Sentenza n. 49 del 2002

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SENTENZA N. 49

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Massimo VARI, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), promosso con ordinanza emessa il 17 gennaio 2001 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia nel procedimento penale a carico di M.P. L. ed altro, iscritta al n. 297 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 novembre 2001 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

1. — Con ordinanza emessa il 17 gennaio 2001 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui escludono, rispettivamente, la punibilità a titolo di tentativo del delitto di cui all’art. 2 del medesimo decreto legislativo, e la punibilità di chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a titolo di concorso nel reato di emissione di tali fatture o documenti, previsto dall’art. 8 del decreto stesso.

L’ordinanza di rimessione — pronunciata a conclusione dell’udienza preliminare — premette, in punto di fatto, che nei confronti degli imputati era stata promossa azione penale per il delitto di cui all’art. 4, comma 1, lettera d), del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516, in relazione, tra l’altro, all’avvenuta annotazione di fatture relative ad operazioni inesistenti nelle scritture contabili di un’impresa commerciale.

I fatti contestati — prosegue l’ordinanza — dovrebbero peraltro considerarsi, per tale parte, ormai penalmente irrilevanti a fronte dell’entrata in vigore del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, recante la nuova disciplina dei reati in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto. Nella specie non risulta, infatti, che di seguito all’annotazione delle false fatture in contabilità gli imputati abbiano presentato dichiarazioni dei redditi infedeli, con conseguente mancanza di uno degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 2 del citato decreto legislativo (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti); nè, d’altro canto, le condotte di annotazione potrebbero considerarsi punibili a titolo di tentativo del predetto delitto, ostandovi l’espresso disposto dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000. Gli autori dell’annotazione non potrebbero essere puniti, infine, neppure quali concorrenti nel reato di emissione delle false fatture — autonomamente contemplato dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 — rimanendo una simile ipotesi parimenti esclusa dall’art. 9, comma 1, lettera b), del medesimo decreto legislativo.

Ad avviso del giudice a quo, peraltro, l’assetto prefigurato dalle disposizioni impugnate risulterebbe del tutto irragionevole: la disparità di trattamento tra la condotta di emissione delle false fatture (sanzionata dal citato art. 8 come delitto consumato) e quella di annotazione delle medesime nella contabilità del percettore (viceversa "scriminata" dall’art. 6, con l’esclusione della sua punibilità anche solo a titolo di tentativo) sarebbe difatti priva di giustificazione, trattandosi di condotte "entrambe propedeutiche alla presentazione di una dichiarazione reddituale infedele, e che ontologicamente si distinguono solamente per la maggiore o minore distanza temporale da tale evento, idoneo a ledere gli interessi erariali".

L’irragionevolezza denunciata risulterebbe, d’altra parte, ancor più evidente ove si consideri che l’utilizzatore rappresenta il "beneficiario" e, per ciò stesso, il "committente" della falsa fatturazione, la quale viene di solito affidata a meri prestanome: apparirebbe dunque "aberrante" che — allorquando l’iter criminis venga interrotto in un momento intermedio tra l’annotazione delle false fatture e la presentazione della dichiarazione infedele — l’esecutore materiale della condotta preparatoria sia punito a titolo di "frode fiscale" consumata, mentre chi ne ha commissionato, determinato o istigato l’attività resti immune da pena, anche solo a titolo di tentativo o di concorso.

Quanto, poi, alla rilevanza della questione, il rimettente sottolinea come, in caso di rimozione delle norme censurate, i fatti ascritti agli imputati — rispetto ai quali si imporrebbe, allo stato, la dichiarazione di non luogo a procedere — risulterebbero viceversa punibili, in base ai principi generali, per l’appunto a titolo di concorso nell’attività dell’emittente "e/o" di "tentativo di dichiarazione infedele".

2. — Nel giudizio di costituzionalità é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto, in via principale, che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto l’intervento invocato dal rimettente implicherebbe l’introduzione di una norma incriminatrice che non potrebbe comunque operare nel giudizio a quo.

Nel merito, la questione sarebbe — ad avviso della difesa erariale — comunque infondata, in quanto le norme impugnate si inserirebbero armonicamente nelle linee della riforma del sistema penale tributario operata dal d.lgs. n. 74 del 2000, e particolarmente in quella dell’abrogazione delle norme incriminatrici, già contemplate dalla legge n. 516 del 1982, che colpivano violazioni solo potenzialmente dirette all’evasione fiscale, al fine di concentrare la risposta punitiva su poche fattispecie delittuose, connotate da una rilevante capacità di offesa degli interessi erariali.

Considerato in diritto

1. — Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia dubita della legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui escludono, rispettivamente, la punibilità a titolo di tentativo del delitto di cui all’art. 2 del medesimo decreto legislativo, e la punibilità di chi si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a titolo di concorso nel reato di emissione di tali fatture o documenti, previsto dall’art. 8 del decreto stesso.

Ad avviso del giudice rimettente, la disparità di trattamento riscontrabile — in conseguenza delle norme impugnate — tra la condotta di emissione delle false fatture (sanzionata dal citato art. 8 come delitto consumato) e quella di annotazione delle medesime nella contabilità del percettore (destinata per contro a rimanere del tutto priva di risposta punitiva, anche solo a titolo di tentativo o di concorso, ove non seguita dalla presentazione di una dichiarazione inveritiera) risulterebbe sfornita di ogni razionale giustificazione, e come tale lesiva dell’art. 3 Cost. Per un verso, infatti, si sarebbe al cospetto di condotte entrambe oggettivamente dirette ed idonee alla successiva presentazione di una dichiarazione mendace, le quali si distinguerebbero soltanto per la maggiore o minore distanza temporale da tale evento; per altro verso, l’utilizzatore (mandato esente da pena) rappresenterebbe il beneficiario e, perciò stesso, il committente della falsa fatturazione, mentre l’emittente (viceversa punito a titolo di delitto consumato) si identificherebbe, di solito, in un mero prestanome, che esegue pedissequamente le direttive del primo.

2. — La questione é inammissibile.

Nel denunciare come lesiva dell’art. 3 Cost. la disparità di trattamento fra l’emittente e l’utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti riscontrabile nella vigente disciplina penale tributaria, quale delineata dal d.lgs. n. 74 del 2000, il giudice rimettente chiede infatti a questa Corte di rimuoverla tramite un riequilibrio in malam partem del rispettivo regime sanzionatorio. Tale riequilibrio si dovrebbe realizzare segnatamente a mezzo di un intervento ablativo delle disposizioni degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del citato decreto legislativo: così da permettere, nella sostanza — contrariamente a quanto il legislatore ha inteso stabilire — di riconoscere rilievo penale alla condotta di utilizzazione delle false fatture (in primis, nella forma della loro registrazione nelle scritture contabili), ancorchè non seguita dalla presentazione di una dichiarazione annuale dei redditi o sul valore aggiunto, recettiva delle risultanze delle fatture stesse.

Un simile intervento non soltanto determinerebbe l’ampliamento (sia pure attraverso la combinazione con le disposizioni generali in tema di tentativo e concorso di persone nel reato) dell’ambito applicativo delle norme incriminatrici di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000: con un effetto che non può in linea di principio conseguire ad una pronuncia della Corte, a fronte della riserva di legge sancita dall’art. 25, secondo comma, Cost. (cfr., ex plurimis, sentenze n. 508 del 2000 e n. 411 del 1995; ordinanze n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998). Esso implicherebbe anche un riassetto del sistema penale tributario, secondo una linea di politica criminale autonoma e contrapposta rispetto a quella adottata dal legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, in occasione della recente riforma.

Tale opzione politico-criminale consiste infatti, fondamentalmente, nell’abbandono del modello del c.d. "reato prodromico", caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 — modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente "preparatoria" dell’evasione d’imposta — a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia — come si legge nella relazione ministeriale — ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che "realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e "definitivo"" dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni "a monte" della dichiarazione stessa.

La disposizione dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000, oggi denunciata, si colloca nel solco di detta strategia. Escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4 dello stesso decreto legislativo, essa mira infatti — oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta — ad evitare che violazioni "preparatorie", già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione.

Nondimeno — per ragioni che non interessa scrutinare in questa sede, collegate dalla relazione ministeriale ad una valutazione marcatamente negativa del ruolo svolto dagli autori "tipici" del fatto incriminato, "nel quadro delle fenomeniche dell’evasione" — il legislatore ha perpetuato, in via d’eccezione, il vecchio modello punitivo in rapporto all’emissione di fatture (o altri documenti) per operazioni inesistenti, finalizzata a consentire l’evasione altrui: condotta che l’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 continua a reprimere penalmente in sè e per sè — al pari dell’art. 4, comma 1, lettera d), della legge n. 516 del 1982 — ancorchè meramente preparatoria dell’evasione stessa.

Proprio a conferma, però, del carattere eccezionale di tale deviazione dalla linea guida della riforma, il legislatore ha inteso comunque assicurare che dal lato dell’utilizzatore la punibilità resti ancorata alla falsa dichiarazione, escludendo, con l’art. 9, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 74 del 2000, la configurabilità del concorso dell’utilizzatore stesso nel fatto dell’emittente: concorso altrimenti ravvisabile nella generalità dei casi, a fronte dell’accordo tra i due soggetti normalmente sottostante all’emissione delle false fatture.

Ciò posto, l’intervento richiesto dal giudice a quo — nel senso della dilatazione della deroga alla strategia di abbandono del "reato prodromico" — verrebbe evidentemente ad alterare gli equilibri complessivi del sistema.

La rimozione dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000 — la quale, tra l’altro, non varrebbe ad eliminare la disparità di trattamento denunciata, ma solo ad attenuarla: posta l’identità delle pene edittali comminate dagli artt. 2 e 8, l’emittente sarebbe infatti punito a titolo di delitto consumato, l’utilizzatore invece a titolo di semplice tentativo — rischierebbe, in particolare, di avere effetti di ricaduta in rapporto agli altri delitti di falso in dichiarazione di cui agli att. 3 e 4 del d.lgs. n. 74 del 2000. Non vi sarebbe, infatti, ragione per differenziare, sotto il profilo considerato, l’annotazione in contabilità di fatture passive per operazioni inesistenti rispetto, ad esempio, all’annotazione in contabilità di fatture attive che indichino i corrispettivi in misura inferiore a quella reale, la quale potrebbe essere considerata, allo stesso modo, atto idoneo diretto in modo non equivoco a realizzare il delitto di dichiarazione infedele, di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000. In una simile prospettiva, peraltro, violazioni — quali quelle in materia di fatturazione e di annotazione nelle scritture contabili — già configurate dall’art. 1 della legge n. 516 del 1982 come semplici contravvenzioni, rischierebbero di trasformarsi in delitti, sia pure tentati.

A sua volta, la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 9, comma 1, lettera b), svuoterebbe di significato pratico la norma incriminatrice del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000: per effetto dell’applicazione dell’istituto del concorso di persone nel reato, la linea di intervento penale risulterebbe in concreto spostata, riguardo al destinatario delle fatture, dal momento della dichiarazione a quello dell’emissione della falsa documentazione ("prodromico" non solo alla dichiarazione, ma alla stessa utilizzazione).

Ne discende, dunque, l’inammissibilità del quesito di costituzionalità proposto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2002.