SENTENZA N. 335
ANNO 2000REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), promosso con ordinanza emessa il 20 maggio 1997 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto dall’INPS contro Di Corato Riccardina ed altre, iscritta al n. 706 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visti gli atti di costituzione di Di Corato Riccardina ed altre e dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2000 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
uditi gli avvocati Antonio Pellegrini per Di Corato Riccardina ed altre e Giuseppe Fabiani per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di una controversia previdenziale nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro).
La norma impugnata stabilisce che l’indennità di mobilità non venga più corrisposta allorquando il lavoratore raggiunga l’età pensionabile ovvero, se a questa data non sia ancora maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, successivamente alla data in cui tale diritto viene a maturazione. La Corte rimettente rileva che tale norma si fonda evidentemente sul presupposto che la necessità di un intervento assistenziale pubblico (costituito, appunto, dall’erogazione dell’indennità di mobilità) debba venir meno nel momento in cui il lavoratore può fare fronte alle proprie esigenze di vita grazie al trattamento pensionistico ormai conseguito. Deve tuttavia considerarsi che il sistema mantiene una diversità in ordine all’età pensionabile per la donna, fissata a cinquantacinque anni, rispetto a quella dell’uomo, che è invece stabilita al compimento dei sessant’anni; e detta diversità è rimasta nonostante le declaratorie di illegittimità costituzionale compiute da questa Corte con le sentenze n. 137 del 1986 e n. 498 del 1988. Come risulta dalla seconda delle due pronunce, il cui contenuto è stato poi ripreso anche dalle successive sentenze n. 371 del 1989 e n. 404 del 1993, la parificazione dell’età lavorativa della donna rispetto a quella dell’uomo non ha portato con sé anche la parificazione dell’età pensionabile, che per la prima è rimasta all’età di cinquantacinque anni. Da tanto deriva la rilevanza della presente questione, perché le ricorrenti, tutte ultracinquantacinquenni, si sono viste negare dall’INPS il diritto all’indennità di mobilità in forza del conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia.
Ciò premesso, la Corte di cassazione osserva che la norma impugnata confligge con i richiamati parametri costituzionali, poiché l’esclusione delle lavoratrici ultracinquantacinquenni dai benefici collegati all’erogazione dell’indennità di mobilità si risolve in un’irrazionale discriminazione delle stesse rispetto ai lavoratori. Le prime, infatti, non possono incrementare la propria anzianità contributiva e sono, in sostanza, collocate obbligatoriamente in pensione; ne consegue una sorta di deminutio della donna lavoratrice che si sente ancora in grado di svolgere attivamente il proprio ruolo, in contrasto con i principi enunciati nelle citate sentenze costituzionali, secondo cui l’età lavorativa della donna dev’essere la stessa fissata per l’uomo.
La Corte rimettente, pertanto, chiede che la norma impugnata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.
2.— Si sono costituite in giudizio le ricorrenti del giudizio a quo, con un unico atto difensivo, facendo proprie integralmente le osservazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione.
3.— Si è costituito in giudizio anche l’INPS, osservando preliminarmente che le perplessità di natura costituzionale manifestate dalla Corte di cassazione sono state ritenute non fondate dalla medesima Corte, in diversa composizione, con la sentenza n. 3439 del 1998. In questa seconda pronuncia la Corte regolatrice, richiamando le sentenze n. 296 e n. 435 del 1994 della Corte costituzionale, ha rilevato che il diritto all’indennità di mobilità viene meno non tanto per il semplice raggiungimento dell’età pensionabile, quanto per l’effettiva maturazione dei requisiti per la titolarità della pensione. Ne consegue che l’apparente lamentata disparità di trattamento tra uomo e donna è la conseguenza del permanente favore verso la lavoratrice, cui è stato consentito di raggiungere il diritto a pensione ad un’età inferiore rispetto al lavoratore. Tale opzione legislativa risponde alla ratio dell’indennità in parola, che è quella di assicurare ai lavoratori un sostegno economico di carattere assistenziale, sostegno che non ha più ragion d’essere quando si matura il diritto ad avere un maggior trattamento economico.
Ad avviso dell’INPS, inoltre, il conseguimento del diritto alla pensione non esclude le lavoratrici dal novero dei dipendenti per i quali è stata attivata la procedura di mobilità, procedura dalla quale derivano gli effetti indicati dalla sentenza n. 413 del 1995 di questa Corte. Né il pensionamento di vecchiaia è incompatibile con la rioccupazione presso la medesima impresa o presso terzi datori di lavoro o con un lavoro autonomo, sicché la lavoratrice pensionata può acquisire un’ulteriore fonte di contribuzione.
Si conclude, pertanto, escludendo che la norma denunciata vìoli gli indicati parametri, poiché l’acquisizione del diritto a pensione, che copre tutto l’arco della vita, ben può garantire le esigenze di sostentamento che l’indennità di mobilità è chiamata a soddisfare.
Considerato in diritto
1.— La Corte di cassazione, sezione lavoro, ritiene che l’art. 7, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223, sia in contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione nella parte in cui, disponendo che l’indennità di mobilità non venga corrisposta successivamente alla data del compimento dell’età pensionabile, prevede l’anticipato allontanamento dal mondo del lavoro, con incidenza anche sull’anzianità contributiva e, quindi, sulla misura della pensione, della donna che abbia maturato il diritto alla pensione di vecchiaia. La doglianza si fonda sul presupposto che, essendo fissata l’età pensionabile per le donne a cinquantacinque anni anziché a sessanta, la norma impugnata sottrarrebbe alla donna lavoratrice il diritto all’indennità di mobilità (con tutto ciò che ne consegue) con cinque anni di anticipo rispetto all’uomo, in tal modo introducendo una discriminazione basata esclusivamente sul sesso.
A sostegno della doglianza il giudice a quo richiama le sentenze n. 137 del 1986, n. 498 del 1988, n. 371 del 1989 e n. 404 del 1993 di questa Corte, le quali hanno affermato il principio per cui “l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno d’età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima”.
2.— La questione è infondata.
Costituisce un dato pacifico, emergente dalle sentenze di questa Corte correttamente richiamate dalla Corte di cassazione, che l’età lavorativa per le donne è stata equiparata a quella dell’uomo, dovendosi intendere con tale affermazione che alle prime è riconosciuta la possibilità di optare per la prosecuzione dell’attività lavorativa fino al sessantesimo anno di età (in tal senso è anche l’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, da leggersi alla luce della sentenza n. 498 del 1988 di questa Corte). A tale parificazione, però, non corrisponde, nella vigenza del sistema pensionistico attuale, una parificazione dell’età pensionabile, che per le donne è rimasta fissata al compimento del cinquantacinquesimo anno di età.
3.— La Corte di cassazione, nel prospettare l’odierna questione, muove sostanzialmente dal presupposto che la diversità di età pensionabile tra uomo e donna non deve tradursi, come avverrebbe nel caso di specie, in un pregiudizio per le lavoratrici. Nel compiere siffatto ragionamento, tuttavia, l'ordinanza di rimessione omette altre considerazioni che giustificano l'esclusione della prospettata incostituzionalità.
Occorre innanzitutto rilevare, infatti, che la posizione di chi è stato collocato in mobilità non può essere posta sullo stesso piano rispetto a quella del lavoratore cui provvede la cassa integrazione salariale. L’erogazione della prima indennità, che rientra nella più ampia categoria dei cosiddetti ammortizzatori sociali, consiste in un trattamento di favore che la collettività riserva, in nome dei principi di solidarietà sociale contenuti nell’art. 38 Cost., a quei lavoratori che, per particolari ragioni previste dalla legge, vedono risolto il loro rapporto di lavoro; per cui chi beneficia di detto trattamento è già, in sostanza, un disoccupato. Ne deriva che il riferimento alla giurisprudenza costituzionale sulla parità di età lavorativa tra uomo e donna appare non pienamente conferente in rapporto alla situazione di coloro che sono posti in mobilità, i quali non sono lavoratori attivi.
La specialità dell’indennità in esame rende ragionevole e non confliggente con gli invocati parametri costituzionali la previsione legislativa oggi contestata, secondo cui l’indennità di mobilità è incompatibile con il trattamento pensionistico di vecchiaia (v. pure l'art. 6, comma settimo, del decreto–legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 19 luglio 1993, n. 236, che stabilisce l’incompatibilità tra assegno o pensione di invalidità ed indennità di mobilità). E' evidente, invero, che una provvidenza di carattere definitivo come la pensione di vecchiaia, destinata a coprire l’intero arco della vita residua del lavoratore, fa implicitamente venir meno le ragioni giustificatrici del trattamento previdenziale provvisorio, che cessa dopo un limitato periodo di tempo e che è finalizzato a soddisfare le esigenze minime riconosciute e protette dall’art. 38 della Costituzione. E che la pensione rappresenti, per così dire, un emolumento sostitutivo nel tempo dell’indennità di mobilità è confermato anche dall’esistenza della cosiddetta mobilità “lunga”, il cui obiettivo è proprio quello di “consentire ai lavoratori, in possesso dei requisiti di anzianità e di contribuzione dettati dalla norma, di percepire l’indennità sino alla maturazione dei trattamenti di vecchiaia, ed anche di anzianità” (sentenza n. 402 del 1996).
E’significativo, del resto, che la stessa sezione lavoro della Corte di cassazione, con la sentenza n. 3439 del 1998 richiamata dall’INPS, in presenza di una fattispecie analoga a quella odierna, non ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, non ravvisando nella norma oggi impugnata alcun vulnus degli articoli 3, 37 e 38 della Carta fondamentale.
4.— E' opportuno ancora ricordare che, secondo i rilievi già compiuti da questa Corte con le sentenze n. 296 e n. 345 del 1994, l’aver mantenuto per le donne un’età pensionabile più bassa di quella degli uomini costituisce una sorta di “privilegio” per le prime, non in contrasto con l’art. 37 della Costituzione, soggiungendosi che “la lamentata disparità di disciplina, essendo una conseguenza della differenziazione dell'età pensionabile tra uomo e donna, non appare lesiva del principio di uguaglianza“. Né può ritenersi che il pensionamento della donna ad un'età anticipata rispetto a quella dell'uomo sia incompatibile con una eventuale rioccupazione presso la stessa o altra impresa, con la relativa possibilità di cumularne in gran parte il reddito (decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, art. 10).
Non va taciuto, infine, come già precisato dalla Corte nella sentenza n. 413 del 1995, che l’erogazione dell’indennità di mobilità non è che uno degli aspetti conseguenti all’iscrizione del lavoratore nelle relative liste. In altre parole, con l’iscrizione si determinano anche altre conseguenze favorevoli per il lavoratore ormai disoccupato (v. l’art. 8, comma 1, della legge n. 223 del 1991), che permangono anche se questi non percepisca più l’indennità di mobilità in conseguenza dell’ormai raggiunta pensione. Il persistere di tali effetti positivi, estensibili alle lavoratrici, vale a confermare la legittimità costituzionale della norma impugnata, essendo venuta meno solo la ratio della provvisoria indennità di mobilità una volta maturato il diritto al migliore e permanente trattamento pensionistico.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Fernando SANTOSUOSSO, Redattore
Depositata in cancelleria il 24 luglio 2000.