Sentenza n. 113/2000

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SENTENZA N. 113

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 36 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 18 novembre 1997 dal Tribunale di Sondrio, iscritta al n. 253 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 2000 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

1. — Con ordinanza in data 18 novembre 1997, il Tribunale di Sondrio ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede tra le cause di astensione l’avere il giudice precedentemente pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di uno o più concorrenti nel reato.

Il remittente premette di avere pronunciato – nel corso di un procedimento a carico di numerosi imputati dei reati di cui agli artt. 2621, numero 1, cod. civ., 81, 110, 640, primo comma, e 640-bis cod. pen. – sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di alcuni degli imputati, disponendo la separazione delle posizioni degli imputati “non patteggianti” che ora si trova a giudicare per gli stessi fatti.

Il giudice a quo richiama la sentenza n. 371 del 1996 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata, e rileva che le successive sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997 hanno precisato che l’istituto dell’incompatibilità è limitato a salvaguardare l’imparzialità del giudice in relazione ai soli atti compiuti all’interno del procedimento, escludendo (con l’eccezione della particolare ipotesi prevista, appunto, dalla sentenza n. 371 del 1996) la sussistenza di ipotesi di incompatibilità in relazione ad atti compiuti in altri procedimenti.

Secondo il remittente, la situazione prospettata non potrebbe dirsi risolta dalla citata sentenza n. 371 del 1996 per un duplice ordine di ragioni: quella sentenza riguarderebbe l’ipotesi in cui il giudice si sia espresso, nella precedente sentenza, sulla posizione di un concorrente necessario nel reato, mentre il giudizio a quo riguarda imputati ai quali sono contestati reati a concorso eventuale; nella fattispecie in esame, inoltre, la valutazione dell’insussistenza dei presupposti per pronunciare sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. è stata compiuta in altro, separato procedimento.

Tuttavia – osserva ancora il remittente – nella sentenza di applicazione della pena su richiesta resa per i concorrenti nel reato, egli avrebbe compiuto una valutazione in ordine alla insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per pronunciare sentenza ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. che non potrebbe non pregiudicare la sua imparzialità nei confronti dei residui imputati “non patteggianti”, per la “forza della prevenzione” che spinge a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali.

Ad avviso del Tribunale di Sondrio, “la descritta situazione processuale dovrebbe normativamente concretizzare un obbligo di astensione in ossequio ai principi desumibili dagli artt. 3 e 24 Cost.”, ma l’art. 36 cod. proc. pen., “come attualmente vigente”, non prevederebbe questa ipotesi di astensione e le norme sull’astensione e sulla ricusazione del giudice non sarebbero suscettibili di applicazione analogica. In particolare, la fattispecie in esame non potrebbe essere ricompresa in quella prevista dalla lettera h) del citato art. 36, poiché, “per giurisprudenza pacifica, siffatta causa di astensione attiene esclusivamente a ragioni di convenienza extraprocessuali”.

Poiché questa Corte, nelle citate sentenze del 1997, ha affermato che “qualora una situazione carente dal punto di vista dell’imparzialità non potesse trovare soluzione alla stregua degli articoli 36 e 37 cod. proc. pen., quali attualmente vigenti, potrebbe aprirsi la via per un’ulteriore, ma diversamente impostata, questione di legittimità costituzionale” (sentenza n. 306 del 1997), il remittente ritiene non manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale, la cui rilevanza discenderebbe dal fatto che il suo eventuale accoglimento comporterebbe l’obbligo per il collegio di astenersi dal celebrare il dibattimento nei confronti degli imputati “non patteggianti”, mentre il suo rigetto lo obbligherebbe al giudizio.

2. — E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, in subordine, infondata.

Secondo l’Avvocatura, dalla lettura della sentenza n. 371 del 1996 emergerebbe che questa Corte non ha limitato – come, invece, ritiene il remittente – la sfera di applicazione di quella pronuncia alle sole ipotesi di concorso necessario nel reato. Conseguentemente la questione prospettata avrebbe dovuto investire l’art. 34 cod. proc. pen., e non il censurato art. 36 dello stesso codice. Anche così rettificata, comunque, la questione non sarebbe riconducibile alle indicazioni contenute in quella sentenza, in quanto non muoverebbe “da una valutazione espressa in sede di giudizio dibattimentale (così, nella sentenza n. 371 del 1996), bensì da una valutazione (che si asserisce) espressa in sede di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 ss. cod. proc. pen.”. La questione sarebbe in ogni caso infondata per i motivi enunciati da questa Corte nell’ordinanza n. 340 del 1997, con cui è stata dichiarata la manifesta infondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale, posto che non risulterebbe che, nella sentenza resa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti dei concorrenti, il giudice a quo abbia espresso una valutazione, neppure superficiale o sommaria, circa la responsabilità degli ulteriori concorrenti estranei al processo, la posizione dei quali sarebbe rimasta impregiudicata.

Considerato in diritto

1. — L’ordinanza di remissione ha ad oggetto l’articolo 36 del codice di procedura penale, del quale viene denunciata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede tra le cause di astensione l’avere il giudice precedentemente pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di uno o più concorrenti nel reato.

Secondo il remittente, nell’accertare l’insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 cod. proc. pen., egli avrebbe compiuto valutazioni pregiudicanti per gli imputati non patteggianti.

Richiamata la giurisprudenza di questa Corte nella quale si invita ad avere riguardo agli istituti dell’astensione e della ricusazione nei casi in cui un pregiudizio provenga dall’esercizio di funzioni compiute in un diverso procedimento (sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997), il giudice a quo rileva che nell’art. 36 del codice di procedura penale non vi sarebbe alcuna disposizione che preveda in simili ipotesi l’obbligo di astenersi, posto che, a suo avviso, le “gravi ragioni di convenienza”, di cui parla il comma 1 alla lettera h), sarebbero esclusivamente extraprocessuali.

2. — La questione è infondata nei sensi di cui appresso si dirà.

Nelle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997, richiamate dal remittente, è tratteggiato il diverso ambito di operatività delle incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen., da un lato, e dell’astensione e della ricusazione, regolate dagli artt. 36 e 37 cod. proc. pen., dall’altro. Le prime postulano un onere di organizzare preventivamente la terzietà del giudice, onere esigibile, in linea di massima e salvo i casi estremi che hanno dato luogo alla sentenza n. 371 del 1996 (e alla successiva sentenza n. 241 del 1999), allorché il pregiudizio all’imparzialità consegua da funzioni esercitate dal giudice in un medesimo procedimento penale. Quando il pregiudizio derivi invece dall’esercizio di funzioni in un procedimento diverso, lo strumento di garanzia della terzietà deve attenersi, di regola, all’area degli istituti dell’astensione e della ricusazione, poiché la tutela preventiva, alla quale è ordinato l’istituto dell’incompatibilità, finirebbe col disperdere in una normazione casistica indefinita e in una imprevedibile molteplicità di fattispecie applicative la tematica della possibile menomazione dell’imparzialità del giudice, e ciò a causa della estrema varietà di contenuto che gli atti di giurisdizione possono assumere nei diversi procedimenti.

3. — Il remittente, intendendo seguire le indicazioni contenute nelle tre consecutive sentenze del 1997 appena citate, ritiene, tuttavia, che l’art. 36 cod. proc. pen., concernente l’astensione del giudice, nella sua attuale formulazione, non contenga alcuna disposizione idonea a scongiurare il pericolo di menomazione dell’imparzialità nei casi in cui il pregiudizio provenga dall’avvenuto esercizio di funzioni in un procedimento diverso. A suo avviso, infatti, la proposizione di cui al comma 1, lettera h), dell’art. 36 (“altre gravi ragioni di convenienza”) non riguarderebbe il compimento di attività giurisdizionale ma si riferirebbe solo a situazioni che investirebbero il giudice uti privatus.

Ma il valore deontico del principio del giusto processo si esprime, in questo caso, sul piano interpretativo ed impedisce di attribuire alla locuzione “altre gravi ragioni di convenienza” un significato così ristretto da escludervi l’esercizio di funzioni in un diverso procedimento che abbia avuto, in concreto, un contenuto pregiudicante. La disposizione in oggetto pone una norma di chiusura a cui devono essere ricondotte tutte le ipotesi non ricadenti nelle precedenti lettere e nelle quali tuttavia l’imparzialità del giudice sia da ritenere compromessa.

Il termine “convenienza”, che nel linguaggio comune allude a regole non giuridiche di comportamento sociale, sembrerebbe invero orientare nel senso che i presupposti di questa figura di astensione abbiano natura extraprocessuale, sicché il giudice che sia chiamato a farne applicazione sia investito di facoltà discrezionali assai ampie. Tale rilievo, meramente lessicale, perde il suo carattere di decisività se la proposizione normativa viene letta in connessione logico–sistematica con le altre previsioni del medesimo art. 36. In esso, alla lettera h) si parla di “altre” gravi ragioni di convenienza. Non importa se “altre” stia qui per “diverse” o per “ulteriori”; rileva unicamente il fatto che grazie all’uso di questo termine tutte le cause di astensione elencate nelle precedenti lettere dello stesso comma 1 dell’art. 36, nel linguaggio del legislatore, sono da considerare, a loro volta, “altre” e, quindi, “ragioni di convenienza” anch’esse. Sono tali, ad esempio, quelle di cui alla lettera g), molte delle quali hanno sicuramente origine processuale. Quale logico corollario se ne desume che, nella lettera h), la parola “convenienza” assume un valore prescrittivo tale da imporre l’osservanza di un obbligo giuridico che non riguarda soltanto situazioni private del giudice, ma include l’attività giurisdizionale che egli abbia svolto, legittimamente, in altri procedimenti.

Eventuali residue incertezze di lettura sono del resto destinate a dissolversi una volta che si sia adottato, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale. Questo impone infatti all’interprete di optare, tra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la disposizione conforme alla Costituzione: nella specie conforme al principio del giusto processo, secondo le indicazioni già contenute nelle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997.

4. — Chiarito il significato della locuzione “altre gravi ragioni di convenienza”, si rende necessaria una precisazione con riguardo alla vicenda di cui si tratta nel giudizio principale.

La presente sentenza interpretativa non procede affatto dall’idea che esista un obbligo di astensione generalizzato nelle ipotesi in cui un medesimo giudice, che abbia pronunciato sentenza nei confronti di alcuni concorrenti, si trovi a giudicare separatamente altri concorrenti.

Questa Corte ha avuto modo di chiarire che, nelle ipotesi di concorso di persone nel medesimo reato, l’aver pronunciato sentenza (nella specie, di applicazione della pena su richiesta) nei confronti di alcuno dei concorrenti non rende per ciò stesso il giudice incompatibile al successivo giudizio nei confronti degli altri. E’ infatti ferma, nella giurisprudenza costituzionale in materia, la massima enunciata nelle sentenze nn. 186 del 1992 e 439 del 1993, e ribadita nella sentenza n. 371 del 1996, secondo cui, nella naturale unitarietà delle figure di concorso, alla comunanza dell’imputazione fa riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni, suscettibili di sfociare in un accertamento positivo nell’un caso e negativo nell’altro.

Non può, però, escludersi che, per il peculiare atteggiarsi delle singole fattispecie, l’accertamento che il giudice abbia compiuto in una precedente sentenza possa determinare un pregiudizio alla sua imparzialità nel successivo procedimento a carico di altro o di altri concorrenti. In simili casi, al di là delle ipotesi estreme che hanno dato luogo alle sentenze nn. 371 del 1996 e 241 del 1999, nelle quali il turbamento della posizione di terzietà del giudice è stato inquadrato tra le cause di incompatibilità ex art. 34, soccorre l’art. 36, comma 1, lettera h), del codice di procedura penale, nell’interpretazione non restrittiva alla quale vincola il principio del giusto processo.

La formula “altre gravi ragioni di convenienza” impone in definitiva una valutazione caso per caso, e si deve perciò escludere che il pregiudizio, nelle ipotesi di assoggettamento dei concorrenti a procedimenti distinti dinanzi allo stesso giudice, sussista sempre e necessariamente, sicché alla fattispecie plurisoggettiva del concorso di persone nel reato debba corrispondere sul piano processuale l’onere di realizzare il simultaneus processus nei confronti di tutti i concorrenti, ovvero, in caso di processi separati, un automatico dovere di astensione del giudice nel successivo giudizio.

5. — L’aver chiarito che la formulazione dell’art. 36, comma 1, lettera h) del codice di procedura penale ha una sfera di applicazione sufficientemente ampia da comprendere anche le ipotesi in cui il pregiudizio alla terzietà del giudice derivi da funzioni esercitate in un diverso procedimento costituisce svolgimento di quanto prefigurato da questa Corte nelle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997, nelle quali si è indicato, per la realizzazione del principio del giusto processo, in simili evenienze, il più duttile strumento dell’astensione e della ricusazione, che consente valutazioni in concreto e caso per caso, e che non postula oneri preventivi di organizzazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 36 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Sondrio con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 aprile 2000.