SENTENZA N. 319
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all’articolo 10 dello stesso regio decreto; dell’articolo 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; degli articoli 10 e 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con ordinanze emesse il 16 luglio 1999 dal Tribunale di Palermo, il 13 maggio 1999 dal Tribunale di Milano e il 5 ottobre 1999 dal Tribunale di Bologna rispettivamente iscritte al n. 724 del registro ordinanze 1999 ed ai nn. 87 e 25 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2, 6 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visti gli atti di costituzione di Dalle Carbonare Sante ed altri e del Fallimento TREVITEX s.p.a. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2000 e nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il Giudice relatore Annibale Marini;
uditi gli avvocati Francesco Barilà per Dalle Carbonare Sante ed altri, Gian Pietro Rausse e Pietro Guerra per il fallimento TREVITEX s.p.a. ed altri e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di Palermo, con ordinanza emessa il 16 luglio 1999, ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 10 dello stesso regio decreto, nella parte in cui prevedono che la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili che abbiano perduto tale qualità per effetto della trasformazione della società, pur dopo che sia trascorso un anno dalla iscrizione della modifica nel registro delle imprese.
Premessa la rilevanza della questione - avendo il giudizio a quo ad oggetto l’opposizione ad una sentenza dichiarativa di fallimento in estensione pronunciata dal Tribunale di Palermo nei confronti di un socio che, a seguito della trasformazione del tipo sociale, non era più da oltre un anno illimitatamente responsabile - il rimettente rileva che il fallimento è stato pronunciato in conformità al principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la trasformazione di una società non comporta l’estinzione di un soggetto e la creazione di un altro, bensì la semplice modifica della struttura e dell’organizzazione societaria che lascia immutata l’identità soggettiva dell’ente ed i rapporti giuridici ad esso facenti capo e che mantiene inalterata, ad ogni effetto, per le obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione, la responsabilità illimitata dei soci derivante dal precedente assetto giuridico.
Ed il permanere di siffatta responsabilità comporterebbe, di conseguenza, secondo la giurisprudenza prevalente, nel caso di fallimento della società trasformata, il fallimento dei soci già illimitatamente responsabili ai sensi dell’art. 147 della legge fallimentare.
Osserva tuttavia il giudice a quo che con sentenza n. 66 del 1999 questa Corte ha affermato - in contrasto con l’orientamento fino ad allora consolidato della giurisprudenza di legittimità - che gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, secondo i quali il fallimento dell’imprenditore individuale può essere dichiarato solamente entro l’anno dal decesso e dalla cessazione dell’attività di impresa, esprimono un principio di carattere generale e vanno perciò interpretati nel senso che anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o cessati può essere dichiarato, in conseguenza del fallimento della società, solamente entro il termine di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale.
Il principio affermato nella sentenza non potrebbe tuttavia - ad avviso del rimettente - essere direttamente applicato in via interpretativa a fattispecie diverse da quelle specificamente prese in esame nella sentenza stessa.
Residuerebbe pertanto una ingiustificata disparità di trattamento tra l’imprenditore individuale o il socio illimitatamente responsabile cessato o defunto, la cui dichiarazione di fallimento può avvenire solamente entro il termine previsto dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, ed il socio di società trasformata che, pur avendo perduto la responsabilità illimitata per effetto della trasformazione della società, resta tuttavia soggetto al fallimento senza alcun limite di tempo.
1.1.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità e infondatezza della questione.
Ad avviso dell’Avvocatura la questione sollevata dal Tribunale di Palermo sarebbe infatti identica a quelle già dichiarate manifestamente infondate da questa Corte con l’ordinanza n. 919 del 1988 e con la sentenza n. 66 del 1999.
2.- Il Tribunale di Milano, con ordinanza emessa il 13 maggio 1999, ha sollevato, senza esplicito riferimento ad alcun parametro, questione di legittimità costituzionale della stessa norma «nella parte in cui non contiene la precisazione di un termine ragionevole entro il quale può essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili dopo che essi hanno perso tale qualità a seguito della trasformazione del tipo sociale».
Illustrata la rilevanza della questione - avendo il giudizio a quo ad oggetto, anche in tal caso, l’opposizione al fallimento pronunciato nei confronti di soci già illimitatamente responsabili dopo il decorso dell’anno dalla iscrizione della trasformazione del tipo sociale nel registro delle imprese e dalla dichiarazione di fallimento della società - il rimettente muove a sua volta dalla sentenza n. 66 del 1999 ed osserva che le indubbie differenze esistenti tra l’ipotesi del recesso del socio e quella della trasformazione della società non sembrano tali da giustificare una disparità di trattamento nei due casi quanto alla soggezione al fallimento dei soci.
Rileva, tuttavia, che il diritto vivente esclude che l’art. 10 della legge fallimentare possa essere applicato anche all’imprenditore collettivo e tale orientamento giurisprudenziale sarebbe stato perentoriamente avallato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 180 del 1998, escludendo profili di incostituzionalità nella disparità di trattamento che si viene in tal modo a creare tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo.
Se dunque l’art. 10 della legge fallimentare non si applica alle società, dovrebbe conseguentemente escludersi - ad avviso del rimettente - che esso possa essere assunto a principio generale riguardo ai soci, il cui fallimento discende dal fallimento della società. Tanto più che l’art. 147, secondo comma, della legge fallimentare prevede espressamente l’ipotesi che la posizione di socio illimitatamente responsabile emerga dopo la dichiarazione di fallimento della società, senza porre alcun limite di tempo al sopravvenire della pronuncia estensiva.
La mancata previsione di un ragionevole limite temporale per l’estensione del fallimento al socio, con riferimento sia al momento della perdita della responsabilità illimitata sia al momento della dichiarazione di fallimento della società, suscita tuttavia, secondo il rimettente, dubbi di costituzionalità, in quanto lascia indefinitamente aperta l’assoggettabilità del socio alla procedura concorsuale, dando luogo ad una sperequazione inaccettabile rispetto alla posizione dell’imprenditore individuale e ledendo l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche.
La soluzione interpretativa non sarebbe d’altro canto praticabile, sia per le già evidenziate perplessità riguardo alla generalizzata applicazione dell’art. 10 al fallimento dei soci, sia e soprattutto perché il termine di un anno, previsto dalla norma citata, risulterebbe - ad avviso dello stesso rimettente - irragionevolmente breve se applicato al meccanismo estensivo del fallimento ai soci che hanno perso la responsabilità illimitata in epoca anteriore alla dichiarazione del fallimento sociale e determinerebbe, nel sistema, disarmonie non tollerabili alla luce degli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione.
2.1.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, mediante atto di contenuto analogo al precedente.
2.2.- Si sono costituiti in giudizio Sante, Sebastiano e Pietro Dalle Carbonare, attori nel giudizio a quo, concludendo per la declaratoria di infondatezza della questione, in quanto - ad avviso delle predette parti private - dovrebbe nella specie farsi diretta applicazione dei principi enunciati nella sentenza n. 66 del 1999.
2.3.- Si sono costituiti altresì in giudizio i fallimenti Trevitex S.p.A. in liquidazione, Dalle Carbonare Sante, Dalle Carbonare Pietro Aldo e Dalle Carbonare Sebastiano, convenuti nel giudizio di opposizione al fallimento.
Ad avviso delle predette parti private tra le vicende della morte o della perdita della qualità di socio, da un lato, e quella della trasformazione della società, dall’altro, sussistono, diversamente da quanto il Tribunale rimettente assume, differenze tali da giustificare la diversità di disciplina quanto all’assoggettabilità al fallimento. Nel primo caso, infatti, si tratta di eventi che attengono alla sfera personale del socio e determinano il venir meno della stessa appartenenza alla compagine sociale; nel secondo caso l’evento incide sulla vita della società e produce, quale conseguenza, la mera modifica dello statuto del partecipante, il quale mantiene, comunque, la qualità di socio.
Le esigenze di equità che sembrano essere, tra le altre, alla base della sentenza n. 66 del 1999 non ricorrerebbero, poi, nella fattispecie della trasformazione sociale, in quanto la permanenza dei soci, già illimitatamente responsabili, nella compagine sociale pur diversamente strutturata varrebbe ad escludere il rischio che l’assoggettamento alla procedura colpisca, come avviene nel caso di fallimento dell’ex socio, un soggetto ormai estraneo da anni alla vita della società.
Nemmeno ricorrerebbero, nella ipotesi di trasformazione, le esigenze di certezza dei rapporti giuridici alle quali pure fa riferimento la sentenza in questione, proprio in quanto farebbe difetto, in questo caso, un evento che tronchi la relazione tra il socio e la società, rendendo opportuna la fissazione di un termine oltre il quale non sia più possibile provocare il fallimento dell’ex socio illimitatamente responsabile.
Ulteriore significativa diversità tra le due ipotesi sarebbe poi rappresentata dal fatto che, nel caso di trasformazione della società, il persistere della responsabilità illimitata dei soci non è automatico - come nel caso di cessazione del rapporto sociale - ma subordinato, ai sensi dell’art. 2499 cod. civ., alla mancata liberazione da parte dei creditori, alla quale dovrebbe dunque attribuirsi il valore di una manifestazione di volontà diretta a tener ferma la fallibilità dei soci senza limiti temporali.
Le parti private osservano quindi che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel senso di ritenere l’art. 10 della legge fallimentare inapplicabile all’ipotesi di fallimento dei soci già illimitatamente responsabili di una società di persone trasformata in società di capitali e che la tesi favorevole all’estensione è assai contrastata in dottrina.
Rilevano inoltre che con l’ordinanza n. 180 del 1998 la stessa Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità dell’art. 10 della legge fallimentare nella parte in cui, secondo l’interpretazione prevalente, esige la liquidazione di ogni rapporto passivo per affermare la cessazione dell’impresa collettiva ed esentarla dal fallimento. Tale pronuncia, ad avviso delle medesime parti private, non si pone in contrasto con la successiva sentenza n. 66 del 1999 proprio per la netta distinzione che deve operarsi tra l’ipotesi di cessazione del rapporto sociale relativamente al socio illimitatamente responsabile di società di persone, avente in quanto tale la veste di coimprenditore, e l’ipotesi di cessazione dell’imprenditore collettivo.
Concludono quindi le parti private, in via principale, per una declaratoria di infondatezza della questione che escluda altresì l’applicabilità al caso di specie del principio affermato nella sentenza n. 66 del 1999; in via subordinata, chiedono che la Corte, con sentenza interpretativa, accerti che il termine di assoggettamento a fallimento per ripercussione non possa incominciare a decorrere prima della dichiarazione di fallimento principale e comunque venga interrotto dal deposito della domanda di estensione del fallimento al socio già illimitatamente responsabile.
3.- Il Tribunale di Bologna, con ordinanza emessa il 5 ottobre 1999, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare, «in quanto tali norme impongono il fallimento delle società di persone e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese - a fronte del termine di preclusione annuale viceversa previsto per l’imprenditore individuale che abbia cessato la propria attività d’impresa».
Premessa la rilevanza della questione - avendo il giudizio a quo ad oggetto l’opposizione al fallimento dichiarato, nei confronti di soci illimitatamente responsabili di società di persone, oltre un anno dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese - il giudice rimettente osserva che, secondo la giurisprudenza ormai unanime, né la cessazione dell’esercizio dell’impresa da parte della società né la cancellazione della società stessa dal registro delle imprese assumono rilevanza al fine della decorrenza del termine di cui all’art. 10 della legge fallimentare, essendo a tal fine necessaria la conclusione effettiva della fase liquidatoria, ravvisabile soltanto nell’esaurimento di tutti i rapporti pendenti.
Nella recente sentenza n. 66 del 1999 la Corte costituzionale ha peraltro affermato, con riguardo ai soci cessati o defunti, che l’ammissibilità del loro fallimento «dev’essere tuttavia circoscritta entro un rigoroso limite temporale, proprio al fine di non pregiudicare ... l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche» e che tale limite, non risultando fissato dall’art. 147, «va rinvenuto all’interno del sistema della stessa legge fallimentare e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 e 11, che in considerazione della sua ratio assume una portata generale».
Siffatta portata generale dell’art. 10 della legge fallimentare sarebbe tuttavia vanificata - secondo il Tribunale rimettente - dalla già ricordata interpretazione giurisprudenziale della norma, secondo la quale l’imprenditore collettivo si estinguerebbe soltanto con il pagamento dell’ultimo debito sociale, allorché ovviamente non può esservi più alcuna insolvenza. Con la conseguenza di determinare una illegittima disparità di trattamento tra due categorie di soggetti, i soci di società di persone già cancellate e gli imprenditori individuali non più operanti, che viceversa l’ordinamento mostra di considerare in modo unitario.
L’assoluta prevalenza dell’orientamento giurisprudenziale sottoposto a critica non consentirebbe tuttavia - ad avviso ancora del rimettente - una mera interpretazione adeguatrice della norma da parte dello stesso giudicante ed imporrebbe quindi l’intervento del giudice delle leggi.
3.1.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, mediante atto di contenuto analogo ai precedenti.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Palermo solleva, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 10 dello stesso regio decreto, nella parte in cui detta norma - per diritto vivente - prevede, in caso di fallimento di società, anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili pure se abbiano perso tale qualità, per trasformazione del tipo sociale, da oltre un anno.
Il Tribunale di Milano solleva invece questione di legittimità costituzionale della stessa norma, sempre con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., non esplicitamente evocato ma desumibile chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza, nella parte in cui non contiene la fissazione di un termine ragionevole - che si assume comunque dover essere diverso dal termine annuale previsto dall’art. 10 dello stesso regio decreto - entro il quale possa essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, dopo che essi abbiano perso tale qualità a seguito di trasformazione societaria.
Il Tribunale di Bologna, infine, solleva, in riferimento ancora all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare in quanto tali norme impongono - sempre secondo il diritto vivente - la declaratoria di fallimento delle società e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, a fronte del termine di preclusione annuale fissato dall’art. 10 per l’imprenditore individuale che abbia cessato l’attività di impresa.
I tre giudizi, comportando la risoluzione di questioni sostanzialmente identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2.- Le ordinanze di rimessione muovono tutte dalla pronuncia con cui questa Corte, nel dichiarare non fondata una analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 della legge fallimentare, ha affermato che «la disposizione denunciata va interpretata nel senso che, a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l’appartenenza alla compagine sociale può essere dichiarato solo entro il termine, fissato dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale» (sentenza n. 66 del 1999).
I rimettenti escludono, per motivi diversi, che l’interpretazione adeguatrice sopra riferita sia direttamente applicabile alle diverse fattispecie sottoposte al loro giudizio. Rilevano peraltro - sotto profili non del tutto coincidenti - come la previsione di un termine per la declaratoria di fallimento dell’imprenditore individuale e dell’ex socio (secondo l’interpretazione contenuta nella sentenza n. 66 del 1999) e la mancanza invece di qualsiasi termine per la declaratoria di fallimento delle società commerciali e dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo la perdita della responsabilità illimitata di questi ultimi a seguito della trasformazione del tipo sociale, comporti una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni omogenee, così risultando lesiva dell’art. 3 Cost.
3.- Nella sentenza n. 66 del 1999 questa Corte ha osservato che, così come l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore cessato o defunto postula, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento - limite fissato negli artt. 10 e 11 della legge fallimentare in un anno dalla cessazione dell’impresa (o dalla morte dell’imprenditore)-, analogamente ed a maggior ragione deve essere circoscritta entro un prestabilito limite temporale l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio, la cui sottoposizione alla procedura fallimentare prescinde del tutto dalla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 della legge fallimentare, che vanno accertati solo nei confronti della società.
In coerenza all’affermazione, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le leggi «in linea di principio non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne) ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (così, ex plurimis, sentenze n. 200 del 1999 e n. 65 del 1999) si è individuato, in via interpretativa, il limite temporale all’ammissibilità del fallimento dell’ex socio all’interno della stessa legge fallimentare, e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 ed 11, attribuendo quindi ad essa, in considerazione della sua ratio, una portata generale e non limitata al solo imprenditore individuale.
La giurisprudenza dei giudici ordinari, successiva alla citata sentenza di questa Corte, ha tuttavia mostrato un’evidente contrarietà ad abbandonare l’interpretazione restrittiva da lungo tempo consolidata in sede di legittimità. Gli stessi rimettenti - come si è detto - muovono dal presupposto che l’art. 10 della legge fallimentare non sia suscettibile di diretta applicazione al di fuori della fattispecie espressamente esaminata nella sentenza n. 66, con ciò stesso implicitamente negando il carattere generale della norma, affermato invece nella predetta sentenza.
Da qui l’opportunità - onde evitare il perpetuarsi di una grave incertezza interpretativa - che l’esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, per molti versi connesse a quelle affrontate nella richiamata sentenza n. 66 del 1999, venga questa volta condotto sulla base della diversa interpretazione della denunciata normativa, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità ed assunta dai rimettenti quale diritto vivente.
4.- Alla luce di tale premessa, è da ritenersi innanzitutto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge fallimentare, sollevata dal Tribunale di Bologna.
Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre - appunto secondo il diritto vivente - non già dalla cessazione dell’attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire.
E’ evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non può nemmeno ipotizzarsi l’esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento.
Va chiarito, a tale proposito, che rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l’impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento dev’essere dichiarato dopo la cessazione dell’impresa, così come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi. La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile.
Va perciò dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge fallimentare - risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all’art. 147 - nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l’impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.
5.- Parimenti fondate, nei limiti di seguito precisati, sono le questioni sollevate dai Tribunali di Palermo e Milano.
Questa Corte, come si è detto, ha affermato nella sentenza n. 66 del 1999 che il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche - in considerazione delle conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono, non solo per chi ne è colpito ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto - impone che l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio sia ristretta entro un congruo limite temporale, così come previsto, in ragione di una identica esigenza, dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare per il fallimento dell’imprenditore deceduto o che abbia cessato l’attività di impresa.
Tale affermazione va ora ulteriormente precisata - con riguardo all’ipotesi, cui le questioni si riferiscono, di fallimento del socio che abbia perso la responsabilità illimitata a séguito di trasformazione del tipo sociale - nel senso che deve ritenersi la necessità di un limite temporale alla assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale, allo stesso modo e per le medesime ragioni già illustrate nella sentenza n. 66 del 1999, in tutti i casi di perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata.
Poiché, secondo l’interpretazione prospettata dai rimettenti, la norma di cui agli artt. 10 e 11 della legge fallimentare non può intendersi riferita - come si è visto - anche al fallimento in estensione del socio, ne consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui prevede che il fallimento della società produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo che sia decorso un anno dal momento in cui costoro abbiano perso per qualsiasi causa la responsabilità illimitata.
Va precisato, ancora una volta, che ben potrebbe il legislatore - nel bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche - fissare, per la assoggettabilità al fallimento dei soci illimitatamente responsabili, un termine diverso da quello annuale previsto dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare. Laddove evidente appare che, da parte di questa Corte, il rilevato vizio di illegittimità costituzionale non possa essere sanato in altro modo che uniformando, sul punto, la disciplina del fallimento del socio illimitatamente responsabile a quella dettata per l’imprenditore individuale o collettivo dai menzionati artt. 10 e 11 della legge fallimentare.
6.- Restano assorbite, in quanto prive di autonoma rilevanza nei giudizi a quibus, le censure relative all’art. 147, secondo comma, della legge fallimentare.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Annibale MARINI, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 luglio 2000.