SENTENZA N. 549
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con due ordinanze emesse il 6 aprile 2000 dal Tribunale di Udine sulle istanze proposte da Foi Renato e da Segato Claudio, rispettivamente iscritte ai nn. 380 e 381 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Udito nella camera di consiglio del 25 ottobre 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.
Ritenuto in fatto
Nel corso di due procedimenti aventi ad oggetto la riabilitazione di imprenditori falliti, il Tribunale di Udine, con ordinanze sostanzialmente identiche emesse il 6 aprile 2000, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui fa decorrere il termine minimo di buona condotta necessario per la riabilitazione civile del fallito dalla chiusura del fallimento anziché dalla sua dichiarazione.
Il rimettente, premessa la rilevanza della questione, in quanto l’unico ostacolo all’accoglimento delle domande di riabilitazione sarebbe costituito proprio dal mancato decorso del termine quinquennale dalla data di chiusura dei rispettivi fallimenti (termine viceversa ampiamente decorso dalla dichiarazione dei fallimenti stessi), e rilevato in via generale che l’intero sistema delle sanzioni e delle incapacità derivanti dal fallimento appare ormai in contrasto con i principi generali dell’ordinamento, assume che la disposizione censurata, nell’attribuire rilievo esclusivamente alla buona condotta successiva alla chiusura del fallimento, sarebbe innanzitutto irrazionalmente lesiva del diritto del fallito, tutelato dagli artt. 4 e 41 Cost., a svolgere attività lavorativa in qualsiasi forma e, in particolare, attività d’impresa.
La norma, ad avviso del medesimo rimettente, contrasterebbe inoltre con l’art. 3 Cost. sia per l’assoluto difetto di ragionevolezza sia in quanto determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra falliti, in ragione del dato - assolutamente indipendente dalla volontà dell’interessato - rappresentato dalla durata della procedura fallimentare.
Considerato in diritto
1. - Con le due ordinanze in epigrafe il Tribunale di Udine ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che il termine quinquennale di buona condotta per la riabilitazione civile del fallito decorra dalla data di chiusura piuttosto che dalla data della dichiarazione di fallimento.
Ad avviso del rimettente, la norma sarebbe irrazionalmente lesiva del diritto del fallito di svolgere attività lavorativa, ed in particolare attività di impresa, ed inoltre determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra falliti in conseguenza del dato accidentale rappresentato dalla durata della procedura.
2. - I due giudizi, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno preliminarmente riuniti per essere decisi con unica sentenza.
3. - Nel merito, la questione non è fondata.
3.1 - Quanto al primo dei profili di illegittimità costituzionale denunciati, rappresentato dalla asserita lesione del diritto al lavoro e della libertà di iniziativa economica, è innanzitutto erroneo l’assunto del rimettente secondo cui la condizione di fallito precluderebbe lo svolgimento di attività di impresa.
Stante la mancanza di una norma di carattere generale che privi il fallito della capacità di agire, la possibilità, per quest’ultimo, di esercitare una nuova impresa, anche nel corso della stessa procedura concorsuale, con beni non aggredibili o comunque non aggrediti dal fallimento, è infatti pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza.
In ogni caso, e sotto altro aspetto, la censura riferita ai parametri di cui agli artt. 4 e 41 Cost. si appalesa del tutto inconferente, ove si consideri che la denunciata illegittimità costituzionale deriverebbe semmai – secondo la prospettazione dello stesso rimettente - dalle singole norme che prevedono, quali effetti personali della dichiarazione di fallimento, limitazioni di carattere permanente alla possibilità di svolgimento di talune particolari attività lavorative, e non certo dalla norma impugnata, che al contrario disciplina le condizioni per la rimozione di tali effetti.
3.2 - Nemmeno sussiste la violazione dell’art. 3 Cost., evocato dal rimettente tanto sotto il profilo della disparità di trattamento tra falliti, derivante dalla diversità di durata delle procedure fallimentari, quanto con riguardo al generale criterio di ragionevolezza.
Per quanto concerne il primo aspetto, questa Corte ha ripetutamente affermato che le disparità di mero fatto, ossia quelle differenze di trattamento che derivano da circostanze contingenti e accidentali, non danno luogo a problemi di costituzionalità con riferimento all’art. 3 Cost. (sentenze n. 175 del 1997, n. 417 del 1996, nn. 295 e 188 del 1995). La circostanza che il tempo intercorrente tra la dichiarazione di fallimento ed il compimento del termine di buona condotta per ottenere la riabilitazione civile possa in concreto variare in conseguenza del dato accidentale rappresentato dalla diversa durata delle procedure fallimentari non comporta pertanto violazione del principio di eguaglianza.
3.3 - E’ altresì infondata la diversa censura di irragionevolezza mossa dal rimettente in base all’assunto che, essendo possibile apprezzare anche durante la pendenza della procedura fallimentare la buona condotta tenuta dal fallito, non si giustificherebbe la decorrenza del termine quinquennale di valutazione della buona condotta dalla data di chiusura piuttosto che da quella di apertura del fallimento.
In proposito va considerato che la soluzione adottata, traducendosi nel porre la chiusura della procedura fallimentare quale condizione della misura premiale, aggiuntiva alla buona condotta del fallito, costituisce in effetti esercizio non irragionevole dell’ampio potere discrezionale di cui gode il legislatore nella determinazione dei presupposti della misura stessa.
Sicché, del tutto privo di qualsiasi base giustificativa risulta l’asserito contrasto della norma impugnata con l’art. 3 della Costituzione.
4. – Il rimettente, infine, censura in modo del tutto generico, auspicandone una riforma, la intera normativa relativa agli effetti personali del fallimento ed alle condizioni della riabilitazione. Ma è evidente come in tal modo venga impropriamente introdotta nel giudizio di costituzionalità materia di esclusiva competenza del legislatore.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 143, numero 3, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 41 della Costituzione, dal Tribunale di Udine con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 novembre 2000.
Fernando SANTOSUOSSO, Presidente
Annibale MARINI, Redattore
Depositata in cancelleria il 6 dicembre 2000.