LA GIUSTIZIA
COSTITUZIONALE
NEL 2000
RELAZIONE DEL PRESIDENTE
CESARE RUPERTO
Palazzo della Consulta, 23 febbraio 2001
1 - Premessa
Una relazione sull’attività svolta dalla Corte costituzionale nell’anno appena trascorso comporta che si dia conto, almeno nelle linee e nei contenuti essenziali, delle decisioni adottate all’esito dei diversi giudizi instaurati davanti alla Corte stessa. Si cercherà qui di individuare i punti salienti e le novità significative emergenti da tali decisioni.
La giurisprudenza costituzionale si sviluppa, di regola, secondo linee di accrescimento o di maturazione rispetto a principî consolidati, ma i revirements sono sempre possibili, cosí come le messe a punto di anteriori statuizioni. L’evoluzione giurisprudenziale dipende molto anche da quello che si chiede al giudice delle leggi: sia da quelli che potremmo definire i suoi interlocutori diretti, i giudici comuni che sollevano questioni di legittimità costituzionale in via incidentale, sia dagli enti ed organi ammessi a ricorrere davanti alla Corte costituzionale in altri giudizi (di legittimità in via principale e per conflitti di attribuzione). Talvolta la giurisprudenza può essere valutata appieno solo a distanza di qualche anno. Spesso, infatti, soltanto un congruo intervallo di tempo può mostrare la correttezza e l’efficacia di determinati interventi o, anche, per converso, la loro debolezza: quindi un arco temporale di dodici mesi può non essere di per sé significativo ai fini di una sintesi.
Il ciclo appena concluso ha visto anche cambiamenti di presidenza. A Giuliano Vassalli, il quale ha completato il suo mandato all’inizio dell’anno, è subentrato nella carica Cesare Mirabelli. Oggi la Corte attende di essere integrata nella sua composizione ordinaria, con l’elezione, da parte del Parlamento in seduta comune, dei due giudici che dovrebbero sostituire il prof. Mirabelli e il prof. Guizzi, entrambi cessati dalla carica alla fine dell’anno.
2 - Gli aspetti quantitativi
Un primo elemento di novità nella giurisprudenza costituzionale del 2000 è costituito dall’aumento delle decisioni emesse.
La Corte non tiene ad esaltare quello che, pure, potrebbe essere definito un incremento di produttività. Tale dato, infatti, è solo parzialmente significativo, ove si consideri una certa ripetitività delle questioni proposte, quale desumibile dalle decisioni di manifesta infondatezza di questioni già rimesse all’esame della Corte, decise o rigettate, oppure dalle decisioni di manifesta inammissibilità di questioni aventi ad oggetto norme già dichiarate incostituzionali e dunque non piú presenti nell’ordinamento. E’ poi da rilevare che, su altre questioni, la ragione della pronuncia di restituzione degli atti al giudice rimettente è la modifica legislativa della disposizione denunciata o del quadro normativo di riferimento (ordinanze nn. 19, 21, 60, 84, 108, 142, 161, 202, 246, 589).
3 - I giudizi dinanzi alla Corte costituzionale
La costante preponderanza numerica dei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale rispetto agli altri giudizi per i quali la Corte ha competenza (anche su quelli di legittimità costituzionale in via principale) è risultata confermata anche nel il 2000.
Tra gli altri tipi di giudizio sono relativamente più numerosi, nell’anno qui considerato, quelli sul conflitto tra poteri dello Stato e sull’ammissibilità del referendum abrogativo.
Nell’àmbito dei conflitti tra poteri sono, comunque, prevalenti - e non è questa una novità dell’anno, ma un dato che si presenta con regolarità nella giurisprudenza degli ultimi anni - i giudizi instaurati con ricorsi dell’autorità giudiziaria o di assemblee parlamentari, in relazione alla prerogativa dell’insindacabilità parlamentare e, dunque, all’interpretazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
La giurisprudenza del 2000 registra al riguardo, anche nelle decisioni di accoglimento, novità sul piano sostanziale.
Data la rilevanza e l’attualità del tema, la stessa Corte ha promosso, alla fine di marzo, un seminario di studio sul tema «Immunità e giurisdizione», occasione di un proficuo incontro con studiosi qualificati della materia.
Per quanto riguarda i referendum abrogativi, se va sottolineato il consistente numero dei quesiti referendari sottoposti al giudizio di ammissibilità, va anche rilevato che la Corte ha avuto quale punto di riferimento la propria precedente giurisprudenza, sviluppandola secondo le coordinate già tracciate. Non mancano, peraltro, novità, soprattutto sul piano processuale.
4 - IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ
Il giudizio in via incidentale
Non vi è dubbio che il giudizio incidentale costituisca lo strumento tipico per pervenire alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma di legge della quale il giudice sia chiamato a fare applicazione (sentenza n. 419, ordinanze nn. 144, 211).
E’ stato però precisato
che è da escludere una questione di costituzionalità di una o piú norme
legislative proposta al solo scopo di ottenere una decisione del giudice
costituzionale e non già in funzione di un particolare interesse nel giudizio a quo: come accade quando manchi in
quest’ultimo giudizio un petitum
separato e distinto dalla questione, sulla quale il giudice rimettente sia
chiamato a pronunciarsi (sentenza
n. 4).
In ragione del necessario collegamento tra la soluzione dell’incidente di costituzionalità e la decisione del giudizio a quo, viene poi riaffermata l’inammissibilità dell’intervento nel giudizio incidentale di soggetti che non siano parte in causa nel giudizio a quo, a nulla rilevando l’eventuale loro partecipazione ad altri giudizi di identico o analogo oggetto (sentenze n. 516, n. 300, e ordinanza n. 517); ovvero dell’intervento di soggetti (nella specie, di un’associazione ambientalista) che siano titolari soltanto di un «generico interesse» di fatto a vedere accolta la questione (ordinanza n. 456) e non di quell’«interesse individualizzato» che, secondo l’anteriore giurisprudenza, può consentire la deroga alla regola ora richiamata.
La Costituzione (art. 134) prevede che nel giudizio incidentale siano sindacati i soli atti legislativi, o comunque caratterizzati dalla “forza di legge”: il controllo di costituzionalità si arresta perciò quando le questioni si riferiscano ad atti privi di quella forza, come nel caso di atti di valore regolamentare, ministeriali o governativi (ordinanze n. 328, n. 139) ovvero a norme che hanno assunto rango regolamentare per effetto di delegificazione (ordinanza n. 554, sentenza n. 427).
L’esatta individuazione della questione da parte del giudice rimettente è condizione necessaria per il suo esame da parte del giudice costituzionale (ordinanza n. 452). Come pure è richiesta non solo una sostanziale coerenza dell’atto di rimessione della questione (cosí, ad esempio, tra motivazione e dispositivo: ordinanza n. 380), ma anche la sua autosufficienza e autonomia rispetto ad atti ad essa allegati (ordinanza n. 173) o rispetto agli atti di causa o del giudizio a quo (ordinanze nn. 279, 556) o rispetto ad altri provvedimenti di rimessione, ai quali il giudice rinvii per relationem (ordinanza n. 310).
In ogni caso compete al giudice a quo individuare, all’interno di un determinato corpus normativo, la norma o la parte di essa la cui presenza nell’ordinamento determinerebbe la lamentata lesione della Costituzione (ordinanze nn. 97, 182 e 208).
Grazie all’ormai nota evoluzione della propria giurisprudenza, la Corte ammette il trasferimento della questione su un’altra disposizione il cui contenuto coincida del tutto con quello della disposizione originariamente denunziata dal giudice rimettente: come, nel caso in cui la norma denunciata sia stata interamente trasfusa in un testo unico per la disciplina della materia (sentenza n. 376 e ordinanza n. 313).
Il giudice rimettente ha l’onere indefettibile di indicare le disposizioni costituzionali che ritiene violate dalle norme della cui costituzionalità egli dubita, ma talvolta è la stessa Corte a meglio articolare il parametro costituzionale indicato. Ciò è reso evidente dalla sentenza n. 460 (su cui, infra, n. 19), la quale individua, per l’appunto, quei parametri la cui attitudine qualificatoria è «piú immediata e stringente» in riferimento alla fattispecie legislativa sottoposta allo scrutinio di costituzionalità, lasciando “sullo sfondo” altri parametri pur evocati dal rimettente.
5 - Natura, funzione ed oggetto del giudizio di legittimità
costituzionale
Dinanzi a quelle ordinanze
di rimessione che, pur avendo di mira la declaratoria di illegittimità delle
disposizioni censurate, in realtà sollecitavano un vero e proprio intervento
sostitutivo rispetto alle scelte compiute dal legislatore, il giudice delle
leggi ha tenuto ben fermo il proprio tradizionale self-restraint, ribadendo che la Corte dispone degli strumenti di
controllo delle scelte del legislatore specialmente sotto il profilo del
rispetto della parità di trattamento e del nucleo minimo della garanzia; ma
tali strumenti non le consentono certo di sostituire alle necessarie
valutazioni politiche del legislatore una propria decisione che, in mancanza di
criteri giuridico-costituzionali predeterminati, si risolverebbe in
un’esorbitanza in un campo che non le è
proprio (sentenza
n. 226).
Così con l’ordinanza n. 200 - in tema di estensibilità ad ogni processo civile della disciplina del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti - la Corte ha ritenuto di non poter accedere alle richieste del giudice a quo, il quale attraverso la semplice eliminazione di una parola nella disposizione censurata (relativa al gratuito patrocinio) richiedeva in realtà un imponente intervento riformatore, assimilando istituti diversi (quali il gratuito patrocinio al patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) e creando un modello procedimentale affatto nuovo.
Analogamente, dinanzi ad una richiesta di sentenza «manipolativa», che avrebbe mutato completamente la disciplina dei termini di durata massima della custodia cautelare, la Corte ha ritenuto che ciò rappresentasse una scelta di natura essenzialmente «politica», rientrante come tale nella discrezionalità del legislatore, ed ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione (ordinanza n. 397).
Ulteriore limite all’intervento della Corte è stato ravvisato, oltre che nella discrezionalità legislativa, anche nell’esercizio della discrezionalità amministrativa. La Corte ha infatti ritenuto che la richiesta pronuncia additiva, volta ad assicurare l’erogazione gratuita dei farmaci del c.d. «multitrattamento Di Bella» a pazienti affetti da patologie tumorali diverse da quelle ammesse alla sperimentazione, avrebbe prodotto effetti invasivi delle competenze riservate dalla legge agli organi tecnico-scientifici della sanità, ai quali la Corte non poteva sostituirsi (sentenza n. 188).
Tra le questioni ritenute inammissibili occorre considerare quelle il cui accoglimento determinerebbe effetti in malam partem rispetto alla disciplina penale vigente. La Corte ha costantemente sottolineato ed anche recentemente ha ribadito che interventi volti a modificare in peggio la posizione del destinatario della legge penale sostanziale sono preclusi al giudice costituzionale, rientrando nella sfera esclusiva della discrezionalità del legislatore (sentenza n. 183, ordinanza n. 317).
La particolare riserva stabilita
dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui
consegue l’esclusione delle sentenze dichiarative di illegittimità
costituzionale aventi valenze additive, impedisce che il ripristino
dell’eguaglianza violata - ove accertata - possa avvenire estendendo la portata
della norma censurata per ricomprendervi i casi discriminati (sentenza n. 508,
su cui infra, n. 16).
7 - I criteri del giudizio: il canone della
ragionevolezza e il bilanciamento degli interessi protetti
Piú volte nel corso del 2000 la Corte è stata chiamata a valutare la conformità delle norme denunciate al generale canone della ragionevolezza. Può essere utile ricordare, a questo riguardo, che la giurisprudenza della Corte, in passato, era orientata nel senso di ricondurre il principio di ragionevolezza all’interno della previsione dell’art. 3 della Costituzione che afferma - come noto - il principio di uguaglianza; di modo che la norma irragionevole era costituzionalmente illegittima in quanto apportatrice di irragionevoli discriminazioni. Come conseguenza di siffatta impostazione era necessario, per accertare l’irragionevolezza della norma, che fosse individuato il c.d. tertium comparationis.
Una volta affrancato il
principio di ragionevolezza sia dal principio di uguaglianza, sia dalla ricerca
del tertium comparationis, la Corte
ne ha poi potuto affermare la violazione anche in assenza di una sostanziale
disparità di trattamento tra fattispecie omogenee, allorchè la norma presenti
una intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità rispetto al contesto
normativo preesistente (sentenza n. 450) o rispetto alla complessiva finalità
perseguita dal legislatore (sentenza n. 416).
Questo orientamento ha trovato conferma nel trascorso anno anche in decisioni di rigetto, con le quali sono state ritenute non irragionevoli norme che, pur introducendo differenze di trattamento, non creano ingiustificate o arbitrarie omologazioni di situazioni diverse. Tra l’altro, sono stati ritenuti non irragionevoli:
a) il criterio normativo di computo del termine per la riabilitazione del fallito (sentenza n. 549);
b) la norma che, apprestando una particolare tutela ai lavoratori esposti al rischio di contaminazione da amianto, la subordina alla sussistenza di un requisito temporale di durata (sentenza n. 5);
c) la norma che non estende ai militari delle Forze armate dello Stato e di quelle nemiche l’indulto concesso a coloro i quali avevano fatto parte di «formazioni armate», vale a dire di formazioni partigiane o del campo opposto. In questo caso la Corte, ricostruendo la ratio ispiratrice del provvedimento (cioè la necessità di una riconciliazione nazionale per porre fine a rancori e vendette e ricomporre nella civile convivenza il tessuto nazionale), ha ritenuto non fondata la censura del giudice a quo circa una pretesa discriminazione basata su elementi soggettivi, risultando chiara e non arbitraria la scelta di distinguere fra appartenenti a formazioni armate e appartenenti a Forze armate (sentenza n. 298).
Al canone della ragionevolezza la Corte è venuta aggiungendo, quali ulteriori criteri del giudizio di legittimità, il canone del bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti ed il canone delle compatibilità finanziarie o di sistema.
Cosí, con la sentenza n. 509, si è riaffermato che il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è garantito ad ogni persona come un diritto costituzionalmente condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti. Bilanciamento che, tra l’altro, deve tenere conto dei limiti oggettivi che il legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone, restando salvo, in ogni caso, quel «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come àmbito inviolabile della dignità umana».
8 - Il ricorso in via principale
Il giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ricorso in via principale, grazie alla sedimentata giurisprudenza, può dirsi “strutturato” in tutti i suoi aspetti, anche in quelli non espressamente disciplinati dalla legge. Ciò è confermato dall’analisi della giurisprudenza costituzionale del 2000, la quale ha - tra l’altro - ribadito che:
a) il ricorso in via principale deve essere autosufficiente, deve cioè prefigurare almeno nelle loro linee essenziali i motivi della doglianza (sentenze nn. 477 e 569);
b) il ricorso proposto dalla Regione è inammissibile, per carenza d’interesse, se il vizio denunciato non riguardi la violazione della sfera di competenza della regione ricorrente (sentenza n. 322);
c) nel giudizio in via principale non è ammissibile l’intervento di terzo, neppure quando l’interveniente sia l’ente o l’organo legittimo contraddittore, il quale intenda intervenire per sopperire alla tardiva costituzione dell’Avvocatura dello Stato (sentenza n. 507).
Vanno altresì ricordate le decisioni che forniscono all’interprete una vera e propria tipologia delle ipotesi di sopravvenuta cessazione della materia del contendere nel giudizio in via principale, quali ad esempio:
a) la perdita di efficacia, per decorso del termine in essa stabilito, della norma regionale impugnata (sentenze nn. 53 e 350);
b) l’adozione, da parte della Regione ricorrente, della norma la cui mancata approvazione aveva determinato l’intervento suppletivo dello Stato, a sua volta oggetto del ricorso (sentenza n. 284);
c) l’approvazione, successivamente al ricorso proposto dallo Stato, di una legge regionale incompatibile con quella censurata (sentenze nn. 138, 350, 527).
9 - GLI ALTRI GIUDIZI: A)
Conflitti tra poteri dello Stato
Nella fase preliminare di ammissibilità del giudizio sui conflitti tra poteri dello Stato, la carenza del requisito soggettivo o di quello oggettivo determina - come noto - l’inammissibilità del ricorso.
Sotto il profilo soggettivo, è stata negata la legittimazione del giudice di pace, ove ricorrente quale «coordinatore» dell’ufficio e non già nell’esercizio di funzioni giurisdizionali al momento della proposizione del conflitto (ordinanza n. 22).
Si è altresì esclusa la legittimazione passiva di un organo ministeriale (direttore generale del Ministero delle finanze) (ordinanza n. 112) e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in quanto titolare di attribuzioni prive di uno specifico rilievo costituzionale (ordinanza n. 137).
Alla Corte dei conti, invece, la legittimazione a proporre conflitto è stata riconosciuta anche quando l’organo agisca nell’esercizio della funzione ausiliare di controllo sulla gestione finanziaria degli enti contribuiti dallo Stato (ordinanze nn. 23, 280 e 573).
È stato ammesso anche il ricorso proposto dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in sede di giudizio sulle incolpazioni mosse ai magistrati, perché essa esercita, in posizione di indipendenza, una attribuzione costituzionalmente spettante al medesimo Consiglio ai sensi dell’art. 105 della Costituzione (ordinanza n. 530).
Ancora nella fase delibativa, si è confermata l’idoneità di atti di natura legislativa a determinare conflitto (ordinanze nn. 23, 280 e 573), mentre è stato ritenuto giuridicamente irrilevante un atto non specificamente indirizzato alla ricorrente (ordinanza n. 112).
Proceduralmente, si è ritenuta non preclusa la riproposizione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, allorquando il conflitto stesso sia stato in precedenza dichiarato improcedibile per tardività del deposito, sempreché permanga l’interesse a ricorrere (ordinanza n. 61).
Sotto altro aspetto è stato confermato che possono ritenersi soddisfatte le condizioni formali per una valida instaurazione del conflitto anche nel caso in cui il ricorrente organo giurisdizionale utilizzi la forma dell’ordinanza anziché quella del ricorso, tutte le volte in cui essa corrisponda, nel contenuto, al ricorso quale disciplinato dalla legge (sentenze nn. 10, 11, 320 e 321; ordinanze nn. 61, 81, 140, 150 e 264).
Peraltro solo nel ricorso e non già negli atti irritualmente trasmessi (dal ricorrente) possono rinvenirsi gli elementi identificativi della causa petendi e del petitum (ordinanza n. 264).
Giustifica, poi, la declaratoria d’inammissibilità del ricorso l’impropria utilizzazione del giudizio per conflitto di attribuzione in luogo dei rimedi che il sistema offre per affermare la responsabilità del magistrato cui si imputano comportamenti non legittimi (ordinanza n. 101). Egualmente inammissibile deve ritenersi il ricorso, quando tenda ad ottenere per via indiretta una declaratoria di illegittimità delle norme impropriamente impugnate in sede di conflitto (ordinanza n. 144), tanto piú se la disciplina legislativa di cui è questione è destinata a trovare applicazione in giudizio e in tale sede può essere appunto denunciata in via incidentale (ordinanza n. 211).
Inoltre, in sede di
conflitto di attribuzione tra poteri, non può essere chiesto alla Corte
costituzionale di provvedere a colmare una lacuna di legge, con la
predisposizione ex novo di un
complesso di regole, eccedente la sua competenza. Nella specie si trattava di
corrispondere all’esigenza di un’idonea rappresentanza e difesa dell’autorità
giudiziaria nei giudizi su conflitti di attribuzioni (tra Stato e Regioni) in
cui era coinvolto l’esercizio dei suoi poteri (sentenza n. 309).
Sono state invece respinte le eccezioni di inammissibilità per l’omessa indicazione delle norme costituzionali identificative delle attribuzioni difese e, quindi, per la carente esposizione delle ragioni costituzionali del conflitto, allorché, nel conflitto promosso dall’Autorità giudiziaria nei confronti del Parlamento, si sia fatto riferimento all’art. 68, primo comma, della Costituzione: la denuncia di una abusiva estensione della garanzia prevista da tale articolo si traduce, infatti, di per sé, nella denuncia della violazione delle attribuzioni dell’Autorità giudiziaria, così da far ritenere adempiuto l’onere di indicare la norma costituzionale che regola la materia, delimitando le attribuzioni costituzionali in discussione (sentenza n. 320).
Nonostante la dichiarata
ammissibilità del ricorso in sede di giudizio preliminare, si dà anche il caso
che il conflitto venga, invece, giudicato inammissibile all’esito del giudizio
di merito: nella specie per la contraddizione, rilevabile dal ricorso, del
comportamento del ricorrente, il quale, pur avendo rivolto formale richiesta di
un atto autorizzatorio alla parte avversa (Assemblea parlamentare), lamenta poi
la lesione della propria sfera di attribuzioni adducendo come unico motivo di
conflitto, non già il cattivo esercizio del potere autorizzatorio da lui
sollecitato, ma addirittura la carenza assoluta del potere stesso di deliberare
in merito a tale richiesta (sentenza n. 57).
10 - B) Conflitti intersoggettivi
Alcuni ricorsi per conflitto tra enti (Stato-Regioni o Stato-Province autonome) sono stati definiti con pronunce in rito.
Due decisioni, in particolare, hanno dichiarato la cessazione della materia del contendere: in un caso (sentenza n. 12) per la sopravvenienza di una nuova disposizione di legge, recante una soluzione interpretativa conforme alla prospettazione della Regione ricorrente; nell’altro caso (ordinanza n. 524), per l’integrale sostituzione dell’atto ministeriale in relazione al quale era stato promosso, con ricorso regionale, il conflitto.
Inoltre, l’inammissibilità del conflitto è stata dichiarata con sentenza n. 363, perché l’atto impugnato non poteva ricomprendersi tra quelli che affermano una potestà pubblica o che esprimono una pretesa dello Stato idonea ad invadere o a menomare l’ambito delle attribuzioni regionali costituzionalmente protette.
La rinuncia al ricorso, seguíta dalla relativa accettazione, determina poi l’estinzione del processo (ordinanza n. 476).
Per quanto riguarda le pronunce nel merito, si può segnalare quella con la quale sono stati accolti i ricorsi provinciali in forza di una contestuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dalla quale si ricavava il fondamento del potere ministeriale di cui era espressione l’atto impugnato (sentenza n. 63).
Mentre la mancanza di competenza regionale nella specifica materia del recupero dei rifiuti non pericolosi ha giustificato il rigetto del ricorso regionale e, con esso, della pretesa al riconoscimento di una procedura collaborativa tra Stato e Regione (sentenza n. 127), l’accoglimento del ricorso, in altro caso, è derivato proprio dalla riconosciuta interferenza e dal particolare legame delle funzioni regionali e statali nella specifica materia di tutela dei beni paesaggistici, che esigono - come riconosce la sentenza n. 437 - la piena attuazione del principio di leale cooperazione tra lo Stato e la Regione (nella specie, della Valle d’Aosta) in forme concrete ed effettive operando non in modo unidirezionale, ma reciprocamente.
Di particolare interesse è il ricorso deciso con la sentenza n. 511, promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano in relazione ad atti di indagine giudiziaria adottati nell’àmbito di un procedimento penale. Il conflitto, in questo caso, è stato ritenuto solo in parte fondato. Infatti, per un verso si è escluso che l’attività giudiziaria avesse avuto la pretesa di disciplinare l’attività amministrativa (o legislativa) della Provincia imponendole obblighi e indirizzi o altre limitazioni illegittimamente incidenti sull’autonomia provinciale. Per altro verso, invece, è stato riconosciuto che gli atti impugnati, per l’arco temporale al quale si riferivano, non avevano piú alcuna giustificazione, perché non derivavano da concrete esigenze di indagine, ma erano finalizzati ad un esercizio solo ipotetico dell’azione penale, e perciò, come tali, effettivamente lesivi delle attribuzioni della ricorrente.
11 - C) Ammissibilità del referendum
abrogativo
Nell’anno 2000 la Corte è stata chiamata a vagliare l’ammissibilità di un nutrito gruppo di richieste referendarie. Nel decidere i relativi giudizi, sono stati sostanzialmente confermati principî già in precedenza affermati circa i requisiti di ammissibilità del quesito referendario.
Sul piano processuale, per la prima volta, la Corte ha preso espressa posizione sul problema del c.d. “intervento” nel giudizio di ammissibilità del referendum. La richiesta, presentata da diverse associazioni private, di svolgere oralmente deduzioni in limine al giudizio di ammissibilità ha fornito alla Corte l’occasione per precisare che quest’ultimo non è un giudizio di parti ma un giudizio officioso, nel quale non v’è né costituzione di parti, né a fortiori ammissibilità di interventi.
Tuttavia, ha soggiunto la Corte, la possibilità di illustrare oralmente le posizioni dei soggetti interessati al giudizio costituisce una prassi non vietata dalla legge: sicché, se da un lato la sua sospensione non determina di per sé un vulnus ad alcuna norma costituzionale, dall’altro la facoltà di depositare memorie e di illustrarle oralmente non può ritenersi limitata al comitato promotore ed alla Presidenza del Consiglio, ma può essere concessa anche ad altri soggetti senza che costoro assumano la posizione di parti intervenienti (sentenze nn. 31, 43, 45, 46, 47, 49).
Quanto al merito dei
singoli giudizi di ammissibilità, un primo gruppo di sentenze ha confermato il
tradizionale criterio di ammissibilità, il quale esige che le norme oggetto del
quesito referendario
costituiscano un corpo normativo omogeneo, all’interno della legge che le
contiene (sentenze nn. 32, in tema di
rimborsi per le spese elettorali; 44, in tema di
conferimento di incarichi extragiudiziari a magistrati; 46, in tema di tutela c.d. reale del
lavoratore nel caso di licenziamento; 47, in tema di
trattenute associative e sindacali effettuate per mezzo di enti previdenziali; 34, in tema di elezioni dei
rappresentanti dei magistrati in seno al Consiglio superiore della
magistratura).
Si colloca in questo gruppo anche la sentenza n. 33, la quale ha dichiarato
(richiamando il decisum della
sentenza n. 13 del 1999) l’ammissibilità del referendum abrogativo di parte dell’attuale legge elettorale, sia
perché i vari quesiti referendari presentavano
una matrice unitaria ed un carattere omogeneo, sia perché l’esito
abrogativo non avrebbe reso inoperante la normativa in materia elettorale. Con
la stessa sentenza, inoltre, è stato escluso che il referendum in questione avesse carattere surrettiziamente
propositivo, giacché - abrogata parzialmente la disciplina stabilita dal
legislatore, per ciò che attiene alla ripartizione del 25% dei seggi – non vi
sarebbe stata la sua sostituzione con un’altra disciplina assolutamente diversa
ed estranea al contesto normativo, ma si sarebbe utilizzato un criterio già
esistente (sia pure residuale) e rimasto in via di normale applicazione nella
specifica parte di risulta dalla legge oggetto del referendum.
Per gli stessi motivi
(omogeneità, autoapplicatività e natura non propositiva del quesito) la Corte
ha dichiarato ammissibile (con la sentenza n. 37) anche il referendum c.d.
sulla “separazione delle carriere” dei magistrati. In tale occasione si è
peraltro osservato che una compiuta “separazione”delle carriere dei magistrati
(conseguenza questa eccedente l’oggettiva portata delle abrogazioni proposte)
avrebbe richiesto una nuova organica disciplina, suscettibile di essere
introdotta attraverso una complessa operazione legislativa e non già attraverso
la semplice abrogazione di alcune disposizioni vigenti.
Ugualmente nutrito è il gruppo delle sentenze che hanno ritenuto inammissibili i quesiti referendari cosí come proposti. In questi casi non soltanto sono ribaditi principî consolidati, ma non di rado è possibile riscontrare nella motivazione precisazioni o, se si vuole, approfondimenti di quei principî.
È possibile, al riguardo, ricondurre le sentenze di inammissibilità in quattro gruppi omogenei.
a) In diverse decisioni, la Corte ha ritenuto inammissibile la richiesta di referendum giudicando illegittima la c.d. “tecnica del ritaglio”: quella, cioè, consistente nel sottoporre al quesito referendario parole, sintagmi o brevi proposizioni privi di contenuto normativo, e ciò al solo fine di sostituire la disciplina investita dalla domanda referendaria con un’altra disciplina, assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo (in tal senso la sentenza n. 38, in tema di responsabilità civile dei magistrati; la sentenza n. 40, in tema di disciplina dei termini processuali; la sentenza n. 50, in tema di durata della custodia cautelare).
b) Un secondo gruppo fonda
la ragione del decidere sulla intrinseca irrazionalità od incongruenza del referendum, derivanti, in particolare,
dal contenuto non abrogativo del quesito, ove con esso si lascino in vita norme
contrarie agli obiettivi avuti di mira dal comitato promotore (sentenza n. 35, in tema di smilitarizzazione della guardia di
finanza; sentenza n. 43, in tema di
assistenza sanitaria pubblica; sentenza n. 48,
in tema di trattamento pensionistico, ove peraltro l’incongruenza è ravvisata
nel fatto che l’eventuale esito abrogativo del referendum, verificandosi con
efficacia ex nunc, non avrebbe potuto
mettere in discussione i diritti già quesiti). Contraddittoria è stata giudicata anche la richiesta dell’abrogazione di
una serie di norme in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro, a causa dell’insanabile contrasto esistente tra il principio della
copertura assicurativa generale degli infortuni sul lavoro - indipendente
dall’effettivo pagamento dei contributi - ed il regime auspicato dal comitato promotore, con copertura assicurativa
affidata alla libera contrattazione fra singoli datori di lavoro e
compagnie private (sentenza n. 36). Una condizione ostativa
all’ammissibilità del referendum è
stata ravvisata, oltre alla contraddizione tra fine perseguito dal comitato
promotore e conseguenze effettive delle eventuali abrogazioni, anche nella
natura eterogenea delle disposizioni oggetto di un quesito referendario che
unificava elementi eterogenei sotto un’indistinta rubrica, così precludendo
agli elettori l’opportunità di modulare la propria risposta sulla diversità dei
valori legislativi sottesi alle singole disposizioni (sentenza n. 39,
in tema di mediazione nel
mercato del lavoro).
c) Un terzo gruppo di sentenze che hanno concluso per l’inammissibilità del referendum si è basato su principî consolidati: sono state, peraltro, ritenute inammissibili le proposte di referendum miranti ad incidere su discipline che costituiscono diretta attuazione di un principio costituzionale, come quelle sugli Istituti di patronato e di assistenza sociale (sentenza n. 42), ovvero quella sul lavoro a domicilio (sentenza n. 49). Tra queste sentenze deve annoverarsi anche la sentenza n. 51, la quale ha giudicato inammissibile il referendum avente ad oggetto le norme sul sostituto d’imposta, sul presupposto che gli strumenti di attuazione della pretesa fiscale debbono ritenersi parte integrante della normativa tributaria.
d) Un ultimo gruppo di
sentenze ha fondato il giudizio di inammissibilità del referendum sulle conseguenze sul piano internazionale di
un’eventuale abrogazione, che potrebbe rendere l’Italia inadempiente ad
obblighi internazionali o comunitari (così la sentenza n. 41).
Già da tempo formulato dalla Corte, questo principio è stato ora esteso a due
fattispecie del tutto particolari: l’Acquis
di Schengen e le direttive comunitarie (non recepite). Con la sentenza n. 31,
infatti, la Corte ha affermato che l’abrogazione, per effetto di un eventuale
accoglimento della proposta referendaria, dell’intero testo unico
sull’immigrazione, avrebbe comportato il venir meno, nell’ordinamento interno,
di norme (quali, ad esempio, quelle di contrasto al fenomeno dell’immigrazione
clandestina) delle quali l’Italia deve necessariamente dotarsi, secondo quanto prescritto
dall’Acquis di Schengen. La Corte ha pure precisato al
riguardo che, sebbene il Consiglio non abbia ancora determinato la “base
giuridica” dell’Acquis, nondimeno
alcune norme della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen
costituiscono espressione di un preciso indirizzo normativo, ritenuto
rigidamente vincolante, al quale il nostro legislatore non potrebbe sottrarsi. Nello stesso ordine di idee si muove anche la sentenza n. 45 (in tema di lavoro part-time):
la Corte, rilevato che la normativa della quale si chiedeva l’abrogazione
tramite referendum rientra nel campo
di applicazione di una direttiva comunitaria, ha dichiarato inammissibile il
quesito, giudicando irrilevante la circostanza che la direttiva non fosse stata
ancora recepita. La forza particolare della normativa comunitaria trova del
resto conferma nel principio secondo cui, in generale, deve essere preferita
l’interpretazione non contrastante con le norme comunitarie vincolanti per
l’ordinamento interno (sentenza n. 190).
Anche se solo indirettamente concernente i referendum abrogativi, va citata infine la sentenza n. 502, con la quale si è
risolto un conflitto tra poteri proposto dai promotori e presentatori dei referendum abrogativi del 21 maggio
2000, nei confronti della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e
la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, in relazione alla deliberazione di
quest’ultima riguardante i vincoli all’informazione televisiva nella campagna
referendaria dello stesso anno. La Corte ha
respinto la richiesta dei promotori, ritenendo da un lato non fondata
l’interpretazione dei ricorrenti circa l’obbligo costituzionalmente rilevante,
nel corso della campagna referendaria, della c.d. comunicazione «istituzionale»
sul significato e sulla portata dei quesiti; e dall’altro conforme alla legge
n. 28 del 2000 la delibera impugnata, proprio per avere questa ragionevolmente
limitato la comunicazione sul merito dei quesiti, al fine di ridurre il
rischio, per le amministrazioni pubbliche, di fornire informazioni non neutrali
o rappresentazioni suggestive agli elettori.
12 - LE
DECISIONI DI MERITO
Per quanto riguarda le decisioni di accoglimento, si può dire che anche nell’anno cui ci riferiamo, sono state emesse decisioni che hanno riguardato l’intero testo normativo (sentenza n. 94, ove la dichiarazione di illegittimità consegue alla caducazione contestuale della norma generale, di cui la legge, nella specie regionale, costituiva diretta applicazione; sentenza n. 377, che riguarda una legge statale adottata non seguendo le speciali modalità prescritte dalle norme statutarie; sentenza n. 503, su cui infra, n. 30; sentenza n. 496, su cui infra, n. 28).
Nella maggioranza dei casi si danno dichiarazioni di illegittimità parziale: la sentenza colpisce una o piú disposizioni di legge nella loro formulazione testuale, oppure «nella parte in cui è previsto, disposto, stabilito che…», oppure (con valenza "additiva") «nella parte in cui non è previsto che …» (si vedano, ad esempio, per quest’ultimo tipo, le sentenze nn. 4, 186, 319, 347, 348, 360, 361, 375, 376, 423, 509) oppure ancora (con valenza "sostitutiva") «nella parte in cui è previsto che…, anziché…» (sentenza n. 450).
Tra le sentenze di accoglimento vanno incluse quelle che hanno statuito l’illegittimità di norme in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, estendendo cioè la dichiarazione di incostituzionalità ad altre disposizioni non censurate dal rimettente. Si vedano, ad esempio, le sentenze nn. 20, 332, 391, 450.
La dichiarazione di illegittimità consequenziale è stata applicata anche ai giudizi in via principale (sentenza n. 20), là dove la norma dichiarata illegittima (in via consequenziale) presentava un contenuto prescrittivo identico a quello della norma, dichiarata contestualmente illegittima, oggetto della questione proposta (sentenze nn. 20, 332, 391), trattandosi in alcuni casi della stessa norma trasfusa in un successivo testo normativo (sentenza n. 450, su cui infra, n. 33).
Nel caso delle sentenze di rigetto delle questioni, la Corte si avvale della distinzione risalente alla giurisprudenza dei primi anni, tra sentenze di mero rigetto e sentenze interpretative di rigetto, in ossequio al «principio della supremazia della Costituzione», che impone all’interprete di optare, tra piú soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la disposizione conforme alla Costituzione (sentenza n. 113; si vedano anche le sentenze nn. 1, 115, 190, 408, 440, 460, 526).
13 - Principio di unità e indivisibilità della Repubblica
La riaffermazione della tipicità e inderogabilità delle regole stabilite dall’art. 138 della Costituzione in materia di revisione costituzionale - regole legate, a loro volta, al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.) - ha portato la Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Veneto che prevedeva l’intervento consultivo, tramite referendum, della popolazione della stessa Regione in merito ad una iniziativa di legge costituzionale concernente forme e condizioni particolari da concedere alla Regione Veneto (sentenza n. 496).La Corte delinea, al riguardo, il ruolo dell’intervento popolare all’interno del procedimento di formazione delle leggi costituzionali (intervento previsto come meramente eventuale rispetto ad un’opzione rimessa alla decisione della rappresentanza politico-parlamentare) per concludere che non è consentito ad una frazione autonoma dell’intera popolazione insediata in una limitata porzione del territorio nazionale di pronunciarsi preventivamente su una proposta di revisione costituzionale, giacché le regole procedimentali e organizzative della revisione non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che intendano qualificarsi come manifestazioni di autonomia.
E’ noto che la violazione del principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione, costituisce una allegazione ricorrente nella gran parte dei giudizi di legittimità costituzionale, tanto in via principale, quanto in via incidentale. Di conseguenza, non mancano sentenze di accoglimento nelle quali, in modo esplicito od implicito, il principio di eguaglianza viene a posto a fondamento della decisione. In questa sede non è possibile citare tutte le sentenze in cui la declaratoria di illegittimità costituzionale sia stata motivata col richiamo, esclusivo o concorrente con altri parametri, al citato art. 3 della Costituzione.
Nondimeno, per il loro rilievo pratico, non si può fare a meno di ricordare due decisioni pronunciate nel corso dell’anno 2000: le sentenze nn. 319 e 431.
Con la prima la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 147 della legge fallimentare, nella parte in cui (secondo il diritto vivente) non prevedevano che il termine di un anno dalla cessazione dell’attività d’impresa - già stabilito come limite temporale per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale - si estendesse anche alla dichiarazione di fallimento della società e dei soci a responsabilità illimitata di società fallita, rispettivamente con decorrenza dalla cancellazione della società dal registro delle imprese e dal momento in cui i soci avessero perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata: ciò in ossequio al generale principio di certezza delle situazioni giuridiche e delle conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono sia per chi ne è colpito che per i terzi che con lui siano entrati in rapporto.
Con la sentenza n. 431 la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 56, secondo comma, della legge fallimentare ( r. d. 16 marzo 1942, n. 267), censurato - nella parte in cui non prevede che la compensazione non abbia luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi nell’anno anteriore al fallimento, anche se il credito è scaduto - perché vi sarebbe disparità di trattamento rispetto alle ipotesi di acquisto, ferme le altre condizioni, di un credito non ancora scaduto. Mentre in quest’ultimo caso la compensazione è esclusa, nel primo è invece ammessa, nonostante che ricorrano le identiche esigenze di non violare il principio del concorso sostanziale dei creditori e di evitare la creazione di un mercato dei crediti verso l’imprenditore insolvente. La Corte ha osservato che la differenza di trattamento fra crediti scaduti prima del fallimento e crediti non ancora scaduti trova plausibile spiegazione nel fatto che solo con riguardo ai primi l’effetto estintivo proprio della compensazione deve intendersi realizzato anteriormente alla dichiarazione del fallimento, onde le censure alla normativa si muovono tutte nell’ambito delle mere valutazioni di opportunità e di efficacia pratica e sono estranee allo scrutinio di legittimità costituzionale.
15 - Diritti
inviolabili
Diverse questioni hanno avuto ad oggetto il testo unico sulla disciplina
dell’immigrazione. Questo è stato ritenuto dalla Corte immune dai vizi
prospettati, pur con precisazioni sulla corretta interpretazione (cioè
costituzionalmente orientata) delle norme in esso contenute. Va segnalata tra
le altre la sentenza n. 161, nella quale la Corte - chiamata a pronunciarsi sulla congruità
dei termini previsti dalla legge per impugnare il decreto di espulsione e
concludere il relativo giudizio (rispettivamente, 5 e 10 giorni) - ha affermato
che la lettera della norma non preclude al giudice di sospendere l’efficacia
del provvedimento impugnato, quando circostanze oggettive e non sormontabili
impediscano la conclusione del procedimento nel termine di legge. Qui la Corte
non ha indicato lo strumento tecnico da adottare per la sospensione (se, ad
esempio, la norma sulla sospendibilità delle ordinanze ingiunzioni, ovvero
l’art. 700 cod. proc. civ.), individuando nel giudice del caso concreto
l’organo cui spetta scegliere, tra quelli messi a disposizione
dall’ordinamento, il mezzo più idoneo al fine indicato.
Una significativa addizione al testo unico sull’immigrazione è stata
apportata invece dalla sentenza n. 376. La Corte - chiamata a
stabilire se fosse legittima la possibilità di espellere lo straniero, non in regola
con il permesso di soggiorno, anche quando si trattasse del coniuge convivente
di una donna in stato interessante - richiamando la propria precedente
giurisprudenza (sentenza n. 1 del 1987), ha osservato che il divieto di
espulsione deve sussistere non soltanto nei confronti della donna in stato di
gravidanza, ma anche nei confronti del coniuge convivente di questa: nell’uno e
nell’altro caso, infatti, l’espulsione lederebbe l’esigenza di assicurare una
speciale protezione alla famiglia in generale ed ai figli minori in
particolare, che hanno il diritto di essere educati all’interno del nucleo
familiare per conseguire un idoneo sviluppo della loro personalità. Protezione,
quest’ultima, che spetta anche agli stranieri che si trovino a qualunque titolo
(e quindi anche irregolarmente) sul territorio dello Stato, perché il diritto e
il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con
sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno
dell’unità della famiglia costituiscono diritti fondamentali della persona.
16 - Confessioni religiose e
principio di laicità
Con la sentenza n. 508 la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 402 del codice penale che puniva con la reclusione
fino a un anno «chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato». I
principî fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di
religione e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni
religiose, senza che assuma rilevanza il dato quantitativo dell’adesione più o
meno diffusa a questa o a quella confessione, sono i riflessi del principio di
laicità dello Stato e ne caratterizzano la forma in senso pluralistico. In esso
devono convivere - in uguaglianza di libertà - fedi, culture e tradizioni
diverse e deve avere pari protezione la coscienza di ciascuna persona che si
riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza. Così il
ripristino dell’uguaglianza risulta possibile solo eliminando del tutto la
norma in questione (essendo preclusa in virtù dell’articolo 25, secondo comma,
della Costituzione, l’adozione di sentenze di illegittimità costituzionale
aventi valenze additive in malam partem in materia penale).
17 - Libertà
personale
La libertà personale fa parte dei diritti fondamentali della persona, come riconosce la sentenza n. 526, la quale ha ribadito che tale diritto non può tollerare di essere completamente compresso, sicché va tutelato anche quel “residuo” di libertà che permane nello stato di detenzione, che pure comporta, per definizione, una limitazione di libertà. Di conseguenza, il potere di perquisire i detenuti di cui sono titolari gli agenti della polizia penitenziaria non può essere esercitato arbitrariamente, ma solo nei casi previsti dalle norme che definiscono il regime carcerario e sempre con provvedimento motivato e suscettibile di reclamo. E’ da notare che, con la medesima decisione, la Corte ha rivolto un invito sia al legislatore, sia ai giudici: al primo, perché adegui l’ordinamento ai principî stabiliti dalla stessa Corte, prevedendo espressamente le forme e le modalità di impugnazione degli atti dell’amministrazione penitenziaria; ai secondi, perché si facciano carico, in assenza di interventi normativi, di garantire comunque, in via interpretativa, la giustiziabilità degli atti suddetti.
Con l’ordinanza n. 529 la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 304, comma 6, del codice di procedura penale, sollevata sul presupposto interpretativo che questa disposizione - nella parte in cui prevede che la custodia cautelare non possa comunque superare il doppio dei termini di cui all’articolo 303, commi 1, 2 e 3 cod. proc. pen. - si riferisca esclusivamente ai periodi di custodia cautelare tra loro omogenei, relativi cioè ad una stessa fase, e non debbano perciò essere calcolati, ai fini del raggiungimento del termine massimo, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi diverse. La Corte ha precisato che tale presupposto è erroneo e che, al contrario, deve essere ritenuta costituzionalmente obbligata l’interpretazione secondo cui la custodia cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un periodo pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione, anche se quel termine sia stato sospeso, prorogato o abbia iniziato una nuova decorrenza a séguito della regressione del processo. In armonia con l’articolo 13 della Costituzione, non sono dunque consentite distinzioni riferite alle ragioni che hanno determinato il nuovo corso del termine.
18 - Libertà
di manifestazione del pensiero e libertà di stampa
Se si ha riguardo al “valore cardine della libertà della manifestazione del pensiero” anche lo strumento punitivo può essere valutato come presidio di un bene altrettanto fondamentale come la dignità umana, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo ed a presidio del quale - sottolinea la Corte – è stata scritta la norma che colpisce con sanzione penale la pubblicazione di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti.
La sentenza n. 293 ha precisato che l’articolo 15 della legge sulla stampa n. 47 del 1948, non intende andare al di là del tenore letterale della formula, quando vieta gli stampati idonei «a turbare il comune sentimento della morale». Tale espressione, infatti, si riferisce alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea, quale “minimo etico”, identificabile con il rispetto della persona umana, valore che anima l’articolo 2 della Costituzione ed alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice.
Sul diritto di manifestare pubblicamente e liberamente il proprio pensiero riconosciuto anche ai militari si è pronunciata la sentenza n. 519 infra, n. 27.
19 - Diritto di azione e di difesa
La violazione del diritto di azione è stata prospettata in una questione avente
ad oggetto l’importante legge di riforma n. 431 del 1998, con la quale è stato
“riscritto” il sistema delle locazioni ad uso abitativo.
La legge di riforma, tra le altre disposizioni transitorie volte a
favorire il passaggio dal canone amministrato al canone libero, aveva previsto
anche la sospensione delle esecuzioni in corso; in questo caso, però, aveva
disposto una liquidazione forfettaria e presuntiva del danno subìto dal
locatore, per cui il conduttore non era tenuto al risarcimento del maggior danno,
ex art. 1591 cod. civ., allorché
avesse pagato il canone con la maggiorazione del 20%. Ha osservato la Corte che
una simile norma è legittima e non viola il diritto di azione nel periodo in
cui la sospensione dell’esecuzione è disposta ex lege, giacché in questo caso vi è l’esigenza di disciplinare una
rapporto prolungato per volontà della legge e quindi caratterizzato dalla
straordinarietà e temporaneità. Tale legittimità viene invece meno con
riferimento al periodo posteriore alla scadenza della proroga legale,
relativamente al quale la esclusione ope
legis della risarcibilità del danno ulteriore, rispetto al canone
maggiorato del 20%, costituisce una previsione irrazionale, in quanto non
fondata sulla necessità di contemperare in via temporanea e straordinaria gli
opposti interessi del locatore e del conduttore (sentenza n. 482).
Anche in altri casi, il richiamo al diritto di azione ed a quello di difesa, pure invocati, non ha condotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale, ma ha convinto la Corte a suggerire una lettura conforme a Costituzione.
Così, a garanzia dell’effettività del diritto di difesa in giudizio (richiamando in quel caso le disposizioni in materia adottate con convenzioni europee nell’àmbito di accordi internazionali dettati per la salvaguardia di diritti civili e politici), la sentenza n. 227 ha ritenuto esente dal denunciato vizio di costituzionalità l’articolo 11, comma 8, della legge 6 marzo 1998, n. 40 (ora riprodotto nell’articolo 13 del testo unico sull’immigrazione approvato con il decreto legislativo n. 286 del 1998) che prevede - per la presentazione del ricorso al pretore - un termine di cinque giorni a decorrere dalla comunicazione del decreto di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, anche quando il decreto non sia stato tradotto nella lingua madre dell’interessato, ma solo in una di quelle indicate dal regolamento attuativo contenuto nel d.P.R. n. 394 del 1999. In tali casi, infatti, il giudice, facendo uso dei suoi poteri interpretativi dei principî dell’ordinamento, può trarre una regola congruente con l’esigenza di non vanificare il diritto di azione in giudizio, come quella di ritenere inefficace il provvedimento non tradotto in lingua comprensibile e la sua inidoneità a far decorrere il termine per il ricorso.
Allo stesso modo basata sull’esigenza di tutelare il diritto di difesa
(oltre che sui principî di trasparenza e imparzialità della pubblica
amministrazione e di non discriminazione dei cittadini) è la sentenza n. 460, con la quale la Corte ha dato una diversa lettura della norma che
impone il segreto d’ufficio sugli atti compiuti dalla Consob nell’esercizio del
suo potere ispettivo e di vigilanza, anche quando tali atti siano preordinati
all’irrogazione di una sanzione amministrativa. L’incolpato, infatti, non
potrebbe validamente esercitare il proprio diritto di difesa, se non fosse
posto in condizione di conoscere i verbali e gli altri accertamenti compiuti
dalla Consob. Di qui la conseguenza necessaria di interpretare la norma in
questione nel senso della inopponibilità del segreto d’ufficio all’incolpato,
quando gli atti segretati siano stati posti a fondamento dell’irrogazione di
una sanzione amministrativa.
20 - Tutela della famiglia, della maternità e del minore
Nella materia del diritto di famiglia non sono mancate le pronunce di
illegittimità costituzionale, finalizzate a salvaguardare od ampliare la tutela
della famiglia, della maternità in generale e della lavoratrice madre in
particolare.
Alla rimozione di impedimenti alla formazione stessa di nuclei familiari
è diretta la sentenza n. 187, con la quale - confermato un già consolidato orientamento - viene
dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma (abrogata, ma applicabile
ratione temporis al caso di specie)
che subordinava il diritto alla pensione di reversibilità in favore del coniuge
superstite alla circostanza che il matrimonio fosse avvenuto prima del
pensionamento dell’assicurato; norme di questo tipo, ha osservato la Corte,
ledono il diritto alla libertà di contrarre matrimonio quomodolibet.
Parimenti, una grave interferenza nella sfera privata e familiare è stata
considerata la prescrizione che imponeva di essere senza prole per l’assunzione
a certi impieghi o incarichi pubblici (sentenza n. 332, su cui infra, n. 32).
Con la sentenza n. 250, inoltre, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo
l’art. 803, primo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che - in caso di
sopravvenienza di un figlio naturale - la donazione possa essere revocata solo
se il riconoscimento del figlio sia intervenuto entro due anni dalla donazione.
La Corte è pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale
comparando le posizioni del genitore legittimo e di quello naturale. Soltanto
per quest’ultimo, infatti, la legge prevedeva il suddetto limite temporale per
la revoca della donazione: con la conseguenza che la norma è stata ritenuta
ingiustamente lesiva della facoltà del genitore naturale di esercitare il
diritto di revoca, quando egli ritenga che solo riacquistando il bene donato
possa adempiere ai suoi doveri genitoriali.
Con riferimento al problema
del riconoscimento di altre categorie di eredi legittimi in assenza di
testamento, la Corte (sentenza n. 532)
ha osservato che: a) la situazione esistente tra le persone tra le quali esiste
un rapporto di semplice consanguineità non è assimilabile - in riferimento agli
artt. 3 e 29 della Costituzione - alla situazione in cui si trovano soggetti
legati dal vincolo di vera e propria parentela; b) dall'art. 30 della
Costituzione non discende in maniera costituzionalmente necessitata la
parificazione di tutti i parenti naturali ai parenti legittimi, perché i
rapporti tra la prole naturale e i parenti del genitore che ha provveduto al
riconoscimento (o nei cui confronti la paternità o la maternità sia stata
giudizialmente accertata) sono estranei all'ambito di operatività dell’invocato
parametro costituzionale. In ogni caso si tratta di scelte di politica
legislativa non sindacabili, se non per violazione del dettato costituzionale;
né potrebbe essere giustificato un intervento additivo della Corte tale da
alterare profondamente l’ordine successorio vigente.
Con la sentenza n. 352 la Corte ha, invece, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 del codice penale, censurato nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei fatti previsti dal titolo XIII del libro II del codice penale commessi in danno del convivente more uxorio, trattato diversamente dal coniuge non legalmente separato, il quale, per gli stessi fatti, beneficia del regime di non punibilità. La Corte ha osservato che non può ritenersi irragionevole od arbitraria l’adozione di soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’articolo 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio, poiché solo nel primo caso viene in rilievo la protezione della «istituzione familiare», basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente. Del resto, un’eventuale declaratoria d’incostituzionalità, la quale avesse assunto a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, avrebbe avuto effetti eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità, poiché avrebbe potuto estendere al convivente un complesso di ulteriori disposizioni penali, talora anche in malam partem.
Sulla distinzione della convivenza di fatto dalla famiglia legittima si pronuncia anche l’ordinanza n. 313.
Una maggiore tutela alle lavoratrici madri è stata apprestata dalla Corte con le sentenze nn. 360 e 361.
Occupandosi delle lavoratrici a domicilio, le quali non potevano fruire, nel caso di gravidanza, del diritto all’interdizione anticipata dall’attività lavorativa, previo accertamento medico (diritto garantito invece a tutte le altre lavoratrici), la Corte, pur dando atto delle peculiarità del lavoro a domicilio, ha ritenuto questa discriminazione lesiva del diritto ad un’adeguata protezione della maternità, e quindi contraria ai principî costituzionali (sentenza n. 360).
Discriminazione per certi versi analoga è quella cui ha posto rimedio la sentenza n. 361, con la quale la Corte - chiamata a vagliare la conformità all’ordinamento costituzionale della norma che non consentiva alle imprenditrici agricole in via principale, in caso di maternità, di godere dell’indennità di maternità, erogata invece alle altre lavoratrici autonome - ha osservato che il legislatore ha progressivamente esteso l’indennità di maternità, originariamente prevista per le sole lavoratrici dipendenti, anche alle autonome ed alle professioniste, sia pure stabilendo criteri diversi quanto al contenuto del diritto ed alle modalità di erogazione. Tutte queste norme, si osserva, hanno la duplice finalità di tutelare la salute della donna e del nascituro e di evitare che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno, che induca la lavoratrice a non interrompere né a diminuire il ritmo di lavoro nella fase piú delicata della gravidanza, con pregiudizio, quindi, per la salute della madre e del figlio.
Degna di nota è, ancora, la sentenza n. 500, con la quale la Corte è intervenuta sul delicato tema delle adozioni. La questione aveva ad oggetto la compatibilità con la Costituzione della norma che vieta l’adozione di maggiorenni (adozione c.d. “ordinaria”), quando tra adottante ed adottando non sussista un divario d’età pari almeno a 18 anni, anche nelle ipotesi in cui l’adottante sia il coniuge del genitore dell’adottando. Poiché il rimettente aveva invocato, quale parametro di riferimento, la diversità di trattamento rispetto all’adozione di minorenni, la Corte ha sottolineato come tra l’adozione di maggiorenni e quella di minori non può essere instaurato un confronto: la prima, infatti, non implica necessariamente il pieno inserimento dell’adottato nella comunità familiare e non determina la soggezione alla potestà del genitore adottivo, il quale a sua volta non assume l’obbligo di mantenere, istruire ed educare l’adottato. Tanto basta a rimarcare le differenze, anche se il legislatore ben potrebbe valutare se nuove esigenze sollecitino una diversa disciplina.
Infine va segnalata la sentenza n. 518, la quale, nel ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 564 del codice penale (che punisce come incesto i rapporti sessuali tra soggetti legati da vincoli di parentela o di affinità, tenuti in modo che ne derivi pubblico scandalo), ha precisato che la giustificazione obiettiva della norma, corrispondente a un ethos le cui radici si perdono nel tempo, mira a evitare perturbazioni della vita familiare nonché ad aprire alla più vasta società la formazione di strutture di natura familiare; essa è ascrivibile alla discrezionalità legislativa così come la delimitazione dell’estensione dei tipi di relazioni familiari ricadenti nell’area del divieto penalmente sanzionato, fino a ricomprendervi gli affini in linea retta. Inoltre, la scelta di perseguire solo i fatti che abbiano dato luogo a pubblico scandalo trova spiegazione nel non irragionevole bilanciamento tra l’esigenza di repressione dell’illecito e la protezione della tranquillità degli equilibri domestici da ingerenze intrusive, quali le investigazioni della pubblica autorità volte ad accertare il reato.
21 - Tutela della salute e dell’ambiente
Nel solco di una giurisprudenza abbastanza recente (sentenze nn. 307 del 1990, 118 del 1996 e 27 del 1998), la Corte è tornata a pronunciarsi in tema di trattamenti sanitari e di danni irrimediabili alla salute che ne possono derivare. Le nuove decisioni fondano spesso la loro ratio su principî già affermati.
Ad esempio, con riguardo al riconoscimento del diritto all’indennizzo a carico dello Stato, i principi di non discriminazione e di razionalità impongono di non trattare meno favorevolmente, rispetto ai soggetti sottoposti a vaccinazione antipoliomielitica, quanti abbiano subíto danni alla salute perché sottoposti, a partire dall’anno 1983 - in risposta ad una campagna legalmente promossa dall’autorità sanitaria e non ancora in forza di un obbligo legale (sopravvenuto successivamente) - a vaccinazione antiepatite B. Tuttavia la Corte precisa - sempre ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo e della sua decorrenza in conseguenza di un danno irrimediabile alla salute - che non può essere confrontata la disciplina apprestata in caso di danno da vaccinazione obbligatoria con quella del danno da trasfusione, ancorché quest’ultimo trattamento, pur non essendo imposto per legge, sia comunque necessitato, pena il rischio della vita. Non rileva, infatti, a tal fine l’assimilazione che si vorrebbe tra la “cogenza” dell’obbligo legale e la “necessità” della misura terapeutica, perché la ragione determinante del diritto all’indennizzo - come precisano le sentenze nn. 226 e 423 - risiede nell’interesse pubblico di promozione della salute collettiva tramite il trattamento sanitario e lo stesso interesse (una volta che sia assunto a ragione dell’imposizione di un trattamento sanitario o di una politica incentivante) è fondamento dell’obbligo generale di solidarietà nei confronti di quanti, sottoponendosi al trattamento, vengono a soffrire di un pregiudizio alla loro salute.
Né trova giustificazione la pretesa di includere nell’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992 la liquidazione del danno biologico subíto a seguito di emotrasfusione; pretesa che tende a trasferire elementi propri della tutela risarcitoria in un altro sistema di garanzia. Infatti, a differenza del risarcimento del danno da responsabilità civile - che presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile, la cui entità dipende quindi dalle singole fattispecie valutabili caso per caso dal giudice -, il diritto all’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di trasfusioni e somministrazione di emoderivati sorge per il solo fatto del danno irreversibile alla salute, derivante da epatite post-trasfusionale, e si configura come sostegno aggiuntivo in misura prefissata dalla legge, basato su presupposti obiettivi facilmente determinabili secondo parametri fissi, in modo da consentire agli interessati in tempi brevi una protezione certa nell’an e nel quantum (sentenza n. 423).
Le finalità di protezione dell’ambiente e della salute umana concorrono anche a determinare gli indirizzi nella disciplina regionale della gestione dei rifiuti.
Con la sentenza n. 281 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 1, della legge della Regione Piemonte 13 aprile 1995, n. 59, che imponeva il divieto di smaltimento nelle discariche regionali dei rifiuti pericolosi di provenienza extraregionale: tale divieto è stato ritenuto lesivo dei principî fondamentali della legislazione statale, contenuti nel decreto legislativo n. 22 del 1997, interpretati in coerenza con i principî della normativa comunitaria in materia.
A differenza dei rifiuti urbani non pericolosi (per i quali è pienamente applicabile il criterio dell’autosufficienza, anche sotto il profilo del divieto di smaltimento di quelli extraregionali), per i rifiuti pericolosi - avverte la Corte -, tenendo conto della loro specificità e del fatto che per essi non appare predeterminabile un àmbito territoriale ottimale, quale potrebbe essere, in astratto, quello regionale, si deve invece ritenere concorrente il diverso criterio della specializzazione dell’impianto di smaltimento, integrato comunque dal criterio della prossimità, considerato il contesto geografico, in modo da ridurre, il più possibile, il rischio ambientale derivante dalla movimentazione dei rifiuti.
Sulla salute della madre e del nascituro si è pronunciata la sentenza n. 360 (supra, n. 20)
22 - Diritto al lavoro e giusta retribuzione
In materia lavoristica non si sono registrati scostamenti rilevanti rispetto alla precedente consolidata giurisprudenza.
Due decisioni meritano di essere segnalate, tra le altre.
Innanzitutto la sentenza n. 459, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 36 della Costituzione, dell'art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, limitatamente alle parole «e privati», in quanto norma che escludeva, per i crediti di lavoro derivanti da rapporti di diritto privato, il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, pur attribuendo automaticamente al lavoratore la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione, e che riconduceva, per il resto, la disciplina di tali crediti a quella generale dell'art. 1224 del cod. civ. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento. La decisione mette in evidenza la necessità di riconoscere ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, una effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, mediante la previsione (anche in funzione di remora all’inadempimento) di un meccanismo di riequilibrio del vantaggio patrimoniale indebitamente conseguito dal datore di lavoro attraverso l’inadempimento.
La sentenza n. 441,
a sua volta, ha ribadito ancora una volta il criterio del bilanciamento ed il
principio della professionalità specifica.
Il criterio del bilanciamento è dettato dalla necessità di salvaguardare gli interessi generali e costituisce dunque limite alla libertà di svolgere incondizionatamente qualsiasi attività lavorativa: secondo la Corte, infatti, la garanzia del diritto al lavoro non comporta una generale ed indistinta libertà di svolgere qualsiasi attività professionale. Sicché, quando sussista l’esigenza di stabilire, nell’interesse della collettività e dei committenti, i requisiti di adeguata preparazione occorrenti per l’esercizio dell’attività professionale, è consentito al legislatore fissare condizioni e limiti in vista della tutela di altri interessi parimenti meritevoli di considerazione. Corollario di questo criterio è il principio di professionalità specifica, il quale richiede, per l’esercizio delle attività intellettuali rivolte al pubblico, un adeguato livello di preparazione e di conoscenza delle materie inerenti alle attività stesse.
23 - Previdenza e assistenza
Con la sentenza n. 516, la Corte è intervenuta nuovamente sul tormentato problema del cumulo di indennità di contingenza per i titolari di pensioni e assegni vitalizi. Il giudice delle leggi ha fissato in subiecta materia una regola e un’eccezione. La regola è che il divieto del cumulo delle indennità di contingenza, di per sé, non risulta in contrasto con alcuna norma della Costituzione. L’eccezione è che lo stesso principio può divenire, tuttavia, illegittimo allorché il legislatore non preveda comunque un limite minimo di trattamento economico complessivo al di sotto del quale non debba operare il divieto, tale da garantire comunque al lavoratore pensionato ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
Con la sentenza n. 184, è stato poi ritenuta non incostituzionale la mancata previsione, per l’indennità di mobilità, di un meccanismo di rivalutazione identico a quello introdotto per la Cassa integrazione guadagni. È stato precisato che il trattamento di integrazione salariale straordinaria è strutturalmente diverso rispetto al trattamento di mobilità e, d'altra parte, rientra nella discrezionalità del legislatore un’eventuale parificazione, essendo esclusa in materia una scelta costituzionalmente vincolata, dal momento che, anche nell'attuale quadro normativo, il trattamento riservato all'indennità di mobilità garantisce ai lavoratori mezzi adeguati alle esigenze di vita.
La sentenza n. 335, a sua volta, nel rigettare la questione di costituzionalità proposta, ha stabilito che il diritto ad una provvidenza di carattere definitivo, come la pensione di vecchiaia, destinata a coprire l'intero arco della vita residua del lavoratore, fa implicitamente venir meno - in quanto ne rappresenta un emolumento sostitutivo nel tempo - le ragioni giustificatrici del trattamento previdenziale provvisorio dell'indennità di mobilità, che cessa, invece, dopo un limitato periodo di tempo e che è finalizzata a soddisfare le esigenze minime del lavoratore, riconosciute e protette dall'art. 38 della Costituzione. Appare perciò ragionevole e non confliggente con i parametri evocati (artt. 3 e 37 della Costituzione) la previsione dell’incompatibilità di tale indennità con il trattamento pensionistico di vecchiaia, successivamente al compimento dell'età pensionabile, che è non irragionevolmente fissato per le donne a cinquantacinque anni anziché a sessanta, come per gli uomini.
La sentenza n. 393 osserva che la prescrizione dell’art. 59, comma 3, della legge n. 449 del 1977 - secondo cui «a decorrere dal 1° gennaio 1998, per tutti i soggetti nei cui confronti trovino applicazione le forme pensionistiche definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio (…) il trattamento si consegue esclusivamente in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti dalla disciplina dell'assicurazione obbligatoria di appartenenza» - realizza un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, ponendosi quale momento essenziale della complessiva riforma della materia in attuazione degli scopi enunciati dall'art. 38, secondo comma, della Costituzione.
Ancora, con la sentenza n. 310, concernente le norme con le quali il legislatore - stabilendo le modalità di pagamento delle somme maturate dagli aventi diritto in applicazione delle sentenze di incostituzionalità nn. 495 del 1993 e 240 del 1994 – ha disposto l’estinzione dei giudizi pendenti con compensazione delle spese di lite, la Corte ha espresso un giudizio di sufficienza ( che ha portato ad escludere la denunciata incostituzionalità ) delle scelte che il legislatore, nella sua responsabilità, ha ritenuto possibile effettuare, in una situazione palesemente eccezionale, per non ostacolare la concreta realizzazione dei diritti controversi, tenuto conto, nel quadro generale delle compatibilità, del rapporto corrente fra l’entità delle pretese e le effettive disponibilità finanziarie consentite dalla congiuntura economica del paese.
24 - Proprietà
Sotto il profilo del contenuto del diritto di proprietà privata, con la sentenza n. 238 la Corte ha affermato due principî: da un lato, quello secondo cui un regime vincolistico della proprietà immobiliare non può giungere sino al punto di escludere in toto il diritto a ristrutturare l’immobile (senza modificarne volumetria, superficie e sagome), poichè la manutenzione e la ristrutturazione costituiscono uno dei contenuti essenziali del diritto di proprietà; dall’altro, che è irrazionale una disciplina vincolistica la quale, in tema di limiti alla possibilità di modificare od ampliare l’immobile, preveda un regime differenziato tra immobili legittimamente edificati ed immobili originariamente abusivi, ma successivamente oggetto di condono.
Le pronunce della Corte riguardano anche l’espropriazione per pubblica utilità, e la determinazione dell’indennità.
Come noto, l’indennità di espropriazione di cui all’art. 5-bis del d.l. n. 333/92 (e successive modificazioni) è attualmente liquidata per le aree edificabili in base alla media aritmetica tra valore venale del fondo e decuplo del reddito dominicale, il tutto ridotto del 40%, a meno che l’espropriante non opti per la cessione volontaria. Tanto l’abbattimento del 40%, quanto i criteri di determinazione del valore venale da porre a base del calcolo, hanno costituito oggetto di esame da parte della Corte.
In particolare, con la sentenza n. 262 e con l’ordinanza n. 300 (sic!), è stata ritenuta non in contrasto con la Costituzione la previsione di un abbattimento del 40% dell’indennità dovuta, nel caso in cui l’espropriando non accetti l’offerta dell’ente espropriante, ovvero non addivenga a cessione volontaria nel corso della procedura. Tale disposizione, infatti, è stata interpretata come volta a prevenire le controversie giudiziarie e favorire le composizioni amichevoli e quindi non solo non irrazionale, ma utile ed opportuna. La Corte ha altresì precisato che gli eventuali abusi dell’ente espropriante nella determinazione dell’indennità di esproprio (offerta, ad esempio, in misura irrisoria al fine di provocare il rifiuto dell’espropriato) o comunque l’eventuale incongruità delle valutazioni dell’indennità non possono influire sulla legittimità costituzionale della norma che prevede l’abbattimento del 40% dell’indennità nel caso di rifiuto della cessione volontaria, tenuto conto che la tutela delle parti in questi casi “patologici” resta affidata alle valutazioni interpretative dei giudici di merito.
Anche i criteri di determinazione del valore venale del fondo sono stati vagliati dalla Corte. In particolare - dubitatosi della conformità a Costituzione della norma (art. 16 d. lgs. 504/92), che àncora il valore venale massimo del fondo da espropriare a quello dichiarato dal proprietario (o dal suo dante causa) ai fini dell’ICI, nel precedente anno d’imposta - la Corte ha escluso (con la sentenza n. 351) la sussistenza del denunciato vizio di legittimità, affermando che la norma assolve l’importante funzione di disincentivare le evasioni fiscali, con un meccanismo non irragionevole né arbitrario, che si fonda su un principio “di plurima rilevanza” della dichiarazione fiscale, non ignoto al nostro ordinamento e pienamente giustificato alla luce della lealtà, correttezza e collaborazione cui debbono essere improntati i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.
Degna di nota è, su un tema affine a quello ora esaminato, la sentenza n. 390, in tema di indennizzo per l’imposizione di servitù militari. Sino a tale pronuncia, l’imposizione di una servitù militare su un fondo suscettibile di sfruttamento agricolo comportava il pagamento, in favore del proprietario, di un indennizzo calcolato in base al reddito dominicale del terreno. La Corte ha però ritenuto tale disciplina costituzionalmente illegittima, perché fonte di indennizzi irrisori, nei casi in cui la servitù venga imposta su terreni con preesistente destinazione edificatoria ed insuscettibili di utilizzazione agricola, e quindi privi in tutto o in parte di rendita dominicale e agraria (ovviamente, restando riservata al potere discrezionale del legislatore la fissazione dei criteri di indennizzo nei casi ora indicati).
25 - Ordinamento militare e Forze armate
Con la sentenza n. 406 la Corte ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 260, secondo comma, del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede che la richiesta di procedimento del comandante di corpo - alla quale è subordinata la perseguibilità dei reati per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore a sei mesi - non possa più essere proposta quando per lo stesso fatto sia stata irrogata la sanzione disciplinare della consegna di rigore. Secondo la prospettazione del rimettente, l’applicazione di questa norma condurrebbe a due risultati in contrasto con la Costituzione: da un lato, infatti, il responsabile verrebbe punito due volte con misure di analogo contenuto afflittivo; dall’altro, la doppia punizione dipenderebbe soltanto dalla solerzia del comandante di corpo (che ha un termine di un mese per formulare la richiesta di sanzione disciplinare). La Corte ha però escluso l’esistenza di entrambi i vulnera prospettati dal rimettente: non quello della doppia punizione, perché sanzione disciplinare e sanzione penale hanno contenuti tra loro diversi; né quello della dipendenza dalla solerzia del comandante di corpo, perché la disposizione che subordina la procedibilità alla richiesta del comandante mira ad evitare la celebrazione contemporanea di due procedimenti (disciplinare e penale), ma non a evitare il cumulo delle sanzioni.
26 - Capacità contributiva
Con la sentenza n. 362, si è adottata una interpretazione correttiva, che ha escluso le violazioni denunciate in materia di reddito delle persone fisiche derivante da immobili concessi in locazione. Ha osservato la Corte che, in subiecta materia, il criterio cardine è quello della determinazione della base imponibile con riferimento alla rendita catastale, anziché al reddito concretamente percepito dalla locazione. Il riferimento al canone locativo quale base d’imposta costituisce una eccezione e può operare fintanto che il contratto di locazione continui ad essere efficace. Quando, invece, il rapporto cessi per qualsivoglia motivo (risoluzione ope legis, scadenza del termine), il riferimento al reddito locativo non è più praticabile e risorge la regola generale che pone a base d’imposta la rendita catastale. Sicché il proprietario, il quale non intenda pagare un’imposta commisurata ai canoni di locazione che non ha mai percepito a causa della mora del conduttore, non ha che da intimare a quest’ultimo la diffida ad adempiere ex art. 1454 cod. civ. per far cessare automaticamente il rapporto e, con esso, l’imponibilità dei canoni maturati, anche se non percepiti.
Un ampliamento della tutela del contribuente è stato assicurato dalla sentenza n. 416, in materia di agevolazione per l’acquisto della prima casa. Come noto, il nostro ordinamento prevede diversi tipi di agevolazioni (in particolare, quelli di cui alla legge n. 168 del 1982 ed al d.l. n. 12 del 1985), ma fino ad epoca recente, non era consentito il cumulo delle agevolazioni. Nel 1998, il legislatore, pur avendo eliminato il divieto di cumulo dei benefici fiscali, aveva escluso il rimborso a quanti avessero già pagato l’imposta per intero. La Corte ha ritenuto che questa disciplina, da cui conseguiva soltanto l’illegittimità dell’atto impositivo e non anche il conseguente diritto del contribuente al rimborso dell’imposta eventualmente pagata in misura maggiore rispetto a quella calcolata con l’aliquota ridotta, era fonte di un’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente uguali.
27 - Responsabilità penale. Fattispecie criminose e pene
In materia penale, nell’anno 2000, la Corte è stata chiamata a valutare la legittimità di numerose norme incriminatrici, sia del codice penale, sia del codice penale militare di pace. In tutti i casi, è stata comunque esclusa la illegittimità della norma censurata.
La sentenza n. 302 ha escluso l’illegittimità costituzionale dell’articolo 649, primo comma, del codice penale, denunciato nella parte in cui non comprende tra i fatti non punibili quelli previsti dall’articolo 12 del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella legge n. 197 del 1991, relativi alle ipotesi di indebita utilizzazione della carta di credito (o documento analogo) di un congiunto, dopo la sua sottrazione, se commessi in danno dei congiunti ivi indicati. La decisione si basa sul rilievo che la fattispecie descritta dalla norma incriminatrice ha una dimensione lesiva che trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi a valori riconducibili agli àmbiti categoriali dell’ordine pubblico o economico e della fede pubblica. Nella specie, dunque, difetta ogni esigenza di allineamento del trattamento della fattispecie prevista dalla legge speciale (tramite l’estensione dell’articolo 649, primo comma, del codice penale) ai delitti contemplati negli articoli da 624 a 648 del codice penale, ove commessi in danno di un congiunto.
Una ratio decidendi analoga si rinviene - salve le necessarie distinzioni riguardanti il settore investito dalla pronuncia - nella sentenza n. 352 su cui si vedano le osservazioni sub n. 20.
Con la sentenza n. 263 la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 120 del codice penale militare di pace, il quale sanziona con la pena della reclusione fino ad un anno il militare che viola la consegna ricevuta. La norma era stata censurata per l’asserita carenza di determinatezza della fattispecie. La decisione, nel respingere le doglianze, ha ribadito che la fattispecie incriminatrice della violata consegna, posta a protezione del bene giuridico della funzionalità ed efficienza di servizi determinati, risponde al requisito, invocato dal rimettente, della offensività in astratto, che va intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale. La norma non è suscettibile, di per sé, di ledere interessi di rilievo costituzionale, ma impone al giudice un accertamento circa l’effettiva idoneità dell’inadempimento del militare a pregiudicare l’integrità del bene giuridico protetto, e quindi in ordine all’offensività in concreto; accertamento volto, dunque, ad impedire ogni arbitraria e illegittima dilatazione dei fatti da ricondurre al modello legale.
Nella sentenza n. 519 sono contenute alcune puntualizzazioni sul concetto di “sedizione”, rilevanti ai fini dell’applicazione, costituzionalmente adeguata, delle norme di cui agli artt. 182 e 183 del codice penale militare di pace. In particolare le manifestazioni e le grida sediziose (nonché l’attività sediziosa) penalmente rilevanti sono solo quelle che denotano oggettivamente ostilità e ribellione nei confronti delle istituzioni e dell’ordinamento militare, espresse in circostanze di fatto e con modalità tali da essere idonee a suscitare reazioni violente e sovvertitrici dell’ordine e della disciplina militare. Rimangono escluse dal modello legale le manifestazioni o le grida che esprimono generico malcontento, ovvero forme di protesta, di critica e di dissenso che, in quanto prive di una carica destabilizzante o di rivolta nei confronti dell’ordinamento e della disciplina militare, rientrano nell’esercizio del diritto di manifestare pubblicamente e liberamente il proprio pensiero, riconosciuto anche ai militari dall’art. 9 della legge n. 382 del 1978, sulla disciplina militare.
Con la sentenza n. 531, le censure sollevate - sotto molteplici profili - in ordine all’entità della pena stabilita per il reato di vilipendio alla bandiera di cui all’articolo 83, primo comma, del codice penale militare di pace, sono state ritenute non fondate perché riconducibili ad una critica di significato essenzialmente politico-legislativo. La Corte ha osservato che il bene protetto dalla norma incriminatrice, e cioè la dignità del simbolo dello Stato come espressione della dignità dello Stato medesimo nell’unità delle istituzioni che la collettività nazionale si è data, non si estende alle espressioni di critica, anche aspra, ma solo a manifestazioni offensive che neghino ogni valore ed ogni rispetto all’entità oggetto di protezione, e ben giustifica la differenza di trattamento riguardante i militari, per la maggiore intensità che il dovere di fedeltà riveste nei loro riguardi.
Infine, la sentenza n. 223 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 5, della legge n. 230 del 1998, in materia di obiezione di coscienza, per la differenza di trattamento esistente tra le due ipotesi di rifiuto totale della prestazione del servizio militare di leva per motivi diversi da quelli di coscienza (o senza addurre motivo alcuno) e quella di rifiuto per motivi di coscienza, stabilita nel comma 4 della stessa disposizione. L’esonero dall’obbligo di prestazione del servizio militare dipenderebbe, nel primo caso, dall’espiazione della pena inflitta e, nel secondo, dalla sola condanna. La decisione precisa che, al contrario di quanto ritenuto dai giudici remittenti, esistono ragioni a giustificazione della scelta operata dal legislatore, tenuto conto della differenza delle fattispecie a seconda che entrino o non entrino in gioco fattori di coscienza; differenza che s’impone di per sé e che il legislatore e la stessa precedente giurisprudenza costituzionale hanno ritenuto rilevante.
28 - LE FONTI: Leggi
costituzionali
Con riferimento al problema dei limiti formali alla iniziativa legislativa attribuita ai Consigli regionali dall’art. 121 Cost., è stato precisato che tale iniziativa riguarda indubbiamente anche le leggi di revisione costituzionale. Peraltro, come si è già rilevato (supra, n. 13), è da escludere che il corpo elettorale regionale possa essere chiamato a pronunciarsi su provvedimenti intesi ad innovare l’ordinamento a livello costituzionale, sia pure nella forma apparentemente piú tenue del referendum consultivo. Lo impedisce, per l’appunto, il principio di rigidità e la tipicità del procedimento di revisione prescritto dall’art. 138, che non ammette neanche la possibilità di referendum abrogativi su tale tipo di leggi (sentenza n. 496).
29 - Decreti legge e leggi di conversione
In caso di conversione parziale del decreto-legge, la mancata conversione in legge della norma denunciata, contenuta nel decreto-legge, rende manifestamente inammissibile la sollevata questione, allorché la legge di conversione non abbia previsto la salvezza degli effetti prodotti né abbia riprodotto, anche parzialmente, la stessa norma in altra disposizione (ordinanze n. 505 e 591).
30 - Leggi di delegazione e decreti delegati
Il controllo sulla conformità a Costituzione delle leggi di delega e
delle norme delegate e sul rapporto di compatibilità tra le une e le altre, ha
portato a tre pronunce (due delle quali dichiarative di illegittimità
costituzionale).
La sentenza n. 276 ha riguardato la norma istitutiva dell’obbligo, per tutte le
controversie di lavoro, del tentativo obbligatorio di conciliazione, a pena
d’improcedibilità della domanda. Il dubbio di costituzionalità derivava dalla
mancanza nella legge delega di ogni riferimento alla sanzione
dell’improcedibilità quale conseguenza dell’omissione del tentativo di
conciliazione. Nell’esaminare le censure, la Corte ha ribadito il proprio
orientamento, secondo il quale il controllo sulla normativa delegata
implica che si proceda: a) all’interpretazione delle norme della legge di
delegazione che determinano i principî e i criteri direttivi, da ricostruire
tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità che ispirano
la delega; b) all’interpretazione delle disposizioni emanate in attuazione
della delega, tenendo presente che i principî stabiliti dal legislatore
delegante costituiscono non solo il fondamento ed il limite delle norme
delegate, ma anche un criterio per la loro interpretazione, in quanto esse
vanno lette, finché possibile, nel significato compatibile con i principî della
delega legislativa. Alla luce di tali
premesse, la Corte ha osservato che la previsione del tentativo facoltativo di
conciliazione già sussisteva nell’ordinamento, per cui non avrebbe avuto senso
delegare il Governo a prevederne una “nuova versione”. La legge delega, quindi,
deve interpretarsi nel senso che la misura alla cui introduzione mirava il
legislatore fosse qualcosa di diverso da quella esistente: giustappunto, un
tentativo obbligatorio e non facoltativo.
La sentenza n. 292 ha avuto ad oggetto
norme del decreto legislativo con il quale, a conclusione del processo di
riforma avviato nel 1992, sono stati trasferiti alla giurisdizione del giudice
amministrativo interi ed importanti settori di controversie. La Corte, mentre
ha escluso l’esistenza di vizi di costituzionalità nella legge delegante (nella
specie era prospettato il difetto di sufficiente determinatezza), ne ha per
contro ravvisati nella legge delegata. Questa, infatti, aveva istituito la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici
servizi: ma tale non era, secondo la Corte, la finalità della legge delega, la
quale si era limitata a prevedere l’attribuzione al giudice amministrativo
delle questioni concernenti diritti patrimoniali consequenziali, esclusivamente
nei casi in cui la giurisdizione sulla materia già spettasse al giudice
amministrativo, in base alle norme vigenti.
Infine, con la sentenza
n. 425
- che ha avuto larga eco nell’opinione pubblica, a causa della rilevanza
sociale della materia su cui ha inciso (i contratti bancari) - la Corte ha
compiutamente definito il criterio da porre a base del giudizio di conformità
della norma delegata alla norma delegante, alla stregua dell’art. 76 della
Costituzione. Tale giudizio, in particolare, deve snodarsi lungo due processi
ermeneutici paralleli: l’uno relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principî
e i criteri direttivi, tenendo conto del
complessivo contesto in cui si collocano le norme e individuando le ragioni e
le finalità poste dalla legge di delegazione; l’altro relativo alle norme
delegate, da interpretarsi nel solo significato compatibile con i principî
e criteri direttivi della delega. Alla
stregua di tale criterio è stato ritenuto che la delega conferita al Governo
(con l’art. 1, comma 5, legge n. 128 del 1998) per l’emanazione di
“disposizioni integrative e correttive” del testo unico bancario, non potesse
legittimare l’esecutivo ad emanare una norma (l’art. 25, comma 3, del decreto
legislativo 4 agosto 1999, n. 342) il cui effetto era quello di sanare, con
efficacia generale e retroattiva, tutte le clausole anatocistiche contenute in
contratti bancari stipulati anteriormente all’entrata in vigore della
deliberazione del CICR prevista dallo stesso art. 25, quale che fosse il tipo
di vizio da cui erano affette, realizzando così tra la legge delegata ed il
testo bancario (del quale la prima avrebbe dovuto essere “integrazione o
correzione”) un collegamento meramente occasionale.
I medesimi principî sono stati applicati anche dalla sentenza n. 503, con ulteriori precisazioni. Occorrendo stabilire se una generica dizione contenuta nella legge delega (“riordinare gli enti pubblici nazionali in attesa di riforma”) potesse giustificare, da parte della norma delegata, la modifica della riforma, da poco varata, degli enti lirici, la Corte, in applicazione del principio sopra esposto dell’interpretazione parallela della norma delegante e di quella delegata, ha osservato che non avrebbe avuto senso, da parte del legislatore, delegare l’esecutivo a riordinare gli enti lirici, che da poco tempo erano già stati oggetto di riforma. Così, date due possibili interpretazioni della legge delega, e posto che una di esse risultava incompatibile con il quadro normativo esistente, la Corte ha necessariamente dovuto adottare l’altra interpretazione, la quale conduceva però alla illegittimità della norma delegata, per aver attuato la delega in carenza dell’oggetto della delega stessa.
31 - ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
- Organi costituzionali: le prerogative del Parlamento e le attribuzioni
esclusive del Governo
Nei conflitti tra poteri dello Stato e, in specie, in quelli tra l’Autorità giudiziaria e le Assemblee parlamentari, la giurisprudenza costituzionale del 2000 introduce un nuovo indirizzo in tema di interpretazione della norma costituzionale (art. 68, primo comma) relativa alla garanzia dell’insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Se è vero che non mancavano le premesse al mutamento di indirizzo già nella giurisprudenza degli anni immediatamente precedenti, le sentenze nn. 10 e 11 costituiscono, comunque, le decisioni del revirement e il riferimento obbligato per le altre sentenze che, analogamente alle prime sopra citate, hanno successivamente accolto i ricorsi proposti da diverse autorità giudiziarie (sentenze nn. 56, 58, 82 e 420) o, al contrario, li hanno respinti in base alla identica premessa di principio (sentenze nn. 320 e 321).
Nei primi commenti a tale nuovo indirizzo giurisprudenziale si è voluto intravedere il carattere della «coralità» delle pronunce pur nella diversità dei redattori e delle argomentazioni.
Alle prime sentenze si devono, infatti, le necessarie precisazioni in ordine, in particolare:
a) alla doverosa distinzione di competenza del giudice ordinario e della Corte costituzionale, la quale non può accertare la sussistenza delle responsabilità dedotte in giudizio (sentenza n. 11);
b) alla natura del giudizio reso dalla Corte costituzionale in relazione a conflitti tra poteri, poiché il giudizio in questione non si atteggia a giudizio sindacatorio (assimilabile a quello del giudice amministrativo chiamato a valutare un atto cui si imputi il vizio di eccesso di potere) su una determinazione discrezionale dell’assemblea politica (sentenza n. 10): in ogni caso, precisa la Corte, al fine di accertare se, in concreto, l’espressione dell’opinione del parlamentare possa ricondursi all’esercizio delle funzioni, il controllo del giudice costituzionale investe direttamente il merito della controversia costituzionale sulla portata e l’applicazione dell’art. 68, primo comma (sentenza n. 11);
c) alla ricorrenza e al significato del «nesso funzionale» tra le opinioni espresse dal parlamentare e la funzione parlamentare coperta dalla garanzia costituzionale: le dichiarazioni del parlamentare, infatti, possono essere coperte dall’immunità solo in quanto risultino sostanzialmente riproduttive di (o corrispondenti a) un’opinione espressa in sede parlamentare (sentenze nn. 10, 11 e 320), non bastando la semplice «comunanza di argomenti» o la riconducibilità delle dichiarazioni ad un medesimo «contesto» per sostenere la ricorrenza del nesso funzionale.
In altro conflitto tra poteri - intervenuto tra potere esecutivo e autorità giudiziaria - definito con un duplice accoglimento dei ricorsi presentati dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Giudice per le indagini preliminari e del pubblico ministero presso il Tribunale di Bologna, venivano in questione le attribuzioni governative, propriamente quelle del Presidente del Consiglio dei ministri relative alla tutela del segreto di Stato. La sentenza n. 487, emessa al riguardo, è lo sviluppo ulteriore di una vicenda conflittuale che aveva dato già luogo a due sentenze di accoglimento dei ricorsi, sempre del Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti delle autorità giudiziarie dello stesso Tribunale di Bologna (sentenze n. 110 e 410 del 1998). La Corte, quindi, ha ribadito quanto già affermato in quei due precedenti, ovvero l’inutilizzabilità, in sede giudiziaria, di atti e documenti coperti dal segreto di Stato, ritualmente opposto e confermato dal Presidente del Consiglio.
32 - Principî sui pubblici uffici e sul pubblico impiego
Con la sentenza n. 75, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della norma che ha imposto alle amministrazioni locali di annullare gli atti di inquadramento del personale viziati da illegittimità. Nell’escludere che la norma censurata presentasse il lamentato vizio, la Corte (dopo aver precisato che non è esatto ricondurre all’esercizio obbligatorio dell’autotutela l’imposizione alle amministrazioni locali di adempimenti funzionali al riassetto degli inquadramenti del personale in modo conforme a legge) ha (comunque) affermato che, se il potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di copertura costituzionale, tuttavia lo strumento dell’autotutela deve sempre essere valutato nel quadro dei principî di imparzialità, di efficienza e di legalità dell’azione amministrativa, riconducibili all’art. 97 della Costituzione.
Con la sentenza n. 332,
la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittime un cospicuo numero di norme
che richiedevano quale requisito per
l’assunzione a pubblici impieghi (o per la destinazione a particolari
incarichi) l’essere senza prole. Nella motivazione della sentenza la Corte ha
affermato che una così grave interferenza nella sfera privata e familiare della
persona non può ritenersi giustificata neppure dall’intensità e dalla
tendenziale esclusività del rapporto di dedizione che deve legare il militare
al corpo di appartenenza.
Né possono essere prese in considerazione condotte criminose di soggetti diversi dal candidato per desumere, incontestabilmente, l’inidoneità del candidato medesimo a ricoprire l’ufficio pubblico cui aspira. In questo modo, infatti, non viene eliminata, ma anzi si perpetua, quella presunzione legislativa, già connessa al precedente requisito dell’appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa, la cui palese arbitrarietà aveva appunto indotto la Corte a ravvisarvi un’irragionevole limitazione nell’accesso ai pubblici uffici (sentenza n. 108 del 1994). Di conseguenza la sentenza n. 391, ha: a) dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 26 della legge 1 febbraio 1989, n. 53, nella parte in cui, rinviando per l’accesso ai ruoli del personale del Corpo di polizia penitenziaria al possesso delle qualità morali e di condotta stabilite per l’ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevede che siano esclusi coloro i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanna per taluno dei delitti di cui all’art. 40, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale; b) in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 ha, altresì, dichiarato l’illegittimità dell’art. 124, settimo comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, nella parte in cui, nel disciplinare i requisiti di ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevede che non siano ammessi al concorso i candidati i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanna per taluno dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.
Il richiamo al principio di buon andamento della pubblica amministrazione compare anche nella sentenza n. 375. Con tale decisione la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che consentiva all’amministrazione della difesa di iniziare sine die il procedimento disciplinare nei confronti dei vicebrigadieri e dei militari di truppa dell’arma dei carabinieri, quando fossero stati condannati irrevocabilmente in sede penale. Questa sconfinata discrezionalità della pubblica amministrazione, che in teoria avrebbe potuto attendere anche anni prima di avviare il procedimento disciplinare, era già stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’ordinamento costituzionale, con riferimento però alle altre armi dell’Esercito, sicché l’analoga norma vigente per i Carabinieri non ha potuto sottrarsi alla medesima censura.
33 - Elezioni comunali - Cause di ineleggibilità
In tema di ineleggibilità (nella specie, alla carica di sindaco) si può citare la sentenza n. 450. La questione sottoposta all’esame della Corte ha avuto ad oggetto la norma che impediva l’elezione a sindaco di candidati con parenti o affini i quali fossero appaltatori di lavori o di servizi comunali. Sotto il profilo della razionalità della norma, la Corte ha osservato che, in origine, per la carica di sindaco era ineleggibile sia chi fosse appaltatore di opere pubbliche per conto del Comune, sia chi avesse parenti od affini che rivestissero tale qualità. Ciò però non dava luogo ad alcuna contraddizione; anzi, la maggiore importanza e delicatezza della carica di sindaco rispetto a quella di consigliere comunale, ben poteva giustificare la previsione piú severa e restrittiva della legge. Successivamente, però, per effetto del mutamento del quadro normativo, la qualità di appaltatore del Comune, già prevista come causa di ineleggibilità, è stata prevista come causa di incompatibilità. Questo mutamento ha manifestato la sua irrazionalità con l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco: infatti, il candidato che sia in proprio titolare di un appalto del Comune è incompatibile sino a quando perdura tale situazione, per cui la rimozione di essa prima della convalida dell’elezione consente di evitare la decadenza. Al contrario, il fatto di essere prossimo congiunto dell’appaltatore dà luogo ad una non rimediabile ineleggibilità, con conseguente perdita della carica conseguita e inevitabile rinnovo dell’intero procedimento elettorale. Questa contraddizione è stata ritenuta dalla Corte concretare un vizio di illegittimità costituzionale contrastante con il principio di eguaglianza-ragionevolezza: infatti, ciò che nell’originario contesto normativo si configurava come un giustificato aggravamento delle condizioni di eleggibilità del sindaco rispetto a quelle previste per la carica di consigliere comunale, è divenuto un irrazionale e piú gravoso trattamento giuridico rispetto a quello riservato alle circostanze, pur di non minor peso, che danno invece luogo a semplice incompatibilità
34 - Regioni
La giurisprudenza costituzionale del 2000 riguarda altresì i rapporti tra Stato e regioni, l’individuazione delle rispettive sfere di competenza, la ricognizione dei limiti alla potestà legislativa regionale.
Si segnala la sentenza n. 496, nella cui motivazione la Corte ha proceduto ad una approfondita ricognizione del necessario discrimine tra autonomia locale ed unità dello Stato come configurata dall’ordinamento costituzionale.
Una ricostruzione, sulla base di principî, dei rapporti tra norma statale e norma regionale è contenuta nella sentenza n. 477, avente ad oggetto un ricorso in via principale del Governo avverso una legge regionale (nella specie, della Regione Trentino Alto-Adige), che aveva disciplinato la costituzione ed il funzionamento delle Camere di commercio, cioè una materia devoluta alla potestà legislativa c.d. “esclusiva” della regione (e, quindi, soggetta al solo limite del rispetto delle norme fondamentali di riforma economico-sociale). Tuttavia, poiché la medesima materia era stata disciplinata successivamente dalla legge 580 del 1993, il Governo aveva eccepito la illegittimità costituzionale sopravvenuta della normativa regionale, per mancato adeguamento ai principî posti dalla legge statale. La Corte, affrontando tale questione, ha affermato che:
a) non spetta al
legislatore qualificare le proprie norme come “norme fondamentali di riforma economico-sociale”, carattere che va
invece determinato in base ad elementi oggettivi;
b) il rispetto, da parte delle Regioni, delle “norme fondamentali
di riforma economico-sociale” è preordinato
alla tutela dell’unità delle scelte politiche fondamentali della Repubblica;
c) il rispetto delle “norme fondamentali di riforma economico-sociale” va inteso in modo restrittivo, cioè limitato
alle sole leggi effettivamente dotate di contenuto riformatore, corrispondenti
a scelte di "incisiva innovatività" in settori qualificanti la vita
sociale;
d) la legge contenente “norme fondamentali di riforma economico-sociale” obbliga le Regioni ad
uniformare le proprie norme non ad ogni disposizione della legge stessa, ma
soltanto al suo nucleo essenziale.
In applicazione di tali criteri, la Corte ha ritenuto che, tra i molti
principî contenuti nella legge di riforma delle Camere di commercio, gli unici
cui la Regione doveva adeguare la propria normativa fossero quelli concernenti:
a) la natura di ente territoriale delle Camere di commercio; b) l’autonomia
statutaria di esse; c) il loro carattere rappresentativo.
In materia di assetto del territorio va considerata la sentenza n. 378, con la quale è stata chiarita la natura dei Piani Territoriali Paesistici Regionali (PTPR, anche denominati “piani stralcio”, per la loro funzione orientata alla salvaguardia di uno o più aspetti particolari del territorio) ed i loro rapporti con gli strumenti urbanistici comunali. In particolare la Corte ha osservato come i PTPR non hanno la limitata efficacia di un piano territoriale di coordinamento urbanistico, ma sono immediatamente precettivi e vincolanti sia nei confronti dei Comuni, sia nei confronti dei soggetti privati, con efficacia impeditiva e paralizzante di qualsiasi intervento edificatorio difforme. Né, si osserva ancora nella sentenza, questa limitazione dell’autonomia comunale è contraria alla Costituzione, poichè il rispetto delle autonomie comunali deve armonizzarsi con la verifica e la protezione di concorrenti interessi generali, legati alle esigenze del territorio.
35 - Poteri statali e regionali in materia sanitaria
La materia dell’organizzazione sanitaria, ha ribadito la sentenza n. 63, è riservata alla Regione ed in essa lo Stato può intervenire soltanto attraverso la legislazione di principio o di riforma e con l’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. Di conseguenza è stata ritenuta illegittima la norma che attribuisce al Ministro della sanità un potere sostanzialmente normativo, vincolante nei confronti delle Regioni e delle Province autonome, in tema di disciplina dell’attività professionale “intra-muraria” e di sanzioni per gli amministratori che non si adeguano alle norme regionali sulla gestione economico-finanziaria e patrimoniale delle aziende sanitarie. Nella stessa sentenza è stata viceversa ritenuta legittima l’individuazione, da parte del Ministro della sanità, di “percorsi diagnostici e terapeutici” cui i medici debbono conformare le proprie autonome decisioni tecniche, allo scopo di assicurare l’uso appropriato delle risorse, a condizione che tale compito di indirizzo tecnico sia circoscritto entro gli stessi limiti e le stesse condizioni d’esercizio del potere governativo di indirizzo e coordinamento. Legittimo è stato altresì ritenuto il potere del Ministro della sanità di ridurre la quota del Fondo sanitario nazionale spettante alla Regione, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di risparmio prefissati, da parte delle aziende sanitarie locali. La legittimità della norma è stata giustificata col fatto che la riduzione del finanziamento non è decisa unilateralmente e discrezionalmente dal Ministro, ma costituisce il risultato di una procedura partecipata che prevede l’intervento della Regione, per il tramite della Conferenza Stato-Regioni.
36 - Segue: in materia tributaria
Con riferimento al riparto delle entrate tra Stato e Regioni, la Corte ha fatto richiamo a pochi, chiari e semplici principî: a) la potestà impositiva spetta allo Stato; b) alle Regioni spetta l’organizzazione degli uffici finanziari sul territorio; c) lo Stato e le Regioni debbono collaborare secondo il principio di leale cooperazione.
In particolare, è stato ritenuta incompatibile con il principio di leale cooperazione tra Stato e Regione la previsione di un decreto interministeriale, che statuisce i criteri tecnici atti a dividere il gettito aggiuntivo tra Stato e Regione, assunto senza la partecipazione di quest’ultima (sentenza n. 98).
È stata invece ritenuta legittima la norma che demanda alle Regioni la riscossione, l’accertamento, nonché il recupero, i rimborsi, l’applicazione delle sanzioni ed il contenzioso amministrativo relativi alle tasse automobilistiche non erariali, con le modalità stabilite con decreto del Ministro delle finanze, a condizione che tale norma abbia un’efficacia limitata, in attesa di un’autonoma disciplina regionale della materia (sentenza n. 507).
Il principio dell’autonomia finanziaria regionale e della competenza spettante alle Regioni in materia di ordinamento degli uffici regionali è stato richiamato per affermare la contrarietà alla Costituzione della norma che attribuisce al decreto del Ministro delle finanze l’applicazione dello schema tipo di convenzione per l’affidamento a terzi dell’attività di controllo e riscossione delle tasse automobilistiche di pertinenza regionale.
Ancóra, l’esistenza di una competenza non esclusiva delle Regioni in materia di tutela e di gestione dell’ambiente non ostacola, dal punto di vista costituzionale, l’istituzione da parte dello Stato, nell’esercizio della sua generale potestà impositiva, di tributi che - per la materia imponibile colpita e per la loro disciplina - possano definirsi «ambientali», nel senso che essi abbiano anche effetti di incentivo o disincentivo di condotte, rispettivamente favorevoli o pregiudizievoli per l’ambiente: né il gettito di tali tributi deve necessariamente essere devoluto, in tutto o in parte, alle Regioni.
37 - Segue: in tema di
ordinamento del personale
Nella medesima sentenza n. 507, richiamata al paragrafo che precede, sono contenute ulteriori affermazioni di principio in tema di ordinamento del personale. La decisione ha stabilito che le Regioni, al pari degli “altri enti dotati di autonomia”, hanno l’obbligo di adeguare i propri ordinamenti al principio della programmazione triennale del fabbisogno di personale e a quello dell’abolizione degli organismi superflui. Inoltre, anche le Regioni sono vincolate, in tema di rapporto d’impiego, al rispetto del generale principio, contenuto nelle leggi di riforma del personale delle pubbliche amministrazioni, secondo cui la disciplina del trattamento economico del personale pubblico è riservata al contratto, collettivo e individuale. Da qui la legittimità della statuizione legislativa che vieta, anche nei confronti del personale regionale contrattualizzato, l’attribuzione di miglioramenti economici al di fuori dei procedimenti di contrattazione collettiva.
38 - Segue: in materia urbanistica
Con la citata sentenza n. 507, la Corte ha infine ritenuto lesiva delle competenze regionali in materia urbanistica la norma statale che, ai fini della decorrenza del termine di 180 giorni per la formazione del silenzio-assenso relativo all’approvazione da parte della Regione di strumenti urbanistici, previsto da una serie di decreti-legge non convertiti, disponeva che tale termine, non maturato sotto il vigore di alcuno dei decreti-legge singolarmente considerato, “si intende[sse] raggiunto nel periodo di vigenza dei successivi decreti-legge”. Poiché con tale norma il legislatore statale aveva prescritto, con efficacia retroattiva, che un silenzio-assenso mai formatosi avesse efficacia di approvazione di strumenti urbanistici in realtà mai approvati dalla Regione, la Corte ha considerato la norma invasiva della sfera della competenza legislativa regionale.
39 - Enti e comunità
territoriali
Alla procedura di modificazione delle circoscrizioni dei Comuni è dedicata la sentenza n. 94, in cui la Corte ha affermato che rientra nella competenza del legislatore regionale, titolare ai sensi dell’art. 117 Cost. della materia riguardante le “circoscrizioni comunali”, di definire, nel rispetto della Costituzione e dei principî fondamentali della legislazione statale, il procedimento che conduce alla variazione dei territori dei Comuni e dunque anche i criteri di individuazione delle “popolazioni interessate“, la cui consultazione è obbligatoria ai sensi dell’art. 133, secondo comma, della Costituzione. Tuttavia il legislatore regionale è tenuto ad adottare criteri che non escludano dalla consultazione gruppi di popolazione per i quali possa ragionevolmente ritenersi sussistente un interesse rispetto alla variazione territoriale proposta. Non soddisfa tale condizione la scelta fatta dalla legge della Regione Veneto che prevede che siano consultate le popolazioni comunali - diverse da quelle residenti nell’area soggetta a spostamento, da interpellare in ogni caso - sulla base del raggiungimento di una soglia minima del territorio comunale soggetto a variazione: tale criterio non costituisce, infatti, metodo attendibile, potendosi dare il caso che la cessione di una porzione anche piccola del territorio comunale, per le infrastrutture che sopra vi insistono, presenti un rilevante interesse per la popolazione complessiva del Comune stesso.
Con la sentenza n. 4 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni ( artt. 17, comma 6, 22, commi 2, 5 e 7) della legge della Regione Sicilia n. 33 del 1997 per contrasto con la legge statale n. 157 del 1992, che ha inteso salvaguardare le caratteristiche di omogeneità dei territori nei quali si esercita la caccia, sollecitando la ripartizione del territorio agro-silvo-pastorale ad essa destinato in àmbiti possibilmente omogenei e delimitati da confini naturali, così da realizzare uno stretto vincolo tra il cacciatore ed il territorio nel quale esso è autorizzato ad esercitare l’attività venatoria e valorizzando, al tempo stesso, il ruolo della comunità che, in quel territorio, è insediata e che è primariamente chiamata, attraverso gli organi direttivi degli àmbiti, a gestire le risorse faunistiche.
40 - Ordine giudiziario
In tema di ordine giudiziario, la sentenza n. 497 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato. Nella motivazione è richiamato l’interesse pubblico al corretto e regolare svolgimento delle funzioni giurisdizionali e al prestigio dell’ordine giudiziario, nonché il diritto di difesa della persona incolpata. L’uno e l’altro fanno sì che, al massimo di incisività delle garanzie accordate al magistrato sottoposto a procedimento disciplinare, deve corrispondere una altrettanto incisiva tutela del prestigio dell’ordine giudiziario e del corretto e regolare svolgimento delle funzioni giudiziarie. Questa tutela, a sua volta, deve essere apprestata salvaguardando l’indipendenza del singolo magistrato, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura.
E’ stato, al contrario, ritenuto infondato il dubbio di legittimità costituzionale riguardante l’articolo 33, comma 2, del codice di procedura penale, in relazione all’articolo 1, secondo comma, della legge n. 180 del 1981 e agli articoli 7-bis e 97 dell’ordinamento giudiziario nella parte in cui – secondo la prospettazione del giudice a quo – consentirebbe, per i tribunali militari, la composizione di collegi giudicanti con magistrati di altri uffici giudiziari, senza osservare criteri precostituiti e senza la necessità di una motivazione dei provvedimenti, che permetta di verificare i criteri seguiti per la sostituzione e senza che ne derivi un vizio attinente alla capacità del giudice (sentenza n. 392). La Corte ha rilevato, al riguardo, che anche nell’ordinamento militare le applicazioni e le supplenze possono essere disposte seguendo criteri prefissati e con provvedimenti che consentano di verificare l’osservanza di regole obiettive e predeterminate stabilite dal Consiglio della magistratura militare e, pertanto, ha escluso la lesione dei principî di eguaglianza e di precostituzione del giudice.
41 - Processo penale
Come negli anni precedenti, anche nel corso del 2000 le norme disciplinanti il procedimento penale sono state oggetto di varie censure di illegittimità costituzionale. Sono state, di conseguenza, numerose le decisioni della Corte che hanno inciso su tale procedimento.
L’anno appena trascorso, tuttavia, ha presentato una differenza rispetto ai precedenti: per la prima volta, infatti, la Corte è stata chiamata a fare applicazione del mutato quadro normativo costituzionale ed a saggiare la tenuta dei tradizionali istituti processuali rispetto alla nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione.
In tema di formazione della prova in dibattimento, con la sentenza n. 440, la Corte, prendendo atto del mutato contesto normativo (a séguito delle modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 2 del 1999), ha concluso che l’interpretazione estensiva riservata alle deroghe al principio del contraddittorio per «accertata impossibilità di natura oggettiva» non è più compatibile con i contenuti della sopravvenuta disciplina costituzionale. Sicché, tra le cause di natura oggettiva che rendono impossibile la formazione della prova nel contraddittorio, non può farsi più rientrare l’esercizio della facoltà legittima di astenersi dal deporre, riconosciuta al prossimo congiunto dell’imputato. Tale astensione dipende infatti dalla volontà dell’interessato, ha natura soggettiva e non oggettiva e non può valere ad impedire la formazione dibattimentale della prova.
Anche l’ordinanza n. 439 - con la quale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione relativa all’articolo 513, comma 2, del codice di procedura penale- la Corte ha fatto riferimento alla nuova formulazione dell’articolo 111 della Costituzione, ricordando al giudice a quo la necessità di approfondire la motivazione in ordine alla rilevanza e soprattutto in ordine al rapporto intercorrente tra l’articolo 1, comma 2, del decreto-legge n. 2 del 2000 (che rende immediatamente applicabili «i principî di cui all’articolo 111 della Costituzione»), e la norma censurata.
Accanto ai problemi posti dalla riforma dell’art. 111 della Costituzione, la Corte è stata chiamata a risolvere anche questioni più “tradizionali”: tra queste, numerose, come sempre, quelle in tema di libertà personale, ricusazione del giudice, notificazioni.
In tema di libertà personale, la sentenza n. 359 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, comma 2, lettera b, del d.P.R. n. 448 del 1988 (come sostituito dall’articolo 42 del decreto legislativo n. 12 del 1991) che consentiva al giudice di disporre la custodia cautelare nei confronti del minorenne nel caso di pericolo di fuga. La decisione ha rilevato una violazione dei criteri della delega (art. 3, comma 1, lettera h, della legge n. 81 del 1987), che non prevedeva il ricorso alla custodia cautelare per i minori in coerenza con i principî affermati a livello internazionale riguardo al diritto penale minorile, ed ha dichiarato illegittima la disposizione per violazione dell’articolo 76 della Costituzione.
In tema di ricusazione del giudice, con la sentenza n. 283, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto. La decisione, si fonda anche in questo caso sul principio del giusto processo, di cui la garanzia dell’imparzialità e della neutralità del giudice costituisce uno dei più rilevanti aspetti. Secondo la Corte, l’imparzialità si sostanzia nell’esigenza di evitare che il giudice possa essere, o anche solo apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda, e perciò esposto alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente svolte. Queste evenienze di fatto, però, sono difficilmente tipizzabili, con la conseguenza che solo gli istituti dell’astensione e della ricusazione del giudice (e non quello dell’incompatibilità) sono idonei a fornire la cornice entro la quale l’elaborazione giurisprudenziale potrà definire i casi della loro applicazione. Di tale principio la Corte ha fatto applicazione nella sentenza n. 113, con cui ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36 del codice di procedura penale, denunciato – con riferimento alla proposizione di cui al comma 1, lettera h («altre ragioni di convenienza») - nella parte in cui non prevede tra le cause di astensione l’avere il giudice precedentemente pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen. nei confronti di uno o più concorrenti nel reato, così compiendo valutazioni pregiudicanti per gli imputati non patteggianti. La Corte, ricordato che il principio di supremazia costituzionale impone all’interprete di optare, tra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la disposizione conforme alla Costituzione, ha stabilito - per la realizzazione del principio del giusto processo - che la formula ivi contenuta impone una valutazione caso per caso, un automatico dovere di astensione del giudice nel giudizio successivo.
In tema di notificazioni, la sentenza n. 504 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 460, comma 4, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la revoca del decreto penale di condanna e la restituzione degli atti al pubblico ministero, anche nel caso in cui non sia possibile la notificazione nel domicilio dichiarato a norma dell’articolo 161 del codice di procedura penale. Anche in tale ipotesi, infatti, l’impossibilità di eseguire la notificazione al domicilio dichiarato dall’imputato avrebbe comportato l’alta probabilità che questi non avesse conoscenza effettiva del decreto e che l’eventuale proposizione dell’opposizione fosse rimessa esclusivamente alla valutazione e alla iniziativa del difensore.
Tra le pronunce di accoglimento merita di essere ricordata, infine, la sentenza n. 186, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 616 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. La Corte ha osservato che la natura sanzionatoria della condanna esige la valutazione della condotta del destinatario della sanzione, anche in relazione all’elemento soggettivo, mentre la sua rigida applicazione secondo il criterio della soccombenza non è conforme al principio di eguaglianza poiché si tratterebbero allo stesso modo chi abbia proposto il ricorso per cassazione ragionevolmente fidando nell’ammissibilità e chi non versi in tale situazione.
Come noto, la Corte adempie sovente al proprio ruolo non soltanto attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale, ma anche segnalando al giudice rimettente una lettura costituzionalmente obbligata della norma censurata. E’ quanto accaduto, in tema di procedimento penale, con la sentenza n. 395, con la quale è stata ritenuta inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 629 e 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al giudizio. Nella motivazione, pur ricordando che le richieste miranti ad introdurre nel sistema processuale mezzi straordinari d’impugnazione sono inammissibili, la Corte ha invitato il giudice di legittimità a svolgere appieno la propria funzione d’interpretazione adeguatrice del sistema, individuando, all’interno di esso, lo strumento riparatorio più idoneo ( a cominciare dallo stesso istituto della riparazione degli errori materiali, tenendo conto delle ineludibili esigenze di adeguamento secundum Constitutionem che la peculiare e delicata tematica impone e della funzione nomofilattica che alla Cassazione è istituzionalmente riservata).
Infine va ricordata in tema di giurisdizione la sentenza n. 271, che ha dichiarato non fondata - in riferimento all’articolo 103, terzo comma, della Costituzione - la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230, nella parte in cui attribuisce al giudice ordinario la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, sottraendola al giudice militare. La Corte ha rigettato la questione perché l’invocato parametro costituzionale non pone, in tempo di pace, una competenza inderogabile in favore dei tribunali militari, ma considera «normale» la giurisdizione ordinaria. La disposizione costituzionale, dunque, non contiene alcuna clausola di riserva esclusiva di giurisdizione a favore dei tribunali militari in tempo di pace e non proibisce al legislatore di estendere la giurisdizione del giudice ordinario quando sussistano interessi valutati non irragionevolmente come preminenti. Perciò l’unificazione sotto la giurisdizione del giudice ordinario di tutta la materia dell’obiezione di coscienza rientra appieno nella discrezionalità del legislatore e non può essere tacciata di irragionevolezza.