ORDINANZA N.443
ANNO 2004
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Valerio ONIDA Presidente
- Carlo MEZZANOTTE Giudice
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 dicembre 2003 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di L.L. ed altro, iscritta al n. 306 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 1° dicembre 2004 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe, emessa nel corso di un procedimento penale nei confronti di persone imputate di delitti in materia di stupefacenti, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, del codice di procedura penale: norma in forza della quale il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, unicamente quando gli impianti installati nella procura della Repubblica risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza; nonché dell’art. 271, comma 1, del medesimo codice, nella parte in cui prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, qualora non siano state osservate le disposizioni di cui al citato art. 268, comma 3;
che l’ordinanza premette che, nell’udienza fissata a seguito dell’ammissione del giudizio abbreviato, i difensori di alcuni fra gli imputati avevano eccepito l’inutilizzabilità, ai sensi degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, cod. proc. pen., delle operazioni di intercettazione telefonica eseguite nel corso delle indagini preliminari, mediante impianti in dotazione all’Arma dei Carabinieri: operazioni che, per due degli imputati, fornivano elementi essenziali di prova riguardo a tutti o parte dei reati loro contestati;
che la predetta eccezione — basata sul difetto, nei provvedimenti del pubblico ministero che avevano disposto il compimento delle operazioni, di ogni motivazione riguardo ai presupposti legittimanti l’utilizzazione di impianti esterni alla procura della Repubblica — sarebbe, ad avviso del rimettente, fondata: e ciò in quanto solo per le intercettazioni relative ad alcune utenze il pubblico ministero aveva autorizzato l’esecuzione delle operazioni con impianti extra moenia, omettendo, tuttavia, anche in tal caso, di motivare circa il requisito dell’eccezionale urgenza;
che secondo il giudice a quo, tuttavia, la sanzione di inutilizzabilità, posta dal legislatore a presidio dell’osservanza delle regole di cui all’art. 268, comma 3, cod. proc. pen., risulterebbe del tutto irragionevole;
che il rimettente ricorda, al riguardo, come questa Corte — nello scrutinare, con ordinanze n. 304 del 2000 e n. 259 del 2001, analoghe questioni di legittimità costituzionale — abbia escluso l’ipotizzato vulnus del principio di ragionevolezza, affermando che la disciplina in esame risponde all’esigenza — evidenziata nella sentenza n. 34 del 1973 — di prevenire abusi in sede di esecuzione delle operazioni, evitando, in specie, che gli organi ad essa preposti effettuino controlli sul traffico telefonico al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria;
che tale giustificazione — la quale poggia sul presupposto che l’utilizzazione di impianti intra moenia consenta un controllo da parte del pubblico ministero, viceversa non garantito nel caso di impiego di impianti esterni — risulterebbe peraltro “anacronistica”, a fronte del progresso tecnologico e del correlato mutamento delle modalità tecniche di esecuzione delle operazioni di intercettazione: mutamento sul quale l’ordinanza di rimessione si sofferma in modo diffuso;
che attualmente, infatti, dette operazioni non si eseguirebbero più, come in passato, collegando materialmente dei cavi presso impianti pubblici di telefonia — sistema che poteva prestarsi, in effetti, ad abusi da parte della polizia giudiziaria — ma tramite la comunicazione del decreto del pubblico ministero al gestore del servizio telefonico, i cui tecnici provvedono quindi ad inserire il numero telefonico cellulare da intercettare all’interno di un sistema automatizzato, convogliando la relativa fonia presso il punto di ascolto sino allo scadere del periodo di intercettazione indicato nel decreto stesso;
che, in simile cornice operativa, i paventati abusi della polizia giudiziaria risulterebbero «ben difficili e collegati solo ad attività patologiche e di rilevanza penale» (quale, ad esempio, la comunicazione al gestore telefonico di falsi decreti): attività peraltro possibili anche qualora le operazioni venissero eseguite tramite gli impianti installati nella procura della Repubblica;
che, in difetto di un’adeguata ratio «tecnica», le disposizioni impugnate sacrificherebbero dunque ingiustificatamente l’interesse — pure costituzionalmente garantito — alla prevenzione e alla repressione dei reati;
che esse impedirebbero, infatti, per ragioni puramente contingenti — quale la mancanza di impianti presso la procura della Repubblica — di svolgere indagini che lo stesso legislatore presuppone «assolutamente indispensabili» (tale essendo la condizione che legittima le intercettazioni), ove non concorra l’ulteriore requisito dell’«eccezionale urgenza»: requisito che — qualora non venga fatto coincidere con la stessa «indispensabilità investigativa» (il che lo renderebbe peraltro superfluo) — finirebbe per precludere «nella stragrande maggioranza dei casi», con intrinseca incoerenza dell’assetto normativo, il ricorso al mezzo investigativo in questione;
che, a fronte di ciò, risulterebbe dunque ancor più irragionevole che l’inosservanza delle regole sulla localizzazione degli impianti venga equiparata dall’art. 271, comma 1, cod. proc. pen. — quanto alla previsione della sanzione di inutilizzabilità — alle ipotesi di totale mancanza di autorizzazione e di esecuzione delle intercettazioni fuori dei casi consentiti;
che un ulteriore profilo di contrasto delle norme denunciate con l’art. 3 Cost. discenderebbe dal fatto che l’art. 5 del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374 (Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, in legge 15 dicembre 2001, n. 438, ha stabilito che le intercettazioni c.d. preventive, di cui all’art. 226 disp. att. cod. proc. pen. (come sostituito dallo stesso art. 5), si eseguono «con impianti installati presso la procura della Repubblica o presso altre strutture idonee individuate dal procuratore che concede l’autorizzazione»; senza peraltro esigere affatto, ai fini dell’impiego di queste ultime, una particolare urgenza;
che ne deriverebbe, dunque, una irragionevole disparità di trattamento di situazioni identiche, a seconda che si tratti di intercettazioni autorizzate dall’autorità giudiziaria o di intercettazioni preventive: risultando irrilevante, a tal riguardo, la circostanza che le seconde non siano suscettibili di utilizzazione processuale (art. 226, comma 5, disp. att. cod. proc. pen.), dato che in entrambi i casi si tratta comunque di tutelare il diritto garantito dall’art. 15 Cost.; e dato che i temuti abusi, da parte dell’organo esecutivo, sarebbero teoricamente ipotizzabili anche in rapporto alle intercettazioni preventive;
che, in realtà, il legislatore del 2001 non si sarebbe affatto preoccupato della localizzazione degli impianti, proprio perché consapevole che i predetti abusi rimangono preclusi dalle attuali modalità tecniche delle operazioni;
che le norme impugnate risulterebbero altresì incompatibili con l’art. 112 Cost., giacché, in presenza di un reato accertato attraverso intercettazioni telefoniche, impedire che l’azione penale venga esercitata – tramite la previsione dell’inutilizzabilità della fonte di prova per violazione di una norma irragionevole, quale dovrebbe ritenersi quella dell’art. 268, comma 3, cod. proc. pen. – contrasterebbe con il principio di obbligatorietà dell’esercizio di tale azione;
che, in base a tale considerazione, il rimettente invita quindi questa Corte a rivedere la posizione assunta con la citata ordinanza n. 259 del 2001, che aveva negato la lesione anche del parametro costituzionale da ultimo indicato;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Considerato che questa Corte, con pronuncia successiva all’ordinanza di rimessione, ha già scrutinato una questione di costituzionalità identica — fatta eccezione per il profilo che sarà evidenziato poco oltre — a quella oggi sollevata, dichiarandola manifestamente infondata (cfr. ordinanza n. 209 del 2004);
che, nell’occasione — a conferma delle precedenti decisioni richiamate anche nell’odierna ordinanza di rimessione (cfr. ordinanza n. 259 del 2001; e, in riferimento al solo art. 3 Cost., ordinanza n. 304 del 2000) — questa Corte ha ribadito che l’avere il legislatore privilegiato, per l’effettuazione delle operazioni di intercettazione, l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari – dettando una disciplina volta a circoscrivere, con apposite garanzie, l’uso di impianti esterni – non può qualificarsi, in sé, come scelta arbitraria, avuto riguardo anche alla particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata: e ciò proprio perché si tratta di una scelta finalizzata ad evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sul traffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell’autorità giudiziaria;
che quanto, poi, al carattere “anacronistico” impresso, in assunto, a simile giustificazione dalle attuali modalità tecniche di esecuzione delle intercettazioni, non è evidentemente compito della Corte “inseguire” il progresso tecnologico, valutando se esso renda necessario od opportuno un adeguamento, o addirittura il superamento delle originarie regole di cautela: trattandosi, al contrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore;
che, analogamente, rientra in un ragionevole ambito di discrezionalità legislativa — tenuto conto della pregnanza dei valori in gioco — stabilire se la violazione delle regole in questione debba essere o meno equiparata, sul piano della sanzione processuale, alla carenza dell’autorizzazione e all’esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casi consentiti dalla legge;
che con riguardo, ancora, all’asserita violazione dell’art. 112 Cost., resta valido il rilievo che le disposizioni censurate non incidono sull’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale; ma si limitano a stabilire – con finalità di salvaguardia di un valore di rango costituzionale – le “garanzie tecniche” di espletamento di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo;
che quanto, infine, all’unico profilo di novità dell’odierna ordinanza di rimessione — consistente nella denunciata disparità di trattamento, in parte qua, delle intercettazioni a fini di ricerca della prova rispetto alle intercettazioni preventive — va rimarcato come affermare che la disciplina in tema di localizzazione degli impianti, di cui alle disposizioni impugnate, è costituzionalmente compatibile, non equivalga a dire che sia addirittura costituzionalmente obbligata: ben potendo, al contrario, il legislatore modulare in maniera diversa — in un ventaglio di possibili alternative, caratterizzate da maggiore o minore “rigidezza” — i meccanismi di garanzia degli interessi in gioco;
che — ciò premesso — il tertium comparationis evocato dal giudice a quo si presenta palesemente inidoneo a giustificare una censura di violazione del principio di uguaglianza;
che, infatti, al di là dell’identità del mezzo tecnico, le intercettazioni preventive, di cui all’art. 226 disp. att. cod. proc. pen., sono un istituto diverso — per presupposti, finalità, struttura e procedura — rispetto alle intercettazioni regolate dalle disposizioni di cui agli artt. 266 e seguenti del codice di rito: istituto caratterizzato — proprio in relazione a tale diversità — da una disciplina distinta e da un livello di garanzie complessivamente inferiore;
che, come indica lo stesso nomen iuris, le intercettazioni preventive mirano, infatti, non già ad accertare reati, ma a prevenirne la commissione — in specie, ad acquisire notizie concernenti la prevenzione di delitti di particolare gravità e allarme sociale, quali quelli di cui agli artt. 51, comma 3-bis, e 407, comma 2, lettera a), numero 4, cod. proc. pen. — sul presupposto della sussistenza di «elementi investigativi» che giustifichino tale attività; non è previsto un intervento autorizzatorio del giudice, in quanto il relativo potere è attribuito al procuratore della Repubblica; i risultati di tali intercettazioni sono privi di valenza probatoria, non potendo essere in alcun modo utilizzati nel procedimento penale (salvo a fini investigativi): ed in quest’ottica è, tra l’altro, prevista l’immediata distruzione dei supporti e dei verbali delle operazioni, dopo che il procuratore abbia verificato la conformità delle attività compiute all’autorizzazione;
che in tale quadro si inserisce la previsione dell’art. 5, comma 3, del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni, in legge 15 dicembre 2001, n. 438, su cui fa leva il giudice a quo: previsione in forza della quale le intercettazioni in parola possono essere eseguite, oltre che a mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica, «presso altre strutture idonee individuate dal procuratore che concede l’autorizzazione»; e ciò senza che siano previsti, in aggiunta alla valutazione di «idoneità», uno specifico obbligo di motivazione sotto altri profili — in particolare, riguardo a requisiti di «eccezionale urgenza» — ed una correlata sanzione di inutilizzabilità in caso di inosservanza (obbligo e sanzione che, peraltro, avrebbero poco senso in difetto di un sindacato giurisdizionale successivo e di una possibilità di impiego processuale dei risultati delle operazioni);
che, pertanto, è indubitabilmente vero che l’esigenza di tutela del valore fondamentale della segretezza delle comunicazioni è comune ad entrambe le forme di intercettazione; ma ciò non significa che le norme impugnate possano ritenersi lesive del principio di uguaglianza, per “eccesso di garanzie”, sulla base del raffronto con la disciplina dettata per un istituto strutturalmente eterogeneo — in quanto collocato al di fuori del processo — e nel suo insieme meno “garantito”: quale, appunto, quello delle intercettazioni preventive;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 2004.
Valerio ONIDA, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 29 dicembre 2004.