ORDINANZA N.180
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 26 novembre 1996, 17 dicembre 1996 e 4 febbraio 1997 dal Tribunale di Bologna sull’istanza proposta da Perdomi Gabriele nei confronti della Nuova Blitz s.a.s. e altra, iscritta al n. 452 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 29, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 marzo 1998 il Giudice relatore Francesco Guizzi.
Ritenuto che nel corso del procedimento per la dichiarazione di fallimento di una società in accomandita semplice e del socio accomandatario, il Tribunale di Bologna, acquisita la prova dell’avvenuta cancellazione della società debitrice dal registro delle imprese, il 31 dicembre 1994, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui esige che sia esaurita la liquidazione di ogni rapporto passivo per la cessazione dell’impresa societaria ai fini dell’esenzione temporale dal fallimento;
che, tuttavia, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, gli accertati presupposti di fatto dovrebbero condurre alla dichiarazione di fallimento della società;
che, invece, l’articolo 10 della legge fallimentare, nella sua interpretazione letterale, stabilirebbe che la pronuncia di fallimento intervenga per tutti i debitori entro l’anno dalla cessazione dell’attività;
che, al contrario, l’interpretazione censurata comporterebbe la pratica inapplicabilità della preclusione temporale, con ciò ponendo in essere un’interpretazione abrogativa della disposizione;
che, al fine di superare questa ingiustificata disparità di trattamento, s’imporrebbe una pronuncia della Corte costituzionale, dovendosi escludere che una società diventata inattiva possa fallire;
che, del resto, la dottrina avrebbe avvertito come le posizioni dei terzi, in caso di sopravvenienze passive, trovino la loro garanzia nella responsabilità sussidiaria dei soci e dei liquidatori, anche se limitata, ai sensi degli artt. 2456 e 2312 del codice civile;
che la cancellazione dal registro delle imprese allargherebbe la responsabilità ai liquidatori e sarebbe in contrasto con il postulato di una società commerciale che, per la mancata estinzione di tutti i rapporti passivi, non si estinguerebbe mai;
che, nella specie, la questione sarebbe rilevante, poichè la società debitrice, in seguito alla denuncia di fine attività presentata presso la Camera di commercio, é già cessata da oltre un anno rispetto al deposito dell’istanza di fallimento;
che essa sarebbe anche non manifestamente infondata, per lesione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, perchè l’interpretazione adottata eliminerebbe, dall’ambito della norma, l’elemento oggettivo della fallibilità dell’impresa societaria;
che la norma si conformerebbe a Costituzione solo cancellando siffatta presunzione assoluta, in base alla quale la società continuerebbe a vivere pur dopo l’espletamento della formalità della cancellazione dal registro delle imprese richiesta dal codice civile per fondare una traslazione delle responsabilità da un ente cessato ad altri soggetti;
che é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza;
che, ad avviso dell’Avvocatura, la differenza di trattamento fra l’impresa individuale e quella collettiva non discenderebbe dalla norma contenuta nell’art. 10 della legge fallimentare, ma dal diverso modo in cui é regolata la cessazione dell’impresa;
che solo per le società sarebbe infatti obbligatoria, dopo lo scioglimento, la fase della liquidazione;
che i soci debbono redigere il bilancio finale di liquidazione nella ipotesi, considerata fisiologica, che spetti loro una parte dell’attivo;
che nel caso, patologico, che i fondi siano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali, e non sia possibile ottenere dai soci il pagamento delle somme occorrenti, i liquidatori dovrebbero richiedere il fallimento della società;
che la diversità di trattamento non sarebbe pertanto ingiustificata, atteso che le due situazioni sarebbero differenti nella realtà delle cose e nella loro disciplina giuridica;
che non avrebbe fondamento la pretesa lesione del diritto di difesa, dal momento che sia la società sia i soci potrebbero, nella debita sede, contestare la richiesta di fallimento.
Considerato che viene all’esame della Corte, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, che, secondo l’interpretazione prevalente, esige la liquidazione di ogni rapporto passivo per affermare la cessazione dell’impresa societaria ed esentarla dal fallimento;
che la questione é stata sollevata sulla base di siffatta interpretazione giurisprudenziale - ritenuta, ormai, diritto vivente - che offre peraltro ai creditori sociali più ampie garanzie di tutela rispetto a quelle stabilite per i creditori dell’imprenditore individuale;
che la lamentata disparità di trattamento del ceto creditorio non é, di per sè, in contrasto con il principio di uguaglianza, quando produce, come nella specie, maggior tutela di alcuni senza pregiudizio per altri;
che nessuna lesione delle facoltà difensionali può fondatamente assumersi al riguardo, venendo al più in rilievo soltanto difficoltà di mero fatto, quando la società si sia sciolta da tempo;
che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Bologna, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 8 maggio 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Francesco GUIZZI
Depositata in cancelleria il 20 maggio 1998.