ORDINANZA N. 374
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Valerio ONIDA Presidente
- Carlo MEZZANOTTE Giudice
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 13 febbraio 2003 dal Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Fabriano, nel procedimento penale a carico di P.A., iscritta al n. 433 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 ottobre 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe — emessa nel corso di un processo penale nei confronti di persona imputata dei reati di omicidio colposo aggravato (art. 589, primo, secondo e terzo comma, del codice penale) e di guida in stato di ebbrezza (art. 186, commi 1 e 2, del codice della strada) — il Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Fabriano, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice penale;
che l’ordinanza premette che dalla documentazione acquisita era emerso che l’imputato, nel periodo successivo all’incidente stradale oggetto di giudizio, aveva manifestato disturbi psichici per i quali era stato sottoposto a cura presso strutture pubbliche, anche a titolo di trattamento sanitario obbligatorio;
che occorrerebbe pertanto accertare, tramite perizia, se la malattia mentale da cui l’imputato — alla stregua di detta documentazione — risultava affetto sussistesse già al momento del fatto, ai fini dell’eventuale esclusione dell’imputabilità;
che sarebbe tuttavia pregiudiziale, rispetto all’ammissione della perizia psichiatrica, il problema di come il concetto di malattia mentale vada utilizzato nel diritto positivo;
che, al riguardo, il rimettente osserva come la giurisprudenza dominante identifichi l’infermità di mente — che per gli artt. 88 e 89 cod. pen. esclude o diminuisce l’imputabilità — in una patologia clinicamente accertata, a «base organica», limitando quindi, di regola, le infermità rilevanti alle sole psicosi, con esclusione, invece, delle c.d. nevrosi;
che le correnti affermazioni giurisprudenziali poggerebbero, peraltro, su presupposti scientifici corrispondenti alle tesi correnti all’epoca di redazione del codice penale, ma largamente superati dalle più recenti acquisizioni della scienza psichiatrica;
che, in particolare, la distinzione fra malattia mentale «in senso proprio», incidente sull’imputabilità, e «disturbi della personalità, nevrosi» e simili — viceversa ininfluenti — riecheggerebbe una dicotomia ormai «desueta» nella scienza psichiatrica, quale quella che contrappone la malattia «a base biologica» alla malattia «a base funzionale»;
che dovrebbe ritenersi ormai acclarato, infatti — alla stregua delle odierne risultanze delle neuroscienze e della biomedicina — che la complessità dell’organismo vivente è tale «che immaginare una mente ad un piano superiore ed un corpo confinato nel sottoscala è un’ipotesi del tutto infruttuosa»: onde sarebbe inesatto negare «in partenza» la qualifica di malattia mentale al disturbo della personalità;
che sarebbe, altresì, emblematica della difficoltà di conciliare i correnti enunciati giurisprudenziali con la moderna scienza psichiatrica, l’affermazione, fatta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la sindrome ansioso-depressiva non esclude o diminuisce l’imputabilità, in quanto non «associabile ad alcuna entità nosologica»;
che tale affermazione rievocherebbe la nota distinzione fra tre diversi «modelli» di malattia mentale: il «paradigma medico o nosografico», elaborato agli inizi del novecento, che identifica il malato di mente nella persona affetta da una specifica malattia fisica del sistema nervoso centrale, accertabile alla stregua di criteri di classificazione trasposti in «tavole nosografiche»; il «paradigma psicologico», improntato alla valorizzazione dell’«universo interiore dell’individuo»; ed il «paradigma sociologico», che riconduce la malattia di mente agli influssi dell’ambiente o della società;
che, però, il secondo ed il terzo paradigma sarebbero privi di validità sul piano scientifico, dato che i loro apporti si sottraggono ad una verifica sperimentale; invece, il primo paradigma — posto effettivamente a base della disciplina positiva dal legislatore del 1930, in quanto espressivo della migliore scienza psichiatrica del tempo — apparterrebbe ormai alla «storia della scienza»;
che attualmente, difatti, la scienza psichiatrica si baserebbe su sistemi di classificazione di tipo pragmatico, il cui tratto saliente è rappresentato dalla costante revisione dei dati e delle classificazioni, a testimonianza del carattere «ateorico» di queste ultime;
che darebbe adito a perplessità ancora maggiori il disposto dell’art. 90 cod. pen., in forza del quale gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità: norma, questa, che, variamente interpretata in giurisprudenza e in dottrina, poggerebbe su una nozione — quella, appunto, di «stati emotivi o passionali» — in realtà del tutto inutilizzabile, in quanto tratta dal vocabolario di certa criminologia e psichiatria di fine ottocento e di inizio del novecento, che prendeva a sua volta forma «più dai momenti topici del romanzo popolare che da una terminologia scientifica»;
che, in conclusione, la base scientifica su cui si fondano le norme impugnate, con le dominanti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali ad esse relative, risulterebbe «incontrovertibilmente erronea»; o raggiungerebbe, comunque, un livello di indeterminatezza tale da non consentire in alcun modo un’interpretazione ed un’applicazione razionali da parte del giudice;
che le norme in questione si porrebbero pertanto in contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., oltre che con l’art. 111 Cost., in quanto impedirebbero la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, il cui iter logico risulterebbe irrimediabilmente inficiato dall’incongruità della nozione di infermità mentale comunemente utilizzata;
che l’eliminazione del complesso delle disposizioni impugnate — all’apparenza basilari — non provocherebbe, d’altra parte, scompensi nel sistema penale;
che, trattandosi di strumenti normativi sostanzialmente inservibili, nessun guasto potrebbe derivare dalla loro caduta; comunque, le esigenze ad essi sottese — in particolare, quanto al collegamento della responsabilità penale alla capacità dell’uomo di scegliere tra valore e disvalore — troverebbero già adeguata risposta nell’art. 42 cod. pen.: avendo, invero, lo stesso legislatore del 1930 segnalato che mentre l’art. 85 cod. pen. regola la generica capacità di agire in campo penale, l’art. 42 cod. pen. prevede l’effettiva volontà del fatto concreto, per cui si tratterebbe di «due posizioni diverse della volontà» (la prima «al momento della possibilità», la seconda «nel momento della sua attuazione»);
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.
Considerato che il Tribunale rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice penale, assumendo che le norme impugnate poggerebbero, quanto alla nozione di infermità mentale, su una base scientifica incontrovertibilmente erronea o, comunque, talmente indeterminata da non consentire al giudice un’interpretazione ed un’applicazione razionali;
che — a prescindere da ogni altro rilievo, segnatamente quanto alla circostanza, dedotta dall’Avvocatura dello Stato, che la pronuncia ablativa “a tutto campo” invocata dal giudice a quo si traduce in un intervento “di sistema”, i cui effetti si estenderebbero al di là della stessa disciplina dell’infermità di mente (la definizione dell’imputabilità, offerta dall’art. 85 cod. pen., costituisce infatti la base della regolamentazione di ulteriori categorie di soggetti totalmente o parzialmente «irresponsabili», a cominciare dai minori) — è dirimente la considerazione che il rimettente, per sua stessa affermazione, formula il quesito di costituzionalità prima ancora di aver accertato se l’imputato fosse concretamente affetto, al momento del fatto, da un qualche disturbo mentale: e — più in particolare — prima ancora di aver stabilito se l’imputato fosse affetto da un tipo di disturbo a fronte del quale venga effettivamente in rilievo la razionalità del vigente trattamento penalistico del vizio di mente, nei termini denunciati;
che la rilevanza della questione nel giudizio a quo risulta, dunque, puramente ipotetica ed eventuale: essa rimarrebbe difatti esclusa non soltanto qualora si acclarasse che al momento del fatto l’imputato non aveva ancora manifestato disturbi psichici di sorta; ma anche qualora, all’opposto, venisse accertata una patologia mentale indiscutibilmente riconducibile al novero delle infermità che, de iure condito, escludono o diminuiscono l’imputabilità;
che la doglianza che fonda il quesito è, difatti, nella sostanza, una doglianza di inadeguatezza “per difetto” della vigente disciplina: il rimettente non contesta, cioè, che sia corretto sottrarre a responsabilità penale il soggetto affetto dalle più conclamate forme di patologia mentale, ma reputa piuttosto ingiustificata la radicale esclusione dal novero delle infermità rilevanti — sancita, a suo avviso, dai correnti indirizzi giurisprudenziali in materia — di altri tipi di disturbo, quali le nevrosi e i disturbi della personalità;
che dalla narrazione contenuta nell’ordinanza di rimessione emerge, peraltro, come in data successiva ai fatti oggetto di giudizio l’imputato abbia manifestato disturbi (anche) a carattere psicotico: e lo stesso giudice a quo non esita del resto ad affermare che, alla stregua della documentazione acquisita, «l’imputato, nel periodo successivo al tragico incidente, era malato di mente»;
che la questione deve essere dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Fabriano, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2004.
Valerio ONIDA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2004.