Sentenza n. 137 del 1986

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SENTENZA N. 137

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente 

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 11 legge 15 luglio 1966, n. 604 in relazione agli artt. 9 e 12 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, conv. in legge 6 luglio 1939, n. 1272, così come modificato dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218, art. 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708 e art. 16 della legge 4 dicembre 1956, n. 1450, in relazione all'art. 11 legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 9 maggio 1980 dal pretore di Torino nel procedimento civile vertente tra Pesso Elsa ed altre e S.p.A. SAIPO, iscritta al n. 509 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 270 dell'anno 1980;

2) ordinanza emessa il 15 novembre 1980 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra D'Alessio Amalia e R.A.I., iscritta al n. 915 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 70 dell'anno 1981;

3) ordinanza emessa il 25 novembre 1980 dalla Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra Federici Anna e S.p.A. SIP, iscritta al n. 551 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 325 dell'anno 1981;

4) ordinanza emessa il 3 febbraio 1983 dalla Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra Vino Maria e Istituto Nazionale Credito Lavoro Italiano all'Estero, iscritta al n. 644 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 dell'anno 1984.

Visti gli atti di costituzione di D'Alessio Amalia, della SIP e di Vino Maria;

udito nell'udienza pubblica dell'8 aprile 1986 il Giudice relatore Francesco Greco;

uditi gli avv.ti Francesco Caravita di Toritto per D'Alessio Amalia, Maurizio Marazza per la SIP e Luciano Ventura per Vino Maria.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di distinti procedimenti promossi da talune lavoratrici, addette ad imprese con più di trentacinque dipendenti, per impugnare i licenziamenti loro intimati all'atto del compimento del cinquantacinquesimo anno di età e della maturazione del diritto a pensione di vecchiaia, la Corte di Cassazione (con due ordinanze del 25 novembre 1980 e del 3 febbraio 1983, R.O. nn. 551/81 e 644/83) ed i Pretori di Torino (con ordinanza del 9 maggio 1980, R.O. n. 509/80) e di Roma (con ordinanza del 15 novembre 1980, R.O. n. 915/80) hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale delle norme (art. 11 della legge n. 604/66 in relazione - a seconda delle ordinanze - agli artt. 9 e 12 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, convertito in legge 6 luglio 1939 n. 1272 e modificato dall'art. 2 legge 4 aprile 1952 n. 218, 15 del D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708 e 16 della legge 4 dicembre 1956 n. 1450) che, nei confronti della donna lavoratrice, assicurano l'applicabilità delle disposizioni limitative dei licenziamenti individuali, dettate dalla stessa legge n. 604/66, solo fino al compimento dell'età suddetta e non fino al sessantesimo anno, come per l'uomo.

2. - Tutti i giudici remittenti hanno ritenuto la rilevanza della questione in quanto, essendo stati gli impugnati licenziamenti intimati soltanto in forza dell'intervenuta cessazione del regime di stabilità, del quale le lavoratrici avevano goduto fino al compimento dell'età pensionabile, la legittimità di essi, siccome non fondata su di una giusta causa o di un giustificato motivo, verrebbe meno qualora fosse caducata la censurata normativa, che consente siffatta cessazione con anticipo rispetto a quanto stabilito per i lavoratori di sesso maschile.

3. - In punto di non manifesta infondatezza, la Corte di Cassazione, con la prima delle sopra menzionate ordinanze (R. O. n. 551/81), premesso che nella fattispecie l'età pensionabile della lavoratrice (addetta al pubblico servizio di telefonia) risulta fissata in cinquantacinque anni dall'art. 16 della legge 4 dicembre 1956 n. 1450, ha ritenuto che tale norma, in correlazione con quanto stabilito dall'art. 11 della legge n. 604/66 circa le condizioni soggettive in presenza delle quali é assicurata ai lavoratori la tutela limitativa dei licenziamenti, violi gli artt. 3, primo comma, e 37, primo comma, Cost..

Risultando, cioé prevista per le donne un'età pensionabile inferiore rispetto a quella stabilita per gli uomini (in sessanta anni dalla stessa norma sopra citata) e conseguendone, per effetto di quanto disposto dal citato art. 11 della legge n. 604/66, una minore durata del regime limitativo del potere di recesso del datore di lavoro nei confronti delle prime, si verificherebbe, in primo luogo, una irrazionale disparità di trattamento fra gli uni e le altre, riconducibile esclusivamente alla diversità del sesso e perciò in pieno contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza.

Correlativamente, poi, risulterebbe anche violato l'altro principio costituzionale (art. 37, primo comma, Cost.) che, attribuendo alla donna lavoratrice gli stessi diritti che spettano al lavoratore, ricomprende in essi anche quello concernente la durata del rapporto di lavoro.

Aggiunge inoltre la Corteremittente che siffatta disparità di trattamento conseguente al testé delineato regime legale non può essere, nel caso di specie, superata né attraverso l'applicazione di una diversa e più favorevole (per le donne) disciplina contrattuale (collettiva), nulla essendo previsto al riguardo da quest'ultima, né attraverso l'applicazione dell'art. 4 della legge 9 dicembre 1977 n. 903.

Questa norma, in effetti, sopprime la menzionata discriminazione prevedendo che le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del suddetto diritto.

Essa, però, non trova applicazione nel caso di specie in quanto la lavoratrice é stata collocata a riposo "per età ed anzianità previdenziale" con effetto dal 31 ottobre 1975 e quindi anteriormente all'entrata in vigore della citata legge n. 903/77.

Si fa, infine, rilevare con l'ordinanza in esame che le ragioni (sostanzialmente fondate sull'asserita maggiore resistenza fisica dell'uomo e quindi su di una diversa situazione soggettiva) in base alle quali questa Corte (con le sentenze n. 123 e n. 137 del 1969) ha già ritenuto la legittimità della denunciata disparità di trattamento non sembrano preclusive di un riesame della questione, alla luce sia di una linea evolutiva dell'ordinamento, nel senso della piena parificazione dei sessi, che ha trovato la sua più solenne affermazione nella ripetuta legge n. 903/77, sia di considerazioni suggerite dallo stesso caso di specie: quand'anche fosse fondatamente sostenibile la legittimità dei trattamenti differenziati, in considerazione della sola diversità di resistenze fisiche fra uomo e donna, dovrebbe nondimeno prendersi atto delle circostanze che talune mansioni (come quelle di "operatrice ordinaria telefonista", affidate alla lavoratrice in detto caso), non implicando per loro natura un impegno tale da far venire in rilievo la menzionata diversità, sembrano perfino meglio convenire alla donna che non all'uomo, con pieno ribaltamento della prospettiva tradizionale cui risultano, in parte qua, ancorate le discriminazioni in danno della prima.

4. - Considerazioni sostanzialmente simili svolge ancora la Corte di Cassazione, con la seconda delle sopra ricordate ordinanze di rimessione, nel censurare l'art. 11, comma primo, seconda ipotesi, della legge n. 604/66, nella parte in cui - con riferimento al periodo anteriore all'entrata in vigore della legge n. 903/77 - ha consentito il licenziamento ad nutum della lavoratrice in possesso, al raggiungimento del cinquantacinquesimo anno di età, dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, a norma dell'art. 9, comma primo, del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 convertito con modificazioni nella legge 6 luglio 1939 n. 1272.

Anche qui si assumono come parametri di riferimento gli artt. 3, comma primo, e 37, comma primo, Cost. e si osserva che la denunciata disparità di trattamento non é superabile né attraverso la disciplina collettiva, né in applicazione dell'art. 4 della legge n. 903/77, entrata in vigore solo successivamente al licenziamento di cui trattasi.

Si osserva in particolare che:

a) il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia, affievolendo il diritto del lavoratore alla conservazione del posto, con la possibilità del di lui licenziamento ad nutum realizza una situazione che, sebbene in sé legittima, integra tuttavia una sorta di menomazione per chi si senta ancora in grado di lavorare, per continuare così ad assicurare un più compiuto svolgimento della sua personalità;

b) ne consegue che, in linea di principio, va considerata come non legittima qualsiasi disposizione che renda detto evento più gravoso, consentendo l'anticipazione in relazione ad elementi che l'ordinamento costituzionale esclude come possibili cause di giustificazione di trattamenti discriminatori: il che, appunto, é da affermare con riguardo all'elemento della diversità del sesso, in relazione ai ricordati parametri;

c) in quest'ordine di idee si collocano quelle pronunzie (viene ricordata la sentenza della stessa Cassazione 23 dicembre 1981 n. 6771) con le quali, in caso di insorta controversia sull'applicazione di clausole della contrattazione collettiva legittimanti il collocamento a riposo delle lavoratrici al compimento di un'età inferiore rispetto ai lavoratori, si é sancita la nullità delle clausole stesse per contrasto con l'imperativo disposto dell'art. 37 Cost., per epoche anteriori all'entrata in vigore della citata legge n. 903/77;

d) a tutto ciò deve aggiungersi, per valutare pienamente l'entità dell'intervenuto mutamento del contesto economico-sociale nel quale furono rese le precedenti pronunzie di rigetto nn. 123 e 137/69 di questa Corte, la considerazione del crescente rilievo attribuito al diritto al lavoro, specie dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, e, più in particolare, dell'accesso sempre più esteso e qualificato della donna in tutti i diversi settori della vita lavorativa; dell'introduzione di tecnologie idonee a rendere meno usurante l'attività di lavoro; della realizzazione di nuove forme di servizi sociali; del riconoscimento della pari onerosità e del pari valore delle prestazioni dell'uomo e della donna anche in settori che sono notoriamente fra i più affaticanti, come quello agricolo (art. 25, comma secondo, legge 11 febbraio 1971 n. 11); ed, in sintesi, di tutta una nuova sensibilità al problema della parità, sollecitata anche dallo sviluppo delle scienze antropologiche.

5. - Anche il Pretore di Torino censura, per i medesimi fini, il combinato disposto dell'art. 11 della legge n. 604/66 e dell'art. 12 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, convertito in legge 6 luglio 1939 n. 1272, così come modificato dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952 n. 218.

Dopo aver rilevato che nel caso di specie non può trovare applicazione il citato art. 4 della legge n. 903/77, il quale postula la condizione dell'attuale pendenza del rapporto di lavoro, carente, invece, in detto caso nel quale é stato intimato il licenziamento in base alla normativa denunciata, su cui non ha retroattivamente inciso la più recente legge del 1977, il giudice a quo pone a fondamento della doglianza considerazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle fin qui esposte.

Nella prospettazione della questione si aggiungono, tuttavia, nuovi parametri di riferimento perché oltre agli artt. 3 e 37 Cost., in relazione ai quali si ribadiscono i già esaminati profili di illegittimità della censurata disparità di trattamento fra uomo e donna, si invocano anche gli artt. 4 Cost., in quanto il combinato disposto delle citate norme impedisce alla donna di realizzare nella stessa misura garantita all'uomo il diritto al lavoro; 35, secondo comma, Cost., in quanto la più limitata vita lavorativa preclude alla donna la possibilità di più elevati sviluppi della sua professionalità; 38, secondo comma, Cost., in quanto il pensionamento anticipato riduce la consistenza del trattamento previdenziale riservato alle lavoratrici.

6. - Il Pretore di Roma, infine, censura il combinato disposto dell'art. 11 della legge n. 604/66, dell'art. 9 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 e dell'art. 15 del D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708 in riferimento agli artt. 3, 4 e 37 Cost..

In particolare, per quanto concerne il richiamo all'art. 4 Cost. osserva (ricordando la sentenza di questa Corte n. 174/71) che il principio di tutela del diritto al lavoro ivi contenuto impone che, ove siano previsti casi, tempi e modi dei licenziamenti, la disciplina, per risultare conforme alla Costituzione, deve rispecchiare l'esigenza di un trattamento giuridico eguale per le situazioni eguali e, in relazione a queste, una diversificazione del trattamento stesso può ammettersi solo in presenza di giustificate ragioni.

Rileva poi che ragioni siffatte sono state identificate da questa Corte (sentt. nn. 123 e 137/69 cit.), con riferimento alla questione in esame, nel fatto che l'attitudine lavorativa, in via di massima, viene meno prima nella donna che nell'uomo e che il diverso trattamento fatto alla donna, quanto alla tutela del diritto al lavoro, intende salvaguardarne la essenziale funzione familiare, limitando nel tempo il periodo di distrazione dalle cure domestiche.

Entrambe le ragioni sembrano, però, inappaganti al giudice a quo. La prima perché necessiterebbe quanto meno di seri riscontri scientifici e comunque perché la stessa sentenza n. 174/71 di questa Corte ha sancito il principio per cui la semplice maggior probabilità di condizioni fisio-psichiche non pienamente idonee per lo svolgimento di prestazioni lavorative non può costituire sufficiente giustificazione di trattamenti differenziali in punto di cautele e garanzie circa la conservazione del posto di lavoro. La seconda perché l'art. 37 Cost., nello stabilire che le condizioni di lavoro della donna devono consentirle l'adempimento della sua essenziale funzione familiare, non può implicare contraddizione fra questo principio e quello di parità posto con la prima parte del primo comma e postula quindi interventi del legislatore idonei a rendere compatibile detta funzione con la prosecuzione dell'attività lavorativa e non già l'assicurazione dell'una mediante la negazione delle garanzie attinenti all'altra.

7. - Tutte le esposte ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state pubblicate rispettivamente con la G.U. del 25 novembre 1981 n. 325, del 18 gennaio 1984 n. 18, dell'1 ottobre 1980 n. 270 e dell'11 marzo 1981 n. 70.

8. - Nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 551/81 della Corte di Cassazione si é costituita la SIP depositando una memoria con la quale sollecita la declaratoria di infondatezza della questione.

A tal fine osserva che le considerazioni svolte in detta ordinanza non paiono idonee a superare i motivi in base ai quali analoga questione é già stata ritenuta infondata da questa Corte con le sentenze nn. 123 e 137/69.

Ed anche a voler prendere atto dell'avvenuto mutamento del contesto economico-sociale nel quale tali pronunzie furono rese e del progresso dell'ordinamento sul tema della parità, sfociato nella legge n. 903/77, non può omettersi di rilevare che rendere oggi pronunzie di opposto tenore, in riferimento ad un'epoca anteriore all'entrata in vigore di detta legge, equivarrebbe ad attribuire alla stessa una sorta di efficacia retroattiva, esclusa invece dal legislatore, come riconosce lo stesso giudice remittente, anticipando il punto di arrivo di quel progresso, ragionevolmente, invece, fissato ad una certa data secondo valutazioni discrezionali riservate al legislatore medesimo.

Circa la ragionevolezza di siffatte valutazioni non può poi omettersi di considerare che la tutela del diritto al lavoro si afferma prioritariamente nei confronti di chi sia privo di occupazione, onde ben si comprende come la circostanza dell'acquisito diritto al trattamento pensionistico possa, al fine di soddisfare tale prioritaria esigenza, essere vista come causa di affievolimento di quella tutela nei confronti di chi possa ormai godere del menzionato trattamento per far fronte alle proprie necessità di vita.

Né può trascurarsi il rilievo d'ordine generale, per cui la postergazione dell'età pensionabile che conseguirebbe alla pronunzia di incostituzionalità sollecitata alla Corte, contrasterebbe sostanzialmente con l'aspirazione, di gran lunga prevalente nel corpo sociale, all'anticipazione dell'età suddetta, come strumento di realizzazione di un più alto grado di "socialità" del trattamento pensionistico.

Nel giudizio promosso con la successiva ordinanza n. 644/83 della stessa Corte di Cassazione ha depositato, fuori termine, una memoria di costituzione la lavoratrice Vino Maria, insistendo per l'accoglimento dell'eccezione con argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle svolte con la menzionata ordinanza.

Infine, nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 915/80 del Pretore di Roma si é costituita la lavoratrice D'Alessio Amalia in Sanipoli, argomentando nel senso della fondatezza della questione specialmente alla luce del fatto che, anche in sede scientifica, risulta dimostrata l'erroneità dell'assunto di una presunta minor resistenza fisica della donna rispetto all'uomo e che il rilievo da attribuire alla funzione familiare della prima diviene sostanzialmente trascurabile intorno ad un'età di 55-60 anni, allorché ogni ruolo e necessità moderna risultano presumibilmente cessati.

Nell'imminenza dell'udienza di discussione hanno depositato memorie le lavoratrici D'Alessio Amalia in Sanipoli e Vino Maria (rispettivamente nei giudizi promossi con le ordinanze nn. 915/80 del Pretore di Roma e 644/83 della Corte di Cassazione), insistendo per la declaratoria di fondatezza della questione sottoposta all'esame di questa Corte.

La D'Alessio, nel suo atto difensivo trascrive il contenuto della precedente comparsa di costituzione e quello della stessa ordinanza di rimessione. Non aggiunge considerazioni o elementi ulteriori, ove si eccettui la notizia circa una decisione, in subiecta materia, della Corte di Giustizia CEE, nel senso auspicato dall'interessata.

La Vino ha depositato la sua memoria fuori termine.

Con essa, comunque, si sofferma, in modo particolare, nella dimostrazione dei profili di contrasto con l'art. 37 Cost., a suo avviso ravvisabili nella normativa censurata dal Pretore di Roma. Precisa, al riguardo, che quand'anche una diversità fra uomo e donna fosse giustificabile sotto il profilo della determinazione del limite di età del pensionamento, una siffatta scelta del legislatore non potrebbe legittimamente ripercuotersi sul regime del rapporto di lavoro, rispetto al quale, stante la specifica e puntuale incidenza del principio di parità posto con il citato precetto costituzionale, deve, invece, affermarsi la necessità che la differenza di sesso non implichi disparità di "condizioni di lavoro".

Considerato in diritto

1. - I quattro giudizi possono essere riuniti e, quindi, decisi con un'unica sentenza in quanto prospettano questioni sostanzialmente identiche.

2. - I Pretori di Torino (R.O. n. 509/80) e di Roma (R. O. n. 915/80), la Corte di Cassazione (R.O. nn. 551/81 e 644/83) dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali il quale, in relazione agli artt. 9 e 12 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, convertito in legge 6 luglio 1939 n. 1272 (R.O. n. 644/83), modificato dall'art. 2 legge 4 aprile 1952 n. 218 (R.O. n. 509/80); all'art. 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n.708 (R.O. n.915/80); all'art. 16 legge 4 dicembre 1956 n. 1450 (R.O. n.551/81), (tutti concernenti l'età per il conseguimento della pensione di vecchiaia, nelle aziende con più di trentacinque dipendenti, come quelle di cui trattasi), vieta il licenziamento delle lavoratrici ed assicura, quindi, ad esse la stabilità nel posto di lavoro fino al cinquantacinquesimo anno di età, in cui le stesse conseguono il diritto alla pensione di vecchiaia, anziché al sessantesimo anno di età come per i lavoratori.

3. - Tutti i giudici remittenti indicano come norme di riferimento gli artt. 3, primo comma, e 37, primo comma Cost., mentre i Pretori di Torino e Roma anche l'art. 4 Cost., ed il Pretore di Torino, inoltre, gli artt. 35 e 38 Cost..

4. - Essi, in punto di rilevanza, osservano che l'eliminazione delle norme denunciate farebbe venir meno il licenziamento intimato alle parti attrici dei giudizi de quibus solo per il raggiungimento del cinquantacinquesimo anno di età e, quindi, con il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia.

In punto di non manifesta infondatezza osservano:

a) che sussiste una irrazionale disparità di trattamento fra uomini e donne, riconducibile soltanto alla diversità di sesso; che essa non é superabile né per effetto della contrattazione collettiva, che nella specie non esiste, né per l'art. 4 della legge n. 903 del 1977 che ha eliminato la discriminazione tra uomo e donna prevedendo, per le lavoratrici, al conseguimento del cinquantacinquesimo anno di età, l'opzione a continuare il rapporto di lavoro fino al sessantesimo anno, termine fissato per i lavoratori, perché la legge, come agevolmente si desume dalla sua interpretazione anche letterale, non ha efficacia retroattiva e, quindi, non é applicabile ai licenziamenti di cui trattasi, tutti intimati in epoca anteriore alla sua entrata in vigore;

b) che la cessazione anticipata del rapporto di lavoro ha effetti negativi sul diritto della donna lavoratrice di realizzarsi compiutamente nell'esplicazione dell'attività lavorativa al pari dell'uomo; ed in ispecie sul diritto della stessa di realizzare pienamente lo svolgimento della sua personalità nonché sulla sua dignità di persona ancora in grado di lavorare; che i suddetti principi hanno ispirato la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, proprio in applicazione dell'art. 37 Cost., ha dichiarato la nullità della clausola dei contratti di lavoro che stabilivano la cessazione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in età inferiore a quella prevista per i lavoratori (55 anno anziché 60);

c) che il principio della tutela del diritto al lavoro, sancito dall'art. 4 Cost., impone la previsione dei casi, dei tempi e dei modi del licenziamento;

d) che la limitazione della vita lavorativa, oltre a precludere alla donna la possibilità di raggiungere i più elevati sviluppi della sua professionalità, riduce, in violazione dell'art. 38 Cost., la consistenza del trattamento previdenziale al quale la lavoratrice ha diritto.

5. - La questione é fondata.

Questa Corte premette che essa, siccome rilevante, va esaminata nel merito. I giudici remittenti, interpretando l'art. 4 della legge n. 903 del 1977 sulla parità uomo-donna nel rapporto di lavoro, che, secondo loro, potrebbe avere eliminato, in sostanza, la discriminazione tra lavoratrici e lavoratori in punto di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia, con i noti riflessi sulla stabilità del posto di lavoro (divieto del licenziamento ex art. 11 legge n. 604/66), consentendo alle prime, sia pure a seguito di loro opzione, di continuare a prestare lavoro fino al raggiungimento del sessantesimo anno, età stabilita anche per l'uomo agli stessi effetti, hanno escluso l'efficacia retroattiva della legge e, quindi, ne hanno ritenuto l'inapplicabilità alle fattispecie accadute prima della sua entrata in vigore, rimettendo la questione alla Corte che ne aveva sollecitato il riesame in punto di rilevanza (sent. n. 103/79 e ordd. nn. 104, 105, 106, 107, 108/79), alla stregua della nuova legge.

Questa Corte ribadisce quanto affermato con la sent. n. 123/69 e cioé che il testuale disposto dell'art. 37 Cost. attribuisce alla donna lavoratrice non solo gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa retribuzione che spetta all'uomo ma anche il diritto a che le siano assicurate condizioni di lavoro tali che le consentono l'adempimento della "essenziale" sua funzione familiare ed un'adeguata protezione, affinché possa svolgere, se del caso, in concorrenza dell'attività di lavoro, anche il compito di madre.

La norma costituisce un'applicazione, nel settore del lavoro, del disposto più generale dell'art. 3 che assicura a tutti i cittadini la pari dignità sociale e l'eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione, tra l'altro, per quello che interessa la fattispecie, di sesso; attribuisce ai cittadini il diritto al pieno sviluppo della propria personalità; e garantisce l'effettiva partecipazione dei lavoratori, senza distinzione di sesso, all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ai fini dell'interpretazione delle suddette norme, acquistano rilevanza anche l'art. 4 Cost. che sancisce, per tutti i cittadini, il diritto al lavoro con la garanzia della sua effettività; l'art. 35 Cost. che assicura la tutela del lavoro, la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori (uomini e donne) e l'art. 38 Cost. che statuisce, in ispecie per i lavoratori, il diritto ai trattamenti assistenziali e previdenziali.

Con i citati precetti costituzionali (artt. 37 e 3 Cost.) si é inteso riscattare la donna dal residuo stato di inferiorità sociale e giuridica che aveva rispetto all'uomo, facendole acquistare il diritto, costituzionalmente garantito, alla parità giuridica con l'uomo ed, in ispecie per la lavoratrice, alla parità giuridica con il lavoratore.

Questo diritto ha un contenuto ampio e complesso; ha per oggetto tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e le sue varie fasi (accesso; attuazione; cessazione), sicché quanto spetta all'uomo, in via generale, deve essere concesso anche alla donna proprio in conseguenza e per effetto della riconosciuta parità.

Ciò avviene in situazioni obiettive eguali, tanto che la stessa norma costituzionale (art. 37) stabilisce specificamente che alla lavoratrice spetta la stessa retribuzione del lavoratore a parità di lavoro, mentre ora si ritiene normalmente che non sussistano limitazioni e discriminazioni in punto di attribuzioni di mansioni.

Ma siccome in concorrenza con l'attività di lavoro la donna può svolgere anche funzioni familiari ed in ispecie funzione di madre, lo stesso costituente ha disposto che il legislatore deve riconoscerle condizioni di lavoro tali che la pongono in grado di adempiere anche le dette funzioni, insieme con l'attività di lavoro.

Nella legislazione regolatrice del rapporto di lavoro non mancano norme di protezione della donna lavoratrice-madre e che stabiliscono particolari condizioni di lavoro (per es. in ordine al tipo di lavoro, all'orario di lavoro, alle sospensioni del rapporto in periodi di gravidanza, di puerperio ecc.).

Analoghe norme di protezione sono state emanate per la tutela della prole, ed ora anche a favore del coniuge lavoratore, per la parità di diritti e di doveri derivanti dal coniugio.

Trattasi di regole relative alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa mentre, per quanto riguarda gli elementi essenziali del rapporto, quale, per esempio, per quello che interessa, la sua durata, in epoca ormai remota sono state emanate norme limitative specie in considerazione della diversa attitudine della donna rispetto all'uomo.

Il termine "attitudine" é comprensivo, tra l'altro, in particolare (sent. n. 123/69) della capacità al lavoro e della resistenza fisica. E la valutazione di siffatto elemento secondo norme all'epoca vigenti, cioé nel 1939, nel 1947, nel 1952, anni di emanazione delle normative impugnate, é stata ritenuta da questa Corte (sentt. nn. 123 e 137/69) conforme ai precetti costituzionali allora invocati.

Non può, però, ritenersi che l'attitudine nel campo del lavoro abbia carattere di staticità tanto che le valutazioni che la riguardano debbano rimanere nel tempo sempre identiche e fisse. Invece, essa ha un valore dinamico e muta nel tempo, specie con l'evolversi delle condizioni socio-economiche e con l'avvento di nuove tecnologie.

Nella nostra società sono avvenuti profondi mutamenti a seguito e per effetto di radicali riforme.

Anzitutto il diritto del lavoro ed il diritto al lavoro hanno assunto nuova e maggiore rilevanza proprio in conformità dei precetti costituzionali di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost..

A tanto ha contribuito decisamente l'emanazione dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) con il ruolo assunto dal sindacato nelle fabbriche, con l'affidamento di più specifici compiti alla contrattazione collettiva ed alla contrattazione aziendale, con funzione integratrice della legge a protezione del lavoratore, in ispecie per l'ambiente del lavoro, cioé del luogo in cui esso si svolge perché egli potesse conseguire una maggiore sicurezza (per es. la previsione di accorgimenti per l'eliminazione della nocività del lavoro; di disagi vari; mense e locali di svolgimento anche dell'attività sindacale, ecc.).

Inoltre, la legge sulla tutela della maternità (legge 30 dicembre 1971 n. 1204) ha portato, tra l'altro, il potenziamento dei servizi sociali (per es. asili nido e locali all'interno della fabbrica per la cura dei bambini delle lavoratrici-madri ecc.); le leggi di riforma della scuola hanno potenziato la scuola materna attribuendole un ruolo più spiccatamente sociale (legge 18 marzo 1968 n. 444; d.P.R. 31 maggio 1974 n. 420; legge n. 349/74; D.L. n. 13/76 ecc.). Si é sviluppata ed in concreto attuata con vari provvedimenti legislativi, la nuova politica di intensificazione dei servizi sociali più rispondenti ai nuovi bisogni della diversa vita familiare ed alle esigenze di un nuovo rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero.

La legge di riforma del diritto di famiglia (legge 19 giugno 1975 n. 151) ha, tra l'altro, sancito la parità tra coniugi.

Si sono disposte modifiche ai trattamenti previdenziali, pensionistici ed infortunistici per un'attuazione più vigorosa del principio costituzionale della sicurezza sociale.

Si é attuata una più penetrante e diffusa tutela della salute in adempimento del precetto costituzionale (art. 32 Cost.) mediante l'apprestamento di nuove strutture sanitarie anche in fabbrica, con un più spiccato ruolo del medico del lavoro, con più frequenti controlli medico-sanitari e l'intensificazione dell'assistenza anche in fabbrica con un ruolo specifico della medicina preventiva, mentre, in via generale, l'introduzione e l'utilizzo di nuovi farmaci e la diffusione di più intense cure mediche, previ controlli a mezzo di apparecchiature anche sofisticate, hanno realizzato una elevazione della durata della vita, un'elevazione dell'età media ed una minore mortalità; hanno allontanato nel tempo l'invecchiamento ed hanno determinato per il lavoratore una maggiore resistenza fisica al lavoro.

Ma soprattutto l'avvento di nuove tecnologie, la maggiore diffusione ed utilizzazione delle macchine o in aiuto o addirittura in sostituzione del fattore umano in tutti i settori della produzione (industria, agricoltura e commercio) hanno prodotto radicali cambiamenti dell'organizzazione e delle condizioni di lavoro.

A parte la richiesta di una maggiore professionalità, di diverse modalità del collocamento del lavoratore e di una rinnovata struttura del rapporto di lavoro, specie in ordine all'orario di lavoro ed al tipo di prestazione per una maggiore sicurezza fisica e sociale, quello che più rileva é che il lavoro, in via generale, é divenuto meno usurante oltre che più sicuro.

E di pari passo si é verificata un'evoluzione della giurisprudenza del lavoro in accentuazione dei principi di garantismo e di parità specie tra coniugi, della vedova rispetto al vedovo in materia pensionistica ed, in genere, per i trattamenti previdenziali (per es. assegni familiari, pensioni e trattamenti analoghi ecc.).

Va poi ricordato che anche l'ordinamento comunitario é venuto evolvendosi nel senso di una sempre più incisiva applicazione del principio di parità fra uomo e donna, in particolare con l'emanazione delle direttive consiliari 75/117 (in G.U.C.E. del 19 febbraio 1975) 76/207 (in G.U.C.E. del 14 febbraio 1976), interpretata, quest'ultima, come idonea ad impedire la possibilità di licenziamento della donna, per la sola ragione del compimento dell'età pensionabile, eventualmente fissata con riferimento ad un limite meno elevato di quello stabilito per l'uomo.

Questa evoluzione, per quanto riguarda la donna lavoratrice, ha inciso profondamente non solo sulle condizioni di lavoro che la riguardano in modo particolare ma anche sull'attitudine lavorativa.

La stessa funzione familiare della donna lavoratrice e la stessa funzione di madre hanno ricevuto diversa possibilità di attuazione rendendo maggiormente possibile la compatibilità del loro esercizio e della loro attuazione con l'attività di lavoro, sicché é stata più agevole la distrazione dalle cure familiari e più lungo é diventato il tempo da dedicare al lavoro.

Tanto é vero che anche legislativamente si é potuto sancire la parità uomo-donna nel rapporto di lavoro (legge 9 dicembre 1977, n. 903).

Ma la gradualità dell'evoluzione della situazione, verificatasi specie nel periodo successivo alla precedente sentenza (n. 123 del 1969) e più prossimo alla nuova disciplina legislativa, fa ritenere che siano venute meno quelle ragioni e condizioni che prima potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all'uomo. In particolare rispetto all'età del conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, rispetto alla disciplina del licenziamento fondata su detto evento.

E tanto in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., mentre va dichiarato assorbito il profilo concernente l'art. 38, secondo comma, Cost. e non pertinente il richiamo all'art. 12 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, individuandosi la norma di riferimento, in tema di età per il conseguimento del diritto a pensione, nell'art. 9 dello stesso r.d.l. n. 636/39.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi (R.O. nn. 509 e 915/80, 551/81 e 644/83), dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604, degli artt. 9 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, conv. in legge 6 luglio 1939 n. 1272, modificato dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952 n. 218, 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, 16 legge 4 dicembre 1956 n. 1450, nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d'età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l'uomo.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 1986.

 

Livio PALADIN - Antonio LAPERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 18 giugno 1986.