Sentenza n. 393/2000

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SENTENZA N. 393

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 59, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), promosso, con ordinanza emessa il 29 dicembre 1998, dal Pretore di Milano nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Ripamonti Maria Rosa ed altra e il Fondo pensioni per il personale Cariplo ed altra, iscritta al n. 158 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visti gli atti di costituzione di Ripamonti Maria Rosa ed altra e della Cariplo S.p.A., nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'11 aprile 2000 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi gli avvocati Guido Alpa per Ripamonti Maria Rosa ed altra, Paolo Tosi per la Cariplo S.p.A. e l'Avvocato dello Stato Gian Paolo Polizzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.¾ Nel corso dei giudizi, successivamente riuniti, promossi da due dipendenti della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (Cariplo S.p.A.), onde ottenere l’accertamento del proprio diritto al conseguimento della "pensione diretta di anzianità", erogata, "previa rassegnazione delle dimissioni", dal Fondo pensioni per il personale di detta Cassa in base ai requisiti di 30 anni di anzianità contributiva e 50 anni di età, il Pretore di Milano, con ordinanza del 29 dicembre 1998, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 39 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui stabilisce che, con decorrenza dal 1° gennaio 1998, per tutti i soggetti nei cui confronti trovino applicazione le forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, "il trattamento si consegue esclusivamente in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti dalla disciplina generale obbligatoria di appartenenza".

1.1.¾ Premette l’ordinanza, in punto di fatto, che le ricorrenti hanno dedotto, a sostegno della pretesa azionata, l’esistenza di "una situazione di incertezza sulla possibilità di beneficiare del trattamento in questione", insorta a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 449 del 1997, la quale, proprio in forza del menzionato comma 3 dell’art. 59, ha determinato l’innalzamento dei requisiti di età per il diritto alla pensione di anzianità stabiliti dallo statuto del Fondo pensioni; pertanto, le medesime istanti hanno eccepito, in via pregiudiziale all’esame del merito, l’incostituzionalità della predetta disposizione.

Tanto premesso, il giudice a quo sostiene che la rilevanza della questione è da ravvisarsi nel fatto che il diritto alla prestazione pensionistica complementare vantato dalle ricorrenti nel giudizio a quo "è direttamente condizionato...dalla rimozione della norma sospettata di illegittimità".

1.2.¾ Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva, anzitutto, che la disposizione censurata "si inserisce nelle linee di intervento in materia previdenziale, dirette, secondo le indicazioni dei lavori preparatori, ad un generale obiettivo di riduzione della spesa sociale", nonché di armonizzazione delle forme previdenziali sostitutive, esonerative ed integrative con la disciplina dell’assicurazione generale obbligatoria, sì da stabilire "un legame funzionale diretto tra la previdenza pubblica e la previdenza privata, fino ad uniformarne il livello di tutela, di fronte alla riduzione del grado di copertura offerta dal sistema di base".

Del resto, si argomenta ancora nell’ordinanza, una previsione analoga a quella contemplata dalla norma denunciata era stata già introdotta dall’art. 18, comma 8-quinquies, del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, aggiunto dall’art. 15, comma 5, della legge 8 agosto 1995, n. 335. Si trattava, peraltro, di una modifica (concernente solo i vecchi fondi già esistenti all’entrata in vigore della legge n. 421 del 1992) che faceva espressamente "salvi i diritti acquisiti dai lavoratori subordinati che erano iscritti ai fondi pensione complementari prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 124 del 1993, ai quali continuava ad applicarsi il precedente regime statutario".

Il giudice a quo, rammentato che, avverso il menzionato art. 15 della legge n. 335 del 1995, sono stati prospettati, a suo tempo, dubbi di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 della Costituzione e, "per i pesanti limiti alla libertà contrattuale delle parti sociali, all’art. 39 ed all’art. 41", ritiene che "i medesimi sospetti di illegittimità sono ravvisabili per la disposizione dell’art. 59, comma 3, della legge n. 449 del 1997, laddove l’intervento legislativo ha limitato, in via assoluta e senza alcuna deroga, i requisiti di accesso alle prestazioni previdenziali private".

Quanto all’art. 39 della Costituzione, il rimettente assume che "la contrattazione collettiva ha rappresentato un ineludibile momento di definizione delle contribuzioni e delle prestazioni del Fondo pensioni, come elemento rilevante del complessivo trattamento economico e normativo dei dipendenti Cariplo" (accordo aziendale del 19 aprile 1994); un ruolo, questo, riconosciuto dallo stesso decreto legislativo n. 124 del 1993 (art. 3), tanto da potersi affermare "che spetta alle parti sociali, attraverso lo strumento della negoziazione contrattuale, la valutazione della opportunità di una revisione delle prestazioni previdenziali a carico del Fondo".

In tale contesto, l’intervento del legislatore avrebbe alterato "la disciplina e gli equilibri realizzati dall’autonomia collettiva, invalidando il contenuto delle clausole in vigore, e pregiudicando per il futuro la libera determinazione dell’autonomia collettiva riguardo all’aspetto fondamentale della misura e dei requisiti delle prestazioni".

Donde la "lesione della iniziativa sindacale", non giustificata da "esigenze eccezionali e temporanee o dalla salvaguardia di superiori interessi generali", fattori costituenti "il limite di ammissibilità della compressione legale della libertà sindacale".

Le medesime valutazioni fondano, ad avviso del giudice a quo, il contrasto anche con l’art. 41 della Costituzione, "che tutela il libero esercizio dell’attività economica", giacché la "partecipazione della previdenza complementare al sistema di sicurezza sociale" non è tale da giustificare "la perdita dei connotati di autonomia organizzativa e gestionale che consentono la incentivazione ed espansione dei fondi, rese necessarie proprio dalla riduzione del trattamento pubblico".

Quanto poi all’art. 3 della Costituzione, l’ordinanza sostiene che la disposizione denunciata, "a differenza del precedente regime, non prevede alcun esonero dal divieto di anticipata prestazione, incide sui diritti maturati e sulle aspettative degli iscritti per il conseguimento dei trattamenti previdenziali secondo le regole del fondo di appartenenza".

Di qui l’irragionevolezza dell’art. 59, comma 3, della legge n. 449 del 1997, che compromette, in violazione del principio dell’affidamento, "situazioni consolidate", senza che il sacrificio imposto determini benefici per la finanza pubblica, "trattandosi di prestazioni a finanziamento privato".

1.3.¾ Il giudice a quo ritiene, invece, manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale della medesima disposizione ulteriormente prospettata dalle ricorrenti nel giudizio principale, sia per violazione dell’art. 3 della Costituzione, in ragione della disparità di trattamento tra gli iscritti ai fondi pensione prima e dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 124 del 1993, sia per contrasto con gli artt. 38, quinto comma, e 47 della Costituzione, sotto il profilo della "illegittimità di ogni forma di intrusione da parte del legislatore che non sia dettata da ragioni di tutela del lavoratore-risparmiatore".

Quanto alla prima censura, il rimettente osserva che le situazioni poste in comparazione non sono omogenee, considerato che soltanto "le forme complementari preesistenti stabiliscono prestazioni definite".

In riferimento alle altre censure, l’ordinanza sostiene che la "rigida separazione delle funzioni della previdenza pubblica e privata" è concezione oramai superata secondo il modello delineato dalla normativa vigente, avendo il legislatore del 1993 e del 1995 "mostrato di coltivare l’intento di una collocazione della previdenza complementare all’interno della complessiva struttura diretta ad attuare la garanzia di cui all’art. 38, secondo comma, della Costituzione".

In tal senso, la "funzione di concorso della previdenza privata alla realizzazione del principio di adeguatezza della prestazione ed il principio solidaristico che ad essa inerisce", hanno mutato il "modello organizzativo della sicurezza sociale", laddove il potenziamento e l’incentivazione della previdenza complementare, "anche con vantaggi fiscali e contributivi, vengono visti come misure necessarie per far fronte alla crisi del welfare state".

Di qui la conclusione che "la disciplina limitativa e di coordinamento, che persegua gli obiettivi previsti dall’art. 38 della Costituzione", non costituisce "di per sé diretta lesione della libertà della previdenza privata, fatta salva la valutazione, affidata alla Corte costituzionale, e nei termini espressi, dei limiti della discrezionalità del legislatore".

2.¾ Si sono costituite in giudizio le ricorrenti nel giudizio a quo, per sentir dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma denunciata, assumendone il contrasto con gli artt. 3, 38, 39 e 41 della Costituzione.

2.1.¾ Nella memoria congiuntamente depositata, le predette parti private, muovendo dalla ricostruzione del sistema di previdenza sociale, evidenziano il ruolo della "previdenza privata", alla quale è attribuita "la funzione di soddisfare bisogni diversi rispetto a quelli di pertinenza dell’ordinamento pubblicistico" (ad es. "il mantenimento del tenore di vita raggiunto durante l’attività lavorativa").

Essa, pertanto, è riconosciuta e tutelata come "libera" dall’art. 38, quinto comma, della Costituzione, secondo una formulazione "volutamente perentoria", tale da doversi ritenere che "il diritto che ne scaturisce, a differenza di altre libertà, non soffre di limitazione alcuna".

Senonché, una siffatta "lettura" dell’art. 38 della Costituzione, che caratterizza un "sistema previdenziale pluralistico", è stata messa in "crisi" dal decreto legislativo n. 124 del 1993 il quale, nel dichiarato obiettivo ¾ ribadito dalla legge n. 335 del 1995 ¾ di agevolare le "forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale", ha imposto rilevanti vincoli all’erogazione delle prestazioni, così stabilendo "un nesso funzionale tra la previdenza pubblica e quella privata".

L’anzidetto sistema pluralistico sarebbe "stato poi definitivamente cancellato" dalla disposizione denunciata, "che ha accomunato di fatto la previdenza pubblica a quella privata, mortificando la garanzia delle libertà previdenziali costituzionalmente protette".

Richiamato quell’orientamento secondo il quale tale complessivo disegno legislativo sarebbe volto alla "attrazione della previdenza complementare all’interno della sfera di applicazione del secondo comma dell’art. 38 della Costituzione", per la "necessità di porre rimedio alla crisi finanziaria del sistema della solidarietà pubblica", la memoria osserva che la "nuova disciplina della previdenza complementare svuota di contenuto l’autonomia che è sempre stata riconosciuta alle fonti istitutive", contrastando con l’art. 38, quinto comma, della Costituzione e con il "principio del pluralismo previdenziale ivi disegnato".

2.2.¾ Nel sostenere, altresì, l’irragionevolezza della medesima disposizione, le parti private osservano che la stessa ha ricondotto tutti i fondi a prestazioni definite sotto la regola restrittiva di cui all’art. 18, comma 8-quinquies, del decreto legislativo n. 124 del 1993, introdotto dall’art. 15, comma 5, della legge n. 335 del 1995; regola alla quale i fondi integrativi del settore creditizio (di cui alla legge n. 218 del 1990 ed al decreto legislativo n. 357 del 1990), e tra questi il Fondo Cariplo, erano rimasti estranei, giacché l’art. 3, comma 19, della citata legge n. 335 consentiva, comunque, di mantenere inalterato quanto disposto in sede di contrattazione collettiva e, dunque, l’intera disciplina statutaria.

Invero, si sostiene nella memoria, nell’ottica perequativa perseguita dal legislatore, i predetti fondi integrativi "sono stati ingiustamente e immotivatamente valutati dal legislatore come un privilegio accordato ad un ristretto numero di dipendenti", laddove, invece, le prestazioni da essi erogate derivano dalla corresponsione di contributi ben più elevati rispetto alla generalità dei fondi privati "ed aggiuntivi rispetto a quelli versati all’assicurazione generale obbligatoria".

Assumono ancora le parti private che il suddetto obiettivo di perequazione "non può essere qualificato come interesse pubblico di natura superiore rispetto ai diritti dei lavoratori costituzionalmente tutelati dagli articoli 38, 39 e 41 della Costituzione": detta misura, infatti, non arreca vantaggio alcuno all'"equilibrio della finanza pubblica", incidendo esclusivamente su un "regolamento di interessi di natura prettamente privata".

Né, del resto, risulta condivisibile il rilievo per cui la misura restrittiva alle prestazioni pensionistiche private sarebbe dettata dalla necessità di garantire l’equilibrio dei fondi, atteso che l’ordinamento previdenziale già dispone "di una serie di controlli per garantire l’effettività delle prestazioni erogate dai fondi di previdenza privati".

2.3.¾ Le parti private, nel ricostruire le vicende relative alla disciplina dei fondi di cui al decreto legislativo n. 357 del 1990, della cui natura privata non sarebbe dato dubitare, sostengono che la disposizione censurata ha "mortificato" la libertà delle parti sociali di determinare il trattamento previdenziale ed i requisiti per il suo conseguimento, ponendo le rappresentanze dei lavoratori "su un piano di oggettiva debolezza contrattuale nei confronti dei datori di lavoro che...hanno goduto di un considerevole risparmio sui contributi versati ai fondi pensione", mentre i lavoratori "si sono visti limitare le prestazioni senza ricavare alcun beneficio compensativo".

E questo ¾ si osserva ancora nella memoria ¾ senza che sussista, come già detto, "un interesse pubblico che possa giustificare il pregiudizio causato alla libertà sindacale", in presenza, oltretutto, di una norma che "ha riflessi neutri sul contenimento della spesa pubblica o comunque di impossibile quantificazione".

Con particolare riferimento, poi, all’art. 41 della Costituzione, le parti costituite ritengono che il denunciato art. 59, comma 3, limiti fortemente la "possibilità per il datore di lavoro di determinare la configurazione delle prestazioni previdenziali aziendali, impedendo di dar attuazione agli obblighi già assunti in sede sindacale".

La memoria svolge, infine, argomentazioni analoghe a quelle addotte dal rimettente in ordine alla prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della vanificazione delle aspettative dei lavoratori per il tempo successivo alla cessazione della attività.

3.¾ Si è costituita, altresì, la Cariplo - Cassa di Risparmio delle Province Lombarde S.p.A., parte intervenuta nel giudizio a quo, la quale ha concluso per l’infondatezza della sollevata questione.

Ad avviso della Cassa, gli argomenti utilizzati dal rimettente, per fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalle parti ricorrenti in riferimento all’art. 38 della Costituzione, "sono proprio, succintamente, quelli che segnano la giustificabilità non solo alla stregua dell’art. 38, ma anche alla stregua degli artt. 39, 41 e 3 della Carta costituzionale, di una...disciplina limitativa e di coordinamento, al servizio degli obiettivi generali di un nuovo welfare".

4.¾ E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, nel riservarsi "di illustrare con successiva memoria la questione", ha chiesto che la stessa sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

5.¾ In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie illustrative sia le parti private costituite, sia l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri.

5.1.¾ Le ricorrenti nel giudizio a quo, nel ribadire, con ampie argomentazioni, le conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione, osservano che, con la denunciata disposizione, essendo stato subordinato, "senza distinzioni di sorta, l’accesso alle prestazioni per vecchiaia e anzianità assicurate dalle forme pensionistiche private alla liquidazione del trattamento pensionistico obbligatorio", si è venuti a pregiudicare le situazioni giuridiche "di coloro che sono in possesso dei requisiti previsti dallo statuto per il trattamento di anzianità e di coloro che, prossimi alla maturazione dei suddetti requisiti, nutrivano l’aspettativa del tutto legittima di usufruire del trattamento integrativo".

Né può ritenersi, ad avviso delle medesime parti, che la ratio della norma sia rinvenibile nella necessità di salvaguardia dell’equilibrio dei fondi pensione integrativi a prestazione definita, giacché un siffatto postulato prescinde dalla considerazione che non tutti i predetti fondi sono "strutturati con un meccanismo di ripartizione del finanziamento tra lavoratori in attivo e pensionati", come, appunto, il Fondo pensioni Cariplo, il quale "è dotato di un patrimonio adeguato all’adempimento degli obblighi statutari".

E’, comunque, "inammissibile che le parti interessate siano state private della possibilità di valutare l’esistenza o la potenziale minaccia dello squilibrio finanziario, in relazione al concreto meccanismo di alimentazione finanziaria e di erogazioni pensionistiche di ogni singolo fondo".

La memoria contesta, inoltre, la tesi che valorizza il nesso funzionale tra previdenza complementare e previdenza pubblica in vista della realizzazione dell’obiettivo posto dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione e che interpreta il quinto comma dello stesso art. 38 come volto alla tutela costituzionale del risparmio privato ("che ha il suo emblema nella classica polizza vita").

Si tratta, infatti, di tesi che porta, oltretutto, a concludere, contrariamente a quanto risulta dalla disciplina attuale, per la necessaria "obbligatorietà della partecipazione dei lavoratori ai piani di previdenza complementare".

Quanto al contrasto con l’art. 39 della Costituzione, le parti private ¾ dopo aver rammentato che la norma denunciata, laddove riconosce alla contrattazione collettiva "il potere di derogare agli ordinamenti dei regimi aziendali" nelle ipotesi di ristrutturazione-riorganizzazione aziendale che determinino esuberi di personale, suscita dubbi di legittimità costituzionale se interpretata nel senso che detto potere di deroga abbia "efficacia erga omnes, pregiudicando situazioni soggettive consolidate" ¾ evidenziano che "la necessità astratta (e tutta da dimostrare) di salvaguardia dei patrimoni, anziché essere il fondamento e la giustificazione delle limitazioni ai requisiti di accesso, rappresenta proprio la violazione della libertà e della autonomia delle parti sociali, private della possibilità di verificare nel concreto la necessità di procedere alla rideterminazione della disciplina delle prestazioni e del finanziamento in presenza, ad esempio, di innovazioni del regime di base".

In riferimento, poi, all’art. 41 della Costituzione, la memoria, nel ritenere i fondi pensione espressione della libertà di iniziativa economica delle imprese, esclude che siffatta libertà possa soggiacere a limiti per effetto della previsione di cui al secondo comma del medesimo art. 41, atteso che "la collettività trae un beneficio rilevante dall’esistenza dei fondi pensione, in quanto gli stessi hanno lo scopo di garantire un maggior benessere materiale per gli iscritti"; né, del resto, può invocarsi la riserva di legge prevista dal terzo comma dello stesso articolo, giacché le restrizioni al conseguimento delle prestazioni previdenziali private contrastano, "in realtà, con le finalità sociali della stessa previdenza privata, il cui scopo è quello di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale".

Infine, quanto all’art. 3 della Costituzione, le parti private ribadiscono "l’inammissibilità della lesione di situazioni giuridiche soggettive consolidate" e cioè sia quelle di coloro "che alla data di entrata in vigore della norma avevano maturato i requisiti biologici, contributivi e di anzianità considerati dalla disciplina del Fondo ma che non hanno presentato domanda di pensione" (o meglio, "non hanno avuto il tempo materiale per farlo"), sia quelle di coloro che vantano "aspettative prossime a diventare diritti".

5.2.¾ La Cariplo S.p.A., nell’insistere per l’infondatezza della sollevata questione, sostiene, anzitutto, che la norma denunciata "costituisce un tassello qualificante nella evoluzione e nell’assestamento complessivo del sistema pensionistico, ove previdenza pubblica e previdenza privata sono andate componendosi in un quadro unitario diretto ad assicurare ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze di vita quando termina il loro tempo lavorativo".

In questo quadro, osserva la memoria, il legislatore ha dovuto contenere i costi della previdenza pubblica, corrispondentemente favorendo l’espansione delle prestazioni della previdenza privata, "ma in correlazione/combinazione di queste con quelle": sicché, nella prospettiva dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione, trovano giustificazione sia le misure di sostegno alla previdenza complementare, "sia il suo assoggettamento a vincoli di varia natura".

Ad avviso della Cassa, l’importanza qualificante della norma censurata è da rinvenirsi, per tutte le forme pensionistiche che non siano a contribuzione definita, proprio nell'"aggancio" delle prestazioni della previdenza complementare all’accesso alle prestazioni del regime dell’assicurazione generale obbligatoria, quale espressione "paradigmatica della complementarietà di previdenza pubblica e privata".

Del resto, soggiunge la memoria, a riprova di ciò rileva il fatto che il legislatore "ha statuito anche per le nuove forme previdenziali a contribuzione definita" delle "limitazioni di identica valenza"; e questo conferma che la disposizione denunciata deve essere considerata "nel contesto complessivo del sistema previdenziale e delle politiche legislative di attuazione degli obiettivi costituzionali".

Proprio per questo, secondo quanto "rimarcato" anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 421 del 1995, il legislatore avrebbe, da un lato, agevolato fiscalmente la previdenza complementare (tanto che tali agevolazioni costituiscono "il presupposto stesso della convenienza e praticabilità della scelta istitutiva di un fondo di previdenza complementare"), e, dall’altro, avrebbe "prefigurato un programma di ingerenze di vario genere", sulle quali non è dato porre questioni di ordine costituzionale "in sé per sé", ma soltanto sotto l'"angolazione della coerenza di siffatte ingerenze con la ratio della legislazione di sostegno".

Secondo la memoria, nel ricordato "aggancio" al trattamento pensionistico di base, "la previdenza complementare vede esaltata la sua stessa funzione propriamente integrativa" che, nella prospettiva della riforma pensionistica, è quella "che consente al lavoratore, quando giunge al pensionamento, di conservare una apprezzabile continuità di livello di reddito...malgrado l’ineluttabile progressivo smagrimento delle prestazioni" dell’assicurazione generale obbligatoria.

Ad avviso della Cariplo, i dubbi sul contrasto della norma denunciata con gli artt. 39 e 41 della Costituzione sono, pertanto, destinati a dissolversi, collocandosi "al di là della tutela apprestata da tali articoli la pretesa che la autonomia privata (individuale e collettiva) fruisca di vantaggi e al tempo stesso sia avulsa da vincoli". Sicché, dalle menzionate norme costituzionali, "si può estrarre solo la garanzia che contrattazione individuale e contrattazione collettiva rimangano libere di prevedere forme di assicurazione, anche finanziate dal datore di lavoro (sul modello delle c.d. polizze vita), sottratte ai vincoli stabiliti per le forme di previdenza complementare, ma anche prive dei vantaggi per esse previsti".

5.3.¾ L’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, nell’insistere per l’infondatezza della sollevata questione, sostiene, anzitutto, che la disposizione denunciata si inserisce coerentemente in quell'articolato intervento normativo che, nel ridefinire "l’assetto della complessiva copertura previdenziale", ha attribuito alla previdenza complementare un "ruolo fondamentale", accordando alla stessa "benefici fiscali e contributivi per favorirne lo sviluppo" e ponendola, al tempo stesso, in "stretta correlazione alla struttura del regime obbligatorio".

Quanto alle specifiche censure mosse dal rimettente, la memoria osserva che la libertà e l’autonomia sindacale, tutelate dall’art. 39 della Costituzione, trovano preminente rilievo nella fase di costituzione del fondo complementare, "aspetto questo che non viene minimamente riguardato dalla norma impugnata" e che, in ogni caso, non investe "i soggetti iscritti a gestioni integrative del trattamento obbligatorio istituite per legge o atto normativo e caratterizzate dall’obbligatorietà dell’iscrizione".

Nel dubitare, poi, di una competenza esclusiva delle parti in relazione all’eventuale riequilibrio finanziario dei fondi, la parte pubblica intervenuta respinge la tesi secondo la quale la disposizione denunciata comprometterebbe gli equilibri che l’autonomia sindacale ha contribuito a determinare nel concordare "misura e requisiti della prestazione", giacché, così opinando, si verrebbe a configurare una garanzia costituzionale di ogni accordo sindacale, "non suscettibile di limitazioni ad opera del legislatore".

Quanto all’art. 41 della Costituzione, la difesa erariale rileva che la stessa norma costituzionale stabilisce "che sia la legge a determinare programmi e controlli opportuni perché l’attività economica pubblica (e privata) possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali".

La norma denunciata, lungi dal limitare l’autonomia organizzativa e gestionale che consente l’incentivazione dei fondi, risulta, quindi, "funzionale proprio alla realizzazione di quell’equilibrio tra trattamento pubblico e privato cui è ispirato l’intero sistema previdenziale".

Infine, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, la memoria rileva che l’art. 59, comma 3, si sottrae alla censura di irragionevolezza, tutelando, piuttosto, il lavoratore, attraverso misure che assicurano l’equilibrio non solo delle gestioni previdenziali integrative, ma anche della finanza pubblica, "la cui stabilità potrebbe essere compromessa dagli effetti di induzione che una previdenza complementare non delimitata in ordine all’accesso alle prestazioni comporterebbe".

Pertanto, la temporanea limitazione delle "aspettative" di alcuni lavoratori ("non ancora assurte a diritti quesiti") avviene soltanto "a tutela del superiore interesse di tutta la categoria al corretto funzionamento del sistema previdenziale nella sua articolazione tra assicurazione generale obbligatoria e fondi complementari".

Inoltre, argomenta ancora l’Avvocatura, le agevolazioni fiscali di cui godono le forme di previdenza complementare non costituiscono "una mera forma di incentivazione", ma un vero e proprio "spostamento di risorse economiche dalla finanza pubblica ai fondi, che sono dunque uno strumento previdenziale da inserire nel sistema misto pubblico-privato", soggetto alle modificazioni dettate dalle "esigenze di assestamento che si vanno delineando in materia". Talché non risulta irragionevole che il legislatore, nel ridurre il fenomeno del pensionamento anticipato "in relazione ai costi intollerabili che esso comporta per la collettività", agisca anche sui fondi privati, "adeguando la loro decorrenza a quella dell’assicurazione generale obbligatoria" ed estendendo anche ai relativi iscritti "l’indirizzo generale di slittamento dei tempi di fruizione" del trattamento pensionistico obbligatorio.

Si osserva, poi, nella memoria che l’anticipata maturazione del diritto alla prestazione complementare rispetto al "trattamento previdenziale ordinario" determina il venir meno delle contribuzioni, alterando, quindi, l’equilibrio della spesa previdenziale, che si fonda "sulle previsioni di durata delle contribuzioni rapportata alla vita lavorativa".

Sicché, conclude la parte pubblica intervenuta, non può condividersi la tesi "suggestiva", sostenuta dalle parti private, "secondo cui la normativa censurata avrebbe riflessi neutri sul contenimento della spesa pubblica", atteso che "essa va considerata in relazione agli effetti indiretti della manovra che non si possono agevolmente prevedere né tanto meno quantificare".

Considerato in diritto

1.¾ Il Pretore di Milano dubita, con l’ordinanza in epigrafe, della legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui tale disposizione stabilisce che, con decorrenza dal 1° gennaio 1998, per tutti i soggetti nei cui confronti trovino applicazione le forme pensionistiche che garantiscono prestazioni definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, ivi comprese quelle di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, "il trattamento si consegue esclusivamente in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti dalla disciplina generale obbligatoria di appartenenza".

Nel denunciare il contrasto della menzionata disposizione, anzitutto, con l’art. 39 della Costituzione, sotto il profilo della "lesione della iniziativa e...della libertà sindacale", il rimettente sostiene che la stessa altera "la disciplina e gli equilibri realizzati dall’autonomia collettiva, invalidando il contenuto delle clausole in vigore, e pregiudicando per il futuro la libera determinazione dell’autonomia collettiva riguardo all’aspetto fondamentale della misura e dei requisiti delle prestazioni".

Secondo l'ordinanza, sussiste, inoltre, lesione dell’art. 41 della Costituzione, "che tutela il libero esercizio dell’attività economica", giacché la "partecipazione della previdenza complementare al sistema di sicurezza sociale" non sarebbe tale da giustificare "la perdita dei connotati di autonomia organizzativa e gestionale che consentono la incentivazione ed espansione dei fondi, rese necessarie proprio dalla riduzione del trattamento pubblico".

Il giudice a quo ravvisa, infine, un vulnus anche all’art. 3 della Costituzione, in quanto, "a differenza del precedente regime", non è previsto "alcun esonero dal divieto di anticipata prestazione", venendosi ad incidere, in difetto di "benefici per la finanza pubblica, trattandosi di prestazioni a finanziamento privato", "sui diritti maturati e sulle aspettative degli iscritti per il conseguimento dei trattamenti previdenziali secondo le regole del fondo di appartenenza", sì da essere irragionevolmente compromesse, "in violazione del principio dell’affidamento", situazioni ormai consolidate.

2.¾ La questione non è fondata.

L’art. 59, comma 3, della legge n. 449 del 1997, denunciato nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il trattamento integrativo assicurato da un fondo pensionistico (Fondo Cariplo) rientrante fra quelli disciplinati dal decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, non può essere letto disgiuntamente dalla complessa opera riformatrice del sistema previdenziale, a cui il legislatore ha posto mano sin dalla legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, con la quale (art. 3), avendo di mira la stabilizzazione del rapporto tra la spesa previdenziale ed il prodotto interno lordo, unitamente alla garanzia, ai sensi dell’art. 38 della Costituzione, di trattamenti pensionistici obbligatori omogenei, ha inteso favorire anche la costituzione di forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti complementari del sistema obbligatorio pubblico, volti a realizzare ¾ in conformità delle indicazioni contenute nell’art. 3, comma 1, lettera v), della stessa legge n. 421 del 1992 ¾ «più elevati livelli di copertura previdenziali».

In vista del riordino del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici così perseguito, veniva emanato, anzitutto, il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, il quale, tra le varie misure adottate, rendeva più rigorosi, elevando i relativi minimi, gli allora vigenti requisiti di età e contribuzione per il conseguimento delle pensioni di vecchiaia ed anzianità, secondo una scelta confermata, dapprima, con l’art. 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e poi definitivamente affermata con la riforma generale del sistema pensionistico (art. 1, commi da 25 a 28, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e, da ultimo, comma 6 dello stesso art. 59 della legge n. 449 del 1997); scelta alla quale si ricollega anche la sospensione, a suo tempo prevista, dei pensionamenti anticipati (decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438; art. 13 della citata legge n. 724 del 1994).

2.1.¾ Il disposto innalzamento, seppur graduale e modulato, dell’età pensionabile e della contribuzione utile ai fini del pensionamento nel regime di assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive della stessa, è venuto ad investire, giusta quanto previsto dall’art. 9 del decreto legislativo n. 503 del 1992, anche le posizioni degli iscritti alla gestione speciale di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, e cioè alla gestione costituita presso l’INPS a seguito della soppressione dei regimi c.d. esclusivi o esonerativi degli istituti di credito pubblici soggetti alla privatizzazione in base alla legge 30 luglio 1990, n. 218.

A questo proposito giova rammentare che, in base alla delega conferita al Governo da quest'ultima legge (art. 3, comma 3) ¾ per l'emanazione di disposizioni dirette a disciplinare, secondo le norme dell’assicurazione generale obbligatoria, il trattamento previdenziale dei dipendenti in servizio e in quiescenza dei menzionati enti pubblici creditizi ¾ il citato decreto legislativo n. 357 del 1990 aveva, a suo tempo, stabilito, per un verso, l’iscrizione all’INPS, con decorrenza dal periodo di paga in corso al 1° gennaio 1991, dei dipendenti dei medesimi enti (art. 1) e previsto, per altro verso, la contestuale trasformazione (art. 5) dei relativi fondi pensionistici (tra i quali va annoverato anche il Fondo Cariplo) in fondi integrativi dell’assicurazione generale obbligatoria, restando affidata a questi ultimi la funzione di garantire il trattamento previdenziale complessivo di miglior favore già goduto (art. 4, comma 1), attraverso l’erogazione della differenza rispetto alla pensione, o quota di pensione, a carico della gestione speciale (art. 4, comma 2).

Il criterio, desumibile dalla normativa testé ricordata, di ricondurre il personale in parola nell'ambito delle disposizioni dell’assicurazione generale obbligatoria, sia pure attraverso l’iscrizione ad una gestione speciale, è stato, poi, confermato dalle successive norme intervenute in materia (artt. 9 del decreto legislativo n. 503 del 1992 e 3, comma 19, della legge n. 335 del 1995), le quali hanno anche provveduto ad individuare le disposizioni della disciplina generale applicabili ai fondi aziendali integrativi, con riflessi sul trattamento complessivo di cui all’art. 4 del citato decreto legislativo n. 357 del 1990, facendo, però, salva la facoltà, per la contrattazione collettiva, di disporre diversamente e cioè, in definitiva, la facoltà di rinegoziare e ripristinare il regime di miglior favore.

2.2.¾ Nel delineato contesto ha trovato attuazione, con il decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 (e le «disposizioni correttive» ad esso immediatamente apportate dal decreto legislativo 30 dicembre 1993, n. 585), anche il disposto dell’art. 3, comma 1, lettera v), della citata legge n. 421 del 1992, dettandosi, da un lato, la complessiva disciplina delle nuove forme pensionistiche complementari ¾ e, segnatamente, le regole per la scelta del regime dei fondi (a contribuzione definita o a prestazione definita: art. 2), per l’istituzione dei fondi medesimi (art. 3), per i requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche (art. 7), per il finanziamento dei fondi (art. 8) e per il regime di agevolazioni tributarie (artt. 13 e 14) ¾ e, dall’altro, provvedendosi a regolare (art. 18) quelle stesse forme pensionistiche che risultavano già istituite alla data di entrata in vigore della legge delega n. 421 del 1992.

In occasione delle ulteriori disposizioni modificatrici contenute nella legge 8 agosto 1995, n. 335 (artt. 3, comma 25, e da 4 a 16), il legislatore ha introdotto anche la norma che, per le forme complementari già istituite alla data di entrata in vigore della legge n. 421 del 1992, le quali garantiscono prestazioni definite ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio, subordina l’accesso alle prestazioni integrative alla liquidazione del trattamento obbligatorio (art. 15, comma 5, che ha aggiunto il comma 8-quinquies al citato art. 18 del decreto legislativo n. 124 del 1993).

2.3.¾ In linea con tale tendenza limitativa si è venuto a porre, infine, il denunciato art. 59, comma 3, della legge n. 449 del 1997, nel prevedere che "a decorrere dal 1° gennaio 1998, per tutti i soggetti nei cui confronti trovino applicazione le forme pensionistiche definite in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio...il trattamento si consegue esclusivamente in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti dalla disciplina dell’assicurazione obbligatoria di appartenenza".

Giova, peraltro, precisare che l’enunciato divieto di conseguire il trattamento integrativo, prima della maturazione dei requisiti e della decorrenza della pensione in regime obbligatorio, non riveste carattere assoluto, giacché lo stesso comma 3 dell’art. 59 consente, proprio in riferimento ai regimi aziendali integrativi di cui al decreto legislativo n. 357 del 1990, di discostarsene, abilitando la contrattazione collettiva, nei casi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale che determinano esuberi di personale, a "diversamente disporre, anche in deroga agli ordinamenti dei menzionati regimi aziendali".

Così come ad accordi sindacali è rimessa, da parte della medesima disposizione in esame, la determinazione di trasformare le forme pensionistiche a prestazione definita in forme pensionistiche a contribuzione definita.

3.¾ Alla stregua dell’evidenziato quadro normativo non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421, e, via via, confermata nei successivi interventi, di istituire ¾ così come, del resto, non sfugge allo stesso rimettente ¾ un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione.

E ciò secondo una tendenza riformatrice la cui portata è stata già colta, anche per quanto attiene alle implicazioni di carattere costituzionale, dalla giurisprudenza di questa Corte, quando, proprio in virtù dell’accennato collegamento funzionale, ha avuto modo di affermare che, a seguito della legge delega n. 421 del 1992, così come attuata dal decreto legislativo n. 124 del 1993, la definizione legislativa dei fondi complementari, come "fondi di previdenza...al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale", ha inserito gli stessi nel sistema dell'art. 38, tanto che, dopo queste leggi, le contribuzioni degli imprenditori al loro finanziamento non possono più definirsi "emolumenti retributivi con funzione previdenziale", ma costituiscono, strutturalmente, contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile agli effetti dell’assicurazione INPS (sentenza n. 421 del 1995).

Né a tale conclusione contraddice il contributo di solidarietà, imposto dalla legge, sulle somme versate dai datori di lavoro a detti fondi, trattandosi, come la Corte stessa ha precisato, di una contropartita necessaria di tale estraneità, in esplicazione del "principio di razionalità-equità (art. 3 della Costituzione) coordinato col principio di solidarietà, con il quale deve integrarsi l’interpretazione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione". E questo onde far sì che la tutela dell’interesse individuale dei lavoratori ad usufruire di forme di previdenza complementare non vada disgiunta, in misura proporzionata, da un "dovere specifico di cura dell’interesse pubblico a integrare le prestazioni previdenziali, altrimenti inadeguate, spettanti ai soggetti economicamente più deboli" (sentenze n. 421 del 1995, n. 292 del 1997, n. 178 del 2000).

3.1.¾ Alla luce anche dei chiarimenti addotti dalla giurisprudenza costituzionale, è da ritenere, dunque, che la disposizione denunciata si collochi nel delineato disegno normativo, quale coerente espressione, essa stessa, del ricordato legame funzionale. E ciò, con l’intento, per un verso, di accomunare sotto la medesima disciplina fondi integrativi e aggiuntivi, quale che sia la loro fonte istitutiva (legale o contrattuale, obbligatoria o facoltativa) ed il settore interessato (dipendenti pubblici o privati), sì da conferire omogeneità al complessivo ambito della previdenza complementare, e, per altro verso, di precisare e generalizzare, per quanto potesse occorrere, il divieto di conseguire il relativo trattamento a prescindere dalle regole vigenti per l’assicurazione generale obbligatoria, secondo un criterio, per il vero, al quale si rifà anche la già ricordata precedente previsione del comma 5 dell’art. 15 della legge n. 335 del 1995.

Nell’accennata ottica di armonizzazione, resa ancor più evidente dalla uniforme disciplina dettata, per tutte le forme pensionistiche, in tema di capitalizzazione (art. 59, comma 2, della legge n. 449 del 1997) e perequazione delle relative prestazioni (art. 59, comma 4, della citata legge), nonché di regime di cumulo tra prestazioni stesse e redditi da lavoro dipendente ed autonomo (ancora il menzionato comma 4), il censurato comma 3 dell’art. 59 opera, dunque, in funzione riequilibratrice del sensibile scostamento che, altrimenti, si sarebbe determinato tra disciplina dei fondi integrativi e disciplina del regime obbligatorio, dopo quelle scelte legislative di riforma che hanno reso più restrittivo, attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile e del requisito contributivo, l’accesso al pensionamento di vecchiaia e di anzianità previsto nel regime generale.

Uno scostamento, quello appena ricordato, che, in proiezione futura, avrebbe, da un lato, sensibilmente inciso sul gettito della contribuzione al sistema obbligatorio di base, e, dall’altro, determinato un onere insostenibile a carico dei fondi integrativi erogatori di prestazioni definite, in quanto tenuti a sopportare, per un più lungo periodo, l’obbligo di erogazione del trattamento di integrazione rispetto a quello dell’assicurazione generale. E ciò a tacere della ben più gravosa eventualità dell’assunzione, da parte dei medesimi, di detto onere in via definitiva, nelle ipotesi in cui a fronte di prestazioni integrative destinate ad assolvere anche una funzione sostitutiva ¾ per essere le medesime comunque assicurate nel caso di accesso anticipato rispetto al trattamento di base (così come previsto per i regimi integrativi di cui al decreto legislativo n. 357 del 1990, e tra questi il Fondo Cariplo) ¾ si fosse determinata l’impossibilità per l’iscritto di accedere, per difetto del requisito di contribuzione, al trattamento del regime obbligatorio.

Si può, pertanto, concludere nel senso che, nel rammentato contesto normativo, in cui il nesso strutturale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare è stato voluto dal legislatore quale momento essenziale della complessiva riforma della materia, la disciplina censurata concorre ad assicurare funzionalità ed equilibrio all’intero sistema pensionistico, in corrispondenza dell'obiettivo perseguito dal legislatore di coniugare l'entità della spesa pensionistica, da ricondurre a parametri sostenibili, con un più adeguato livello di copertura previdenziale. Giova considerare, per altro verso, che la disciplina di cui trattasi, benché non incida in via diretta ed immediata sulla spesa pubblica, non risulta, contrariamente a quanto sembrerebbe assumere l'ordinanza, del tutto indifferente per quest'ultima, se non altro perché concorre ad escludere quelle distonie tra previdenza pubblica e previdenza complementare, entrambe ormai componenti del sistema stesso, che potrebbero indurre ripercussioni negative, anche d'ordine finanziario, sui rispettivi ambiti (come, ad esempio, la minore contribuzione all’INPS, da un lato, e i maggiori oneri a carico dei fondi integrativi, dall’altro) e, in definitiva, sulla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali.

4.¾ Tanto premesso, deve reputarsi privo di fondamento, anzitutto, il dubbio di costituzionalità che il rimettente solleva nei confronti del censurato art. 59, comma 3, sotto il profilo del contrasto con l’art. 39 della Costituzione, a causa della lesione che esso recherebbe alla iniziativa e alla libertà sindacale.

Come la Corte ha più volte rammentato, l’autonomia collettiva non esclude la configurabilità di limiti legali, potendo essa venire compressa o, addirittura, annullata nei suoi esiti concreti, non solo quando introduca un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto dalla legge, ma anche quando sussista l’esigenza di salvaguardia di superiori interessi generali (sentenze n. 143 del 1998, n. 124 del 1991 e n. 34 del 1985). E ciò tanto più se la cura e la regolamentazione di tali interessi costituiscano attuazione di precetti costituzionali (sentenze n. 697 del 1988 e n. 120 del 1963).

Talché, una volta riconosciuto ¾ come, del resto, non manca di ammettere lo stesso giudice a quo ¾ che la norma denunciata si pone come espressione della tendenza, ormai radicata nell’ordinamento, ad assegnare alla previdenza integrativa il compito di concorrere, in collegamento con quella obbligatoria, alla realizzazione degli scopi enunciati dall’art. 38, secondo comma, della Costituzione, non possono non trovare giustificazione i limiti ed i vincoli addotti all'autonomia collettiva, per quanto attiene, segnatamente, alla disciplina dell’accesso ai relativi trattamenti.

Va, del resto, aggiunto che la peculiare conformazione data dal legislatore agli assetti pensionistici integrativi non è priva di contropartite, rinvenibili segnatamente nella normativa di favore di cui i fondi godono dal punto di vista tributario, in virtù di ampie agevolazioni, volte a sostenere e favorire la crescita dell’intero sistema della previdenza complementare (tra le varie disposizioni, si rammentano: artt. 13 e 14 del decreto legislativo n. 124 del 1993, come modificati dagli artt. 11 e 12 della legge n. 335 del 1995; art. 18, commi 1 e 7, del medesimo decreto legislativo n. 124 del 1993, come modificato dall’art. 15 della citata legge n. 335 del 1995; art. 3, comma 2, lettera a), del decreto legislativo n. 314 del 1997; art. 8 del decreto legislativo n. 299 del 1999 e, da ultimo, il decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 47, recante la riforma, in vigore dal prossimo 1° giugno 2001, della disciplina fiscale della previdenza complementare, emanato in attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 3 della legge 13 maggio 1999, n. 133). Agevolazioni che, risolvendosi, tra l'altro, in un onere per la fiscalità generale, in tanto si giustificano in quanto si tenga conto anche dei limiti apportati all’esercizio dell’autonomia collettiva.

E questo a tacere, comunque, del fatto che non risulta trascurato dal legislatore un opportuno contemperamento degli interessi che vengono in rilievo nello specifico ambito, ove si consideri che, proprio con riferimento ai regimi aziendali integrativi di cui al decreto legislativo n. 357 del 1990, i vincoli introdotti dalla denunciata disposizione ¾ quanto ai modi e tempi di conseguimento del relativo trattamento pensionistico (e comunque non già alla misura dello stesso, contrariamente a quanto ipotizzato dal rimettente) ¾ sono suscettibili di deroga, ad opera della contrattazione collettiva, nei casi in cui emerga la necessità di interventi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale, dai quali derivi un esubero di personale (art. 59, comma 3).

Una circostanza, questa, che evidenzia ¾ in contrasto con la assolutezza del postulato dal quale sembra muovere il giudice a quo ¾ il recupero della piena competenza sulla materia da parte dell’autonomia collettiva in momenti in cui si pone l’esigenza della concreta ponderazione degli effetti complessivi, non ultimi quelli finanziari, dell’esubero di personale sul fondo pensionistico che dovrà sopportare i relativi costi.

Sullo stesso piano non può, del pari, ignorarsi la riserva all’iniziativa sindacale della facoltà, prevista dalla stessa norma denunciata, di operare la trasformazione delle forme pensionistiche a prestazione definita in forme pensionistiche a contribuzione definita.

5.¾ Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’art. 41 della Costituzione, parametro evocato dal giudice a quo per lamentare la compromissione che il principio di libera iniziativa economica subirebbe a causa dei condizionamenti recati, all’autonomia organizzativa e gestionale dei fondi di previdenza complementare, dai vincoli di allineamento alle prestazioni pensionistiche del regime di base.

A questo proposito, è da ricordare, in linea di principio, che la libertà di iniziativa economica, cui il precetto costituzionale si riferisce, è quella che, come questa Corte ha avuto occasione di chiarire, trova il suo normale svolgimento nell'esercizio dell'impresa (sentenza n. 268 del 1994), giovandosi di una tutela assicurata, indirettamente, anche all’autonomia negoziale, nei limiti in cui questa costituisca strumento, per l'appunto, di tale esercizio (vedi la già citata sentenza n. 268 del 1994, nonché, tra le altre, sentenze n. 241 del 1990 e n. 159 del 1988).

Ciò posto, pur ammettendo che un fondo pensionistico di previsione legale, quale quello Cariplo, destinato, in forza del decreto legislativo n. 357 del 1990, alla garanzia del trattamento previdenziale di miglior favore degli iscritti (art. 5, comma 2, del citato decreto legislativo), possa rientrare nell'ambito di tutela del menzionato art. 41 della Costituzione, resterebbe pur sempre da considerare che la lamentata compressione dell’autonomia organizzativa e gestionale dei fondi null’altro sarebbe che un effetto riflesso della sostituzione della fonte eteronoma a quella di matrice collettiva; sostituzione nella quale il rimettente ravvisa, come già detto, un attentato all’autonomia sindacale quale "ineludibile momento di definizione delle contribuzioni e delle prestazioni" del Fondo Cariplo (come, in effetti, si è avuto per tramite, in particolare, dell’accordo aziendale dell’aprile 1994, richiamato dall’ordinanza di rimessione).

In questi termini è evidente che la doglianza non assume autonomo rilievo rispetto all’altra di violazione dell’art. 39 della Costituzione, nella quale resta, pertanto, assorbita.

In ogni caso, pur a prescindere da quanto testé osservato, non potrebbe qui non valere l’orientamento già altre volte da questa Corte espresso, nel senso che anche l'autonomia negoziale e la libertà di iniziativa privata devono comunque cedere di fronte a interessi di ordine superiore, economici e sociali, che assumono rilievo a livello costituzionale.

6.¾ Le finalità ed i criteri ai quali, secondo quanto sopra detto, si ispira la norma denunciata consentono di superare anche la residua censura concernente la lamentata violazione dell’art. 3 della Costituzione, dovuta, secondo l’ordinanza, ad una disciplina che non contemplerebbe, diversamente dal regime precedente, "alcun esonero dal divieto di anticipata prestazione", e che, violando il "principio dell’affidamento", comprometterebbe situazioni ormai consolidate, senza che il sacrificio imposto comporti benefici per la finanza pubblica.

Proprio sul piano della verifica di quella congrua ponderazione dei vari interessi che l’ordinanza parrebbe sollecitare, occorre, anzitutto, ricordare che l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica non impedisce al legislatore di emanare norme modificatrici della disciplina dei rapporti di durata in senso sfavorevole per i beneficiari, quando tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irragionevole di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti.

Nel caso oggetto di scrutinio, la censurata disposizione, nel fissare al 1° gennaio 1998 il momento dal quale viene a trovare applicazione (anche per le prestazioni che qui interessano, e cioè quelle dei fondi disciplinati dal decreto legislativo n. 357 del 1990) la regola che non consente il conseguimento delle prestazioni dei fondi se non in concomitanza con quelle proprie del trattamento obbligatorio, non può non riguardare, come è ovvio, che quelle fattispecie pensionistiche, afferenti alla previdenza complementare, che, all’epoca, non erano ancora giunte a compimento.

Ciò posto, le finalità di raccordo delle varie forme di previdenza complementare con il trattamento pensionistico di base, sulle quali si è già avuta occasione di indugiare, dimostrano non solo che la norma non si può reputare irragionevole, ma che essa non prescinde, nemmeno, contrariamente a quanto assunto dal giudice a quo, da considerazioni relative alle esigenze di equilibrio del quadro complessivo della finanza pubblica. Al tempo stesso, non può neppure dirsi che la disciplina introdotta escluda ogni ipotesi di esonero dal divieto di anticipata prestazione, trovando ciò smentita, infatti, nella circostanza che, seppure a fronte di significative congiunture, il vincolo imposto al conseguimento delle prestazioni integrative del trattamento di base risulta, per le forme pensionistiche di cui al decreto legislativo n. 357 del 1990, non solo sensibilmente attenuato, ma, in definitiva, rimesso alla disponibilità delle parti sociali, con adeguato opportuno apprezzamento, dunque, delle aspettative dei destinatari delle prestazioni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 39 e 41 della Costituzione, dal Pretore di Milano con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 28 luglio 2000.