SENTENZA N. 186
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 616 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 22 gennaio 1999 dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto da Baron Leondina, iscritto al n. 296 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1999.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il Giudice relatore Franco Bile.
Ritenuto in fatto
1. - La Corte di cassazione, VI sezione penale, con ordinanza del 22 gennaio 1999, ha proposto d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 616 del codice di procedura penale, nella parte in cui (in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione) prevede la condanna della parte privata ricorrente a pagare le spese del procedimento nonché una somma a favore della cassa delle ammende, anche in assenza di colpa ad essa ascrivibile nell’esercizio del diritto di impugnazione.
La questione è stata sollevata in relazione ad un ricorso proposto dalla persona offesa dal reato personalmente e non mediante il ministero di un difensore iscritto nell’apposito albo, come l’art. 613 cod.proc.pen. esige a pena di inammissibilità.
L’ordinanza - premesso che le sezioni unite considerano inammissibile il ricorso proposto personalmente dalla persona offesa dal reato e che la dichiarazione d’inammissibilità dovrebbe comportare la condanna del ricorrente alle spese ed alla sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. - ritiene che tale norma violi gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Il giudice a quo richiama le sentenze con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che, con rigorosa applicazione del principio di causalità, prevedeva la condanna del querelante al pagamento delle spese nel caso di proscioglimento dell’imputato, anche in assenza di qualsiasi colpa nell’esercizio del diritto di querela. E ritiene che le medesime ragioni dovrebbero indurre alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 616 cod.proc.pen., perché la previsione della condanna della parte privata ricorrente alle spese e alla sanzione pecuniaria, ogni volta che il ricorso sia dichiarato inammissibile, violerebbe l’art. 24 Cost., in quanto tale condanna deve essere pronunziata <<anche se la proposizione del ricorso per cassazione non sia in alcun modo ascrivibile a colpa del ricorrente>>, e l’art. 3 Cost., <<in quanto sottopone alla medesima disciplina la situazione del ricorrente temerario, superficiale o avventato e quella del ricorrente incolpevole>>.
2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto tramite l’Avvocatura dello Stato ed ha eccepito l’inammissibilità della questione, in quanto nella specie il ricorrente dovrebbe essere considerato in colpa per avere accettato il rischio che l’orientamento da lui condiviso potesse venire disatteso. Nel merito ha concluso per l’infondatezza.
Considerato in diritto1. - La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. - dell’art. 616 cod. proc.pen. nella parte in cui (in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione) prevede la condanna della parte privata ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende.
2. - Nella motivazione dell’ordinanza il giudice a quo afferma di dover applicare l’art. 616 cod.proc.pen. in ordine tanto alle spese del procedimento quanto alla somma a favore della cassa delle ammende. Nel dispositivo solleva invece la questione con esclusivo riferimento al provvedimento sulle spese.L’interpretazione dell’ordinanza attraverso la coordinazione del dispositivo con la motivazione (cfr. sentenze n. 14 del 1977, n. 17 del 1986 e n. 324 del 1993) consente peraltro di individuare l’oggetto della questione, nel senso che essa concerne la norma impugnata sotto entrambi i profili.
3. - Dal testo dell’ordinanza risulta che la questione è proposta con esclusivo riferimento alla porzione della norma relativa alle conseguenze della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla parte privata, mentre non viene investita la disciplina degli effetti della pronunzia di rigetto.
4. - L’art. 616 cod.proc.pen. è sospettato di illegittimità costituzionale perché la previsione della condanna della parte privata ricorrente alle spese ed alla sanzione pecuniaria, ogni volta che il ricorso sia dichiarato inammissibile, violerebbe l’art. 24 Cost., in quanto tale condanna deve essere pronunziata <<anche se la proposizione del ricorso per cassazione non sia in alcun modo ascrivibile a colpa del ricorrente>>, e l’art. 3 Cost., <<in quanto sottopone alla medesima disciplina la situazione del ricorrente temerario, superficiale o avventato e quella del ricorrente incolpevole>>.
5. - La questione di legittimità costituzionale deve essere esaminata distinguendo la condanna al pagamento delle spese da quella al pagamento in favore della cassa delle ammende.
Sotto il primo profilo essa è infondata.
Il contrasto della norma impugnata con gli artt. 3 e 24 Cost. è prospettato dal giudice a quo mediante il richiamo al tertium comparationis costituito dalla disciplina, risultante da talune sentenze di questa Corte, dell’obbligazione del querelante di sopportare l’onere delle spese anticipate dallo Stato, nel caso di mancata condanna dell’imputato.
La Corte infatti ha più volte affermato (sentenze n. 45 del 1997, n. 134 del 1993 e, in epoca risalente, n. 30 del 1964) che la regola generale in materia di spese processuali penali - secondo cui il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l'attività del giudice - conosce varie eccezioni; e, fra queste, l'esenzione del querelante <<soccombente>> dal pagamento delle spese nei casi - <<retti da una ratio unitaria>> - nei quali la mancata condanna dell'imputato derivi da circostanze non riconducibili al querelante stesso, cui nessuna colpa possa essere ascritta. Ricorrendo tali estremi, infatti, contrasterebbe con il principio di eguaglianza la norma che egualmente imponesse la condanna del querelante alle spese processuali (n. 165 del 1974, n. 52 del 1975, n. 29 del 1992, n. 180 del 1993, n. 423 del 1993).
Il giudice a quo ritiene che le medesime ragioni dovrebbero indurre alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 616 cod. proc.pen., che prevede la condanna della parte privata ricorrente alle spese <<anche se la proposizione del ricorso non sia in alcun modo ascrivibile a colpa del ricorrente>>.
6. - I limiti della responsabilità del querelante per le spese dei procedimenti relativi a reati perseguibili a querela, quali risultano dai ricordati interventi di questa Corte, non possono - nella specie - fungere utilmente da tertium comparationis.
Essi mirano a bilanciare le contrapposte esigenze di prevenire e sanzionare la presentazione di denunce temerarie o del tutto prive di fondamento e nel contempo di non scoraggiare l'esercizio del diritto di querela. La prima esigenza è tutelata dalla responsabilità del querelante per le spese in caso di mancata condanna del querelato; l’altra dall’esclusione di tale responsabilità se la mancata condanna non sia riconducibile a colpa del querelante.
In realtà - ove alla querela segua un processo che non si concluda con la condanna dell’imputato - siffatto esito può ben dipendere da circostanze dal querelante non scrutinabili, e perciò inidonee a fondare una valutazione del suo comportamento in termini di colpa.
7. - Su un diverso piano si colloca l’art. 616, del codice di procedura penale.
La norma - in applicazione di un principio comune alla materia delle impugnazioni (artt. 592, 637 cod.proc.pen.) - pone le spese del giudizio di cassazione, se il ricorso è dichiarato inammissibile, a carico della parte privata ricorrente, in quanto essa ha dato avvio al giudizio di legittimità e ha reso necessario disciplinare la distribuzione del relativo onere economico.
Questa regola - operando in funzione del risultato del processo - ragionevolmente prescinde dalle ragioni concrete che a quell’esito abbiano condotto, e in particolare dall’atteggiamento soggettivo del soccombente.
Pertanto - trattandosi di situazioni differenziate - il tertium comparationis assunto dal giudice a quo è incongruo e le censure di violazione dell’art.3 Cost., collegate alla mancata previsione nella norma in esame di una disciplina su quel tertium modulata, sono infondate.
8. - E’ invece fondata - nei termini di seguito indicati - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 616 cod.proc. pen. proposta, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che, in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione, la parte privata ricorrente è condannata al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende.
Tale condanna ha funzione sanzionatoria, comportando l’imposizione di un esborso non commisurato in alcun modo al costo del procedimento. Essa è stata in passato riconosciuta da questa Corte di per sé non in contrasto con l'assolutezza del diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall'art.24 Cost. (sentenza n. 69 del 1964, pronunziata a proposito dell’art. 549 cod.proc.pen. abrogato, in gran parte corrispondente all’art. 616 del codice vigente).
Il giudice a quo sospetta che la norma violi l’art. 3 Cost. in quanto collega con rigoroso automatismo alla pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione l’irrogazione della sanzione pecuniaria alla parte privata ricorrente, senza distinguere in ordine alle ragioni dell’inammissibilità, ed in particolare senza prevedere che la condanna possa essere omessa ove la medesima inammissibilità non sia ascrivibile a colpa del ricorrente.
Orbene, la natura sanzionatoria della condanna in esame esige la valutazione della condotta del destinatario della sanzione, anche in relazione all'elemento soggettivo.
E’ pertanto incompatibile con il principio di eguaglianza una norma che tratti allo stesso modo la posizione di chi abbia proposto il ricorso per cassazione, poi dichiarato inammissibile, ragionevolmente fidando nell’ammissibilità e quella del ricorrente che invece non versi in tale situazione, al punto da essere definito dall’ordinanza <<temerario>>.
In questa prospettiva la norma denunciata - in quanto dà rilievo all’errore prescindendo dalla sua causa e quindi dall’aspetto soggettivo della sua determinazione - si risolve nell’irragionevole assoggettamento alla stessa disciplina di situazioni che identità di trattamento non meritano.
Possono infatti verificarsi casi nei quali l’errore tecnico causativo dell’inammissibilità del ricorso non sia percepibile al momento della sua proposizione, come nell’ipotesi di un imprevedibile mutamento di giurisprudenza che induca la Corte di cassazione a ritenere inammissibili ricorsi per il passato pacificamente non considerati tali, sulla base di una variazione del criterio di apprezzamento della causa di inammissibilità.
In tali evenienze estreme la rigida applicazione della sanzione secondo il criterio della soccombenza non è conforme al principio posto dall’art. 3 della Costituzione.
Né ovviamente la lesione del principio di eguaglianza può considerarsi esclusa dal potere del giudice di graduare l’importo della sanzione pecuniaria. Ed anzi proprio la previsione da parte della norma di un livello minimo e di uno massimo della somma da pagare - che dovrebbe raccordare la misura della sanzione al concreto livello di colpa del ricorrente - implicitamente conferma come sia irragionevole l’omessa previsione dell’ipotesi in cui un profilo di colpa manchi del tutto.
per questi motivi