SENTENZA N.188
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. da 922 a 947, 832, 834, 838, 948, 1418, secondo comma e 2043 del codice civile promosso con ordinanza emessa il 20 giugno 1994 dal Tribunale superiore delle acque pubbliche nel procedimento civile vertente tra il Consorzio di Bonifica Corfinio e Barone Raffaella ed altro iscritta al n. 730 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'armo 1994.
Visti gli atti di costituzione di Barone Raffaella ed altro e del Consorzio di Bonifica Corfinio nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 1995 il Giudice relatore Renato Granata; uditi gli avv.ti M. Giuliano Dell'Anno per Barone Raffaella ed altro, Giovanni Compagno per il Consorzio di Bonifica Corfinio e l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - In un procedimento civile per risarcimento di danni da occupazione acquisitiva (o c.d. accessione invertita) il Tribunale superiore delle acque pubbliche, adito in sede di appello - rilevato che, con la proposta impugnazione, il Consorzio occupante, soccombente in primo grado, si doleva della reiezione della propria eccezione di prescrizione per decorso del quinquennio dalla utilizzazione irreversibile del suolo e propriamente censurava l'affermazione del Tribunale regionale secondo cui tale trasformazione "costituisce la fonte non già di una obbligazione risarcitoria bensì di un diritto di credito (del proprietario) al controvalore del fondo definitivamente occupato" prescrittibile, come tale, nell'ordinario termine decennale (nella specie non decorso); e considerato poi che la premessa interpretativa, così censurata, risultava effettivamente in contrasto con la ricostruzione del fenomeno appropriativo in esame riaffermata dalla più recente giurisprudenza della Cassazione (il che avrebbe condotto all'accoglimento del gravame), ma che proprio tale ricostruzione, nella misura in cui ricollegava ad un fatto illecito effetti acquisitivi dava adito a plurimi dubbi di legittimità in riferimento agli artt. 3, 42 e 53 della Costituzione - ha, di conseguenza, sollevato questione di legittimità (testualmente) nell'ordine de:
a) "le norme, non corrispondenti a specifiche disposizioni di legge ma rinvenute nell'ordinamento giuridico vigente dalla Corte di cassazione, relative alla ablazione del dominio ed acquisto di esso alla pubblica amministrazione senza atti espropriativi, ma per effetto della (illecita) costruzione di opera pubblica su suolo altrui";
b) "le norme che, come sopra, prevedano l'acquisizione del dominio ed il sacrificio del diritto privato senza indennizzo o comprendano tale indennizzo nel risarcimento del danno, fondando sul fatto illecito la cennata acquisizione, ma escludendo la permanenza dell'illecito fino al risarcimento (od alla usucapione)";
c) "le disposizioni di legge che, nella interpretazione nomofilattica della Cassazione, assumono il senso di cui alle norme sopra indicate, cioè le disposizioni di legge relative ai modi di acquisto della proprietà (articoli da 922 a 947 del codice civile), gli artt. 832, 834, 838 e l'art. 948 del codice civile", laddove prevedono che la presenza dell'opera pubblica, in relazione alle sue finalità di pubblico interesse, determini l'acquisto del dominio da parte dell'ente pubblico, "senza indennità";
d) "gli artt. 1418, secondo comma, e 2043 del codice civile laddove non prevedono che il negozio o l'atto illecito possano esser sanati e spiegare gli effetti dell'atto valido necessario se consistono nella costruzione di opera pubblica su suolo altrui da parte di ente pubblico o soggetto delegato, con la sola conseguenza del risarcimento del danno dovuto da mancanza della sanatoria".
2. - Si sono costituite in questo giudizio entrambe le parti del processo a quo concludendo rispettivamente, i proprietari occupati, per la fondatezza e, il Consorzio occupante, per la non fondatezza dell'impugnativa.
A sua volta, l'Avvocatura dello Stato per l'intervenuto Presidente del Consiglio dei Ministri - preliminarmente alla insussistenza, nel merito, delle dedotte censure di incostituzionalità - ha eccepito l'inammissibilità di ogni questione sotto plurimi profili, di cui si dirà direttamente in motivazione.
Considerato in diritto
1. - Nella parte motiva del provvedimento di rinvio, il tribunale a quo ha rammentato in premessa come la vicenda della costruzione di opera pubblica su area occupata non iure sia stata nel tempo variamente ricostruita dalla giurisprudenza e cioè, fino alla decisione n. 1464 del 1983 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, come illecito permanente, con la conseguente immanenza della pretesa risarcitoria del proprietario (che tale rimaneva, ancorchè non abilitato a chiedere la restituzione del suolo finchè utilizzato per le esigenze di p.u.); e, successivamente, come fenomeno costituente, per un verso, il fatto genetico della proprietà pubblica e, per l'altro, un illecito istantaneo, con conseguente prescrittibilità quinquennale della pretesa risarcitoria del privato ablato.
Ha poi ancora richiamato quell'indirizzo intermedio (degli anni 90- 92) della Sezione I della stessa Corte di cassazione (anticipato dalla giurisprudenza di taluni giudici di merito e dello stesso Tribunale superiore) che, discostandosi dall'arresto del 1983, aveva <posto in rilievo l'esigenza di collegare il fatto acquisitivo-ablativo ad un evento diverso dall'illecito inteso soltanto come mera origine storica dell'evento>, con la conseguente attribuzione di un <carattere indennitario> (e correlativa prescrittibilità decennale) alla pretesa del proprietario al controvalore del bene (così) sottratto alla sua sfera dominicale, cui poteva affiancarsi il diritto al risarcimento per i danni subiti dal momento della occupazione abusiva fino al venir meno del dominio privato.
Quest'ultimo indirizzo, in sede di composizione del contrasto, è stato però superato, con sentenza n. 12546 del 1992 delle Sezioni unite. Le quali - nuovamente riconducendo il fenomeno ad unità attorno al fatto illecito che lo produce e profilando (in ciò seguite dalla successiva giurisprudenza anche della stessa Corte di cassazione) una natura pubblicistica dell'acquisto del dominio, collegata alla impossibilità di restituzione-avrebbero, sempre ad avviso del collegio rimettente, così <riproposto all'interprete le originarie questioni sulla inammissibilità di effetti positivi dell'illecito e sulla impossibilità di una sua consumazione istantanea con la conseguente cessazione della sua permanenza, se non sopravviene un fatto lecito sanante, costituito dalla acquisizione del dominio, che, ovviamente, deve trovare fondamento aliunde, non già nello illecito>.
2. - Trascritte in chiave di contrasto con i richiamati precetti costituzionali, le riferite questioni, che il Tribunale delle acque ha conseguentemente rimesso all'esame di questa Corte, sono (come risulta dal coordinamento tra motivazione e dispositivo), in sequenza, sostanzialmente quattro: la seconda costituendo, per altro, una mera variante della prima.
Chiede, in altre parole, il tribunale rimettente di verificare, in riferimento all'art. 42 ed agli artt. 3 e 53 della Costituzione, la legittimità: a) delle norme, <non corrispondenti a specifiche disposizioni di legge e tuttavia rinvenute dalla Corte di cassazione nell'ordinamento>, che ricollegano la perdita del dominio e l'acquisto di esso in capo alla pubblica amministrazione all'illecito costituito dalla costruzione dell'opera pubblica su suolo altrui senza provvedimento espropriativo, per quanto esse consentono una <ablazione senza espropriazione>, facendo così conseguire all'illecito effetti positivi per il suo autore; b) delle norme di cui sopra, con subordinato riguardo alla ritenuta natura permanente, e non istantanea, dell'illecito, che comporta una decorrenza anticipata della prescrizione dell'azione risarcitoria a svantaggio del danneggiato; c) delle norme, in linea ulteriormente gradata, che individuano un titolo lecito di legittimazione dell'acquisto dell'opera pubblica - e che si ipotizza potersi desumere dalle disposizioni di cui agli artt. 832, 834, 838, 922-948 del codice civile-in quanto attribuiscono al privato, secondo il <diritto applicato>, comunque solo il risarcimento e non anche l'indennizzo compensativo della corrispondente perdita del suo diritto dominicale; d) degli articoli, in via ancor più subordinata, 1418, primo comma, e 2043 del codice civile, <in quanto non prevedono una <sanatoria> in presenza dell'opera pubblica> , con conseguente diritto alla indennità, invece del solo risarcimento, per mancanza appunto di sanatoria.
3. - Di siffatte questioni l'Avvocatura dello Stato ha, come detto, eccepito la inammissibilità sotto plurimi profili. Dei quali i primi tre-formalmente o sostanzialmente comuni a tutti i quesiti-risultano infondati, mentre quelli ulteriori, relativi ai singoli quesiti, vanno accolti nei sensi e nei limiti che si diranno.
3.1. - Non è, infatti, per il primo profilo, di ostacolo alla ammissibilità della impugnativa la sua articolazione in quesiti plurimi, in quanto il giudice a quo non pone tra gli stessi un legame irrisolto di alternatività-che ne precluderebbe, come tale, l'esame (cfr. da ultimo ordinanza n. 73 del 1995; sentenze nn. 114 del 1994 e 207 del 1993)-sebbene un collegamento di subordinazione logica che viceversa consente, come più volte puntualizzato, la delibazione della questione subordinata, in caso di rigetto di quella che la precede (cfr. sentenze nn. 62 del 1991; 109, 311 e 369 del 1988; 31 del 1987; 188 del 1981; 107 del 1974).
3.2.-Neppure, poi, può discendere la dedotta inammissibilità della pretesa dalla natura meramente interpretativa delle questioni sollevate, una volta che il Tribunale rimettente, pur mostrando di non condividere l'esegesi da ultimo consolidatasi nella giurisprudenza della Corte di cassazione non ne pretende una revisione sul piano ermeneutico (effettivamente non consentita in questa sede: cfr. ordinanze nn. 410 44 del 1994), bensì, assumendo proprio quella interpretazione come diritto vivente, ne chiede una verifica sul piano della costituzionalità, il che innegabilmente invece rientra nel sindacato di legittimità riservato a questa Corte (cfr., in termini, da ultimo, sentenze nn. 110 e 58 del 1995).
3.3.-Ed infine le questioni proposte non possono dirsi irrilevanti in quanto volte ad ottenere l'addictio di una indennità non pretesa nel giudizio a quo (ove gli attori hanno azionato un diverso titolo risarcitorio), poichè il Tribunale rimettente ha congruamente, al riguardo, argomentato che la soluzione della questione sulla durata-decennale o quinquennale-della prescrizione dipende dal tipo di obbligazione ravvisabile in capo alla pubblica amministrazione, risarcitoria da illecito o indennitaria da atto lecito, con ciò mostrando la sua disponibilità ad accedere ad una diversa qualificazione giuridica della domanda, che certamente non gli è preclusa.
3.4.-È viceversa fondata, con riguardo alle prime due questioni, l'eccezione di preclusione del correlativo esame per <inesistenza dell'oggetto>. Ai sensi dell'art. 23 (sub <a>) della legge 11 marzo 1953, n. 87 (recante <Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale>), il giudice a quo è tenuto infatti, ad indicare <le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge, dello Stato o della Regione (che assuma) viziate da illegittimità costituzionale>.
Per cui la generica denuncia, come nella specie, di un <principio>-senza l'individuazione della disposizione che lo conterrebbe, e che costituisce viceversa il veicolo obbligato di accesso al giudizio di costituzionalità-comporta l'inammissibilità della questione.
3.5.-Inammissibile è anche la terza questione sollevata dal Tribunale, per la ragione-non prospettata dall'Avvocatura, ma da questa Corte rilevata d'ufficio-che la denuncia, in questo caso, coinvolge una non omogenea congerie di norme che abbraccia le disposizioni di un intero capo (il III) del codice civile (artt. da 922 a 947) concernenti, per un verso, la mera elencazione dei modi di acquisto della proprietà e, per altro verso, la disciplina specifica di taluni di questi, nonchè le disposizioni concernenti il contenuto del diritto di proprietà (832), l'espropriazione per pubblico interesse con rinvio alla legislazione speciale dell'istituto (art. 834) ed una ipotesi particolare dell'espropriazione stessa (art. 838) e, infine, l'azione di rivendicazione (art. 948).
4. -Residua così la sola quarta questione che-con esclusione, per altro, del profilo di denuncia dell'art. 1418 del codice civile, il cui richiamo è del tutto non pertinente, come eccepito dall'Avvocatura dello Stato (trattandosi di norma relativa alla disciplina del contratto che non ha alcun elemento di aggancio alla fattispecie considerata), ed escluso altresì il riferimento all'art. 53 della Costituzione, la cui violazione è enunciata senza alcun supporto di motivazione - va, per la restante parte, esaminata nel merito.
4.1.-Tale questione (di legittimità dell'art. 2043 del codice civile in riferimento agli artt. 3 e 42 Costituzione) è infondata.
La premessa-da cui anche questa censura (come l'intera impugnativa del Tribunale a quo) muove-è quella invero che si verifichi, nella fattispecie, una vicenda fattuale di traslazione di un bene, con effetti sul piano giuridico (di perdita del dominio, da parte dell'originaria titolare, ed acquisto della proprietà, sul bene medesimo, da parte dell'occupante, che lo ha utilizzato per soddisfare le esigenze dell'opera pubblica) sostanzialmente simili a quelli propri di una rituale espropriazione, ancorchè, in questo caso, manchino sia una formale procedura ed un provvedimento ablatorio, sia la previsione di legge in base alla quale il trasferimento coattivo può essere disposto, ed anzi tutta la dinamica di tali effetti sia contra legem.
Su tale premessa appunto si innesta l'ipotesi di violazione dell'art. 42 Cost. (per inosservanza dei presupposti e delle condizioni cui è costituzionalmente subordinata l'ablazione della proprietà) e dell'art. 3 (da intendersi, con riferimento all'ultimo dei quattro profili prospettati residuato all'esame di merito, come ingiustificata omissione della previsione di una sopravvenienza <sanante> idonea ad equiparare quoad effectum la illecita occupazione acquisitiva alla lecita vicenda espropriativa).
4.2.-Ma è proprio l'assunzione della riferita premessa che vizia in radice la prospettazione del denunciante, in quel che è il nucleo fondamentale delle sue argomentazioni, poichè - nella (ormai) consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (dalla quale lo stesso Tribunale a quo dichiara di muovere ed in relazione alla quale questa Corte è chiamata ad esercitare il suo sindacato di costituzionalità, perchè è questa la norma che effettivamente vive nella concreta realtà dei rapporti giuridici)-ciò che si esclude è, segnatamente, siffatta traslazione di un idem, ricostruendosi, invece, la vicenda in termini di manipolazione-distruzione di un quid e parallela acquisizione di un aliud, residuale a quella manipolazione.
Si trova infatti, più volte ed a chiare lettere, ribadito nella richiamata giurisprudenza (ed, in particolare, nelle pronunzie delle Sezioni unite) che l'elemento qualificante della fattispecie è <l'azzeramento del contenuto sostanziale del diritto e la nullificazione del bene che ne costituisce oggetto>; <la vanificazione>, cioè, <della individualità pratico-giuridica> dell'area occupata, in conseguenza della <materiale manipolazione dell'immobile nella sua fisicità>, che ne comporta una < trasformazione così totale da provocare la perdita dei caratteri e della destinazione propria del fondo, il quale in estrema sintesi non è più quello di prima>.
Ed appunto questa <perdita> è l'evento che, in quella ricostruzione, si pone in rapporto di causalità diretta con l'illecito della pubblica amministrazione. Mentre l'acquisto, in capo alla medesima, del nuovo bene risultante dalla trasformazione del precedente, si configura invece come una conseguenza ulteriore, eziologicamente dipendente non dall'illecito ma dalla situazione di fatto-realizzazione dell'opera pubblica con conseguente non restituibilità del suolo in essa incorporato-che trova il suo antecedente storico nell'illecita occupazione e nella illecita destinazione del fondo alla costruzione dell'opera stessa.
4.3. - Per ciò, appunto, resta in primo luogo esclusa la violazione dell'asserito principio che non consente la produzione di effetti positivi a mezzo di atto illecito in favore del suo autore. E viene del pari ad escludersi la vulnerazione dell'art. 42, come dell'art. 3 (nei sensi innanzi indicati), della Costituzione, una volta che la vicenda in esame - fuori da ogni riconducibilità o comparabilità ad uno schema traslativo, come quello presupposto dal citato art. 42-si scinde per un verso, in negativo, in una condotta di occupazione ed irreversibile manipolazione del suolo (cui consegue l'estinzione del diritto di proprietà per svuotamento dell'oggetto) che ha tutti i crismi dell'illecito; e per altro verso, in positivo, in una acquisizione dell'opera di pubblica utilità, su di esso costruita, a vantaggio dell'ente pubblico.
Effetto, quest'ultimo, che-alla stregua della regola di diritto applicato (desunta dallo stesso principio fondamentale dell'ordinamento che, nei rapporti tra privati, ispira la disciplina dell'accessione ordinaria)-realizza un modo di acquisto della proprietà, previsto dall'ordinamento sul versante pubblicistico, giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione dell'opera in tesi pubblica) e l'interesse privato (relativo alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza <costituzionale> è ulteriormente coonestata dal suo porsi come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà (cfr. sentenza n. 384 del 1990).
4.4. - Conclusivamente, la norma applicata contiene - ancorchè non l'unica possibile - una regolamentazione costituzionalmente non illegittima del sotteso conflitto di interessi.
E, in tale contesto, la disciplina conseguenziale all'estinzione del diritto dominicale (non equiparazione, per sanatoria, della fattispecie della occupazione acquisitiva a quella della espropriazione per pubblica utilità; conseguente diritto al risarcimento e non alla indennità; istantaneità-a causa della dinamica della vicenda ablativo-acquisitiva - e non permanenza dell'illecito; tipo di prescrizione applicabile e momento iniziale della sua decorrenza) per un verso è coerente alla connotazione illecita della vicenda e, per altro verso, rientra nella discrezionalità delle scelte legislative (vedi così per l'applicazione al <diritto risarcitorio del proprietario> della <prescrizione ordinaria> anche alla ipotesi di <accessione invertita a favore della pubblica amministrazione che avvenga nel corso di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità> la recente proposta di legge di iniziativa parlamentare Camera dei deputati n. 1976).
4.5. - In particolare, per quel che poi attiene al dies <a quo> della prescrizione in materia ed alle dedotte <difficoltà> di individuarlo in concreto-a parte la considerazione che un tale rilievo avrebbe semmai dovuto rapportarsi al parametro (qui invece non invocato) dell'art. 24 Cost., e che comunque la ipotizzata censura avrebbe dovuto misurarsi con la consolidata regola giurisprudenziale secondo la quale le difficoltà di fatto, relative all'applicazione di una norma, non ne involgono un problema di costituzionalità-non sembra inopportuno ancora sottolineare che le lamentate difficoltà, in realtà, non sussistono.
Infatti lo spirare del termine di occupazione legittima (od il suo divenire comunque illegittima in conseguenza del definitivo annullamento, in sede amministrativa, dei <provvedimenti> che essa presuppone) costituiscono, per un soggetto dotato di ordinaria diligenza, un chiaro ed inequivocabile campanello di allarme. Nel senso che se la irreversibile trasformazione del suolo sia avvenuta temporalmente all'interno del periodo di legittima occupazione, poichè è solo allo scadere del termine stesso che (per pacifica giurisprudenza) si consuma l'illecito, il proprietario ben sa che è quello appunto il dies a quo dell'azione risarcitoria. Mentre se la manipolazione del suolo non risulti a quella data ancora ultimata, o neppure intrapresa, nessuna ragione ha il proprietario di procrastinare l'azione giudiziaria, potendo egli a quel momento ottenere, oltre al ristoro dei danni per l'illecita occupazione, la stessa restituzione del suolo - detenuto ormai sine titulo - nella sua identità, ovvero, se nelle more l'irreversibile trasformazione dell'area si compia nei sensi indicati, il risarcimento per la perdita integrale di essa (ben più remunerativo, allo stato, dell'indennizzo espropriativo), senza che alcun problema di prescrizione si ponga, per l'effetto interruttivo della domanda giudiziale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 del codice civile sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 42 della Costituzione, dal Tribunale superiore delle acque pubbliche con l'ordinanza in epigrafe; dichiara inammissibile ogni altra questione sollevata dal medesimo Tribunale superiore delle acque pubbliche, con la stessa ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/05/95.
Antonio BALDASSARRE, Presidente
Renato GRANATA, Redattore
Depositata in cancelleria il 23/05/95.