appena il
caso di soggiungere che, diversamente opinando, e seguendo cioè l’impostazione
del giudice a quo, tutti gli elementi
che concorrono alla definizione del reato di cui all’art. 2621 cod. civ. (come
di qualsiasi altra fattispecie criminosa) — il dolo specifico, l’idoneità
all’inganno, le caratteristiche limitative delle comunicazioni penalmente
rilevanti, e così via dicendo — si presterebbero ad essere qualificati
come norme penali di favore, giacché anch’essi finiscono per espungere
determinati fatti dalla sfera di operatività della norma incriminatrice:
sicché, in tale prospettiva, la norma stessa potrebbe essere "smantellata”
pezzo a pezzo in sede di sindacato di costituzionalità, trasformandola — con
vanificazione del principio espresso dal citato precetto costituzionale
— in un quid alii
rispetto alla figura voluta dal legislatore.
Giova ancora, per altro verso,
precisare che il profilo di inammissibilità ora evidenziato preclude l’esame
nel merito anche delle censure di violazione dell’art. 76 Cost. — riferite
tanto alla norma di delega che alla norma delegata — basate sull’asserita
carenza, o insufficiente specificazione, dei principi e criteri direttivi
relativi alla configurazione delle soglie in questione, nonché sull’arbitraria
o scorretta attuazione della delega da parte dell’esecutivo. Ove pure, in
ipotesi, le censure fossero fondate, la Corte non potrebbe, difatti, comunque
pervenire al risultato richiesto dal giudice rimettente (ossia alla
eliminazione delle sole soglie, sia nella norma di delega che in quella
delegata), perché ciò equivarrebbe pur sempre ad introdurre una norma incriminatrice diversa e più ampia di quella prefigurata
dal legislatore delegante; ma dovrebbe, semmai, rimuovere l’intera norma (di
delega e delegata), con un effetto diametralmente opposto, che sovvertirebbe il
risultato perseguito dal giudice a quo:
non più, cioè, di dilatazione dell’ambito di rilevanza penale delle false
comunicazioni sociali, ma di esclusione totale della rilevanza stessa.
7.2. — L’inammissibilità, per la
ragione ora evidenziata, delle questioni inerenti alle soglie numeriche rende
inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione relativa all’ulteriore
requisito di fattispecie rappresentato dall’alterazione sensibile della
rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della
società o del gruppo cui quest’ultima appartiene (requisito censurato, in
specie, sotto il profilo della violazione del principio di determinatezza
dell’illecito penale): e ciò a prescindere dalla riferibilità anche a tale
questione della preclusione di una pronuncia di incostituzionalità in malam partem.
Il rapporto esistente, nella
struttura della fattispecie, tra il requisito in parola e le soglie di tipo
numerico è, per vero, allo stato, alquanto controverso. Si discute, in specie,
se il limite dell’«alterazione sensibile» venga in rilievo esclusivamente nei
casi in cui le soglie numeriche non possano trovare applicazione (in quanto si
tratti di falsità in comunicazioni sociali non destinate ad esporre il
risultato economico di esercizio o il valore del patrimonio netto della società
o del gruppo); ovvero se detta "clausola generale” possa fungere (anche) da
"correttivo” verso l’alto delle soglie quantitative, abilitando il giudice a
ritenere, in rapporto alle circostanze del caso concreto, "non sensibile” — e
dunque non punibile — una alterazione che pure si situi al di sopra delle
soglie. Al di là di ciò, si registra però generale convergenza di opinioni sul
fatto che il criterio dell’«alterazione sensibile» resti inoperante rispetto
alle falsità che rimangono al di sotto delle soglie percentuali, le quali si
traducono in altrettante presunzioni iuris et de iure di "non significatività” dell’alterazione.
Conclusione, questa, che trova sicuro conforto nella perentorietà del dettato
normativo («la punibilità è comunque esclusa …»).
A fronte di ciò, la circostanza che —
per espressa affermazione del giudice a
quo — gli imputati dovrebbero essere nel caso di specie assolti in ragione
della mancata contestazione del superamento delle soglie numeriche, rende
dunque irrilevante la questione relativa al requisito dell’alterazione
sensibile, trattandosi di elemento di fattispecie che non viene comunque in
rilievo nel giudizio a quo.
7.3. — I profili di inammissibilità
dianzi evidenziati risultano assorbenti rispetto alle altre eccezioni di
inammissibilità per difetto di rilevanza sollevate dall’Avvocatura dello Stato
e dalla parte privata U. L., nonché a quella — egualmente qualificabile come
eccezione di inammissibilità — sollevata dalla parte privata G. F. in rapporto
alla sola questione concernente l’art. 11 della legge n. 366 del 2001.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 11, comma 1, lettera a),
numero 1), della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma
del diritto societario), e dell’art. 2621, terzo e quarto comma, del codice civile,
come sostituito dall’art. 1 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61
(Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società
commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366),
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 76 e 117 della Costituzione ed
all’art. 8 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici
ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi
il 17 dicembre 1997, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come
sostituiti dall’art. 1 del predetto decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, e 27, terzo comma,
della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Forlì con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1 del predetto decreto legislativo 11
aprile 2002, n. 61, e dell’art. 11 della citata legge 3 ottobre 2001, n. 366,
sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Melfi
con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 26 maggio 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY,
Presidente
Giovanni Maria FLICK,
Redattore
Depositata in Cancelleria
l'1 giugno 2004.