SENTENZA N. 507
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante "Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”, promossi con ricorsi delle Regioni Piemonte, Lombardia e Veneto, notificati il 29 (r. ric. n. 12 ) e il 28 gennaio 1998 (r. ric. nn. 13 e 14), depositati in cancelleria il 6 (r. ric. n. 12) e il 7 febbraio successivi (r. ric. nn. 13 e 14) ed iscritti ai nn. 12, 13 e 14 del registro ricorsi 1998.
Visti
gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché l’atto di intervento del Comune di Lonato;
udito nell’udienza pubblica del 23 maggio 2000 il Giudice
relatore Valerio Onida;
uditi gli avvocati Gustavo Romanelli
per la Regione Piemonte, Giuseppe F. Ferrari per le Regioni Lombardia e Veneto
e l’avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.
– Con ricorso notificato il 29 gennaio 1998 e depositato il 6 febbraio 1998 (r. ric. n. 12 del 1998), la Regione Piemonte ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 9, 77, terzo
comma, 117 e 118 della Costituzione, dell’art. 49, comma 18, della legge 27
dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica).
La
disposizione impugnata dispone che siano "considerati validi gli strumenti
urbanistici già intesi approvati a seguito dell’applicazione, da parte degli
enti che li hanno adottati, delle procedure del silenzio-assenso previste dai
decreti legge 27 settembre 1994, n. 551, 25 novembre 1994, n. 649, 26 gennaio
1995, n. 24, 27 marzo 1995, n. 88, 26 maggio 1995, n. 193, 26 luglio 1995, n.
310, 20 settembre 1995, n. 400, 25 novembre 1995, n. 498, 24 gennaio 1996, n.
30, 25 marzo 1996, n. 154, 25 maggio 1996, n. 285, 22 luglio 1996, n. 388, 24
settembre 1996, n. 495, i cui effetti sono stati fatti salvi ai sensi dell’art.
2, comma 61, della legge 23 dicembre 1996, n.
La
Regione dapprima ricorda di avere già impugnato davanti alla Corte
costituzionale due dei decreti legge i cui effetti sono stati fatti salvi dalla
legge n. 662 del 1996; e che la Corte si è pronunciata sui due ricorsi con la sentenza n. 429 del
1997. Con tale pronuncia la Corte avrebbe escluso, richiamando la
precedente sentenza
n. 244 del 1997, che la sanatoria comportasse violazione della sfera
regionale, in quanto la legge ex art. 77, terzo comma, della Costituzione potrebbe avere ad
oggetto solo le situazioni verificatesi durante il periodo di vigenza dei
decreti legge non convertiti, mentre la formazione del silenzio-assenso nel
termine di centottanta giorni avrebbe potuto verificarsi soltanto dopo i
sessanta giorni di vigenza di ognuno dei decreti legge.
Secondo
la ricorrente, la norma oggi impugnata sarebbe incostituzionale per violazione
appunto dell’art. 77, terzo comma, della Costituzione,
in quanto corollario delle affermazioni delle sentenze costituzionali nn.
244 e 429 del
1997 sarebbe l’incostituzionalità di una norma che faccia salvi effetti che
non si erano ancora prodotti al momento della decadenza per mancata conversione
dei decreti legge.
Sarebbero violati anche l’art. 9 della
Costituzione, le competenze in materia di tutela dei beni ambientali e
protezione della natura attribuite alle Regioni dagli artt. 82 e 83 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e, in generale, le competenze
regionali legislative e amministrative in materia di urbanistica di cui agli
artt. 117 e 118 della Costituzione. Sarebbe infatti
incostituzionale, secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, il ricorso
al silenzio-assenso per le attività amministrative ad alta discrezionalità,
quali le attività di pianificazione territoriale, che finiscono per incidere
sull’essenza stessa della competenza regionale: e, in un ambito di competenza
normativa della Regione, non potrebbe che essere una legge regionale ad attribuire
al silenzio della Pubblica Amministrazione, in ipotesi specifiche, un
significato concludente, come l’approvazione o il rifiuto. La Corte
costituzionale, ricorda la Regione, ha già dichiarato incostituzionale la
previsione dell’art. 12, comma 3, del decreto legge 12
gennaio 1988, n.
2.
– Non si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, mentre ha
depositato atto di intervento fuori termine il Comune
di Lonato, svolgendo diverse considerazioni,
depositando alcuni documenti e conclusivamente chiedendo che la Corte rigetti
il ricorso della Regione Piemonte, considerando "la gravità della situazione in
cui versano i comuni italiani che, in piena buona fede, hanno "inteso
approvati” i propri strumenti urbanistici generali dando ad essi attuazione”.
3.
– Con ricorso notificato il 28 gennaio 1998 e depositato il 7 febbraio 1998 (r. ric. n. 13 del 1998), la Regione Lombardia ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 32,
81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, degli artt. 32, commi 2, 4, 5; 34,
comma 1; 37; 39, comma 19; 41, comma 1; 43; 44, comma 4; 47, comma 1; 48, commi
1, 4 e 5, della legge n. 449 del 1997.
La
Regione ricorrente sostiene che tutte le disposizioni impugnate comprimono
l’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria regionale.
Con
riguardo all’art. 32, commi 2, 4 e 5, la Regione
denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione. In particolare, quanto al comma 2, che
disciplina le conseguenze dell'eventuale inadempimento in relazione agli
obiettivi di risparmio sulla spesa per la acquisizione di beni e servizi di cui
al comma 1 dello stesso articolo, essa lamenta che tale comma equipari, sul
piano delle fattispecie da sanzionare da parte dello Stato, l'inadempienza
delle Regioni e quella delle "relative aziende unità sanitarie locali e aziende
ospedaliere”; conseguentemente consenta una sanzione a carico della Regione e
del suo sistema sanitario complessivo in relazione ad un eventuale
inadempimento localizzato anche in una sola azienda, fattispecie che dovrebbe
competere alla Regione sanzionare, sul piano istituzionale, finanziario e
disciplinare, e non allo Stato; faccia irragionevolmente gravare, senza
necessità di tutela di alcun interesse costituzionalmente meritevole,
conseguenze sanzionatorie su soggetti pubblici ed utenti che non avrebbero in
alcun modo concorso al fatto ritenuto lesivo; consenta l’intervento statale sul
sistema sanitario regionale, in funzione sanzionatoria e, nel caso di omissione
di singole aziende, sostitutiva dell’intervento regionale, senza che sia
contemplata alcuna procedimentalizzazione (non
sarebbero previsti preavvisi, diffide, termini per provvedere e non
sussisterebbe alcuno scrupolo di rispetto delle esigenze del metodo della leale
collaborazione); demandi allo Stato, e per esso al Ministro della sanità, una
discrezionalità illimitata, salva la soglia massima del 3%, e salvo il parere
della Conferenza unificata Stato-Regioni-Città, nel
dosare la sanzione finanziaria, in assenza di parametri che consentano di
proporzionare la sanzione all’inadempimento.
Il
comma 4 dello stesso art. 32, poi, applica alle
Regioni che entro il 31 marzo 1998 non abbiano dato attuazione agli strumenti
di pianificazione riguardanti la tutela della salute mentale di cui all’art. 1,
comma 20, della legge n. 662 del 1996, e che non abbiano provveduto alla completa
istituzione delle residenze territoriali e alla chiusura degli ospedali
psichiatrici, le sanzioni previste dal comma 23 dello stesso articolo. Secondo
la ricorrente, il termine sarebbe di irragionevole
brevità, a motivo degli investimenti immobiliari e degli interventi edilizi, di
grande complessità e di significativa lunghezza, da porre in atto; e
l’inosservanza eventuale del termine sarebbe sanzionata in forma
irragionevolmente grave e priva di proporzionalità rispetto all’entità
dell’eventuale inadempimento, oltre che rimessa nell’an e nel quomodo ad una eccessiva
discrezionalità dell’autorità statale.
Il
comma 5 dello stesso articolo, infine, disciplina il
riutilizzo delle disponibilità finanziarie derivanti dalle riduzioni di cui al
comma 2, devolvendole al finanziamento di azioni di sostegno volte alla
rimozione degli ostacoli che hanno dato luogo all’inadempienza o a progetti
speciali a favore di fasce sociali deboli; e destina le risorse derivanti dalle
riduzioni di cui al comma 23 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 e al comma
4 dello stesso art. 32 alla realizzazione di un progetto-obiettivo "Tutela
della salute mentale”, nonché, a titolo incentivante, a favore di aziende unità
sanitarie locali e aziende ospedaliere che abbiano attuato i programmi di
chiusura dei residui ospedali psichiatrici. Tale disciplina, secondo la
ricorrente, prevederebbe la possibilità di
assegnazione di risorse non direttamente alle Regioni, ma alle singole aziende,
da parte del Ministro, con aggiramento non solo del sistema di finanziamento
del Servizio sanitario regionale come disciplinato dalla legge n. 833 del 1978
e successive modificazioni, e dunque della autonomia
finanziaria regionale, ma anche della capacità di governo della sanità da parte
della Regione; rimetterebbe al Ministro della sanità la determinazione della
quota di fondi da assegnare alle Regioni con il solo vincolo del parere della
Conferenza Stato-Regioni, salvo l’avvalimento
dell’Osservatorio nazionale sulla salute mentale e dell’Istituto superiore della
sanità, che sarebbero peraltro meri organi statali centrali; concederebbe al
Ministro una irragionevole discrezionalità nella riassegnazione
dei fondi, non significativamente correlata a parametri legislativamente
disciplinati e caratterizzati dalla necessaria correlazione con finalità di
interesse pubblico, a rilevanza costituzionale, nella cui individuazione e nel
cui perseguimento le Regioni abbiano parte; contemplerebbe la attivazione, pur
limitatamente alla psichiatria, di un potere sostituivo ibrido, comportante la
nomina di commissari ad acta definiti "regionali”, ma nominati dal Consiglio
dei ministri su proposta del Ministro della sanità, d’intesa con la Regione
interessata.
Con
riguardo all’art. 34, comma 1, che prescrive
l’inquadramento progressivo in ruolo come dirigenti di primo livello degli
specialistici ambulatoriali in regime convenzionale, medici e non, in aree di
attività specialistica individuate dalla Regione, la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 3, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.
L’inquadramento ingenererebbe, rispetto al rapporto convenzionale, un significativo aggravio di spesa a carico del SSN, a cui non
farebbe riscontro alcuna messa a disposizione delle risorse necessarie, con
conseguente pregiudizio sia per l’autonomia finanziaria regionale, sia per la
capacità regionale di governo del sistema sanitario, e ciò nello stesso momento
in cui si impone un’ulteriore riduzione della spesa complessiva, nelle forme
del già impugnato art. 32, ed in violazione del principio del parallelismo tra
responsabilità di disciplina e di controllo e responsabilità finanziaria.
Con
riguardo all’art. 37 della legge, che consente la
fornitura gratuita a carico del SSN della protesi mammaria alle assistite che
abbiano subito un intervento di mastectomia, senza mettere a disposizione delle
Regioni nessuna risorsa sanitaria aggiuntiva, la Regione denuncia la violazione
degli artt. 2, 3, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione. Secondo la
ricorrente, l’articolo impugnato pregiudicherebbe l’autonomia finanziaria e il
governo della spesa, oltre che il diritto alla salute, a causa della scarsità
delle risorse disponibili.
Con
riguardo all’art. 39, comma 19, che estende alle
Regioni ed alle Province autonome la disciplina relativa alla riduzione delle
spese di personale, la Regione denuncia la violazione degli artt. 3, 32, 97,
117, 118 e 119 della Costituzione. La disposizione, secondo la ricorrente,
protraendo un’artificiosa emergenza, equiparerebbe indebitamente le Regioni ad enti quali le camere di commercio, gli enti del SSN e gli
enti locali, aventi diversa posizione costituzionale; e reitererebbe,
prolungherebbe nel tempo e generalizzerebbe misure di contenimento
dell’utilizzo di personale che la Corte costituzionale ha già statuito dover
essere temporanee e preordinate ad instaurare un regime transitorio in attesa
della riforma sanitaria o di un riassetto generale del settore.
Con
riguardo all’art. 41, comma 1, della legge, che detta
norme generali relative alla revisione degli organi collegiali, la ricorrente
denuncia la violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione. La norma,
in difetto di una specifica esenzione delle Regioni, sarebbe applicabile anche
a queste ultime, e le equiparerebbe così a categorie di enti non munite di
alcuna garanzia costituzionale di autonomia; inoltre essa, attribuendo la
competenza, in ordine alla revisione, all’"organo di
direzione politica responsabile”, invaderebbe il campo riservato alla Regione
in ordine alla distribuzione dei compiti all’interno della propria
organizzazione. Non parrebbe, del resto, trattarsi di misure urgenti e
provvisorie volte al contenimento del disavanzo pubblico, quanto di misure
organizzative caratterizzate da una scelta di principio non provvisoria, ma a regime.
Con
riguardo all’art. 43, che ha ad oggetto "contratti di
sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, convenzioni con soggetti
pubblici o privati, contributi dell’utenza per i servizi pubblici non
essenziali e misure di incentivazione della produttività”, la Regione denuncia
la violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione. La ricorrente
censura la disciplina generale (contenuta nel comma 3), ritenuta applicabile
anche alle Regioni in difetto di espressa esenzione, delle convenzioni con soggetti
pubblici e privati per la fornitura a titolo oneroso di consulenze o servizi
aggiuntivi, col vincolo di destinazione del 50% dei ricavi delle convenzioni
stipulate ai fini di cui al comma 1 ad economie di
bilancio. Tali misure, ritenute dalla ricorrente a regime e non transitorie,
sarebbero incompatibili con l’autonomia finanziaria regionale, oltre che con
quella legislativa ed amministrativa, autonomia che
esigerebbe che le Regioni possano conformare liberamente gli strumenti
operativi in questione, così come l’utilizzo dei loro ricavi.
Quanto
all’art. 44, comma 4, della legge, che estende
l’applicabilità dell’art. 14 della legge n. 59 del 1997 alle amministrazioni di
cui all’art. 1 del decreto legislativo n. 29 del 1993, e quindi anche alle
Regioni, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 117, 118 e 119 della
Costituzione. La disposizione consentirebbe allo Stato di imporre soppressioni
e fusioni di enti, trasformazioni in soggetti di diritto privato, nonché varie altre prescrizioni organizzative anche alle
Regioni, omettendo qualunque procedura di raccordo e comprimendo l’autonomia
organizzativa regionale; e sarebbe incostituzionale anche nel caso in cui il
suo significato stesse nell’estensione dei principi di cui allo stesso art. 14
alle Regioni, in qualità di principi fondamentali della legislazione statale.
Quanto
infine all’art. 47, comma 1, e all’art. 48, commi 1, 4
e 5, che dettano disposizioni concernenti rispettivamente le limitazioni ai
pagamenti a carico del bilancio dello Stato a favore di enti caratterizzati da
giacenze di disponibilità liquide, il concorso del sistema delle autonomie
regionali agli obiettivi della finanza pubblica mediante il blocco del
fabbisogno finanziario, e la sospensione dei pagamenti "ad eccezione di quelli
che possono arrecare danni patrimoniali all’ente o a soggetti che intrattengono
con l’ente rapporti giuridici e negoziali”, la Regione ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.
La
disciplina in questione sarebbe intrinsecamente irragionevole, almeno quanto al
comma 5 dell’art. 48, poiché non si comprenderebbe
quale titolo di pagamento dovrebbe sussistere a favore di terzi in assenza di
rapporti giuridici e negoziali, e quanto all’art. 47, comma 1, poiché non si
comprenderebbe quale sia la assegnazione di competenza delle Regioni sulla cui
entità il Tesoro con proprio decreto determina l’importo minimo delle giacenze,
compreso tra il 10 e il 20% delle assegnazioni stesse; demanderebbe, almeno
quanto al comma 1 dell’art. 47, al Ministro del tesoro la determinazione delle
categorie di enti e del limite di giacenza che attiva la ripresa dei pagamenti
statali, in violazione della riserva di legge di cui all’art. 119 della
Costituzione; equiparerebbe Regioni ed altri enti, locali e non; non
configurerebbe misure temporanee o di emergenza, ma strutturerebbe vincoli
permanenti; limiterebbe eccessivamente l’autonomia finanziaria regionale, e con
essa quella legislativa ed amministrativa, introducendo fattori di incertezza e
di imprevedibilità gestionale.
5.
– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
chiedendo di dichiarare non fondate tutte le questioni sollevate dalla Regione
Lombardia, e osservando quanto segue in relazione a
ciascuna delle disposizioni impugnate.
Con
riguardo all’art. 32, comma 2, la difesa erariale
sostiene che il legislatore ha soltanto – e doverosamente – assunto alcuni
parametri di comportamenti che evidenzierebbero la mancata corrispondenza delle
Regioni alle indicazioni per il contenimento delle spese specificate al comma
1: mancata corrispondenza da cui, del tutto ragionevolmente, si farebbe
conseguire una riduzione della quota del Fondo sanitario regionale, per evitare
la quale le Regioni sarebbero state incentivate all’osservanza tempestiva di
(necessarie) regole di rigore. Né l’equiparazione, a tal fine,
delle inadempienze delle Regioni e delle relative aziende sanitarie locali e
aziende ospedaliere potrebbe essere intesa come una menomazione del potere sopraordinato delle Regioni sulle aziende, avendosi qui
riguardo alle conseguenze oggettive che le inadempienze comportano rispetto al
fine unitario perseguito. E sarebbe proprio nel più incisivo controllo sulle
aziende da parte delle Regioni che queste potrebbero corrispondere a quel
dovere di leale collaborazione che incombe anche su di esse. Non si dovrebbe
minimizzare la portata del previsto parere della Conferenza Stato‑Regioni‑Città,
di cui la legge n. 59 del
Le
medesime osservazioni varrebbero, secondo la difesa erariale, anche per le
successive censure. Con riguardo all’art. 32, comma 4,
non sarebbe incoerente con l’esigenza della razionalizzazione e della
ottimizzazione della spesa l’indicazione di un termine per l’attuazione degli
strumenti di pianificazione: il termine corrisponderebbe ad una funzione acceleratoria che – con il medesimo intento di evitare
ulteriori dispersioni di risorse finanziarie, in cui spesso proprio le Regioni
sarebbero incorse – è stata di recente perseguita in via generale in materia
appunto di opere pubbliche.
Ad
analogo intento corrisponderebbe anche l’art. 32,
comma
Quanto
all’art. 34, comma 1, la difesa erariale sostiene che
la Regione non dovrebbe dolersi nei confronti di tale disposizione, in quanto
sarebbe attribuito proprio alle Regioni, come la stessa ricorrente riconosce,
il potere di individuare le aree di attività specialistiche in cui operare gli
inquadramenti.
Quanto
all’art. 37, disposizione di cui la stessa Regione
riconoscerebbe la doverosità, l’Avvocatura afferma che la spesa da essa
prevista andrebbe ricondotta al quadro finanziario complessivo, nella cui
composizione le Regioni avrebbero una presenza determinante.
Quanto
all’art. 39, comma 19, la difesa erariale afferma che
una programmazione del fabbisogno del personale compatibile con le
disponibilità di bilancio non potrebbe non essere richiesta per tutti i settori
fondamentali di spesa, come appunto quello sanitario, e che tale previsione,
data la sua ratio,
limitata nel tempo, si ricondurrebbe all’ottica accolta dalla giurisprudenza
costituzionale, che ne riconosce la legittimità in vista di un riassetto
generale del settore, sempre direttamente condizionato dal quadro finanziario
complessivo. Né, a questo fine, potrebbe avere alcuna rilevanza che le Regioni
siano indicate insieme ad altri soggetti di spesa.
Quanto
all’art. 41, comma 1, parimenti non si vedrebbe in che
modo tale disposizione possa incidere sui poteri decisionali delle Regioni, ove
pure la norma sia ad esse applicabile, del che la stessa ricorrente
dubiterebbe.
Quanto
all’art. 43, la difesa erariale ne sostiene la
compatibilità con l’autonomia regionale, in quanto in esso si prevede soltanto
che le pubbliche amministrazioni, al fine di favorire l’innovazione
dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, possono
stipulare contratti di sponsorizzazione, accordi di collaborazione, etc.:
nessun vincolo verrebbe imposto ad alcuno, salvo per una quota dei risparmi
così (eventualmente) ottenuti.
Quanto
all’art. 44, comma 4, l’Avvocatura contesta che la
ricorrente, pur esprimendo dubbi interpretativi sul testo, ne dia una lettura
particolarmente forte, ritenendolo idoneo a sottrarre direttamente poteri alle
Regioni; al contrario, la norma richiamerebbe – ai fini dell’attuazione della
delega della legge n. 59 del 1997, relativa alla riorganizzazione degli
apparati centrali – l’obiettivo di una complessiva riduzione dei costi
amministrativi, indicando una serie di principi e criteri direttivi idonei allo
scopo. Secondo l’Avvocatura, dunque, la legge sulla finanza pubblica era la
sede naturale per tale richiamo; e l’allarme della Regione Lombardia sarebbe
ingiustificato, proprio di fronte ad una legge come la n. 59 del 1997, ispirata
ad un’evoluzione in senso federale, e non
centralistico, dell’ordinamento.
Quanto
infine agli artt. 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
difesa erariale si richiama ancora una volta alla ragion d’essere della normativa
in esame, diretta ad un contenimento della spesa che spettava allo Stato di
prevedere, come responsabile primario del bilancio.
In
definitiva, secondo l’Avvocatura, rimarrebbero decisive anche per la legge in
esame le considerazioni formulate dalla Corte costituzionale ad analogo
proposito, secondo cui l’opera di risanamento della finanza pubblica
richiederebbe un impegno solidale di tutti gli enti territoriali erogatori di
spesa, di fronte al quale la garanzia costituzionale
dell’autonomia finanziaria delle Regioni non potrebbe fungere da impropria
giustificazione per una esenzione. La finalità, anche nella legge n. 449 del
1997 perseguita dal Governo e dal Parlamento, di contenere il perdurante
disavanzo della spesa pubblica giustificherebbe una manovra complessiva di
riduzione della spesa in tutti i settori e con specifico riferimento alla spesa
sanitaria, mediante misure che incidono su tutti gli enti di autonomia a
statuto speciale e ordinario.
6.
– Con ricorso notificato il 28 gennaio 1998 e depositato il 7 febbraio 1998 (r. ric. n. 14 del 1998), la Regione Veneto ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 5, 24,
32, 77, 81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, degli artt. 17, commi 10, 22
e 29; 18; 32, commi 2, 4, 5 e 15; 34, comma 1, 37; 39, comma 19; 41, commi 1 e
3; 43; 44, comma 4; 47, comma 1; 48, commi 1 e 5; 49, comma 18; 55, comma 14,
della legge n. 449 del 1997.
La
ricorrente sostiene che tutte le disposizioni impugnate comprimono l’autonomia
legislativa, amministrativa e finanziaria regionale.
Con
riguardo all’art. 17, comma 10, la Regione Veneto
sostiene che la disposizione impugnata, che demanda alle Regioni a statuto
ordinario la riscossione, l’accertamento, il recupero, i rimborsi, l’applicazione
delle sanzioni ed il contenzioso amministrativo relativi alle tasse
automobilistiche non erariali, prevedendo che un decreto del Ministro delle
finanze, sentita la Conferenza Stato-Regioni, stabilisca le modalità di queste
operazioni e approvi uno schema tipo di convenzione per l’affidamento a terzi
dell’attività di controllo e riscossione, violerebbe l’art. 119 della
Costituzione, in quanto eccederebbe l’ambito delle "forme” e dei "limiti”
dell’autonomia tributaria regionale, e inciderebbe sugli artt. 117 e 118 della
Costituzione, interferendo nella materia dell’ordinamento degli uffici
regionali e compromettendo l’autonomo e differenziato esercizio delle funzioni
amministrative regionali, attraverso l’imposizione dello stesso identico
modello di attività a tutte le Regioni. La scelta del legislatore statale
sarebbe altresì irrazionale (art. 3 della
Costituzione, in relazione agli artt. 5, 117, 118 e 119), in quanto
pretenderebbe di omogeneizzare per l’intero territorio nazionale le modalità di
esercizio di tutte queste attività, senza alcuna ragione giustificativa. Tale
irrazionalità sarebbe particolarmente evidente per quanto concerne la
previsione della convenzione tipo relativa ai rapporti
tra Amministrazione e concessionari, perché in questo caso, contrariamente a
quello della convenzione con i tabaccai per la riscossione delle tasse
automobilistiche, disciplinato dal successivo comma 11, non verrebbero in gioco
i rapporti fra l’Amministrazione e gli utenti, interessati ad un servizio
ispirato a regole analoghe su tutto il territorio nazionale. Ancora, la legge
censurata non delimiterebbe in alcun modo il potere discrezionale del Ministro,
che dunque risulterebbe carente di idoneo fondamento
legislativo, e le Regioni non sarebbero garantite dalla sola previsione del
parere della Conferenza Stato-Regioni. Infine, più radicalmente, la
disposizione impugnata contrasterebbe con le norme costituzionali invocate, in quanto affiderebbe alle Regioni compiti onerosi senza la
previsione di copertura finanziaria.
Con
riguardo all’art. 17, comma 22, che riduce "da lire
Quanto
all’art. 17, comma 29, che istituisce la tassa sulle
emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto, la ricorrente deduce la
violazione degli artt. 5, 32 e 119 della Costituzione. Si tratterebbe
dell’istituzione di una tipica tassa "ambientale”, che tuttavia non sarebbe
regolata dalla disciplina tipica delle tasse di questo tipo, poiché le Regioni
non vengono qualificate come compartecipi del relativo
gettito, al contrario di quanto avviene per le tasse sui consumi di
combustibili ai sensi dell’art. 6 della legge n. 158 del 1990; e poiché il
gettito non è destinato all’adozione di interventi di prevenzione e di
risanamento ambientali, in contrasto con l’esigenza costituzionale di tutela
della salute della collettività.
Quanto
all’art. 18, che istituisce un’imposta erariale
regionale sulle emissione sonore degli aeromobili, la Regione deduce la
violazione degli artt. 3, 5, e 119 della Costituzione. La disposizione,
riservando allo Stato sia le modalità di accertamento,
riscossione e versamento della nuova imposta, sia la determinazione
dell’aliquota, lederebbe il principio di ragionevolezza e l’autonomia
finanziaria regionale, in quanto della "regionalità”
dell’imposta resterebbe traccia solo nel nomen. Infine, vi sarebbe
violazione della riserva di legge di cui all’art. 119 della Costituzione, in quanto il regolamento ministeriale destinato a recare la
disciplina dell’imposta (alla cui formazione la Regione non sarebbe chiamata a
partecipare) non troverebbe alcuna delimitazione nella legge censurata.
Con
riguardo all’art. 32, commi 2, 4, 5 e 15 la Regione
Veneto denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione. Le censure relative ai commi 2, 4 e 5
sono svolte in modo del tutto identico a quelle proposte dalla Regione
Lombardia con il ricorso iscritto al r. ric. n. 13 del 1998, di cui si è detto
sopra. Quanto al comma 15, che facoltizza
le Regioni ad autorizzare spese sanitarie in favore di categorie di non
cittadini precedentemente non assistite dal Servizio sanitario, la ricorrente
afferma che tale norma non metterebbe a disposizione alcuna risorsa aggiuntiva
destinata a coprire le relative spese, con conseguente compromissione
dell’autonomia finanziaria regionale e del diritto costituzionale alla salute.
Con
riguardo all’art. 34, comma 1, la ricorrente deduce la
violazione degli artt. 3, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione,
svolgendo censure identiche a quelle proposte dalla Regione Lombardia con il
ricorso iscritto al r. ric. n. 13 del 1998, di cui si è detto sopra. Lo stesso
deve dirsi per le censure relative all’art. 37,
impugnato in relazione agli artt. 2, 3, 32, 81, 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione; all’art. 39, comma 19, impugnato in relazione agli artt. 3, 32,
97, 117, 118 e 119 della Costituzione, e all’art. 41, comma 1, impugnato in
relazione agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione.
I
parametri da ultimo citati sostengono anche l’impugnazione del comma 3 dello stesso art. 41 che, secondo la Regione ricorrente,
inciderebbe sull’autonomia regionale in riferimento al trattamento economico
del proprio personale e all’organizzazione dei propri uffici.
Con
riguardo all’art. 43, la ricorrente deduce la
violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, svolgendo censure
identiche a quelle proposte dalla Regione Lombardia con il ricorso iscritto al
r. ric. n. 13 del 1998, di cui si è detto sopra. Lo stesso deve dirsi per le
censure relative all’art. 44, comma 4, impugnato in
relazione agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione; e agli artt. 47, comma
1, e 48, commi 1 e 5, impugnati in relazione agli artt. 97, 117, 118 e 119
della Costituzione.
Con
riguardo all’art. 49, comma 18, la Regione ricorrente
deduce la violazione degli artt. 3, 24, e
La
ricorrente premette che già la previsione dell’ultimo dei decreti legge a cui tale disposizione fa riferimento (art. 5, comma 3, del
decreto legge n. 495 del 1996, non convertito, i cui effetti sono stati fatti
salvi dall’art. 2, comma 61, della legge n. 662 del 1996) – nel prevedere che
l’approvazione dello strumento urbanistico e delle relative varianti da parte
della Regione e, ove prevista, della provincia o di altro ente locale, avviene
entro 180 giorni dalla data di trasmissione, da parte dell’ente che lo ha
adottato, dello stesso strumento urbanistico corredato della necessaria
documentazione, e che, decorso infruttuosamente il termine, i piani si
intendono approvati – si sarebbe esposta già di per sé a "pesantissimi” dubbi
di legittimità costituzionale per compressione dell’autonomia regionale,
imponendo il silenzio-assenso in una materia di competenza regionale quale è
l’urbanistica. La norma impugnata avrebbe confermato questi dubbi.
Quanto
alla dedotta violazione dell’art. 77, terzo comma,
secondo periodo, in relazione agli artt. 5, 117 e 118, della Costituzione, la
Regione ricorda che di fatto i decreti legge reiterati non avrebbero
determinato alcuna lesione del potere regionale di approvazione degli strumenti
urbanistici locali, perché il termine di 180 giorni non avrebbe mai potuto
utilmente decorrere nel vigore di alcuno, e neanche dell’ultimo, di tali
decreti, non essendo mai intervenuta la legge di conversione; e nota poi che la
disposizione oggi impugnata disporrebbe ciò che non avrebbe potuto disporre
neppure la legge di conversione, e cioè, prevedendo l’utile decorso del termine
per il passato, consentirebbe ai decreti legge di produrre oggi effetti che non
avevano potuto produrre ieri.
Quanto
alla dedotta violazione dell’art. 77, secondo comma,
in relazione agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, la Regione afferma che
la disposizione impugnata avrebbe ignorato il limite della provvisorietà che la
Costituzione impone ai decreti legge, rendendo continua e definitiva la
disciplina disposta dalla catena dei decreti legge.
Quanto
alla dedotta violazione dell’art.
Quanto
infine alla violazione dell’art.
Con
riguardo all’ultima disposizione impugnata, l’art. 55,
comma 14, che secondo la Regione detterebbe un’analitica disciplina delle
attività agricole da attuarsi con decreto legislativo, la ricorrente deduce la
violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione: la lesione delle
attribuzioni regionali nella materia dell’agricoltura, di competenza regionale,
sarebbe immediata, e precederebbe la prevista emanazione di un decreto
legislativo, in quanto il coinvolgimento regionale sarebbe limitato al parere
della Conferenza Stato-Regioni, e in nessun punto, fra i principi e criteri
direttivi indicati, si darebbe conto della esigenza di salvaguardia delle
attribuzioni regionali.
7.
– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
chiedendo che la Corte voglia dichiarare non fondate tutte le questioni
sollevate dalla Regione Veneto, e osservando quanto segue in
relazione a ciascuna delle disposizioni impugnate.
Quanto
all’art. 17, comma 10, la difesa erariale afferma che
il conferimento alle Regioni dei poteri relativi ai propri tributi, quali sono
le tasse automobilistiche non erariali, risponderebbe ai principi
dell’autonomia, per cui non si comprenderebbe come la ricorrente possa
lamentarsi che per la amministrazione di proprie entrate le Regioni non
ricevano adeguata copertura finanziaria; inoltre, anche in considerazione della
diffusione e della specificità del tributo, sarebbe ragionevole la
preoccupazione di garantire l’omogeneità dei procedimenti su tutto il
territorio.
Quanto
all’art. 17, comma 22, la riduzione dell’accisa sulla
benzina conseguirebbe ad un’operazione di complessiva riorganizzazione
dell’imposizione nel settore della circolazione automobilistica, e avrebbe lo
scopo di mantenere il gettito nella misura vigente al 31 gennaio 1994 (recte: al 31
dicembre 1997). Questa operazione non potrebbe essere
ostacolata per l’interesse di una sola Regione, tanto più che l’accisa sulla
benzina non sarebbe un vero tributo della Regione, anche se ad esso attribuito.
Quanto
all’art. 17, comma 29, non si comprenderebbe, afferma
la difesa erariale, perché la ricorrente lamenti che le Regioni non partecipino
al reddito della tassa sulle emissioni di anidride solforosa e di ossido di
azoto.
Quanto
all’art. 18, l’Avvocatura sostiene che, poiché la
nuova imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili non sarebbe una entrata a
beneficio della Regione, in quanto quest’ultima collaborerebbe soltanto alla
distribuzione del gettito, non vi sarebbe ragione perché essa sia abilitata ad
esercitare sue potestà in materia.
Passando
all’esame delle censure formulate sulle disposizioni in materia di spesa, ed in particolare di quella relativa all’art. 32, comma 2,
l’Avvocatura afferma che non sarebbe illegittimo un sistema sanzionatorio che,
a fronte di inadempienza oggettiva, utilizzi il mezzo della riduzione del fondo
a favore della Regione; peraltro, proprio la Regione sarebbe chiamata ad
individuare le responsabilità degli operatori e a graduare le sanzioni.
Quanto
all’art. 32, comma 4, non parrebbe violato alcun
principio costituzionale; peraltro la materia oggetto della sanzione avrebbe
dovuto essere definita già da tempo.
Quanto
all’art. 32, comma 5, secondo l’Avvocatura le
disponibilità del fondo sanitario nazionale derivanti dalle riduzioni delle
quote spettanti alle Regioni inadempienti sarebbero ragionevolmente assegnate,
con il concorso di vari pareri, alle aziende che hanno attuato i programmi, e
non si potrebbe pretendere che il provento di sanzioni venga amministrato dallo
stesso soggetto sanzionato.
Quanto
all’art. 32, comma 15, tale disposizione, secondo la
difesa erariale, prevederebbe la possibilità – ma non
imporrebbe – che le aziende siano autorizzate ad erogare prestazioni a
cittadini extracomunitari.
Quanto
all’art. 34, comma 1, la regolarizzazione del
personale sanitario a rapporto convenzionale sarebbe stata da tempo attesa, e
la Regione non potrebbe ostacolarla.
Quanto
all’art. 37, l’Avvocatura sostiene che non sarebbe
necessario che ogni singola prestazione trovi una specifica copertura.
Quanto
agli artt. 39, comma 19, e 41, commi 2 (recte: 1) e 3, la
difesa erariale osserva che la riduzione delle spese per il personale prevista
nel comma 1 dell’art. 39 per lo Stato si applica a tutti gli enti pubblici, e
che sarebbe strano che la Regione fosse esente da questo dovere.
Quanto
all’art. 43, trattandosi di norma che consente, non
potrebbe profilarsi una violazione.
Quanto
all’art. 44, comma 4, si tratterebbe di una norma
genericamente programmatica.
Quanto
agli artt. 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
partecipazione delle Regioni alle operazioni per la stabilizzazione della
finanza pubblica, nel particolare momento, sarebbe doverosa.
Quanto
all’art. 49, comma 18, sul silenzio-assenso regionale
per l’approvazione degli strumenti urbanistici, la difesa erariale osserva che
la norma, che fa parte di un articolo la cui rubrica è "Norme particolari per i
comuni e le province”, non violerebbe le prerogative regionali, ricollegandosi
a numerose altre che perseguono, da una parte, la legittimazione di situazioni
urbanistiche con sanatorie di varia natura, dall’altra, lo snellimento delle
procedure di approvazione con il mezzo del silenzio accoglimento.
Quanto
infine all’art. 55, comma 14, l’Avvocatura sostiene
che, trattandosi di legge di delega mirante a sostenere le attività agricole
nel confronto con i costi comunitari, anche con varie provvidenze e con
alleggerimento degli oneri per i servizi, si sarebbe al di fuori della
competenza regionale in materia di agricoltura.
8.
– Nell’imminenza dell’udienza, nel giudizio instaurato con ricorso della
Regione Piemonte (r. ric. n. 12 del 1998) ha
depositato memoria la ricorrente, insistendo per l’accoglimento della
questione.
In relazione all’intervento in giudizio del Comune
di Lonato, la Regione ne eccepisce l’inammissibilità,
dovendosi dubitare in generale della compatibilità con il carattere del
giudizio di legittimità costituzionale in via principale della partecipazione
di soggetti diversi da quelli che vi sono chiamati dalla legge; e non
ricorrendo comunque, nel caso di specie, i presupposti per l’ammissibilità di
un intervento, poiché non sarebbe possibile configurare in
capo al Comune interveniente, anche qualora questo avesse concretamente inteso
come approvato il proprio strumento urbanistico decorso il termine previsto dai
decreti legge, una situazione individualizzata, bensì soltanto un interesse
riflesso ed eventuale all’esito del giudizio di legittimità costituzionale.
Quanto
al merito, la Regione, prendendo posizione sugli
argomenti esposti nell’atto di intervento del Comune di Lonato,
e ricordando la giurisprudenza della Corte in materia di limiti alla
decretazione d’urgenza, sostiene che al di là dell’ipotesi contemplata
dall’art. 77, terzo comma, della Costituzione non sarebbe comunque ipotizzabile
alcuna disposizione di salvaguardia degli effetti del decreto legge non
convertito, che sarebbe di per sé illegittima. E aggiunge che la possibilità di
far salvi gli effetti prodotti durante la vigenza interinale del decreto legge sarebbe rimessa esclusivamente alla valutazione
discrezionale del legislatore, fermo restando in ogni caso il rispetto degli
altri precetti costituzionali: condizione che, tuttavia, nel caso di specie non
risulterebbe essere stata rispettata, in quanto il provvedimento impugnato
sarebbe stato adottato in violazione degli artt. 9, 117 e 118 della
Costituzione.
Non
potrebbe neanche escludersi, prosegue la memoria, che le Regioni, ricorrendo in
via principale innanzi alla Corte costituzionale, lamentino il mancato rispetto
delle norme costituzionali regolanti l’esercizio del potere governativo di
adozione dei decreti legge, così come delle regole per l’emanazione di una
disciplina degli effetti di decreti legge non convertiti, quanto
meno nei limiti in cui ricorra altresì la violazione di norme
costituzionali che comportano la lesione della sfera di attribuzioni
costituzionalmente garantita.
Dopo
essersi soffermata sulle motivazioni delle due sentenze della Corte
costituzionale, la n.
244 e la n.
429 del 1997, aventi ad oggetto, rispettivamente,
la clausola di salvezza degli effetti dei decreti legge non convertiti (l’art.
2, comma 61, della legge n. 662 del 1996), e le disposizioni in ordine alla
formazione del silenzio assenso regionale contenute in due dei decreti legge
reiterati, la memoria sostiene che l’illegittimità costituzionale della norma
oggi impugnata deriverebbe dalla circostanza che essa andrebbe ad integrare un
contenuto normativo di cui le due sentenze della Corte avrebbero implicitamente
riconosciuto l’illegittimità costituzionale: la normativa impugnata avrebbe
infatti disposto, in contrasto con i principi dell’art. 77, terzo comma, della
Costituzione, così come interpretati appunto dalle due sentenze della Corte,
che il termine di decorrenza dei centottanta giorni per la formazione del
silenzio-assenso dovesse essere computato, ove non maturato (come non poteva
maturare) nel periodo di vigenza di un singolo decreto legge, sommando il
periodo di vigenza dei successivi decreti legge.
Infine,
la memoria ricorda come la Corte costituzionale avrebbe già in passato
affermato l’illegittimità di previsioni di silenzio-assenso con riferimento
alle attività amministrative ad alta discrezionalità, da ultimo con la sentenza n. 26 del
1996, avente ad oggetto una legge della ricorrente
Regione Piemonte in materia di programmi integrati di riqualificazione
urbanistica, edilizia e ambientale.
9.
– Nel ricorso proposto dalla Regione Lombardia (r.
ric. n. 13 del 1998), in prossimità dell’udienza hanno depositato memoria la
Regione ricorrente e il Presidente del Consiglio dei ministri. Entrambe le
memorie si soffermano distintamente su ciascuna delle disposizioni impugnate.
La
memoria della Regione Lombardia, quanto all’art. 32
della legge n. 449 del 1997, di cui sono impugnati i commi 2, 4 e 5, riassume
gli argomenti già sviluppati nel ricorso introduttivo, insistendo in
particolare sulla circostanza che le disposizioni impugnate sarebbero
irragionevoli, oltre che incostituzionali, nella parte in cui, a fronte delle
ridottissime competenze riconosciute alle Regioni, farebbero tuttavia carico alle
stesse di eventuali disfunzioni nel sistema, ancorché si tratti di disfunzioni
o errori non riconducibili ad una responsabilità diretta delle medesime; e
sulla circostanza che le stesse Regioni resterebbero escluse dal procedimento
anche nella fase successiva di assegnazione delle risorse resesi disponibili in
seguito all’applicazione delle sanzioni.
Quanto
agli artt. 34, comma 1, e 37, essi si
caratterizzerebbero per una evidente compromissione del diritto costituzionale
alla salute, oltre che delle esigenze di buon andamento dell’amministrazione,
non mettendo a disposizione delle Regioni le risorse necessarie per far fronte
ai disposti aggravi di spesa.
Quanto
all’art. 39, comma 19, la memoria insiste sul fatto
che, secondo la giurisprudenza costituzionale, eventuali misure di contenimento
o di blocco delle assunzioni di personale, finalizzate a riduzioni di spesa,
sarebbero legittime solo quando si tratti di misure temporanee, preordinate ad
instaurare un regime transitorio in attesa di un riassetto generale del
settore; la misura impugnata non realizzerebbe questa condizione.
Quanto
all’art. 41, comma 1, la memoria ribadisce che tale
disposizione, non avente carattere meramente transitorio, violerebbe
l’autonomia regionale, in quanto sottrarrebbe alle Regioni il potere di
organizzare i propri uffici, nonché il dominio e il controllo della
distribuzione dei compiti all’interno di essi.
La
memoria si sofferma quindi sull’art. 43, nella parte
in cui vincola l’utilizzo di una percentuale predeterminata dei ricavi netti
derivanti dalle consulenze o dai servizi aggiuntivi di cui al comma 3,
destinandola ad economie di bilancio. Tale disposizione sarebbe anch’essa di
carattere permanente, ed imporrebbe un doppio vincolo
di ordine sostanziale, qualitativo e quantitativo, sottraendo alla Regione ogni
libertà di valutazione e di impiego delle proprie risorse, attraverso una
irrazionale ed arbitraria omogeneizzazione delle situazioni di bilancio di
tutte le Regioni, con conseguente lesione della stessa autonomia politica della
Regione, privata della capacità di decisione in ordine alle spese.
Quanto
all’art. 44, comma 4, la memoria insiste sulle censure
già formulate nel ricorso, evidenziando l’impossibilità di superare il dubbio
di legittimità costituzionale interpretando la disposizione impugnata come una
mera norma di principio.
Quanto
all’art. 47, comma 1, la memoria ne ribadisce il
contrasto con l’art. 119 della Costituzione. La norma, da un lato, rinviando ad un decreto ministeriale la determinazione del limite di giacenza
che consente la ripresa dei pagamenti dello Stato a favore delle varie
categorie di enti, fra cui anche le Regioni, contrasterebbe con la previsione
costituzionale secondo cui siffatti limiti possono essere fissati solo da leggi
della Repubblica di coordinamento della finanza dello Stato, delle Province e
dei Comuni. Dall’altro lato la norma, prevedendo un meccanismo di difficile, se
non impossibile applicazione (non si comprenderebbe quale sia l’assegnazione di
competenza di ciascuna Regione in relazione alla cui
entità il decreto ministeriale dovrebbe procedere alla determinazione
dell’importo minimo di tali giacenze), contrasterebbe con l’esigenza di
certezza dell’autonomia finanziaria regionale, presupposta dalla Costituzione.
Ancora, il meccanismo da essa previsto determinerebbe incertezze anche sugli
equilibri di bilancio, mirando a rendere inesigibili crediti della Regione
verso lo Stato che, in base alle fonti giuridiche che li disciplinano, si
presenterebbero invece già liquidi ed esigibili.
Quanto
all’art. 48, commi 1, 4 e 5, la Regione ne sottolinea
il contrasto con lo stesso art. 119 della Costituzione, nella parte in cui
introduce il blocco dei pagamenti delle Regioni, con la sola esclusione di
quelli che possono arrecare danni patrimoniali all’ente e a terzi, fino a
quando la Conferenza permanente Stato-Regioni non abbia definito i criteri
operativi per il computo del fabbisogno di cui al comma 1, e nella parte in cui
riconosce alla stessa Conferenza permanente e alla Conferenza Stato-città la facoltà di proporre l’introduzione di
vincoli, con decreto ministeriale, sugli utilizzi delle disponibilità esistenti
sui conti della tesoreria unica, in caso di accertata incompatibilità del
fabbisogno rispetto agli obiettivi indicati dal comma 1.
Sia
il blocco autoritativo dei pagamenti delle Regioni,
sia la previsione di vincoli di utilizzo delle disponibilità finanziarie di cui
al comma 4, lederebbero l’operatività gestionale delle
Regioni, finendo per operare alla stregua di una misura coercitiva, finalizzata
a coartare la volontà delle Regioni in sede di Conferenza permanente, al fine
di far accettare alle stesse criteri operativi satisfattivi
delle esigenze dello Stato; e lederebbero l’autonomia finanziaria e contabile
garantita dall’art. 119 della Costituzione, limitando la disponibilità e
l’utilizzo delle giacenze di cassa presso la Tesoreria dello Stato, nonché
l’accreditamento a favore delle Regioni delle somme ad esse spettanti ai sensi
della normativa vigente. Sul punto, la memoria ricorda che la giurisprudenza
costituzionale ha affermato che il sistema di tesoreria unica non costituisce
di per sé violazione dell’autonomia regionale, purché non si trasformi in un
anomalo strumento di controllo sulla gestione finanziaria regionale: al contrario
di quello che accadrebbe con le norme impugnate, in base alle quali le Regioni
non potrebbero effettivamente disporre delle somme di
propria pertinenza già accreditate nei conti presso la tesoreria statale o da
accreditare in conformità delle norme vigenti. E questo con possibile
violazione, oltre che dell’autonomia finanziaria regionale, dei diritti dei
creditori e del principio di buon andamento della pubblica amministrazione di
cui all’art. 97 della Costituzione.
10.
– La memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, quanto all’art. 32, comma 2, della legge n. 449 afferma in primo luogo
l’inammissibilità delle censure che non concernono una lesione o menomazione
della sfera costituzionale delle attribuzioni regionali, quali in particolare
quella riferita all’art. 3 della Costituzione. In relazione
alla disposta riduzione della quota del Fondo sanitario nazionale in
caso di accertata inadempienza delle Regioni, poi, la difesa erariale ribadisce
la ragionevolezza e l’adeguatezza della misura, e osserva che la legge non
precluderebbe alla Regione di riversarne le conseguenze sugli enti (ASL e
aziende ospedaliere) che siano esclusivamente responsabili dell’inadempienza,
oltre che sui dirigenti e sul personale, come espressamente previsto dalla
norma impugnata; benché, dati i penetranti poteri di indirizzo, controllo ed
intervento correttivo spettanti alle Regioni nei confronti delle ASL ed aziende
ospedaliere, sarebbe difficile ipotizzare una inadempienza per omissione non
attribuibile alla stessa Regione.
D’altro
lato, il Ministro della sanità non godrebbe di
illimitata discrezionalità nel dosare la sanzione, in quanto la legge
fisserebbe l’ammontare massimo della sanzione e postulerebbe la sua motivata
graduazione in rapporto alla gravità e all’entità dell’inadempienza; e la
stessa legge delineerebbe una procedura – proposta del Ministro, previo parere
della Conferenza unificata – idonea di per sé alla piena rappresentazione e
difesa degli interessi regionali.
Anche
la doglianza relativa all’art. 32, comma 4,
presenterebbe profili di inammissibilità e, comunque, sarebbe infondata. La
disposizione, infatti, prevedendo una proroga (al 31 marzo 1998) del termine
per l’adempimento regionale, che ai sensi dell’art. 1
della legge n. 662 del 1996 sarebbe scaduto il 31 gennaio 1997, non potrebbe
ritenersi irragionevole per eccessiva brevità del termine.
Quanto
all’art. 32, comma 5, secondo periodo, il procedimento
delineato dalla legge per la ripartizione e la utilizzazione delle
disponibilità aggiuntive sarebbe tale da assicurare, nel rispetto del principio
di leale cooperazione, l’adeguata tutela degli interessi della Regione, dato
che il necessario intervento della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe rimuovere
qualsiasi sospetto di irragionevole discrezionalità del Ministro nella riassegnazione dei fondi.
Quanto
all’art. 32, comma 5, terzo periodo, la censura
sarebbe incomprensibile: il potere sostitutivo per l’utilizzo delle
disponibilità di cui all’art. 1, comma 23, della legge n. 662 del 1996 dovrebbe
essere inteso chiaramente nei confronti delle aziende sanitarie, e non già
della Regione, attraverso la nomina di un commissario ad acta con provvedimento del Consiglio
dei ministri, su proposta del Ministro della sanità e di intesa con la Regione
interessata.
Quanto
all’art. 34, comma 1, della legge, esso dovrebbe
essere letto in correlazione con il comma 4, che attribuisce alle Regioni la
rideterminazione, tramite le ASL, delle ore da attribuire alla branca
specialistica ambulatoriale, in modo da realizzare nel 1998 una riduzione
complessiva annua non inferiore al 10% dei costi sostenuti per detta disciplina
nel 1997, detratti alcuni costi. L’ipotesi avanzata dalla ricorrente, di un
pregiudizio alla propria autonomia finanziaria, sarebbe quindi infondata, in quanto la complessiva manovra sarebbe al contrario
destinata a comportare una apprezzabile economia di spesa, stimata, per il
Quanto
all’art. 39, comma 19, la disposizione non inciderebbe
in alcun modo sulla autonomia normativa e finanziaria della Regione, in quanto
il principio fondamentale da essa enunciato mirerebbe ad assicurare la
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico al fine del suo
ridimensionamento entro i limiti del complessivo quadro di riferimento delle
compatibilità finanziarie, a cui sono chiamate a partecipare anche le Regioni.
Quanto
all’art. 41, comma 1, esso corrisponderebbe alle
stesse esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica, di cui si è appena
detto, oltre che di recupero dell’efficienza dei tempi dei procedimenti
amministrativi; d’altro lato, rimarrebbe riservata alle Regioni
l’individuazione degli organismi regionali ritenuti indispensabili per la
realizzazione delle proprie finalità.
Quanto
all’art. 41, comma
Quanto
all’art. 43, comma 3, l’Avvocatura non ne ravvisa il
contrasto con l’art. 119 della Costituzione: il limite all’autonomia regionale
sarebbe ragionevole, in vista della realizzazione del generalizzato
contenimento del disavanzo pubblico.
Quanto
all’art. 44, comma 4, tale disposizione non sarebbe
tale da incidere immediatamente e concretamente sull’autonomia regionale, in
difetto dell’emanazione del previsto decreto legislativo; e, comunque, essa si
limiterebbe ad estendere alle trasformazioni delle strutture delle
amministrazioni pubbliche quanto previsto dall’art. 14 della legge n. 59 del
1997, articolo che andrebbe letto in relazione al precedente art. 11, lettera b, del quale costituirebbe una specificazione.
Quanto
all’art. 47, comma 1, la difesa erariale in primo
luogo precisa che tale disposizione riguarda solo gli stanziamenti di alcuni
capitoli del bilancio statale, quali individuati nel d.m.
16 gennaio
Infine,
di nessun fondamento sarebbe la doglianza riferita all’art. 48,
comma 5, il quale conterrebbe esclusivamente una norma di salvaguardia,
provvisoriamente operante, nei limiti specificati, in attesa delle indicazioni
della Conferenza Stato-Regioni.
11.
– Nel ricorso proposto dalla Regione Veneto (r. ric.
n. 14 del 1998), in prossimità dell’udienza hanno depositato memoria la Regione
ricorrente e il Presidente del Consiglio dei ministri. Entrambe le memorie si
soffermano distintamente su ciascuna delle disposizioni impugnate.
Quanto
agli artt. 32, commi 2, 4 e 5; 34, comma 1; 37; 39,
comma 19; 41, comma 1; 43; 44, comma 4; 47, comma 1, e 48, commi 1 e 5, la
memoria della ricorrente riproduce in modo del tutto identico quanto affermato
dalla memoria della Regione Lombardia, di cui si è detto sopra, al paragrafo 9.
Quanto
invece alle disposizioni impugnate in materia tributaria (art. 17, commi 10, 22 e 29, e art. 18), la memoria della Regione Veneto
complessivamente ne ribadisce l’illegittimità costituzionale, sia là dove gli
interventi non comportano l’istituzione di nuovi tributi né l’elevazione
dell’aliquota di quelli esistenti, in cui illegittima sarebbe la devoluzione
allo Stato dei maggiori proventi derivanti dagli interventi previsti; sia nel
caso dell’art.
In
particolare, con riferimento all’art. 17, comma 10, la
memoria ribadisce che tale norma violerebbe l’autonomia finanziaria regionale,
e pretenderebbe di uniformare la disciplina di riscossione, accertamento,
recupero, rimborsi, sanzioni e contenzioso relativi alle tasse automobilistiche
non erariali, demandandone la disciplina ad un decreto ministeriale, senza
tenere conto delle peculiarità di ciascuna Regione e delle prerogative a queste
riconosciute nella materia degli uffici regionali.
Quanto
all’art. 17, comma 22, la compromissione
dell’autonomia finanziaria della Regione ricorrente risulterebbe dalla
violazione del principio costituzionalmente garantito della libera ed autonoma
determinazione dell’aliquota dell’imposta regionale, la cui riduzione ad opera
del legislatore nazionale, peraltro, nella specie andrebbe a vantaggio
dell’erario dello Stato, il quale incasserebbe la differenza esistente tra la
precedente aliquota e quella ridotta a seguito dell’applicazione della
disposizione contestata. Quanto al comma 29 dello
stesso articolo e al successivo art. 18, la memoria ripete le censure già mosse
nel ricorso introduttivo.
Quanto
all’art. 32, comma 15, esso viene accomunato dalla
memoria regionale agli artt. 34, comma 1, e 37, di cui si è detto sopra al
paragrafo
Quanto
all’art. 49, comma 18, la memoria si sofferma sugli
effetti concernenti la sua applicazione, affermando che durante il periodo di
vigenza dei decreti legge che prevedevano la formazione del silenzio-assenso
della Regione decorsi centottanta giorni dalla trasmissione degli strumenti
urbanistici, la Giunta regionale veneta avrebbe approvato 632 strumenti
urbanistici, di cui solo 208 nel termine di centottanta giorni; e che all’epoca
sarebbe stato pressoché unanime l’orientamento, avallato dalla stessa Corte
costituzionale con le sentenze nn. 244 e 429 del 1997,
secondo cui il predetto termine, a seguito della mancata conversione in legge
dei decreti, non potesse mai giungere a compimento. Ne conseguirebbe
l’illegittimità della norma ora impugnata, per violazione dell’art. 77 della Costituzione, in quanto essa farebbe salvi effetti
di decreti legge non ancora prodottisi al momento della loro decadenza per
mancata conversione.
Per
provare ulteriormente l’irragionevolezza della disposizione impugnata, di
carattere interpretativo e di natura retroattiva, la memoria sostiene infine
che dalla sua applicazione potrebbe discendere l’illegittimità derivata dei
provvedimenti regionali diversi da quelli di mera approvazione degli strumenti
urbanistici intervenuti oltre il termine di centottanta giorni, e che tali
provvedimenti (approvazioni con modifiche d’ufficio, approvazioni
con proposte di modifica, e provvedimenti di restituzione degli strumenti
urbanistici) sarebbero, per quanto riguarda la Regione Veneto, circa 345.
Quanto
infine all’art. 55, comma 14, la memoria ribadisce che
da tale disposizione deriverebbe una grave lesione delle attribuzioni regionali
in materia di agricoltura. In proposito, la Regione ricorda che con la legge n.
59 del 1997, ma ancor prima con il d.P.R. n. 616 del
1977, il legislatore statale avrebbe seguito la logica di mantenere in capo
allo Stato, e per esso al Ministero per le politiche agricole, solo compiti di
disciplina generale e di coordinamento nazionale in materia di
importazione ed esportazione di prodotti agricoli ed alimentari e di
regolazione dei mercati. In realtà tuttavia, la decentralizzazione delle
funzioni sarebbe mancata, e la disposizione impugnata ne costituirebbe la
riprova. La memoria insiste nell’affermare che l’esigenza di fornire allo Stato
gli strumenti necessari per il perseguimento di una disciplina di carattere
unitario nel settore della regolazione dei mercati e delle politiche agricole
in vista del generale interesse nazionale andrebbe necessariamente raccordata
con la contestuale previsione di momenti di cooperazione tra Stato e Regione, e
che non sarebbe sufficiente a sanare l’illegittimità costituzionale della
disposizione impugnata la mera previsione della
consultazione della Conferenza permanente Stato-Regioni; del resto, conclude la
Regione, tale disposizione andrebbe ben oltre l’attribuzione allo Stato di
funzioni di coordinamento del settore agricolo, sottraendo illegittimamente
alle Regioni funzioni ad esse costituzionalmente spettanti.
12.
– La memoria depositata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 32, commi 2, 4 e 5; 34, comma 1;
39, comma 19; 41, commi 1 e 3; 43, comma 3; 44, comma 4; 47, comma 1, e 48,
commi 1 e 5, riproduce in modo del tutto identico quanto affermato dalla
memoria dello stesso Presidente del Consiglio nel giudizio instaurato con
ricorso della Regione Lombardia, di cui si è detto sopra al paragrafo 10.
Quanto
all’art. 17, comma 10, la difesa erariale premette che
i decreti ministeriali ivi previsti sono stati rispettivamente emanati in data
25 novembre 1998 – e l’art. 7 del decreto prevede che le sue disposizioni sono
destinate ad applicarsi fino a quando le Regioni non provvedano ad emanare
un’autonoma disciplina – e 10 novembre 1999.
Venendo
alle censure formulate dalla Regione, la difesa erariale osserva che, essendo
le tasse automobilistiche non erariali tributi propri della Regione sulla base
dell’art. 23 del d.lgs. n. 504 del 1992, lo Stato, nel
trasferire le funzioni "strumentali” relative a tale tributo, non avrebbe
dovuto assumersi né direttamente né indirettamente gli oneri economici connessi
al loro esercizio, i quali non potrebbero che essere a carico dell’ente
regionale, titolare del tributo.
Quanto
alla contestata previsione dei decreti ministeriali – che devono emanarsi
sentita la Conferenza Stato-Regioni, per assicurare che siano rappresentati gli
interessi regionali –, essa sarebbe dettata dalla ragionevole necessità di
assicurare, all’atto del trasferimento di tali funzioni, uno schema normativo
uniforme ed omogeneo per l’esercizio delle stesse da
parte di tutte le Regioni a statuto ordinario, anche al fine del coordinamento
della relativa disciplina sia tra le varie Regioni sia con le funzioni tuttora
esercitate in materia dallo Stato, fra cui quelle attinenti alle tasse
automobilistiche nelle Regioni a statuto speciale, oltre a quelle indicate
nell’art. 3, comma 3, e nell’art. 5 del decreto ministeriale del 25 novembre
1998. Non ci sarebbe dunque contrasto con la potestà legislativa attuativa in
materia tributaria di cui all’art. 119 della Costituzione, norma che
consentirebbe, nel rispetto degli altri principi costituzionali, la
determinazione con legge di forme e limiti all’autonomia regionale, in
particolare in funzione di coordinamento anche con la finanza dello Stato; e,
del resto, le Regioni avrebbero la possibilità di rappresentare le proprie
valutazioni, in vista della predisposizione del regolamento, in sede di
Conferenza Stato-Regioni. Inoltre, la formulazione della disposizione impugnata
sembrerebbe diretta a prevedere lo schema regolamentare omogeneo in mancanza di
norme autonomamente poste dalle Regioni, che la disposizione impugnata non
intenderebbe escludere: e in tal senso la norma sarebbe stata correttamente interpretata
dall’art. 7 del decreto ministeriale del 25 novembre
1998, di cui si è detto. Ancora, la disposizione impugnata non inciderebbe
sulla materia dell’ordinamento degli uffici regionali, limitandosi a prevedere
che il decreto ministeriale regoli le modalità di
svolgimento delle funzioni strumentali trasferite; come dimostrerebbe lo stesso
decreto del 28 novembre, il quale si rimetterebbe, in proposito, in tutte le
sue previsioni, alle scelte, anche organizzative delle Regioni (art. 2, comma
1; art. 3, comma 1; art. 4, comma 2; art. 5, comma 7).
Quanto
all’art. 17, comma 22, la riduzione della quota di
accisa sulla benzina sarebbe strettamente collegata all’aumento della fiscalità
disposta nel settore della circolazione automobilistica dallo stesso art.
Quanto
all’art. 17, comma 29, la difesa erariale ribadisce
che nessun principio costituzionale imporrebbe la compartecipazione regionale
alla tassa di nuova istituzione, spettando invece al legislatore statale
fissare se ed in che limiti le Regioni possono partecipare al relativo gettito;
né si potrebbe dire che tale tassa sia correlata ai singoli ambiti territoriali
regionali, anziché all’intero territorio nazionale, in quanto il rischio
ambientale non rispetta i confini regionali, e difettando, del resto, una
destinazione legislativa dei proventi ad una specifica finalità.
Quanto
all’art. 18 della legge, anche a prescindere
dall’inammissibilità della censura in assenza del previsto regolamento, secondo
l’Avvocatura non sarebbe profilabile alcuna pur potenziale menomazione
dell’autonomia finanziaria regionale, in quanto la nuova imposta sulle
emissioni sonore degli aeromobili non sarebbe un tributo regionale, ma avrebbe
chiara natura di tributo erariale (statale), con mero conferimento agli
assessorati regionali della funzione di destinazione ai beneficiari del gettito
di una imposta statale (comma 3).
Quanto
all’art. 32, comma 15, i compiti di erogazione di
prestazioni ad alta specializzazione a cittadini extracomunitari, nel quadro di
programmi assistenziali approvati dalla Regione, troverebbero copertura nella
quota del fondo sanitario nazionale attribuita a ciascuna Regione, nell’ambito
della quale spetterebbe comunque alla Regione valutare discrezionalmente, in
relazione alle disponibilità esistenti, l’eventuale esercizio di queste forme
di assistenza.
Quanto
all’art. 37, tale disposizione comporterebbe un onere
estremamente contenuto, e non comprometterebbe di fatto l’autonomia finanziaria
e gestionale della Regione; del resto, la fornitura gratuita di protesi
mammarie sarebbe già stata prevista nel decreto ministeriale 28 dicembre 1992,
per cui la norma non prevederebbe alcun onere
aggiuntivo né a carico del Servizio sanitario nazionale, né a carico della
Regione.
Quanto
all’art. 49, comma 18, la difesa erariale eccepisce
preliminarmente l’inammissibilità dei profili che invocano come parametro norme
costituzionali le cui asserite violazioni non inciderebbero sulle attribuzioni
costituzionali della Regione, ed in particolare l’art. 77, terzo comma, della
Costituzione. Nel merito, afferma che la disposizione impugnata costituirebbe
l’esercizio sostantivo di ulteriore ed innegabile
potestà legislativa, nell’ambito della quale il Parlamento avrebbe
autonomamente regolato situazioni pregresse senza incidere sulla sfera di
attribuzioni regionali, riprendendo da un lato la previsione dei decreti legge
decaduti, nella parte in cui configuravano il termine di centottanta giorni per
la formazione del silenzio-assenso regionale sull’approvazione degli strumenti
urbanistici, dall’altro lato dando rilievo anche al tempo eventualmente
maturato nel periodo di vigenza dei decreti legge reiterati. La Regione,
inoltre, solo genericamente lamenterebbe la lesione delle proprie attribuzioni,
senza dedurre alcuna specifica doglianza.
Quanto
infine all’art. 55, comma 14, della legge n. 449,
l’Avvocatura, dopo avere ricordato che in attuazione della delega è stato
emanato il d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173, osserva, da un lato, che la mancata
espressa riserva delle competenze regionali non potrebbe essere intesa come
implicante la lesione delle stesse, il cui rispetto andrebbe invece inteso come
presupposto, come confermerebbe anche la previsione del previo parere della
Conferenza Stato-Regioni nella emanazione del decreto legislativo. D’altro
lato, la maggior parte delle materie implicate dalla delega – gli oneri fiscali
e previdenziali, i costi energetici e del denaro, i servizi assicurativi
all’esportazione e le procedure di utilizzo dei fondi strutturali –, pur
riguardando l’agricoltura, esulerebbe dalla competenza
regionale.
Considerato in diritto
1.
– I tre ricorsi proposti dalla Regione Piemonte, dalla Regione Lombardia e
dalla Regione Veneto investono disposizioni – solo parzialmente coincidenti –
della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della
finanza pubblica). Precisamente, l’art. 49, comma 18,
è impugnato dalle Regioni Piemonte e Veneto; gli articoli 32, commi 2, 4, e 5,
34, comma 1, 37, 39, comma 19, 41, comma 1, 43, 44, comma 4, 47, comma 1, 48,
commi 1 e 5, sono impugnati dalle Regioni Lombardia e Veneto; gli articoli 17,
commi 10, 22 e 29, 18, 32, comma 15, 41, comma 3, e 55, comma 14, dalla sola
Regione Veneto; l’art. 48, comma 4, dalla sola Regione Lombardia.
Stante
la connessione oggettiva, i giudizi debbono essere
riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
2.
– In via preliminare, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento
spiegato dal Comune di Lonato nel giudizio instaurato
con il ricorso della Regione Piemonte, dal momento che
la memoria è stata depositata oltre il termine previsto dall’art. 23, terzo comma,
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
3.
– Un primo gruppo di questioni riguarda disposizioni in materia tributaria.
L’art.
17, comma 10, nello stabilire che la riscossione,
l’accertamento, nonché il recupero, i rimborsi, l’applicazione delle sanzioni
ed il contenzioso amministrativo relativi alle tasse automobilistiche non
erariali (oggetto di nuova disciplina sostanziale contenuta nei commi 5, 6, 7,
9, 15 e 16 dello stesso articolo) sono demandati alle Regioni a statuto
ordinario, prevede altresì che essi "sono svolti con le modalità stabilite con
decreto del Ministro delle finanze” sentita la Conferenza Stato-Regioni e
previo parere delle commissioni parlamentari competenti; e che con lo stesso o
con separato decreto "è approvato lo schema tipo di convenzione con la quale le
regioni possono affidare a terzi, mediante procedure ad evidenza pubblica,
l’attività di controllo e riscossione delle tasse automobilistiche”, mentre la
riscossione coattiva è svolta a norma della disciplina statale sulla
riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e di altri enti pubblici, di
cui al d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (ora abrogato
dall’art. 68 del d.lgs. 14 aprile 1999, recante "Riordino del servizio
nazionale della riscossione in attuazione della delega prevista dalla legge 28
settembre 1998, n.
La ricorrente Regione Veneto afferma che tale disposizione, pretendendo di imporre "un modello standardizzato di disciplina dell’esercizio dell’autonomia tributaria regionale”, eccederebbe l’ambito delle "forme” e dei "limiti” dell’autonomia finanziaria regionale determinati, ai sensi dell’art. 119, primo comma, della Costituzione, dalla legge della Repubblica, e violerebbe altresì gli articoli 117 e 118 della Costituzione disciplinando la materia dell’ordinamento degli uffici regionali e compromettendo, senza ragioni giustificative, l’autonomo e differenziato esercizio delle funzioni amministrative regionali. L’illegittimità della disposizione sarebbe aggravata dal fatto che la discrezionalità del Ministro non sarebbe in alcun modo delimitata, e discenderebbe, ancora, dalla circostanza che con essa si sarebbero affidati alla Regione compiti onerosi senza la previsione della copertura finanziaria, in violazione degli articoli 5, 117, 118 e 119 della Costituzione.
4.
– La questione è solo parzialmente fondata.
Non
è illegittimo che il legislatore statale, nel momento in cui trasferisce alle
sole Regioni a statuto ordinario le funzioni amministrative di accertamento e
riscossione delle tasse automobilistiche, soltanto di recente attribuite
interamente alle Regioni stesse (cfr. art. 23 del
d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, contenente "Riordino della finanza degli enti
territoriali, a norma dell’articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n.
5.
– E’ costituzionalmente illegittima, invece, la previsione del secondo periodo
dello stesso comma, che demanda ad un decreto
ministeriale anche la definizione di uno schema tipo di convenzione per
l’affidamento a terzi, da parte della Regione, dell’attività di controllo e
riscossione delle tasse automobilistiche.
La
disciplina di tali rapporti convenzionali si colloca interamente entro l’ambito
dell’organizzazione degli uffici regionali, materia affidata alla competenza
delle Regioni: in ordine a tale disciplina, nessuna
ragione unitaria o di coordinamento esige l’imposizione di una normativa
statale uniforme, ferma restando, ovviamente, l’applicabilità dei principi e
delle norme generali sull’attività contrattuale delle Regioni. La previsione di
uno schema tipo di convenzione invade, pertanto, la sfera riservata
all’autonomia regionale.
6.
– L’art. 17, comma 22, dopo avere stabilito che le
tariffe delle tasse automobilistiche – destinate ad essere fissate, con nuovi
criteri, ai sensi del precedente comma 16 – "devono fornire un gettito
equivalente a quello delle stesse tasse automobilistiche vigenti al 31 dicembre
Secondo
la Regione Veneto tale ultima previsione sarebbe illegittima in
quanto mancherebbe la certezza delle maggiori entrate compensative della
riduzione della quota regionale dell’accisa.
7.
– La questione non è fondata.
Le
nuove tariffe delle tasse automobilistiche, devolute interamente alle Regioni
ordinarie, sono disciplinate in modo tale da assicurare alle Regioni stesse un
gettito superiore al passato, perché compensativo anche del gettito di imposte soppresse, già di pertinenza statale: e ciò anche
senza tener conto della facoltà di incremento delle stesse tasse, prevista a
favore delle Regioni dall’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, e
confermata, a decorrere dall’anno 1999, dal comma 16, ultimo periodo, dello
stesso impugnato art.
La
censura di pretesa incertezza delle entrate a favore della Regione non si fonda
su alcun elemento oggettivo; i margini di variabilità e di imprevedibilità
dell’andamento del gettito sono fisiologici in ogni tributo, e del resto
sussistono anche per il tributo – l’accisa sulla benzina – cui si riferisce la
riduzione disposta; ma non si può dire che la disciplina dettata dal
legislatore statale sia configurata in modo tale da esporre le Regioni al
rischio di una perdita di gettito. Senza dire che, come questa Corte più volte ha statuito (cfr. sentenze nn. 123 del 1992 e 370 del 1993),
la Costituzione non garantisce alle Regioni una determinata quantità di
risorse, ma solo il diritto a disporre di risorse finanziarie che risultino
complessivamente non inadeguate rispetto ai compiti loro attribuiti; e, nella
specie, tale inadeguatezza certamente non si verifica.
8.
– L’art. 17, comma 29, istituisce una tassa sulle
emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto prodotte dai grandi
impianti di combustione (che vengono definiti nel terzo periodo dello stesso
comma).
La
Regione lamenta che, pur trattandosi di una tassa "ambientale”, le Regioni non
siano chiamate a compartecipare al relativo gettito, e che questo non sia
destinato ad interventi di prevenzione o risanamento
ambientale, in violazione dell’esigenza costituzionale di tutela della salute
della collettività.
9.
– La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
L’esistenza
di una competenza – non esclusiva – delle Regioni in materia di tutela e di gestione
dell’ambiente non ostacola, dal punto di vista costituzionale, l’istituzione da
parte dello Stato, nell’esercizio della sua generale potestà impositiva, di
tributi che, per la materia imponibile colpita e per la loro disciplina,
possano definirsi "ambientali” nel senso che essi abbiano anche effetti di incentivo o disincentivo di condotte, rispettivamente
favorevoli o pregiudizievoli per l’ambiente; né il gettito di tali tributi deve
necessariamente essere devoluto, in tutto o in parte, alle Regioni.
Le
censure mosse dalla Regione in ordine alla devoluzione
e all’impiego del gettito della nuova tassa si risolvono pertanto in una
critica politica alle scelte del legislatore statale, irrilevanti nella sede
del giudizio di costituzionalità.
Quanto
infine al profilo concernente la violazione dell’art. 32
della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo le Regioni
legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità costituzionale in via
principale, la violazione di norme costituzionali che non riguardino la propria
sfera di competenza.
10.
– L’art. 18 – anch’esso impugnato dalla sola Regione Veneto – istituisce
un’imposta, definita "erariale regionale”, sulle emissioni sonore derivanti dal
traffico aereo, imposta che si aggiunge ai già previsti diritti aeroportuali;
la disciplina dell’entità del tributo, commisurata alla rumorosità degli
aeromobili, e della sua riscossione è demandata ad un
regolamento (peraltro non ancora emanato). Il gettito dell’imposta sarà
assegnato nell’anno successivo "allo stato di previsione degli assessorati
regionali per essere destinato, con modalità stabilite
dagli stessi assessorati, a sovvenzioni e indennizzi alle amministrazioni e ai
soggetti residenti nelle zone limitrofe agli aeroscali”.
La
Regione lamenta che la disciplina del tributo, pur definito "regionale”, sia
interamente rimessa allo Stato, e che la Regione non sia coinvolta nemmeno nel
procedimento di adozione del previsto regolamento.
11.
– La questione non è fondata.
Il
nuovo tributo – fra l’altro incidente in materia, quella del traffico aereo, di
competenza statale – è istituito come imposta statale (cfr. sentenza n. 348 del
2000), e pertanto legittimamente se ne demanda la disciplina ad atti
normativi statali. La definizione di imposta "regionale”
sta solo ad indicare che il suo gettito, riscosso nell’ambito della Regione in
relazione al traffico aereo negli aeroscali compresi nel rispettivo territorio,
è devoluto alla Regione medesima, per essere impiegato con vincolo di
destinazione alle finalità indicate dalla legge, ma con modalità rimesse alla
stessa Regione (il riferimento improprio agli "assessorati regionali”, nonché
ai relativi "stati di previsione”, non rileva in questa sede, in quanto non è
oggetto di specifica censura).
12.
– Un secondo gruppo di disposizioni impugnate concerne l’organizzazione del
Servizio sanitario nazionale e la spesa sanitaria.
L’art.
32 della legge reca "interventi di razionalizzazione
della spesa” sanitaria. In particolare, il comma 1 (non
censurato) fissa, in termini di percentuale della spesa degli anni precedenti,
gli obiettivi di risparmio sulla spesa per l’acquisizione di beni e
servizi da parte delle aziende sanitarie per il 1998. Il comma 2 prevede, nel caso di inadempimento da parte delle Regioni
e delle aziende sanitarie degli obblighi imposti per il contenimento della
spesa sanitaria, una riduzione, in misura non superiore al 3 per cento, della
quota di riparto del Fondo sanitario nazionale spettante alla Regione. Le
riduzioni sono proposte dal Ministro della sanità, previo parere della
Conferenza unificata Stato-Regioni e Stato-città.
Spetta alle Regioni individuare "le modalità per
l’attribuzione delle diverse responsabilità ai direttori generali, ai dirigenti
e al restante personale, per l’adempimento degli obblighi derivanti alle
aziende sanitarie” dalle disposizioni dello stesso comma. Il comma 4 stabilisce che analoghe riduzioni, in questo caso già
previste dall’art. 1, comma 23, della legge n. 662 del 1996 nella misura dello
0,50 per cento della quota spettante, si applichino a titolo di sanzione alle
Regioni che entro il 31 marzo 1998 non abbiano dato attuazione agli strumenti
di pianificazione previsti dalla legge in materia di tutela della salute
mentale e non abbiano provveduto alla realizzazione delle strutture
residenziali necessarie per la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici.
A sua volta, il comma 5 prevede che le disponibilità
del Fondo derivanti dalle riduzioni effettuate ai sensi del comma 2 sono
utilizzate per il finanziamento di azioni di sostegno volte al superamento
degli ostacoli che hanno dato luogo alla inadempienza o di progetti speciali di
innovazione organizzativa e gestionale di servizi per la tutela delle fasce
deboli; e che le disponibilità derivanti dalle riduzioni cui si riferisce il
comma 4, ed altre derivanti da minore spesa, siano utilizzate per la
realizzazione di quanto previsto dal progetto obiettivo "Tutela della salute
mentale”, nonché, a titolo incentivante, a favore di aziende sanitarie che
abbiano attuato i programmi di chiusura degli ospedali psichiatrici. Per le
disponibilità derivanti dalle riduzioni di cui al comma 4,
si prevede che il Consiglio dei ministri, d’intesa con la Regione interessata,
attivi un potere sostitutivo con la nomina di commissari regionali ad acta al
fine di realizzare quanto previsto dal citato progetto obiettivo. La quota dei
fondi da attribuire alle Regioni ai sensi di tale comma è determinata dal
Ministro della sanità, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
I
commi 2, 4 e 5 sono impugnati dalle Regioni Lombardia
e Veneto. In relazione al comma 2 i ricorsi lamentano
che siano equiparate l’inadempienza della Regione e quella delle aziende
sanitarie; che conseguentemente si preveda una sanzione finanziaria a carico
della Regione anche per l’inadempimento di una singola azienda, e si facciano
gravare irragionevolmente conseguenze negative su soggetti pubblici e utenti
incolpevoli; che non si preveda un procedimento garantista e collaborativo per
l’applicazione delle riduzioni, la determinazione della cui entità sarebbe
lasciata alla illimitata discrezionalità del Ministro, salva la soglia massima
del 3%, e salvo il parere della Conferenza unificata. In
relazione al comma 4, si lamenta che il termine per gli adempimenti
imposti sarebbe irragionevolmente breve, e la sanzione irragionevolmente grave
e non proporzionata all’entità dell’inadempimento, ma rimessa ad una
determinazione eccessivamente discrezionale. In relazione al
comma 5, infine, si lamenta che si preveda l’assegnazione di fondi direttamente
alle aziende, saltando il livello della Regione; che si attribuisca al Ministro
una eccessiva discrezionalità in detta assegnazione di fondi; che si istituisca
un potere sostitutivo "ibrido”, del quale non sarebbe chiaro se si eserciti nei
confronti dell’azienda o della stessa Regione.
13.
– Le questioni sono infondate.
Regioni
e aziende sanitarie sono, a diverso titolo, coinvolte nella responsabilità per
il conseguimento degli obiettivi della programmazione sanitaria e anche degli
obiettivi di risparmio che il legislatore statale – senza peraltro che su
questo punto le Regioni ricorrenti muovano alcuna contestazione –
legittimamente stabilisce nel quadro della politica di
bilancio. Le aziende sono responsabili della gestione dei rispettivi servizi e
strutture; le Regioni sono chiamate a programmare, fra l’altro, l’impiego delle
risorse anche attraverso la ripartizione del fondo sanitario regionale, ed a esercitare poteri di indirizzo e di controllo sulle
aziende.
Poiché
lo Stato, dal punto di vista finanziario, intrattiene rapporti diretti solo con
la Regione, è logico che i meccanismi sanzionatori sul piano finanziario –
volti ad incentivare un miglior impiego delle risorse
a livello locale – si traducano in riduzioni della quota regionale del fondo
sanitario nazionale, restando in capo alla Regione il compito e la
responsabilità di utilizzare a sua volta i propri poteri di riparto per
trasferire la "sanzione” a livello delle singole aziende, oltre che per
azionare le responsabilità dei direttori generali, dei dirigenti e del restante
personale, come espressamente è previsto dal comma
Né
si può dire che l’applicazione delle riduzioni sia lasciata ad
una totale discrezionalità del Ministro. In realtà, non solo le proposte di
riduzione delle quote del fondo sanitario sono formulate dal Ministro previo
parere della Conferenza unificata, nella quale sono rappresentate sia le
Regioni, sia le autonomie locali alle quali le aziende sanitarie si collegano
dal punto di vista territoriale: ma le riduzioni debbono
essere decise in sede di riparto del Fondo sanitario nazionale, e quindi con il
procedimento all’uopo previsto dalla legge, che contempla una delibera del CIPE
su proposta del Ministro della sanità, sentita la Conferenza Stato-Regioni (art.
12, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, come sostituito dall'art. 14 del
d.lgs. n. 517 del 1993; si tratta peraltro di un meccanismo di riparto
destinato a venir meno a decorrere dall’anno 2001, con la prevista cessazione
dei trasferimenti erariali in favore delle Regioni a statuto ordinario: art. 1,
comma 1, lettera d, del d.lgs. 18
febbraio 2000, n. 56). Nell’ambito di tale procedura partecipata, gli
inadempimenti ai quali il Ministro intenda far seguire le riduzioni in parola
dovranno essere individuati specificamente e contestati alla Regione
interessata, affinché questa possa eventualmente far valere le proprie ragioni
e giustificazioni. L’entità della riduzione, a sua volta, non può essere decisa
con totale discrezionalità, poiché non solo deve essere rispettato il limite
massimo del 3 per cento, fissato dalla disposizione in esame, ma, entro questo
limite, deve essere commisurata al tipo e al grado dell’inadempimento
accertato.
Quanto
alle riduzioni previste dal comma
In
questo caso, poi, l’entità della riduzione non è affatto
lasciata alla discrezione dell’esecutivo statale, poiché, al contrario, essa è
fissata dall’art. 1, comma 23, della legge n. 662 del 1996, cui il comma qui
impugnato fa rinvio, nello 0,50 per cento della quota del Fondo. Né ha pregio
la censura di sproporzione della sanzione rispetto alla possibile gravità
dell’inadempimento, trattandosi, come si è detto, di obiettivi da gran tempo
imposti alle Regioni, e potendosi d’altra parte applicare la riduzione, come è ovvio, solo ad inadempimenti sostanziali e
significativi.
Quanto
al comma 5, deve precisarsi che le assegnazioni dei
fondi tratti dalle disponibilità in questione dovranno essere fatte non già,
direttamente, a favore delle aziende, ma sempre a favore delle Regioni interessate
– alle quali sono assegnate le quote del Fondo sanitario nazionale – perché
esse a loro volta le destinino, con vincolo finalistico, alle aziende
sanitarie, volta a volta, dove debbono attuarsi le azioni di sostegno, o i
progetti speciali, o debba trovare realizzazione quanto previsto dal progetto
obiettivo, o si verifichino le condizioni previste dalla disposizione in esame
per i finanziamenti a titolo incentivante, e cioè siano stati attuati i
programmi di chiusura degli ospedali psichiatrici. Così dovendosi intendere la
disposizione denunciata, essa si sottrae alle censure mosse dalle ricorrenti.
I
criteri imposti dalla legge per le predette assegnazioni di fondi sono d’altra
parte sufficientemente precisi, così da non dar luogo a determinazioni arbitrarie
o eccessivamente discrezionali degli organi centrali.
In
relazione, infine, al potere sostitutivo, mediante la nomina di commissari ad acta, per
la realizzazione del progetto obiettivo "Tutela della salute mentale”, si deve
osservare che esso, da un lato, riguarda chiaramente solo le aziende sanitarie,
e non la Regione; ed è attivato, dall’altro lato, mediante intesa fra il
Ministro e la Regione interessata, della quale, pertanto, risultano
salvaguardate le attribuzioni, tenendo anche conto che si tratta di adempimenti
(quelli previsti dal progetto obiettivo) da tempo stabiliti su base nazionale
in vista della tutela del diritto alla salute nel campo, particolarmente
delicato e importante, della salute mentale.
14.
– E’ impugnato, dalla sola Regione Veneto, anche il comma 15
dell’art. 32, ai sensi del quale "le regioni, nell’ambito della quota del Fondo
sanitario nazionale ad esse destinata, autorizzano, d’intesa con il Ministero
della sanità, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere ad
erogare prestazioni che rientrino in programmi assistenziali approvati dalle
regioni stesse, per alta specializzazione”, a favore di "cittadini provenienti
da Paesi extracomunitari nei quali non esistono o non sono facilmente
accessibili competenze medico-specialistiche per il trattamento di specifiche
gravi patologie e non sono in vigore accordi di reciprocità relativi
all’assistenza sanitaria”, nonché di "cittadini di Paesi la cui particolare
situazione contingente non rende attuabili, per ragioni politiche, militari o
di altra natura, gli accordi eventualmente esistenti con il Servizio sanitario
nazionale per l’assistenza sanitaria”.
Secondo
la ricorrente si attribuirebbero così nuovi compiti alla Regione senza
corrispondente aumento di risorse, e si pregiudicherebbe il diritto
costituzionale alla salute. Sarebbe violato altresì il principio di cui
all’art. 97 della Costituzione.
15.
– La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
Le
prestazioni in discorso, a favore di cittadini stranieri che non avrebbero
altrimenti titolo all’assistenza da parte del Servizio sanitario nazionale, non
solo debbono essere comprese fra quelle rientranti in
programmi assistenziali approvati dalla Regione, ma sono oggetto di specifica
autorizzazione della stessa Regione, sia pure rilasciata d’intesa con il
Ministro: ciò significa che la semplice determinazione ministeriale non basta,
se non vi è anche il consenso della Regione. Autorizzazione che, peraltro, la
Regione rilascia "nell’ambito della quota del Fondo sanitario nazionale” ad essa spettante, e dunque avendo riguardo anche alle
risorse disponibili.
Si
può inoltre ricordare che, in base all’art. 34 della
(sopravvenuta) legge 6 marzo 1998, n.
Quanto
infine ai profili concernenti la violazione degli artt. 2,
32 e 97 della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo le
Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità costituzionale in
via principale, la violazione di norme costituzionali che non riguardino la
propria sfera di competenza.
16.
– Le Regioni Lombardia e Veneto impugnano il comma 1
dell’art. 34, che prevede l’inquadramento nel primo livello dirigenziale degli
specialisti ambulatoriali già operanti con rapporto convenzionale, e che siano
in possesso di determinati requisiti di età e di durata oraria dell’incarico già
ricoperto. Secondo le ricorrenti tale norma sarebbe illegittima in quanto genererebbe un aggravio di spesa a loro carico,
senza provvedere a porre a loro disposizione le risorse necessarie. Sarebbero
violati altresì i principi di cui agli artt. 32 e 97
della Costituzione.
17.
– La questione è in parte non fondata, in parte
inammissibile.
Premesso
che rientra nell’ambito dei principi stabiliti dalla legislazione statale
definire il regime dei rapporti con il Servizio sanitario nazionale degli
specialisti che in esso operano, e che della relativa spesa si tiene conto in
sede di determinazione della misura del Fondo sanitario nazionale, va osservato
che la norma impugnata affida alle Regioni il compito di individuare "aree di
attività specialistica con riferimento alle quali, ai fini del miglioramento
del servizio”, si prevedono gli inquadramenti in questione: onde non è
sottratta alle Regioni stesse – che dispongono inoltre di ampi poteri
sull’organizzazione dei servizi – la possibilità di decidere in
ordine all’entità e al tempo degli inquadramenti medesimi. Né, del
resto, le Regioni ricorrenti hanno dato dimostrazione adeguata della
formazione, per effetto della stessa norma, di un onere supplementare eccedente
le risorse attribuite al Servizio.
Quanto
ai profili concernenti la violazione degli artt. 32 e
97 della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo le
Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità costituzionale in
via principale, la violazione di norme costituzionali che non riguardino la
propria sfera di competenza.
18.
– L’art. 37, anch’esso censurato dalle Regioni
Lombardia e Veneto, stabilisce che il Servizio sanitario nazionale "fornisce a
titolo gratuito la protesi mammaria esterna alle assistite che ne facciano
richiesta, dietro presentazione di idonea documentazione dell’intervento di
mastectomia sia monolaterale che bilaterale”. Anche in questo caso la censura
si fonda sull’assunto che verrebbe imposto un nuovo
onere senza prevedere le relative risorse, con pregiudizio del diritto alla
salute. Sarebbe violato altresì il principio di cui all’art. 97
della Costituzione.
19.
– La questione è in parte infondata, in parte
inammissibile.
Stabilire
quali siano le prestazioni minime cui hanno diritto gli assistiti dal Servizio
sanitario nazionale è compito specifico della
legislazione e della programmazione statali, ed è in rapporto a tali
prestazioni che viene determinata la dimensione finanziaria del Fondo sanitario
nazionale (cfr. artt. 1 e 12, comma 3, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502).
Del resto la fornitura della protesi mammaria alle assistite mastectomizzate
era già prevista, nell’ambito della disciplina delle protesi "dirette al
recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche,
psichiche e sensoriali” (cfr. art. 2, numero 1, e
allegato A, voce 30., "Protesi fisiognomiche”, del d.m.
28 dicembre
Da
ultimo, peraltro, il comma 7 dell’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502 del 1992,
introdotto dall’art. 8 del d.lgs. n. 229 del 1999, affida la disciplina delle
modalità di erogazione e di remunerazione dell’assistenza protesica, compresa
nei livelli essenziali di assistenza di cui all’art. 1 dello stesso d.lgs. n.
502, ad un decreto del Ministro della sanità emanato d’intesa con la Conferenza
Stato-Regioni.
Quanto
infine ai profili concernenti la violazione degli artt. 2,
32 e 97 della Costituzione, la questione risulta inammissibile, non essendo le
Regioni legittimate a lamentare, nel giudizio di legittimità costituzionale in
via principale, la violazione di norme costituzionali che non riguardino la
propria sfera di competenza.
20.
– Un terzo gruppo di questioni investe disposizioni della legge impugnata in
materia di personale e di disciplina dell’attività amministrativa.
L’art.
39 della legge prevede, al comma 1, che gli organi di
vertice delle amministrazioni pubbliche sono tenuti alla programmazione
triennale del fabbisogno di personale. I successivi commi dal 2 al 18 dello stesso articolo dettano una disciplina specifica,
valida per le amministrazioni statali, in tema di assunzioni e di passaggio di
personale a determinati servizi ed uffici.
Le
Regioni Lombardia e Veneto impugnano il comma 19 dello
stesso art. 39, il quale stabilisce che le Regioni e gli enti del Servizio
sanitario nazionale (nonché altri enti dotati di autonomia) "adeguano i propri
ordinamenti ai principi di cui al comma 1 finalizzandoli alla riduzione
programmata delle spese di personale”.
Secondo
le ricorrenti, tale norma sarebbe illegittima in quanto
equiparerebbe indebitamente le Regioni ad enti con diversa posizione
costituzionale, e generalizzerebbe misure di contenimento del personale ammesse
in passato dalla giurisprudenza di questa Corte solo in quanto temporanee e
transitorie.
21.
– La questione non è fondata.
Stabilire
che anche le amministrazioni regionali debbano conformare la propria attività
ai principi della programmazione del fabbisogno di
personale e del contenimento della spesa di personale rientra certamente nella
potestà del legislatore statale ai sensi del primo comma dell’art. 117 della
Costituzione. E la disposizione in questione non va al di là
di siffatta statuizione, limitandosi a richiedere alle Regioni di
adeguarsi a tali principi, senza imporre modalità o misure specifiche né
obiettivi quantitativamente determinati.
Né
ha pregio la censura secondo cui le Regioni sarebbero indebitamente equiparate ad enti diversamente considerati dalla Costituzione. Ciò che
conta è che il legislatore statale, nell’imporre obblighi alle Regioni, non
varchi i limiti ad esso consentiti dalla Costituzione
stessa, in particolare dagli articoli 117 e 119. Non è certo vietato al
legislatore statale attribuire ad amministrazioni diverse da quelle regionali,
nell’ambito dei rispettivi ordinamenti, forme di autonomia simili a quelle
garantite alle Regioni dalle norme costituzionali, né fissare in proposito
principi comuni vincolanti.
22.
– L’art. 41, comma 1, della legge impugnata stabilisce
che "al fine di conseguire risparmi di spesa e recuperi di efficienza nei tempi
dei procedimenti amministrativi, l’organo di direzione politica responsabile,
con provvedimento da emanare entro sei mesi dall’inizio di ogni esercizio
finanziario, individua i comitati, le commissioni, i consigli ed ogni altro
organo collegiale con funzioni amministrative ritenuti indispensabili per la
realizzazione dei fini istituzionali dell’amministrazione o dell’ente interessato”;
e aggiunge che "gli organismi non identificati come indispensabili sono
soppressi a decorrere dal mese successivo all’emanazione del provvedimento” e
"le relative funzioni sono attribuite all’ufficio che riveste preminente
competenza nella materia”.
Secondo
le Regioni ricorrenti si avrebbe ancora una volta una indebita
equiparazione delle Regioni ad enti non dotati di autonomia costituzionalmente
garantita; inoltre, attribuendo la competenza ad adottare il provvedimento in
questione all’organo di direzione politica responsabile, si violerebbe
l’autonomia organizzativa della Regione.
23.
– La questione non è fondata.
La
disposizione in esame va intesa nel senso che essa opera nei confronti delle
Regioni solo come principio direttivo per la legislazione regionale,
vincolandole a prevedere forme di semplificazione dell’organizzazione e in ispecie a provvedere alla soppressione degli organismi
superflui, con quelle finalità di risparmio e di efficienza che legittimamente
il legislatore statale può imporre alle Regioni. Non si applica dunque
direttamente alle amministrazioni regionali la previsione secondo la quale sono di diritto soppressi gli organismi diversi da quelli
individuati con apposito provvedimento, essendo la conservazione o la
soppressione di organismi ed uffici della Regione rimessa alla disciplina
dettata dalla legge regionale.
Così
intesa, la disposizione non è dunque lesiva dell’autonomia delle Regioni.
Quanto poi alla lamentata equiparazione delle Regioni ad altri enti, vale quanto si è appena osservato a proposito dell’art. 39,
comma 19; mentre l’indicazione della competenza dell’ "organo di direzione
politica responsabile” – solo genericamente individuato – non eccede l’ambito
del principio, vincolante anche per le Regioni, di distinzione fra organi di
direzione politica e organi di gestione, definito dall’art. 3 del d.lgs. n. 29
del 1993, e ancor prima dall’art. 2, comma 1, lettera g, numero 1, della legge n. 421 del 1992.
24.
– La sola Regione Veneto impugna altresì il comma 3
dello stesso art. 41, ai cui sensi "l’attribuzione di trattamenti economici al
personale contrattualizzato può avvenire
esclusivamente in sede di contrattazione collettiva. Dall’entrata in vigore del
primo rinnovo contrattuale cessano di avere efficacia le disposizioni di leggi,
regolamenti o atti amministrativi generali che recano incrementi retributivi al
personale contrattualizzato. I trattamenti economici
più favorevoli in godimento sono riassorbiti dai futuri miglioramenti nella
misura prevista dai contratti collettivi. I risparmi di spesa che ne conseguono
incrementano le risorse disponibili per i contratti collettivi. Il presente comma non si applica al personale delle Forze armate,
delle Forze di polizia e dei Vigili del fuoco”.
Secondo
la ricorrente tale disposizione inciderebbe sull’autonomia della Regione in ordine al trattamento del proprio personale e
all’organizzazione dei propri uffici, con una misura organizzativa priva dei
caratteri di urgenza e di provvisorietà.
25.
– La questione non è fondata.
La
norma in esame non fa che trarre le conseguenze del principio legislativo –
costituente principio fondamentale vincolante per le Regioni (cfr. in proposito
sentenza n. 352
del 1996) – secondo cui i rapporti di lavoro del personale delle pubbliche
amministrazioni – con le sole eccezioni stabilite dalla legge dello Stato – sono disciplinati dalle disposizioni codicistiche
e dalle leggi sul lavoro subordinato nel settore privato, e i rapporti
individuali di lavoro sono regolati contrattualmente (art. 2, commi 2 e 3, del
d.lgs. n. 29 del 1993): onde, in particolare, il trattamento economico, che è
materia non riservata alla legge ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera c, della legge n. 421 del 1992, è
disciplinato esclusivamente dai contratti collettivi e da quelli individuali.
Non
si tratta dunque di sancire una impropria prevalenza
del contratto collettivo sulla legge regionale nell’ambito del sistema delle
fonti, ma della piana e logica conseguenza del sistema, stabilito con efficacia
anche nei confronti delle Regioni dal legislatore statale, del rapporto di
lavoro pubblico assimilato a quello privato e contrattualizzato.
Se la legge regionale potesse, ciò nonostante, continuare a disporre
l’attribuzione ai dipendenti delle Regioni di trattamenti economici, che verrebbero
a sovrapporsi o ad aggiungersi a quelli previsti dai contratti collettivi,
l’intero sistema in questione verrebbe evidentemente
compromesso con riguardo al comparto dei dipendenti regionali.
La
regola, secondo cui il trattamento economico è definito in modo vincolante in
sede di accordi collettivi, e le disposizioni di legge preesistenti, recanti attribuzione di trattamenti economici, cessano di
operare a seguito della stipulazione dei medesimi accordi, era già stata
sancita dal legislatore statale allorquando, con la legge quadro sul pubblico
impiego, si era definito il sistema della disciplina "in base ad accordi” (cfr.
art. 3 della legge n. 93 del 1983). Essa è stata ripresa dal legislatore
statale allorché ha realizzato la cosiddetta
privatizzazione e la contrattualizzazione dei rapporti di impiego pubblico. Già
nell’art. 2, comma 2-bis, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall’art. 2
del d.lgs. n. 546 del 1993, si stabiliva che nelle materie non soggette a
riserva di legge (e quindi anche in materia di trattamenti economici)
"eventuali norme di legge, intervenute dopo la stipula di un contratto
collettivo, cessano di avere efficacia, a meno che la legge [statale] non
disponga espressamente in senso contrario, dal momento in cui entra in vigore
il successivo contratto collettivo”. Più di recente, successivamente
alla legge impugnata, tale regola è stata sancita, in termini pressoché
identici a quelli della disposizione qui in esame, dal nuovo comma 3 dell’art.
2 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 80 del
1998.
26.
– E’ impugnato altresì, dalle Regioni Lombardia e Veneto, l’art. 43. Più specificamente (e in questo senso la questione deve
essere precisata), è censurato il comma 3 di tale
articolo, ai sensi del quale, ai fini di cui al comma 1 – vale a dire "al fine
di favorire l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare
maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati”, "le
amministrazioni pubbliche possono stipulare convenzioni con soggetti pubblici o
privati dirette a fornire, a titolo oneroso, consulenze o servizi aggiuntivi
rispetto a quelli ordinari. Il 50 per cento dei ricavi netti, dedotti tutti i
costi, ivi comprese le spese di personale, costituisce economia di bilancio. Le
disposizioni attuative del presente comma, che non si applica alle
amministrazioni dei beni culturali ed ambientali e
dello spettacolo, sono definite ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge
23 agosto 1988, n.
Ad
avviso delle ricorrenti tale norma sarebbe incompatibile con l’autonomia
finanziaria, legislativa ed amministrativa regionale.
La
disposizione in esame risulta ora abrogata dall’art.
6, comma 5, lettera m, della legge 31
marzo 2000, n.
27.
– La questione non è fondata.
Anche
la disposizione in oggetto deve intendersi nel senso che essa trova
applicazione nei confronti delle Regioni solo in quanto
pone un principio, peraltro di contenuto facoltizzante,
per la legislazione regionale. Essa non si applica direttamente alle
amministrazioni regionali, che sono disciplinate dalle leggi regionali,
e non sono soggette, in linea di principio, alla disciplina dettata con i
regolamenti governativi cui ivi si fa rinvio; in particolare non si applica
alle Regioni la clausola per cui il 50 per cento dei ricavi netti delle
prestazioni di cui è parola "costituisce economia di bilancio”.
Intesa
in questi termini, la disposizione impugnata non può ritenersi lesiva
dell’autonomia regionale.
28.
– L’articolo 44 della legge, al comma 4, stabilisce
che "le disposizioni dell’articolo 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59, si
applicano altresì alle trasformazioni delle strutture, anche a carattere
aziendale, delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.
Tra
queste ultime sono comprese le amministrazioni regionali. L’art. 14 della legge n.
Secondo
le ricorrenti lo Stato potrebbe in tal modo imporre soppressioni, fusioni o
trasformazioni, o altre prescrizioni organizzative, nei confronti di strutture
regionali, omettendo procedure di raccordo, e comprimendo l’autonomia
organizzativa regionale. Ciò varrebbe anche se si
dovesse intendere la norma come recante principi fondamentali di legislazione.
29.
– La questione non è fondata.
La
disposizione in esame non estende né rinnova alcuna delega al Governo, diversa
da quella, per il riordino degli enti nazionali, per la quale
l’art. 14 della legge n. 59 del 1997 dettava i criteri e principi direttivi.
Nei confronti delle Regioni essa dunque non può avere altro senso se non quello
di stabilire principi per la rispettiva legislazione, alla quale spetta
disciplinare la sorte degli enti e delle strutture regionali.
Intesa
la disposizione in questo senso, non ne deriva alcuna lesione dell’autonomia
regionale, poiché i criteri in questione hanno portata
generale e non valicano la sfera di ciò che la legge statale può stabilire come
principio fondamentale vincolante per le Regioni.
30.
– Un quarto gruppo di questioni investe talune disposizioni della legge
impugnata in materia di disciplina dei flussi
finanziari.
L’art.
47, comma 1, stabilisce che, "al fine di ridurre le
giacenze degli enti soggetti all’obbligo di tenere le disponibilità liquide
nelle contabilità speciali o in conto corrente con il Tesoro, i pagamenti a
carico del bilancio dello Stato vengono effettuati al raggiungimento dei limiti
di giacenza che, per categorie di enti, vengono stabiliti con decreto del
Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica in misura
compresa tra il 10 e il 20 per cento dell’entità dell’assegnazione di
competenza…” (seguono alcune previsioni specifiche concernenti gli enti
locali).
Secondo
le Regioni ricorrenti sarebbe violata la riserva di legge di cui all’art. 119
della Costituzione; le Regioni sarebbero indebitamente equiparate ad altri
enti, e si limiterebbe l’autonomia regionale introducendo elementi di incertezza e di imprevedibilità nella gestione. Infine,
non sarebbe chiaro quale sia la "assegnazione di competenza” delle Regioni
sulla quale si commisura il limite di giacenza.
31.
– La questione non è fondata.
Le
Regioni, come altri enti pubblici, sono assoggettate al sistema della
cosiddetta tesoreria unica, previsto dal legislatore statale
(legge 29 ottobre 1984, n. 720, e successive modifiche e integrazioni) al fine
di evitare la necessità per il Tesoro di accrescere il livello di indebitamento
per procurarsi risorse che, trasferite ad altri enti del c.d. settore pubblico
allargato, potrebbero restare in giacenza presso le rispettive tesorerie, prima
che gli enti medesimi le utilizzino per erogare le proprie spese. A tale scopo
gli enti autonomi sono soggetti a limitazioni in ordine alle
disponibilità liquide che essi possono detenere presso il sistema bancario, e
la facoltà di effettuare nuovi prelievi dai conti presso il Tesoro è
subordinata al rispetto di detti limiti.
Questa
Corte ha già avuto occasione di esaminare tale sistema sotto il profilo della
legittimità costituzionale, affermando che esso non è lesivo dell’autonomia
costituzionalmente garantita alle Regioni sino a quando esso non si trasformi
in un mezzo improprio di controllo sulla spesa regionale: ciò non accade se resta fermo il diritto delle Regioni di disporre delle
risorse loro assegnate per effettuare le spese autonomamente da esse decise
(cfr. sentenze nn. 412 del 1993 e 171 del 1999).
Il sistema è ora in via di parziale superamento, anche attraverso l’attuazione
di una sperimentazione, mirandosi ad escludere
gradualmente le entrate proprie degli enti dall’obbligo di versamento nei conti
presso il Tesoro, ma stabilendo l’obbligo per gli enti di utilizzare, ai fini
delle rispettive esigenze di spesa, dette entrate proprie con priorità rispetto
alle risorse trasferite dal bilancio dello Stato, e prevedendo la modulazione
dei pagamenti statali a favore degli enti in relazione all’esaurimento delle
disponibilità esistenti sui conti presso il Tesoro (cfr. artt. 7, 8 e 9 del
d.lgs. 7 agosto 1997, n. 279).
La
disposizione qui impugnata non innova sostanzialmente a detto sistema,
limitandosi a prevedere limiti di giacenza delle disponibilità nei conti presso
il Tesoro, cui vengono subordinati i pagamenti a
carico del bilancio dello Stato e a favore degli enti autonomi, comprese le
Regioni: senza che da ciò derivino vincoli impropri a carico delle Regioni
quanto all’utilizzo delle risorse ad esse assegnate.
Non
è violata la riserva di legge di cui all’art. 119 della Costituzione, poiché la
disposizione in esame detta una disciplina precisa e fissa i limiti, minimo e
massimo, delle giacenze, entro i quali il Ministro del
Tesoro è abilitato a stabilire la soglia cui è subordinata l’erogazione dei
pagamenti statali: onde la discrezionalità del Ministro si esercita entro
confini ragionevolmente delimitati.
Né
può dirsi che si introducano così elementi di incertezza:
al contrario il decreto del Ministro deve stabilire un limite preciso di
giacenza (fissato per il 1998 e per il 1999 nel 14 per cento: cfr. art. 1 del d.m. Tesoro 16 gennaio 1998, e art. 1 del d.m. Tesoro 4 marzo 1999). Del pari non sussiste incertezza
circa la base cui si commisura il limite di giacenza: la legge si riferisce
alla "assegnazione di competenza”, cioè all’importo complessivo delle somme
assegnate alla Regione e destinate ad essere
trasferite ad essa dal bilancio dello Stato (cfr. infatti l’art. 1, comma 2,
dei due decreti ministeriali citati, che precisa i capitoli del bilancio dello
Stato cui le assegnazioni si riferiscono).
Nemmeno
infine, per le ragioni già dette (sopra, n. 21), può costituire fondato motivo
di censura la circostanza che la disciplina in esame riguardi le Regioni al
pari di altri enti dotati di autonomo bilancio, ed egualmente destinatari di
trasferimenti da parte dello Stato.
32.
– Dell’art. 48 sono impugnati i commi 1, 4 (solo dalla
Regione Lombardia), e 5.
Il
comma 1 stabilisce che "il sistema delle autonomie
regionali e locali concorre alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica per il triennio 1998-2000 garantendo che il fabbisogno finanziario da esso
complessivamente generato nel 1998, non considerando la spesa sanitaria nonché
la spesa relativa a nuove funzioni acquisite a seguito di trasferimento o
delega di funzioni statali nel corso degli anni 1997 e seguenti, non sia
superiore a quello rilevato a consuntivo per il 1997 e che per gli anni 1999 e
2000 non sia superiore a quello dell’anno precedente maggiorato in misura pari
al tasso programmato di inflazione. Per la spesa sanitaria il Ministro del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica, d’intesa con il Ministro
della sanità, procede al monitoraggio dei relativi pagamenti allo scopo di
verificare che gli stessi non eccedano quelli effettuati nell’anno precedente
incrementati del tasso programmato d’inflazione; dell’esito viene
data informazione alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”.
I
commi 2 e 3 affidano alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-città e autonomie locali il compito di stabilire i
criteri operativi per il computo del fabbisogno e le procedure per il
monitoraggio degli andamenti mensili del medesimo, rispettivamente per le
Regioni e per gli enti locali.
Il
comma 4 prevede che, "nel caso che si sviluppino
andamenti del fabbisogno incompatibili con gli obiettivi di cui al comma
Il
comma
Anche
queste disposizioni sono censurate in quanto
inciderebbero sull’autonomia regionale ed equiparerebbero indebitamente le
Regioni ad altri enti. Si lamenta, poi, l’intrinseca irragionevolezza della
disciplina: a proposito del comma
33.
– E’ infondata la questione relativa al comma 1.
Stabilire obiettivi globali di contenimento del fabbisogno finanziario generato
dalla spesa regionale, nell’ambito e ai fini degli obiettivi generali di
finanza pubblica fissati dagli strumenti della programmazione finanziaria
nazionale, rientra nell’ambito dei compiti di coordinamento della
finanza pubblica che l’art. 119 della Costituzione attribuisce alla legge della
Repubblica.
Del
pari infondata è la questione che investe il comma 4.
Il potere, nel caso di andamenti incompatibili con gli obiettivi, di proporre
misure di ordine finanziario per assicurare il conseguimento di questi ultimi,
è infatti demandato alla Conferenza Stato-Regioni, e
cioè alla massima sede di coordinamento fra Governo nazionale e Governi
regionali: ad essa è demandato anche di stabilire i criteri per la rilevazione
dell’andamento del fabbisogno, a cui si collegano le eventuali misure nel caso
di andamenti incompatibili con gli obiettivi. Le Regioni non sono dunque
soggette a provvedimenti unilaterali, ma concorrono responsabilmente con il
Governo alla definizione delle misure necessarie. Il contenuto di queste ultime
non è precisato, se non col riferimento alla eventuale
introduzione di vincoli sugli utilizzi delle disponibilità esistenti sui conti
di tesoreria unica. Tali vincoli inciderebbero bensì sulla capacità di spesa
delle Regioni: tuttavia, dato il carattere generale dei medesimi, e lo stretto
collegamento con gli obiettivi globali di finanza pubblica e col rispetto del
limite di fabbisogno espressamente stabilito dal comma 1
del medesimo art. 48, la previsione in esame appare rispettosa dei principi
costituzionali; mentre l’imposizione eventuale di altre misure, che fossero,
per il loro contenuto, lesive dell’autonomia finanziaria regionale, potrebbe
sempre essere contrastata dalle Regioni interessate con gli opportuni
strumenti, ivi compreso il conflitto di attribuzioni.
34.
– Fondata è invece la questione che investe il comma
5. Una misura drastica quale l’obbligatoria
sospensione dei pagamenti, sia pure con l’eccezione (la cui portata non appare
facilmente precisabile) di quelli la cui omissione potrebbe causare danni
patrimoniali all’ente o ad altri soggetti, incide in modo irragionevolmente
severo sull’autonomia di spesa degli enti, operando su procedimenti di spesa
già avviati: mal si concilia dunque con lo status
costituzionale delle Regioni.
Il
comma 5 deve pertanto essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte riguardante le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano.
35.
– Sono, infine, impugnate due disposizioni concernenti
materie specifiche: l’art. 49, comma
L’art.
49, comma 18, è impugnato dalle Regioni Piemonte (il
cui ricorso ha per oggetto solo questa disposizione) e Veneto. Esso stabilisce
che "sono considerati validi gli strumenti urbanistici già intesi approvati a
seguito dell’applicazione, da parte degli enti che li hanno adottati, delle
procedure del silenzio assenso previste” da una serie di decreti legge (non
convertiti in legge), "i cui effetti sono fatti salvi ai sensi dell’articolo 2, comma 61, della legge 23 dicembre 1996, n.
La
disposizione in esame violerebbe anzitutto, secondo entrambe le Regioni
ricorrenti, l’art. 77, terzo comma, secondo periodo,
della Costituzione, perché pretenderebbe di estendere la portata della
sanatoria degli effetti dei decreti legge non convertiti al di là di quanto
previsto da detta norma costituzionale; e, secondo la Regione Veneto, l’art.
77, secondo comma, della Costituzione, perché, pretendendo di "saldare” a posteriori tra di loro i decreti legge
succedutisi nel tempo, contrasterebbe con il limite temporale della provvisoria
efficacia del decreto legge in attesa di conversione.
Inoltre,
secondo la Regione Piemonte, sarebbero violati l’art. 9
della Costituzione e le competenze regionali in materia urbanistica, in
particolare perché al silenzio – in siffatta materia, spettante alla competenza
della Regione – solo la legge regionale potrebbe attribuire un significato
concludente, quale si verifica col silenzio-assenso.
La
Regione Veneto, a sua volta, lamenta altresì la violazione dell’art. 24 della Costituzione, in riferimento agli artt. 5, 117 e
118, perché la Regione – che non aveva a suo tempo interesse ad impugnare i
decreti legge, per l’impossibilità che l’effetto di approvazione degli
strumenti urbanistici, proprio del silenzio-assenso, si producesse entro il
termine di efficacia, di sessanta giorni, proprio di ciascuno dei decreti – si vedrebbe
oggi preclusa la possibilità di dolersi nei confronti dei decreti legge
medesimi, ormai decaduti, ma che verrebbero "resuscitati” dalla disposizione in
esame; nonché la violazione dell’art. 3 della Costituzione, sempre in
riferimento agli artt. 5, 117 e 118, per l’irrazionalità interna che si
manifesterebbe nell’affermare che sono considerati validi gli strumenti
urbanistici "già intesi approvati” a seguito dell’applicazione dei decreti
legge non convertiti, riconoscendo contemporaneamente la necessità di una
"saldatura” fra i decreti, proprio al fine di determinare l’effetto
dell’approvazione per silenzio-assenso.
36.
– La questione è fondata.
I
decreti legge in questione, succedutisi con continuità fra il 1994 e il 1996, e
tutti decaduti, stabilivano, con disposizioni pressoché identiche, che
l’approvazione da parte della Regione degli strumenti urbanistici fosse da
intendersi avvenuta – in base ad un meccanismo di silenzio-assenso – alla
scadenza del termine di centottanta giorni dalla loro trasmissione da parte
dell’ente territoriale che li aveva adottati. L’art. 2,
comma 61, della legge n. 662 del 1996, dopo la decadenza dell’ultimo decreto
legge della "catena”, non più reiterato, e senza riprendere la norma da essi
provvisoriamente introdotta, ha fatto salvi gli effetti prodotti dai decreti
non convertiti.
Questa
Corte, investita da due ricorsi della Regione Piemonte e da un ricorso della
Regione Lazio, relativi rispettivamente a due dei decreti non convertiti, ma i
cui effetti erano stati oggetto della sanatoria, e alla stessa clausola di
sanatoria, ha già avuto occasione di pronunciarsi (sentenze nn. 429
e 244 del 1997)
sugli effetti della predetta clausola di sanatoria, escludendo che essa potesse
aver prodotto l’effetto di approvazione, per silenzio-assenso, degli strumenti
urbanistici a suo tempo adottati e trasmessi alla Regione, senza che questa si
pronunciasse. Infatti ciascun decreto ha avuto
efficacia solo per sessanta giorni, e i rispettivi periodi di provvisoria
efficacia non potevano sommarsi fra di loro (decaduto un decreto e ad esso
succedutone un altro, l’efficacia del primo è venuta meno, e solo il secondo è
operante), e dunque tra gli effetti dei decreti decaduti, consolidati dalla
disposizione di sanatoria, non poteva ritenersi compreso quello di approvazione
degli strumenti, che avrebbe richiesto, per prodursi, il decorso del più ampio
termine di centottanta giorni sotto il permanente vigore della stessa
disposizione provvisoria. Né, come è evidente,
potrebbe attribuirsi alla clausola di sanatoria un’efficacia diversa e
ulteriore rispetto a quella che si dispiega nel confermare o ripristinare gli
effetti – e quelli soltanto – già prodottisi nel vigore dei singoli decreti
legge (restando "impregiudicato ovviamente l’ulteriore potere del legislatore
di regolare autonomamente situazioni pregresse, nei limiti in cui è ammissibile
una legge retroattiva”: sentenza n. 244 del
1997). Sulla base di questi presupposti la Corte
ha dichiarato inammissibili le questioni allora proposte dalla Regione
Piemonte, aventi ad oggetto i decreti legge non convertiti, ed infondata la
questione proposta dalla Regione Lazio in relazione agli artt. 115, 117 e 118
della Costituzione (mentre la stessa questione è stata dichiarata inammissibile
con riferimento all’art. 77 della Costituzione), avente ad oggetto la clausola
di sanatoria.
La
disposizione qui impugnata, la quale stabilisce che "sono considerati validi”,
in forza di un silenzio-assenso che si sarebbe formato, gli strumenti
urbanistici adottati sotto il vigore dei decreti legge decaduti, e che il
termine di centottanta giorni previsto per la formazione del silenzio-assenso,
non maturato sotto il vigore di alcuno dei singoli decreti legge, "si intende
raggiunto nel periodo di vigenza dei successivi decreti legge”, pretende dunque
di far luogo ad un effetto diverso e ulteriore
rispetto a quello derivante dalla clausola di sanatoria contenuta nell’art. 2,
comma 61, della legge n. 662 del 1996; e di disporre, con effetto retroattivo,
che un silenzio-assenso mai formatosi si debba intendere oggi, ora per allora, perfezionato, convalidandosi così a posteriori l’efficacia di strumenti
urbanistici che in realtà non sono mai stati approvati dalla Regione.
Ora,
indipendentemente dai limiti generali che, dal punto di vista costituzionale, debbono ritenersi operanti per il legislatore che intenda
attribuire efficacia retroattiva alle proprie disposizioni, è evidente che,
nella specie, al legislatore statale non può ritenersi consentito disporre con
efficacia retroattiva che l’approvazione espressa degli strumenti urbanistici
da parte della Regione, richiesta dalla legge regionale, deve intendersi come
non necessaria, e che strumenti non approvati dalla Regione debbono intendersi
ciononostante operanti. In tal modo infatti il
legislatore statale, lungi dallo stabilire, nell’ambito della sua competenza,
principi fondamentali per la successiva legislazione regionale, ai sensi
dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, viene ad invadere la sfera
della competenza legislativa regionale, e anzi a vanificare, per il passato,
l’efficacia della legislazione regionale a suo tempo validamente in vigore.
La
disposizione impugnata deve dunque essere dichiarata costituzionalmente
illegittima per violazione dell’art. 117 della Costituzione, restando assorbito
ogni ulteriore profilo di censura.
37.
– L’ultima disposizione impugnata, dalla sola Regione Veneto, è l’art. 55, comma 14. Esso stabilisce che "gli interventi pubblici
nel settore agricolo e forestale e le azioni di sostegno alle attività
produttive agricole si esplicano nel quadro degli
obiettivi prioritari fissati dal Documento di programmazione
economico-finanziaria, con particolare riferimento al contenimento e
all’armonizzazione con i costi medi comunitari dei costi di produzione delle
imprese agricole, al fine di accrescere la competitività, favorire
l’innovazione tecnologica e l’imprenditoria giovanile e garantire la sicurezza
alimentare”. La disposizione prosegue prevedendo una delega al Governo ad emanare, sentita fra l’altro la Conferenza Stato-Regioni,
disposizioni legislative con l’osservanza di principi e criteri direttivi che
vengono così indicati: "a) contenimento ed armonizzazione rispetto ai costi
medi europei dei fattori di produzione, dei costi dei fattori di produzione
delle imprese agricole, con particolare riferimento agli oneri fiscali,
contributivi e previdenziali, ai costi energetici, ai costi di trasporto e al
costo del denaro; b) accrescimento delle capacità concorrenziali del sistema
agro-alimentare nel mercato europeo ed internazionale, anche con l’estensione
del credito specializzato e dei servizi assicurativi all’esportazione dei
prodotti verso i Paesi extracomunitari; c) adeguamento e modernizzazione del
settore, favorendo il rafforzamento strutturale delle imprese agricole e
l’integrazione economica della filiera agro-industriale; d) accelerazione delle
procedure di utilizzo dei fondi strutturali riservati al settore agricolo e
razionalizzazione e adeguamento del sistema dei servizi di interesse pubblico
per lo stesso settore”.
Secondo
la Regione ricorrente si verificherebbe, già con la
disposizione di delega, una lesione delle attribuzioni regionali, in quanto si
prevede una analitica disciplina delle attività agricole, da attuarsi con
decreto legislativo, con il solo parere della Conferenza Stato-Regioni, senza
che sia indicata fra i criteri direttivi la salvaguardia delle competenze
regionali in materia.
38.
– La questione non è fondata.
La
prima parte della disposizione impugnata si riferisce ad
obiettivi generali della programmazione nazionale, come tali suscettibili di
costituire il "quadro” nel quale si inscrivono anche le politiche regionali di
settore.
La
delega legislativa prevista dalla seconda parte del comma 14 – esercitata dal
Governo con il d.lgs. 30 aprile 1998, n. 173, che non risulta
essere stato impugnato dalla Regione ricorrente – non è di per sé lesiva
delle competenze regionali, e non modifica né tende a modificare l’esistente
riparto delle competenze fra Stato e Regioni. Essa deve essere intesa nel senso
che riguarda la disciplina di oggetti rientranti nella competenza dello Stato –
come del resto suggerisce il riferimento, nell’ambito dei principi e criteri
direttivi, a materie sicuramente tali, quali gli oneri fiscali e contributivi,
il costo del denaro, i servizi assicurativi all’esportazione – e per il resto
consente solo di stabilire eventualmente disposizioni di principio, nell’ambito
dei più generali principi enunciati nella stessa norma di delega, o
disposizioni di coordinamento. Né può trascurarsi il fatto
che, tenendo conto delle interferenze con la materia di spettanza
regionale, la disposizione in esame prevede che il decreto legislativo sia
emanato sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Resta
ovviamente impregiudicata la possibilità di sindacato sulle norme legislative
delegate, anche sotto il profilo del rispetto delle competenze regionali.
39.
– Le Regioni Lombardia e Veneto censurano altresì l’art. 32,
commi 2, 4 e 5, della legge n. 449 del
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a)
dichiara la illegittimità
costituzionale dell’art. 17, comma 10, secondo periodo, della legge 27 dicembre
1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica);
b)
dichiara la illegittimità
costituzionale dell’art. 48, comma 5, della predetta legge 27 dicembre 1997, n.
449;
c)
dichiara la illegittimità
costituzionale dell’art. 49, comma 18, della predetta legge 27 dicembre 1997,
n. 449;
d)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni della predetta legge 27
dicembre 1997, n. 449, sollevate, in riferimento agli
artt. 3, 5, 81, 117, 118 e 119 della Costituzione, dalle Regioni Lombardia e
Veneto con i ricorsi in epigrafe (r. ric. nn. 13 e 14
del 1998):
art. 32, commi 2, 4 e 5
art. 34, comma 1
art. 37
art. 39, comma 19
art. 41, comma 1
art. 43, comma 3
art. 44, comma 4
art. 47, comma 1
art. 48, comma 1;
e)
dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 48, comma 4, della predetta
legge 27 dicembre 1997, n. 449, sollevata, in riferimento agli artt. 117, 118 e
119 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso in epigrafe (r.
ric. n. 13 del 1998);
f)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni della predetta legge 27
dicembre 1997, n. 449, sollevate, in riferimento agli
artt. 3, 5, 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il
ricorso in epigrafe (r. ric. n. 14 del 1998):
art. 17, comma 10, primo periodo
art. 17, comma 22
art. 17, comma 29
art. 18
art. 32, comma 15
art. 41, comma 3
art. 55, comma 14;
g)
dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale degli artt. 32, commi 2,
4, 5; 34, comma 1; 37; 39, comma 19; 47, comma 1; 48, comma 1, della predetta
legge 27 dicembre 1997, n. 449, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 32, 97,
128 della Costituzione, dalle Regioni Lombardia e Veneto con i ricorsi in
epigrafe (r. ric. nn. 13 e 14);
h)
dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale degli artt. 17, comma
29, e 32, comma 15, della predetta legge 27 dicembre 1997, n. 449, sollevate,
in riferimento agli artt. 2, 32 e 97 della Costituzione, dalla Regione Veneto
con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 14);
i)
dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 4,
della predetta legge 27 dicembre 1997, n. 449, sollevata, in riferimento
all’art. 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso in
epigrafe (r. ric. n. 13).
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.
Cesare
MIRABELLI, Presidente
Valerio
ONIDA, Redattore
Depositata
in cancelleria il 18 novembre 2000.