SENTENZA N. 352
ANNO 2000REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 maggio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia nel procedimento penale a carico di LIMO Guido iscritta al n. 465 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.38, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. — Nel corso di un procedimento a carico di persona imputata del reato di circonvenzione di persone incapaci in danno della propria convivente more uxorio, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia, a seguito di eccezione formulata nell’udienza preliminare dal difensore dell’imputato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 649 cod. pen., nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei fatti previsti dal titolo XIII del libro II del codice penale commessi in danno del convivente more uxorio.
Dopo aver premesso che la norma denunciata — nel sancire la non punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi in danno di determinati congiunti, tra cui il coniuge non legalmente separato — trova la sua ratio nella comunanza degli interessi economici nell’ambito della famiglia o nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari, il giudice a quo osserva che la norma stessa, stante il tempo in cui fu emanata, non poteva contemplare istituti o situazioni di fatto il cui rilievo sociale è emerso solo in epoca posteriore, quale, appunto, la convivenza more uxorio: rapporto, quest’ultimo, cui l’ordinamento civile ha collegato, a tappe successive, plurimi effetti giuridici, i quali andrebbero ormai riverberandosi anche nel settore penale.
Particolarmente significativo risulterebbe, in tale direzione — ad avviso del rimettente — l’art. 199, comma 3, lett. a) del nuovo codice di procedura penale, che, recependo le sollecitazioni sociali, ha parificato al coniuge, agli effetti della facoltà di astensione dalla testimonianza, «chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso»: e ciò nella cornice di una previsione normativa finalizzata a tutelare il sentimento familiare, evitando che colui il quale è chiamato a testimoniare venga a trovarsi nell’alternativa tra mentire o nuocere al congiunto. Tra le due disposizioni — l’art. 649 cod. pen. e l’art. 199, comma 3, lett. a) cod. proc. pen. — potrebbe in effetti istituirsi un puntuale parallelo sul piano della ratio, in quanto entrambe sanciscono la prevalenza dell’unità della famiglia sulle esigenze di giustizia della collettività: prevalenza che, peraltro, sarebbe ancor più giustificata allorché offeso dal reato sia lo stesso congiunto dell’imputato.
Su tali premesse, il giudice a quo ritiene dunque irragionevolmente discriminatoria la diversità di disciplina fra i reati commessi in danno del coniuge non legalmente separato, non punibili ai sensi dell’art. 649, primo comma, cod. pen., e quelli commessi in danno del convivente more uxorio, per i quali si procede di contro ex officio, anche quando la convivenza presenti le caratteristiche cui l’ordinamento condiziona il riconoscimento di effetti (stabilità del legame affettivo, comunanza materiale e spirituale, reciproca assistenza e solidarietà).
2. — Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura erariale ricorda come, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, l’art. 649, primo comma, cod. pen. colleghi razionalmente l’esclusione della punibilità, riguardo ai delitti contro il patrimonio, a dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili (vincoli di parentela, affinità, adozione e coniugio), che non sono presenti nella convivenza more uxorio, rapporto per sua natura intrinsecamente aleatorio, in quanto fondato sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, liberamente ed in ogni istante revocabile.
Considerato in diritto
1. — Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 649 cod. pen., nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei fatti previsti dal titolo XIII del libro II del codice penale commessi in danno del convivente more uxorio. Alla base del dubbio di costituzionalità vi è il rilievo della disparità di trattamento tra convivente more uxorio e coniuge non legalmente separato, che per gli stessi fatti beneficia invece del regime di non punibilità: disparità di trattamento ritenuta dal rimettente irrazionale, anche a fronte dell’avvenuta parificazione dei due soggetti — in un’ottica di riconoscimento della prevalenza dell’unità familiare sull’interesse collettivo alla punizione dei reati, omologa a quella che informa la ratio della norma denunciata — ai fini della facoltà di astensione dalla testimonianza, in virtù dell’art. 199, comma 3, lett. a), cod. proc. pen..
2. — La questione non è fondata.
Posto che le censure del giudice a quo attengono esclusivamente alla violazione dell’art. 3 Cost. (l’asserito contrasto con l’art. 24 Cost. non è in alcun modo motivato e rappresenta, comunque, un mero riflesso della denuncia della norma impugnata sul piano del rispetto del principio di uguaglianza), va rilevato come questa Corte abbia già in più occasioni affermato — anche con specifico riferimento al disposto dall’art. 649 cod. pen. — che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale, e a questo non meccanicamente assimilabile al fine di desumerne l’esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento: essa, infatti, manca dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile (sentenza n. 8 del 1996; sentenza n. 423 del 1988; ordinanza n. 1122 del 1988).
In tale prospettiva, non può ritenersi dunque irragionevole ed arbitrario che — particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul «bilanciamento» tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) — il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell’«istituzione familiare», basata sulla stabilità dei rapporti (sentenza n. 8 del 1996), di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente, ravvisata da alcuni nell’art. 649 c.p.. Di qui l’impossibilità di qualificare come illogica e «discriminatoria» la mancata estensione del medesimo regime ad una situazione di fatto quale la convivenza more uxorio.
Né ad inficiare la validità della conclusione vale il rilievo della parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di astensione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 cod. proc. pen. (parificazione per vero ampia, ma non totale, giacché per il convivente, a differenza che per il coniuge non legalmente separato, la facoltà di astensione è limitata dalla legge ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza), non potendosi far discendere dalla norma invocata dal giudice a quo come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori del caso considerato. Come si legge, invero, nella relazione ministeriale al progetto di nuovo codice di procedura penale, la facoltà di astensione riconosciuta al convivente more uxorio si connette anche all’invito a suo tempo formulato da questa Corte, la quale — nel dichiarare infondata, in parte qua, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 350 cod. proc. pen. del 1930 (costituente l’antecedente storico dell’art. 199 del codice vigente) — aveva auspicato una valutazione del legislatore riguardo alla tutela da accordare agli interessi connessi al rapporto di convivenza (sentenza n. 6 del 1977). La soluzione in concreto adottata rappresenta il frutto di una scelta rispetto all’alternativa — pure prospettata in iniziative legislative rimaste senza seguito — di incidere sulla definizione generale della nozione di «prossimi congiunti», offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., includendovi anche il convivente: in sostanza, con apprezzamento discrezionale non censurabile, il legislatore penale ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate (come egualmente è avvenuto, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ad esempio in rapporto alla circostanza aggravante dei delitti di prostituzione e pornografia minorile di cui all’art. 600-sexies, secondo comma, cod. pen., aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269), anziché procedere ad un «allineamento» generale ed indiscriminato dei due rapporti.
Anche l’argomento che il rimettente ritiene di poter trarre dall’asserita identità di ratio fra le due norme poste a confronto — l’art. 199 cod. proc. pen. e l’art. 649 cod. pen. — denuncia, del resto, evidenti limiti di validità. La disposizione del codice di rito sancisce, bensì, la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (esercitabile o meno, sulla base del proprio personale apprezzamento) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto. Tale facoltà resta peraltro esclusa, in virtù dell’espresso disposto dell’art. 199, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen., quando l’interessato (o un suo prossimo congiunto) sia offeso dal reato: onde risulta privo di pregio l’argumentum a fortiori evocato dal giudice a quo, secondo cui il riconoscimento della preminenza dell’interesse della famiglia sull’interesse pubblico al perseguimento degli illeciti penali, sotteso alla previsione processuale in parola, si imporrebbe a maggior ragione — rendendo così irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva di operatività delle due norme — nelle ipotesi avute di mira dall’art. 649 cod. pen. (ipotesi nelle quali il congiunto è, per l’appunto, offeso dal reato). Di contro, come già accennato, la disposizione del codice penale, almeno con la radicale esclusione della punibilità sancita dal primo comma, protegge l’istituzione familiare in una prospettiva in certo qual senso inversa, e, cioè, anche ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole.
La non omogeneità della situazione regolata dalla disposizione assunta come tertium comparationis impedisce, pertanto, di ravvisare il censurato profilo di irragionevolezza della norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità.
D’altronde questa Corte, in analoga occasione - nella quale era parimenti in discussione la razionalità dei limiti soggettivi di applicazione della causa di non punibilità prefigurata dall’art. 384, primo comma, cod. pen., nel confronto con il disposto dell’art. 199, comma 3, lett. a) cod. proc. pen. - ha rilevato che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità. Si aprirebbe in tal modo il problema dell’estensione al convivente — talora anche in malam partem (artt. 570, 577, ultimo comma, 591, ultimo comma, 605 cod. pen.) — del complesso delle disposizioni della legge penale sostanziale e processuale (e anche della legge extrapenale) che, a diversi fini, fanno riferimento al rapporto di coniugio (sentenza n. 8 del 1996): opera di revisione, questa, che esorbita dai compiti e dai poteri della Corte.
PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 12 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in cancelleria il 25 luglio 2000.