SENTENZA N.143
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), come modificato dall’art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, promosso con ordinanza emessa il 19 maggio 1997 dal Pretore di Parma nel procedimento civile vertente tra Del Frate Antonio e il Caseificio Sociale San Paolo società cooperativa a responsabilità limitata iscritta al n. 435 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di costituzione di Del Frate Antonio nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 febbraio 1998 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
uditi gli avvocati Luciano Petronio e Sergio Vacirca per Del Frate Antonio e l’Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Con ricorso del 21 maggio 1996, Antonio Del Frate conveniva in giudizio avanti il Pretore di Parma la società cooperativa a responsabilità limitata "Caseificio Sociale San Paolo", sua datrice di lavoro, chiedendo, da un lato, che venisse dichiarata la nullità del licenziamento disciplinare intimatogli senza il rispetto della procedura prevista dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale sui luoghi di lavoro e norme sul collocamento: c.d. statuto dei lavoratori) e, dall’altro, che la controparte venisse condannata a reintegrarlo in servizio ed a risarcirgli i danni ai sensi dell’art. 18 del medesimo statuto, convenzionalmente applicabile, in base al contratto collettivo di lavoro (più esattamente, all’accordo integrativo per i caseifici sociali e le aziende cooperative operanti nella zona di produzione del formaggio parmigiano reggiano), anche al rapporto di lavoro de quo, pur se il Caseificio é un’impresa con meno di 16 dipendenti.
Il Pretore di Parma, rilevato che al caso di specie risulta applicabile la c.d. tutela reale del posto di lavoro, come trattamento di miglior favore per i dipendenti, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 44, primo comma, della Costituzione – dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte in cui non prevede che le conseguenze molto più limitate ivi stabilite per il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo siano comunque e inderogabilmente estese anche al licenziamento disciplinare intimato in violazione dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori da parte di un piccolo imprenditore, pur se soggetto convenzionalmente al regime dell’art. 18 dello statuto medesimo.
Infatti, nel caso di specie l’inosservanza della procedura prevista dal citato art. 7 comporta la reintegrazione nel posto di lavoro ovvero l’indennità sostitutiva (pari a quindici mensilità di retribuzione), nonchè il risarcimento dei danni (in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva riassunzione e comunque non inferiore a cinque mensilità), anzichè la meno gravosa sanzione prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, consistente nella riassunzione ovvero nel risarcimento dei danni, anche minimo, a scelta del datore di lavoro. Ne consegue che, a causa dell’elevato salario percepito dal lavoratore, l’indennità sostitutiva – per la quale presumibilmente opterebbe quest’ultimo, che nel frattempo é stato assunto da un’altra azienda – supererebbe l’importo di 120 milioni di lire, che appare "eccessivo, sproporzionato ed irreale, tenuto conto che in tale misura viene sanzionata la violazione di un obbligo formale (violazione art. 7 statuto), alla pari, cioé, della mancanza (sostanziale) della giusta causa o del giustificato motivo, nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni".
Risulterebbero, perciò, violati il principio di uguaglianza e quello del favore per la piccola impresa, sanciti dagli artt. 3 e 44, primo comma, della Costituzione, "posto che situazioni ontologicamente differenziate sono soggette allo stesso trattamento quanto alle sanzioni applicabili e alle conseguenze molto gravi cui é assoggettabile il piccolo imprenditore".
Ad avviso del Pretore, inoltre, il principio di cui all’art. 40, secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (in base al quale restano salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali più favorevoli ai lavoratori) non é coperto da alcuna garanzia costituzionale ed é, quindi, derogabile in particolari situazioni.
2.— Si é costituito in giudizio il ricorrente Antonio Del Frate, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o comunque infondata.
Secondo la parte privata, il Pretore di Parma "ha chiesto alla Corte costituzionale la creazione di una norma ad hoc", la quale stabilisca che le disposizioni di legge non siano derogabili in melius da parte della contrattazione collettiva, nemmeno quando si tratti di sanzionare la violazione delle garanzie di difesa dettate dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori: ma ciò non tiene conto dell’art. 39 della Costituzione, che offre copertura costituzionale – contrariamente a quanto ritenuto dal Pretore – al principio di cui all’art. 40, secondo comma, dello statuto; salvo nell’improbabile ipotesi – che nel caso di specie non ricorrerebbe – che vengano intaccate norme di ordine pubblico o dettate per la tutela di altri preminenti interessi costituzionalmente protetti.
Sostiene il Del Frate che, in questa prospettiva, non possono richiamarsi a sostegno della tesi del giudice a quo nè il principio di uguaglianza, nè l’art. 44, primo comma, della Costituzione, perchè stabilire, come quest’ultimo fa, "che "la legge ... aiuta la piccola e media proprietà" non significa, sicuramente, che per le piccole imprese la libera contrattazione collettiva non possa stabilire, negli spazi lasciati dalla legge (nella specie, dall’art. 40 stat. lav.), quegli "equi rapporti sociali" che proprio nella prima parte della norma costituzionale in parola vengono richiamati".
In caso contrario, poi, avrebbero dovuto essere denunciati di incostituzionalità l’art. 12 della legge n. 604 del 1966 e l’art. 40 della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui consentono la stipulazione di condizioni migliori di quelle stabilite dalla legge, con una conseguente aberratio ictus compiuta dal giudice a quo.
3.— E’ intervenuto nel giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare la questione inammissibile e comunque manifestamente infondata.
Secondo la difesa erariale, l’elemento convenzionale che, superando quello legale, introduce una maggiore tutela del prestatore di lavoro, non é direttamente ricollegabile alla norma denunciata, bensì alla regola dettata dall’art. 40, secondo comma, dello statuto dei lavoratori, che da sempre ha informato l’applicazione delle norme dello statuto stesso.
"Ne risulta che, da un lato, é fortemente dubbio che la questione di costituzionalità possa essere riferita all’art. 8 della legge 604/1966" (anzi, nella memoria depositata in vista dell’udienza di discussione si precisa che il riferimento va fatto ad una norma non sottoponibile al sindacato della Corte, quale é il contratto collettivo), "mentre, dall’altro lato, l’individuazione convenzionale (secondo le norme del contratto collettivo applicabile) di un regime di tutela "reale" del posto di lavoro, sia pure limitato alla sola fattispecie del licenziamento irrituale, non é di per sè lesiva del principio di uguaglianza o del favor per l’impresa minore", come la stessa Corte costituzionale ha affermato, da ultimo, nella sentenza n. 398 del 1994.
Considerato in diritto
1.–– Il Pretore di Parma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 44, primo comma, della Costituzione, dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), come modificato dall’art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nella parte in cui non prevede e non consente che al licenziamento disciplinare intimato in violazione dell’art. 7 del c.d. statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) da parte di un piccolo imprenditore, soggetto convenzionalmente al regime dell’art. 18 dello statuto medesimo, siano comunque e inderogabilmente applicate le norme relative alla tutela obbligatoria di cui al citato art. 8, specifiche per tale tipo di imprenditore.
2.— Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità dedotta sia dalla parte costituita che dall’Avvocatura dello Stato, secondo la quale la questione avrebbe dovuto essere proposta nei confronti non della norma denunciata, ma dell’art. 12 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 40, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, che fanno salve le disposizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali più favorevoli ai lavoratori.
In realtà, tali ultime norme si limitano a ribadire un principio generale che, nel quadro dell’autonomia negoziale, informa il diritto del lavoro, in forza del quale i contratti di lavoro possono derogare in melius alle norme di legge non imperative, come si verifica anche nella presente fattispecie. Nella quale, tuttavia, la normativa che il Pretore é chiamato direttamente ad applicare é in effetti quella che stabilisce le sanzioni in caso di licenziamento illegittimo e che é dettata dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 e dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. E’ vero che viene impugnata soltanto la prima di tali disposizioni, ma ciò si giustifica in quanto essa rappresenta la disciplina che sarebbe applicabile alla fattispecie concreta in mancanza di una diversa pattuizione del contratto collettivo; ed é appunto la derogabilità dell’art. 8 ad essere censurata.
3.— Nel merito la questione non é fondata.
Non si può, infatti, affermare che il legislatore, nella disciplina delle conseguenze sanzionatorie derivanti dai licenziamenti illegittimi, abbia equiparato il trattamento di situazioni ontologicamente differenti, come sostenuto dal giudice rimettente nel denunziare la violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Prescindendo dalla ulteriore parificazione, quanto alle suddette conseguenze sanzionatorie, della violazione delle norme relative alla mera procedura di licenziamento e di quelle che prevedono i motivi giustificativi dello stesso – parificazione che il giudice a quo non censura –, il legislatore ha effettivamente previsto sanzioni differenti a seconda che ci si trovi nelle piccole ovvero nelle medie e grandi imprese. Ma nel caso di specie é stata la contrattazione collettiva integrativa ad estendere anche alle imprese minori la disciplina dettata per quelle maggiori dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori.
Orbene, l’autonomia collettiva, se non é priva di limiti legali – potendo sempre il legislatore stabilire criteri direttivi o vincoli di compatibilità con obiettivi generali –, non può tuttavia essere annullata o compressa nei suoi esiti concreti, tra i quali, ad esempio, la determinazione della misura delle retribuzioni o, appunto, la disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo; compressione ed annullamento che possono verificarsi solo quando detta autonomia introduca un trattamento deteriore rispetto a quanto previsto dalla legge, ovvero, nell’ipotesi opposta, esclusivamente a salvaguardia di superiori interessi generali (cfr. le sentenze n. 34 del 1985 e n. 124 del 1991), interessi che non sono ravvisabili nella presente fattispecie.
A fondamento della questione non é neppure invocabile l’art. 44 della Costituzione, riguardo al quale questa Corte ha già avuto modo di precisare che, anche se é ravvisabile in esso un principio generale di favore per le piccole imprese (giustificato soprattutto da fini occupazionali), ciò non significa che per i loro dipendenti debba sempre escludersi la c.d. tutela reale del posto di lavoro: al contrario, questa deve ritenersi operante nel caso di un licenziamento privo della essenziale forma scritta (cfr. la sentenza n. 398 del 1994) e, a maggior ragione, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si sia liberamente impegnato, nella contrattazione collettiva, a garantire detta maggior tutela.
Infine, occorre ricordare che l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, prevedendo tale forma di tutela, non é norma speciale nè eccezionale, ma é dotato di forza espansiva, che lo rende applicabile anche a casi diversi, purchè assimilabili per identità di ratio (cfr. l’ordinanza n. 338 del 1988).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), come modificato dall’art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 44, primo comma, della Costituzione, dal Pretore di Parma con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Fernando SANTOSUOSSO
Depositata in cancelleria il 23 aprile 1998.