SENTENZA N. 206
ANNO 2004
Commenti alla decisione di
I. Rosaria Giordano, Giudice di pace e giudizio di equità necessario: un effettivo ritorno al passato? (per gentile concessione della Rivista telematica Judicium, Il processo civile in Italia e in Europa)
II. Cristina Asprella, La scure della Consulta s’abbatte sul giudizio d’equità necessario: una salutare interpretazione costituzionalmente orientata del secondo comma dell’art. 113 c.p.c. (per gentile concessione della Rivista telematica Judicium, Il processo civile in Italia e in Europa)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 7 luglio 2003 dal Giudice di pace di Trento nel procedimento civile vertente tra Zulberti Martino e Russo Gabriele, iscritta al n. 920 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2003.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2004 il Giudice relatore Annibale Marini.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 7 luglio 2003 il Giudice di pace di Trento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, 111, settimo comma, e 134 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile. La norma impugnata prevede che il giudice di pace decida secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 del codice civile.
In punto di rilevanza il rimettente espone di dover decidere una causa, del valore di 170 euro, avente ad oggetto la richiesta di compenso per un’attività di rappresentanza processuale svolta da un non tecnico del diritto. Assume, in buona sostanza, che la domanda andrebbe, in base a criteri equitativi, respinta, in considerazione dei rapporti di amicizia esistenti tra le parti, mentre dovrebbe probabilmente ritenersi fondata se si facesse applicazione delle regole di diritto in materia di mandato. In ogni caso – ed a prescindere dal contenuto della emananda decisione – radicalmente diversi sarebbero, nei due casi, tanto l’iter argomentativo quanto il regime delle impugnazioni della sentenza, cosicché la questione risulterebbe, sotto tale profilo, comunque rilevante.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il medesimo rimettente muove dall’esistenza di un diritto vivente – originato dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 716 del 1999 – secondo cui l’equità di cui all’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ. è sostitutiva e non correttiva o integrativa della regola di diritto, non dovendo il giudice seguire i principi che regolano la materia né individuare le norme giuridiche astrattamente applicabili bensì creare egli stesso la regola della decisione. Con la conseguenza che le sentenze equitative del giudice di pace sono ricorribili per cassazione solamente per violazione di norme processuali o per violazione di norme costituzionali e comunitarie (ma non anche per violazione dei principi generali dell’ordinamento) ovvero nel caso di motivazione meramente apparente.
Preso dunque atto che, sulla base di tale diritto vivente – dal quale espressamente dichiara di non volersi discostare – le controversie individuate dall’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ. sono del tutto sottratte all’applicazione delle norme sostanziali regolatrici della relativa materia, con le inevitabili conseguenze processuali in tema di impugnazione, il giudice a quo ravvisa nella norma la violazione, sotto più profili, del principio di eguaglianza.
Lesiva dell’art. 3 della Costituzione sarebbe in primo luogo l’adozione di un criterio di valore per l’individuazione delle cause soggette alla decisione di equità, comportando tale scelta che rapporti sostanziali identici ricevano, nel processo, trattamenti diversi a seconda che il valore della causa superi o meno i millecento euro.
Ulteriore ed ancor più evidente disparità di trattamento si verificherebbe poi tra pretese di uguale natura e valore (cause relative a somme di denaro o beni mobili fungibili di valore inferiore a € 1.100) attribuite ratione materiae a giudici diversi, in quanto quelle di competenza del giudice di pace devono essere decise secondo equità mentre quelle attribuite ad altri giudici (tribunale, commissione tributaria) in considerazione della natura del rapporto (ad es. cause in materia di locazione o di lavoro) vanno decise secondo diritto e sono soggette agli ordinari mezzi di impugnazione.
Se infatti – assume il rimettente – il giudizio d’equità trova la sua ragione d’essere nel fatto che la causa è di poco valore, allora tutte le controversie di uguale valore dovrebbero avere il medesimo trattamento processuale. Ne discenderebbe pertanto, sotto tale aspetto, la violazione del principio di eguaglianza rispetto ai tertia comparationis rappresentati dagli artt. 409 e 447-bis cod. proc. civ.
Il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, anche sotto il profilo del generale canone di ragionevolezza, risulterebbe poi accentuato dalla recente modifica apportata alla norma dal decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, che ha escluso dal giudizio di equità le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 cod. civ.
Da un lato, infatti, il preambolo del decreto-legge denuncia esplicitamente il rischio che il giudizio di equità porti a pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali, nel che appunto si sostanzia uno dei profili di illegittimità costituzionale prospettati dal rimettente, ma dall’altro il provvedimento esclude dal giudizio necessario di equità solo alcune delle controversie, attribuite al giudice di pace, che vi sarebbero altrimenti soggette, individuandole irragionevolmente con riferimento non al tipo contrattuale bensì alla mera modalità di stipulazione, con la conseguenza che controversie, di uguale valore, riguardanti fattispecie contrattuali identiche, sono sottoposte all’uno o all’altro tipo di giudizio in conseguenza del dato, puramente formale, dell’essere stato il contratto concluso, o meno, mediante sottoscrizione di moduli o formulari.
Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale riferibile all’art. 3 della Costituzione discenderebbe poi dalla disciplina della connessione dettata dall’art. 40, sesto e settimo comma, cod. proc. civ., in virtù della quale una causa di competenza del giudice di pace, sottoposta al giudizio necessario di equità, se connessa con altra causa di competenza del tribunale viene attratta nella competenza di questo giudice ed è quindi decisa secondo diritto, ricevendo pertanto un diverso trattamento processuale solo in ragione dell’esigenza di simultaneus processus.
Il principio di eguaglianza risulterebbe, infine, ancora violato in tutti i casi in cui la pretesa, di valore inferiore ad € 1.100, azionata dinanzi al giudice di pace abbia titolo risarcitorio, in conseguenza della violazione di norme penali. Anche in tal caso, infatti, il giudice di pace potrebbe decidere senza fare applicazione della norma penale, che costituirebbe viceversa la regola di giudizio nel caso in cui il danneggiato decidesse di esercitare l’azione civile nel processo penale.
Il giudizio di equità necessario si porrebbe altresì in contrasto sotto un duplice aspetto – ad avviso ancora del rimettente – con l’art. 24 della Costituzione.
La possibilità, attribuita al giudice di pace dalla norma censurata, di giudicare prescindendo dalle norme di legge astrattamente applicabili si risolverebbe infatti nella sostanziale negazione della garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti che da quelle norme traggono origine, con violazione, sotto tale profilo, anche dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Sotto altro profilo, la facoltà, riconosciuta all’attore dalla giurisprudenza, di frazionare la pretesa creditoria in più azioni, così da renderle tutte di valore inferiore a € 1.100, consentirebbe poi allo stesso attore di imporre arbitrariamente al convenuto il giudizio di equità, in tal modo privandolo delle maggiori garanzie offerte dal giudizio secondo diritto.
L’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ. si porrebbe in contrasto anche con l’art. 101, secondo comma, della Costituzione, secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Ad avviso del rimettente il precetto costituzionale – come dimostrerebbero i lavori preparatori della Costituzione – esprimerebbe infatti la necessità che il giudice debba sempre conformarsi ad una norma precostituita.
La circostanza che la sentenza pronunciata secondo equità sia ricorribile per cassazione solo per violazione di norme costituzionali e comunitarie, e non anche per altre violazioni di legge, comporterebbe poi lesione della garanzia del ricorso per cassazione per violazione di legge offerta, nei confronti delle sentenze di tutti i giudici, dall’art. 111, settimo comma, della Costituzione.
Il diritto vivente in base al quale le sentenze di equità del giudice di pace possono essere impugnate per violazione di legge, ex art. 360, comma primo, numero 3, cod. proc. civ., nel solo caso di violazione di norma costituzionale sarebbe infine in contrasto – secondo il rimettente – anche con l’art. 134 della Costituzione. Nel caso infatti in cui, con il ricorso per cassazione, si censuri una sentenza d’equità per essere costituzionalmente illegittima una norma di legge, applicata dal giudice di pace in quanto ritenuta equa, si verrebbe ad attribuire alla Cassazione quel controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi riservato invece alla Corte costituzionale.
2.– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione.
La parte pubblica, premesso che la rilevanza della questione sarebbe «incomprensibile», assume, nel merito, l’insussistenza dei vizi di legittimità costituzionale individuati dal rimettente, in quanto: a) non sarebbe violato il diritto alla tutela giurisdizionale, atteso che il giudizio di equità risulterebbe prevedibile non meno del giudizio fondato sulla legge; b) il principio della soggezione del giudice alla legge sarebbe pienamente rispettato, essendo anche l’art. 113 cod. proc. civ. norma di rango legislativo; c) la ricorribilità per cassazione ex art. 111 della Costituzione sarebbe pur sempre assicurata; d) il controllo sulla costituzionalità delle leggi resterebbe comunque affidato alla Corte costituzionale; e) la diversità di valore giustificherebbe il diverso trattamento processuale.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice di pace di Trento dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, 111, settimo comma, e 134 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile, secondo cui il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art. 1342 del codice civile.