SENTENZA N. 271
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Francesco GUIZZI, Presidente
- Cesare MIRABELLI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza) promossi con diciannove ordinanze emesse il 12 ottobre 1998 (n. 3 ordinanze) dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, il 7 ottobre 1998 (n. 10 ordinanze) dal Tribunale militare di Padova, il 18 febbraio, l’8 marzo (n. 2 ordinanze), l’11 febbraio, l’8 marzo e l’11 febbraio 1999 dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, rispettivamente iscritte ai nn. 8, 9, 10, 14, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 84, 85, 99, 306, 307, 308, 311, 312 e 313 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4, 9 e 22, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto in fatto
1.1 — Con nove ordinanze di identico contenuto (R.O. nn. 8, 9, 10, 306, 307, 308, 311, 312 e 313 del 1999) – emesse nel corso di altrettanti procedimenti penali a carico di diversi imputati del reato di rifiuto del servizio militare di cui all’articolo 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) – la Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 103, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), “nella parte in cui sottrae alla giurisdizione militare la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza”.
Il remittente premette che la disposizione censurata ha attribuito alla autorità giudiziaria ordinaria la competenza a giudicare il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, e che, non avendo la legge n. 230 del 1998 dettato alcuna disciplina transitoria, in virtù del principio generale tempus regit actum egli sarebbe tenuto a trasmettere gli atti al pretore del luogo nel quale deve essere svolto il servizio militare.
In tutte le ordinanze si ricorda che la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito che la giurisdizione militare, contemplata dall’art. 103, terzo comma, della Costituzione, concerne soltanto i reati militari commessi da militari in servizio attivo o considerati tali, è circoscritta entro rigorosi confini soggettivi ed oggettivi e non ha carattere assoluto ed indeclinabile, potendo essere derogata da una legge ordinaria che risulti preordinata alla tutela di preminenti beni, interessi e valori. Conseguentemente, ad avviso del giudice a quo, in riferimento ai reati militari commessi da militari in servizio attivo (o considerati tali) la giurisdizione militare dovrebbe essere ritenuta non soltanto “giurisdizione normale” ma anche “giurisdizione di carattere costituzionale”.
Il remittente rileva che i soggetti chiamati a presentarsi alle armi sono militari in servizio attivo dal momento stabilito per la loro presentazione fino al giorno in cui vengono inviati in congedo illimitato, e che il reato di rifiuto del servizio militare ha natura di reato militare, offendendo un interesse fondamentale delle Forze armate dello Stato, e cioè quello alla regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva. A suo avviso, anzi, la nuova normativa, rendendo possibile il rifiuto anche dopo la assunzione del servizio, avrebbe accentuato i connotati di militarità della fattispecie incriminatrice, divenuta una semplice variante applicativa non solo del reato di mancanza alla chiamata ma anche di quello di diserzione.
Secondo la Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, il legislatore del 1998 avrebbe conservato inalterata la struttura del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, che continuerebbe a profilarsi come un illecito che si commette a prescindere dalla verosimiglianza ed autenticità delle ragioni della obiezione e che non tollera in alcun modo disamine intese ad accertarne la eventuale natura strumentale e pretestuosa. Conseguentemente, poiché il reato di rifiuto previsto dalla nuova legge non coinvolgerebbe beni ed interessi di preminente valore, suscettibili di tutela mediante una deroga alla giurisdizione militare, la disposizione censurata contrasterebbe con l’articolo 103, terzo comma, della Costituzione.
L’articolo 14, comma 3, della legge n. 230 del 1998 violerebbe altresì l’articolo 3 della Costituzione, per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto al reato di mancanza alla chiamata, che, pur avendo “identità sostanziale” e pur offendendo lo stesso interesse, è rimasto, invece, assoggettato alla giurisdizione militare.
1.2 — In uno dei nove giudizi così promossi (R.O. n. 312 del 1999) è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
L’Avvocatura, premesso che nel nostro ordinamento, caratterizzato dalla centralità della giurisdizione ordinaria, vengono riservati alla giurisdizione dei tribunali militari soltanto i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate in servizio attivo, osserva che l’art. 103, terzo comma, Cost. prevederebbe un criterio selettivo “nel senso che esso nel passaggio dalla giurisdizione militare a quella ordinaria consente, in presenza di valide ragioni, di far passare qualcosa di più di quel che può transitare in senso opposto, e cioè dalla giurisdizione ordinaria a quella militare”.
La difesa dello Stato rileva che l’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998 punisce chi, non avendo chiesto o non avendo ottenuto l’ammissione al servizio civile, rifiuta di prestare il servizio militare, prima o dopo averlo assunto, adducendo motivi di coscienza, e contesta la premessa del remittente, in base alla quale il soggetto attivo della previsione incriminatrice dovrebbe, a seguito della precettazione (insita nella chiamata alle armi), essere considerato già appartenente alle Forze armate.
Infatti, ad avviso dell’Avvocatura, la nuova configurazione dell’obiezione di coscienza come diritto soggettivo, intimamente connesso all’esercizio delle libertà individuali, introdotta dalla legge n. 230 del 1998, non potrebbe non influire sugli effetti della precettazione, che verrebbero “neutralizzati” quando l’obiettore abbia manifestato esplicitamente la sua non accettazione dell’arruolamento, sicché egli, avendo esercitato un suo diritto di libertà, non potrebbe più essere considerato “appartenente alle Forze armate”.
Pertanto, conclude l’Avvocatura, non solo non sussisterebbe, a stretto rigore, il presupposto soggettivo richiesto dall’art. 103, terzo comma, della Costituzione ai fini del radicamento della giurisdizione militare, ma soprattutto non sarebbe costituzionalmente illegittimo “fare transitare i relativi reati dalla giurisdizione militare a quella ordinaria”.
2.1 – Questione analoga è stata sollevata dal Tribunale militare di Padova con dieci ordinanze di identico contenuto (R.O. nn. 14, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 84, 85 e 99 del 1999), emesse nel corso di altrettanti procedimenti penali a carico di diversi imputati del reato di cui all’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, per avere rifiutato, prima di assumerlo, il servizio militare di leva, adducendo imprescindibili motivi di coscienza.
Anche per il Tribunale militare di Padova l’art. 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230, nella parte in cui “senza plausibili ragioni” sottrae alla giurisdizione militare e attribuisce al giudice ordinario la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, contrasterebbe con gli articoli 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione.
Le argomentazioni del remittente in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione non sono dissimili da quelle svolte nelle ordinanze di cui si è fatto cenno in precedenza.
In particolare, il Tribunale militare di Padova premette che anche la fattispecie di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998 configurerebbe “un’ipotesi di reato militare che può essere commesso solo da soggetto appartenente alle Forze armate”, e ritiene che la diversità di disciplina prevista per questo reato (la cui cognizione è attribuita al giudice ordinario) rispetto a quella stabilita per altri reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate, e specificamente per il reato di mancanza alla chiamata (tuttora devoluti al giudice militare), violerebbe l’art. 3 della Costituzione, poiché non sarebbe ragionevole il diverso trattamento riservato agli obiettori di coscienza, essendo sia gli uni che gli altri reati militari commessi da militari in servizio.
La disposizione censurata sarebbe altresì in contrasto con gli artt. 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione, in quanto non sussisterebbero plausibili ragioni per derogare alla regola, risultante da entrambi i parametri invocati, che individua nei tribunali militari il giudice naturalmente preposto a conoscere di reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.
2.2 — Nei giudizi relativi alle ordinanze di remissione nn. 84, 85 e 99 del 1999 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le argomentazioni espresse nell’atto di intervento depositato nel giudizio relativo alla questione sollevata dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona (R.O. n. 312 del 1999), e concludendo per l’infondatezza delle questioni.
Considerato in diritto
1. — Diciannove ordinanze di analogo contenuto (nove provenienti dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, e dieci dal Tribunale militare di Padova) hanno sottoposto a questa Corte, in riferimento agli articoli 3, 25 e 103 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), nella parte in cui attribuisce al giudice ordinario la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.
Le argomentazioni svolte dai remittenti sono tra loro non dissimili. Poiché il reato di rifiuto del servizio militare, anche se per motivi di coscienza, sarebbe reato militare commesso da soggetto appartenente alle Forze armate, l’averne il legislatore sottratto la cognizione al giudice militare comporterebbe violazione dell’art. 103, terzo comma, della Costituzione, in base al quale tutti i reati di questo tipo, quando non siano ravvisabili, come non lo sarebbero nella specie, esigenze di tutela di preminenti interessi che potrebbero giustificare una deroga, dovrebbero essere devoluti alla giurisdizione militare.
Entrambi i remittenti denunciano altresì la violazione dell’art. 3 della Costituzione sulla premessa che nei reati di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza ed in quelli di mancanza alla chiamata medesimo sarebbe il bene protetto e identica la condotta, sicché l’avere attribuito la cognizione dei primi al giudice ordinario e quella dei secondi al giudice militare si risolverebbe in una disparità di trattamento priva di qualsiasi fondamento giustificativo.
Secondo il Tribunale militare di Padova sarebbe inoltre violato l’art. 25, primo comma, della Costituzione, poiché per i reati in questione i tribunali militari sarebbero da considerare giudice naturale.
Poiché tutte le ordinanze pongono analoghe questioni, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
2. — La questione non è fondata.
E’ orientamento consolidato nella giurisprudenza costituzionale che l’art. 103, terzo comma, della Costituzione, nel consentire una giurisdizione dei tribunali militari anche in tempo di pace, non pone, in loro favore, una competenza inderogabile in confronto del giudice ordinario, poiché è invece quest’ultima che, diversamente da quanto ritengono i remittenti, deve essere considerata, per il tempo di pace, la giurisdizione “normale”.
Alla definizione dei rispettivi ambiti delle due giurisdizioni, e del loro reciproco atteggiarsi sul piano costituzionale, questa Corte è pervenuta muovendo da una premessa interpretativa chiarificatrice. L’avverbio “soltanto”, utilizzato nell’articolo 103, non identifica il carattere esclusivo di una riserva, ma sta ad esprimere l’esigenza che la giurisdizione militare in tempo di pace sia rigorosamente circoscritta entro limiti invalicabili, nel senso che essa riguarda solo i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. Non vale l’inverso: la giurisdizione ordinaria, non incontrando per il tempo di pace limiti di tal genere, ben può essere preferita dal legislatore concorrendo interessi valutati come preminenti (sentenze nn. 78 del 1989 e 207 del 1987).
Ora, l’attribuzione della materia dell’obiezione di coscienza alla giurisdizione del giudice ordinario costituisce il punto d’arrivo di un itinerario segnato sia da sentenze di questa Corte, che hanno fatto valere gli insuperabili limiti costituzionali della giurisdizione militare, sia da successive scelte legislative, le quali, facendo leva sulla potenziale espansività della giurisdizione ordinaria, sono protese alla salvaguardia di beni non irragionevolmente stimati come prevalenti.
3. — Il percorso che si è concluso con l’estensione della giurisdizione ordinaria a tutta la materia dell’obiezione di coscienza prese avvio dalla sentenza n. 113 del 1986, che ebbe a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 11 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, non più vigente, nella parte in cui, attraverso l’equiparazione “ad ogni effetto penale” degli obiettori di coscienza ammessi a prestare servizio sostitutivo civile ai cittadini che prestano servizio militare, finiva con l’assoggettare alla giurisdizione militare gli stessi obiettori, anche nell’ipotesi in cui questi, in conseguenza dell’accoglimento della domanda di ammissione, avevano perduto lo status di militari acquisito con l’arruolamento e non potevano quindi essere più considerati “appartenenti alle Forze armate”. In altre parole, si erano oltrepassati i limiti che rigorosamente circoscrivono, in tempo di pace, l’eccezionale giurisdizione dei tribunali militari.
In quella sentenza l’espansione della giurisdizione ordinaria non era peraltro completa ed istituzionalizzata, poiché veniva affermata come semplice riflesso dei limiti costituzionali della giurisdizione militare in tempo di pace; limiti che, di fronte ad obiettori ormai privi dello status di militari, non avrebbero potuto non essere ribaditi in tutta la loro cogenza.
4. — L’allargamento della giurisdizione ordinaria fino a comprendere in essa, non più singole fattispecie, ma l’intera materia dell’obiezione di coscienza è opera del legislatore, che ha proiettato sul piano della giurisdizione il principio di protezione dei diritti della coscienza, la cui configurazione unitaria era stata affermata, nell’ambito del diritto costituzionale sostanziale, da alcune pronunce successive di questa Corte e segnatamente, nella sua formulazione più compiuta e pregnante, dalla sentenza n. 43 del 1997, nella quale quel principio era stato desunto dall’univoco convergere degli artt. 2, 3, 19 e 21, primo comma, della Costituzione.
L’obiezione di coscienza nella legge n. 230 del 1998 assume rilievo non solo nelle ipotesi in cui forma oggetto di un vero e proprio diritto del cittadino a rimanere estraneo alle Forze armate, ma anche in quelle nelle quali essa è addotta a motivo del rifiuto del servizio militare da parte di chi non abbia neppure richiesto o comunque non abbia ottenuto l’ammissione al servizio civile (art. 14, comma 2). La mera allegazione di motivi di coscienza che ostano alla prestazione del servizio militare, seppure non comporta di per sé alcuna legittima dismissione del già assunto status di militare, è valutata dal legislatore come sufficiente ad escludere la giurisdizione militare e a preferirle la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. Se si considera poi che con questa legge contro il diniego di ammissione al servizio civile è dato ricorso non più al giudice amministrativo, come accadeva nella legislazione previgente, ma alla autorità giudiziaria ordinaria, alla quale è pure devoluta la competenza a disporre fino alla sentenza definitiva la sospensione dell’efficacia del provvedimento di reiezione della domanda o del decreto di decadenza dal diritto di prestare il servizio civile (art. 5, comma 4), risulta quanto mai evidente che la scelta del legislatore è stata quella di unificare sul piano della giurisdizione l’intero fenomeno dell’obiezione e di conferire alle manifestazioni della coscienza un unitario statuto giurisdizionale, destinato ad esercitare la propria capacità di attrazione tutte le volte in cui tali diritti vengano comunque evocati dal cittadino per resistere alla richiesta di adempiere all’obbligo di prestare il servizio militare.
Questa scelta non contrasta con l’art. 103, terzo comma, della Costituzione. Se è vero che questa disposizione non contiene alcuna clausola di riserva esclusiva di giurisdizione a favore dei tribunali militari in tempo di pace e non proibisce al legislatore di estendere la giurisdizione del giudice ordinario quando sussistano interessi valutati non irragionevolmente come preminenti, l’unificazione sotto la giurisdizione del giudice ordinario di tutta la materia dell’obiezione di coscienza, anche per gli aspetti che per l’innanzi erano affidati alla cognizione del giudice militare o di quello amministrativo, rientra appieno nella discrezionalità del legislatore e non può essere tacciata di irragionevolezza.
5. — Una volta escluso che l’art. 14, comma 3, della legge n. 230 del 1998 contraddica ai principi che nell’art. 103, terzo comma, della Costituzione, presiedono al riparto delle due giurisdizioni, ordinaria e militare, cade l’ulteriore censura, invero priva di autonomia concettuale, rivolta nelle ordinanze di remissione, contro il medesimo art. 14, sul parametro dell’art. 3 della Costituzione. La diversità di trattamento, sul piano della giurisdizione, dei reati di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di quelli di mancanza alla chiamata non è priva di un fondamento giustificativo, ravvisabile, appunto, nell’esigenza di approntare uno statuto giurisdizionale unitario per il fenomeno dell’obiezione di coscienza. Né, infine, possono essere condivisi i rilievi che il Tribunale militare di Padova avanza alla luce dell’art. 25, primo comma, della Costituzione: i militari che incorrono nel reato di rifiuto di cui all’art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998 non vengono, dalla disposizione censurata, distolti dal loro giudice naturale. Per essi il giudice naturale, precostituito per legge, a seguito della nuova disciplina dell’obiezione di coscienza, è il giudice ordinario.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 103, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, e, in riferimento agli articoli 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.
Francesco GUIZZI, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in cancelleria il 12 luglio 2000.