SENTENZA N.307
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa l’8 febbraio 1996 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1996.
Udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza in data 8 febbraio 1996, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio per il giudice che abbia disposto la custodia cautelare in carcere dei correi dell’imputato sottoposto al suo giudizio, motivando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a loro carico con le dichiarazioni confessorie ed accusatorie rese dal medesimo imputato, nei confronti del quale, tuttavia, non era stata adottata alcuna misura cautelare in assenza di richiesta in tal senso del pubblico ministero.
Il remittente premette di essere chiamato a decidere sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata da un collaboratore di giustizia nei confronti del quale, pur non essendo stata emessa la misura custodiale perché non richiesta difettando le esigenze cautelari, ha tuttavia espresso, nella ordinanza applicativa della custodia cautelare nei confronti dei correi, "una pregnante valutazione di merito", avendo ritenuto la chiamata in correità attendibile e decisiva sia ai fini della applicazione della custodia cautelare, sia ai fini della autoincolpazione dell’imputato sottoposto al suo giudizio.
In questo caso, prosegue il giudice a quo, non potrebbe non ritenersi compromessa (come del resto già affermato da questa Corte nella sentenza n. 432 del 1995 in relazione al giudice chiamato a giudicare l’imputato nei confronti del quale aveva emesso una misura cautelare) la genuinità e la correttezza del processo formativo del convincimento del giudice per la tendenza a mantenere un giudizio già espresso, condizionato da una forma involontaria di prevenzione. Ciò tanto più deve affermarsi, ad avviso del remittente, in quanto questa Corte, nella citata sentenza n. 432 del 1995, non ha operato alcuna distinzione tra coloro che confessano i propri addebiti e coloro che si professano innocenti, tra collaboratori di giustizia e comuni imputati, ma ha posto unicamente l’accento sul dato sostanziale della valutazione di merito incidente sulla responsabilità dell’imputato (valutazione certamente non esclusa dalla mancata applicazione della custodia in carcere solo per la insussistenza di esigenze cautelari).
Da ciò discenderebbe, secondo il giudice a quo, la violazione del principio del giusto processo, desumibile dagli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
Considerato in diritto
1. L’ordinanza di rimessione ha ad oggetto l’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, del quale viene denunciata la illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio per il giudice che abbia disposto la custodia cautelare in carcere dei correi dell’imputato sottoposto al suo giudizio, motivando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a loro carico sulla base delle dichiarazioni confessorie rese dal medesimo imputato, nei confronti del quale, tuttavia, non era stata adottata alcuna misura cautelare in assenza di richiesta in tal senso del pubblico ministero.
Ad avviso del giudice a quo, la mancata previsione di una causa di incompatibilità in una situazione in cui le dichiarazioni confessorie dell’imputato sono state ritenute attendibili al punto di fondare su di esse l’emissione di una misura cautelare nei confronti dei correi, contrasterebbe con il principio del giusto processo, desumibile dagli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
2. La questione è inammissibile.
E’ necessario premettere che il principio del giusto processo, secondo la giurisprudenza di questa Corte, risponde all’esigenza che il giudice non sia né appaia condizionato da precedenti valutazioni compiute nei confronti delle parti, tali da far risultare pregiudicata la sua posizione di terzietà. Tale principio non si realizza nel nostro ordinamento secondo un modulo processuale unico e infungibile. Alla sua tutela sono infatti preordinati due diversi istituti: da un lato le incompatibilità determinate da atti compiuti nel procedimento (art. 34 cod. proc. pen.) e dall’altro l’astensione (art. 36 cod. proc. pen.) e la ricusazione (art. 37 cod. proc. pen.).
Si tratta, va subito precisato, di strumenti tutti orientati alla garanzia dell’indipendenza del giudice, intesa nella sua specifica accezione di terzietà-non pregiudizio, come dimostra il fatto che ciascuna delle situazioni di incompatibilità previste dall’art. 34 è destinata a risolversi in una causa di astensione e di ricusazione.
Nonostante che il trattamento giuridico sia, nel suo nucleo centrale, alla fine lo stesso (ogni pregiudizio dà luogo a un diritto della parte pregiudicata di proporre istanza di ricusazione), collocare le varie fattispecie soltanto nell’area dei casi di astensione o di ricusazione ovvero anche nell’ambito delle situazioni di incompatibilità non è del tutto indifferente: in questa scelta si riflette una diversa articolazione della tutela del principio del giusto processo. Se è vero, infatti, che, nella disciplina contenuta nel Capo VII, Titolo I del Libro I del codice di procedura penale, a quanto risulta dal diritto vivente, le conseguenze della violazione del principio di terzietà sono sempre le stesse e approdano solo all’attivazione dei procedimenti di cui agli artt. 36 e 38 cod. proc. pen., non può tuttavia negarsi che quando il motivo di astensione o di ricusazione consista in una ipotesi di incompatibilità, codificata come tale, quel principio riceve un supplemento di tutela in via preventiva.
Una volta tipizzata in riferimento all’avvenuto svolgimento di funzioni, l’incompatibilità è, in effetti, prevedibile e quindi prevenibile, sicché la terzietà del giudice può essere organizzata, così da manifestarsi, prima ancora che come diritto delle parti ad un giudice terzo, come modo d’essere della giurisdizione nella sua oggettività (sentenza n. 155 del 1996).
Ma la pretesa che la terzietà sia previamente organizzata appare ragionevole solo se riferita ad un medesimo procedimento e a tipi di funzioni definibili in astratto; solo se non si estenda, quindi, ad atti adottati in procedimenti diversi e considerati in ragione del loro contenuto in concreto (sentenza n. 308 depositata in pari data). Altrimenti, nella varietà delle relazioni che possono instaurarsi tra procedimenti distinti, e nella molteplicità dei contenuti che i relativi atti sono suscettibili di assumere, si avrebbe una dilatazione enorme dei casi nei quali un qualche pregiudizio potrebbe essere ravvisato e l’intera materia delle incompatibilità, dispersa in una casistica senza fine, diverrebbe refrattaria a qualsiasi tentativo di amministrazione mediante atti di organizzazione preventiva.
3. La collocazione delle incompatibilità nascenti dall’esercizio di funzioni giurisdizionali nell’apposito elenco dell’art. 34 risponde dunque, in larga massima, a una scelta non irragionevole del legislatore, incentrata sulla percezione della possibilità di organizzare in via preventiva la tutela del principio del giusto processo. E la giurisprudenza della Corte si è generalmente attenuta a tale criterio. Nelle numerose sentenze che si sono susseguite in materia di incompatibilità e che hanno prolungato, con pronunce additive, l’elenco dell’art. 34 cod. proc. pen., comune caratteristica era l’assecondare l’opzione del legislatore di riferire il pregiudizio all’avvenuto esercizio di funzioni all’interno dello stesso procedimento, sul presupposto che in questo modo la terzietà del giudice può e deve essere apprezzata sin dal momento della formazione dei collegi e degli uffici giudicanti e organizzata con tempestive e giustificate deroghe alle tabelle o agli ordinari criteri di assegnazione degli affari (sentenza n. 306 depositata in pari data).
Solo in un caso, nelle sentenze in materia, la sistematica del legislatore appare disattesa con l’introduzione di una figura di incompatibilità che non proviene dall’esercizio di funzioni in un medesimo procedimento, ma dal contenuto degli atti compiuti in un procedimento diverso. Si tratta della sentenza n. 371 del 1996, che ha dichiarato illegittimo l’art. 34 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata. L’atto pregiudicante era stato però emesso in quel caso in una vicenda processuale sostanzialmente unitaria ed era una sentenza, l’atto cioè con il quale il processo penale viene definito e che è l’espressione più pregnante della funzione giurisdizionale. E dal contenuto di tale atto emergeva un pregiudizio, non su questo o quell’aspetto strumentale o collaterale della fattispecie, ma sull’essenza della giurisdizione penale, vale a dire la valutazione, sia pure incidentale, in ordine alla responsabilità di un terzo. L’atto pregiudicante era, insomma, per forma e per tipo di contenuto, anche se ovviamente non per effetti, manifestazione tipica della giurisdizione penale. E di fronte all’eventualità che un medesimo giudice persona fisica ritornasse, con una sentenza successiva, su valutazioni di responsabilità già compiute in una precedente sentenza penale, appariva necessario che il principio del giusto processo si dispiegasse al pieno delle sue potenzialità; e che pertanto le funzioni esercitate nei due procedimenti penali, formalmente diversi ma riguardanti una medesima vicenda, fossero qualificate come "incompatibili", a causa, questa volta, della natura dell’atto nel quale si erano estrinsecate (sentenza) e del suo concreto contenuto (valutazione di responsabilità penale di un terzo); fossero trattate, in altre parole, al di là della sistematica legislativa, come se ci si fosse trovati in presenza di funzioni esercitate nello stesso procedimento (sentenze nn. 306 e 308 depositate in pari data). E ciò in vista della realizzazione, il più possibile spontanea e non rimessa alla sola iniziativa del giudice o delle parti, del requisito costituzionale dell’indipen-denza, apparendo, in simili casi, certamente impegnativi, ma non sproporzionati né incongrui rispetto all’entità dei principî in gioco, gli oneri di organizzazione preventiva che si venivano ad imporre all’amministrazione della giurisdizione penale.
4. Nella vicenda che forma oggetto del giudizio a quo, il remittente ravvisa una situazione di pregiudizio nel fatto di avere adottato una ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di due correi, e di avere motivato la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a loro carico sulla base delle dichiarazioni confessorie di un terzo, anch’egli correo, non colpito a sua volta da misura cautelare in assenza di richiesta in tal senso del pubblico ministero, e che ora si trova a dover giudicare col rito abbreviato.
A questa Corte non appare implausibile che, nella fattispecie rappresentata, il remittente percepisca il celebrando giudizio abbreviato come condizionato dalla positiva valutazione prognostica da lui già formulata nella motivazione della misura cautelare personale adottata nei confronti dei concorrenti. Ed in effetti il principio del giusto processo rischia in questo caso di subire una vulnerazione.
A una pronuncia di accoglimento osta tuttavia il rilievo che il pregiudizio non solo proviene da un procedimento che, a seguito della separazione, è formalmente diverso, ma deriva da un’ordinanza emessa nei confronti di soggetti diversi e che non è espressione conclusiva della potestà di giudizio in materia penale. Non appaiono quindi sussistenti le ragioni che hanno sostenuto la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 34 nella sentenza n. 432 del 1995 (giudice chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale del medesimo imputato nei cui confronti aveva emesso misura cautelare); né quelle poste a fondamento della sentenza n. 371 del 1996 (valutazione incidentale sulla responsabilità del terzo contenuta in una precedente sentenza penale), che hanno indotto a trattare il pregiudizio come se provenisse da funzioni esercitate nello stesso procedimento.
Nella fattispecie dalla quale prende le mosse il giudice a quo, il giusto processo, pur mantenendo intatta la propria capacità qualificatoria, presenta una attitudine a concretizzarsi attraverso gli strumenti e le forme di garanzia corrispondenti alla sistematica del codice. Non vi sono infatti ragioni sufficienti per imporre una diversa collocazione degli strumenti preordinati alla tutela di quel principio, posto che la piena realizzazione della funzione di garanzia supplementare propria dell’istituto della incompatibilità comporterebbe oneri di organizzazione preventiva del principio di terzietà che la indeterminata tipologia delle situazioni di pregiudizio che possono concretamente verificarsi nelle reciproche relazioni tra processi diversi renderebbe difficilmente esigibili.
Ciò non vuol dire che il principio del giusto processo sia destinato a restare inappagato di fronte a situazioni come quella nella quale si trova il giudice remittente. Vuol dire solo che lo strumento di tutela non può essere una ulteriore sentenza additiva sull’art. 34, ma deve essere ricercato nell’area degli istituti della astensione e ricusazione, anch’essi preordinati alla salvaguardia della terzietà del giudice. Ed è guardando a quest’area, e alle potenzialità interpretative che essa esprime, che il giudice a quo, eventualmente anche richiedendo un succes-sivo intervento di questa Corte, dovrà dare attuazione al principio costituzionale al quale si è mostrato sensibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Messina, con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costitu-zionale, Palazzo della Consulta, il 29 settembre 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Carlo MEZZANOTTE
Depositata in cancelleria il 1° novembre 1997.