SENTENZA N. 114
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 159, primo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 2 giugno 1993 dal Pretore di Potenza nel procedimento penale a carico di Parrella Francesco ed altri, iscritta al n. 449 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. Il Pretore di Potenza, dopo aver premesso che nel giudizio a quo dovrebbe essere dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, il cui decorso è stato fra l'altro cagionato dalla sospensione con rinvio del dibattimento dal 30 gennaio al 15 ottobre 1992 a causa dell'astensione dalle udienze dei difensori proclamata dalla assemblea del locale Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori, rileva che la mancata previsione, tra le cause di sospensione della prescrizione di "fatti genericamente riconducibili all'imputato o al suo difensore" e non sintomatici, quindi, di una inerzia dello Stato nell'esercizio della sua potestà punitiva, si giustifica solo con l'esigenza di assegnare certezza alle situazioni giuridiche.
Tale giustificazione viene peraltro a cadere, secondo il giudice a quo, nelle ipotesi in cui la sospensione o il rinvio del procedimento non dipenda da esigenze processuali, ma da condotte dell'imputato e del difensore che, per quanto "apprezzabili", non si raccordano strettamente all'esercizio del diritto di difesa. In tali situazioni, il confronto tra la disciplina dettata dall'art.159 del codice penale e le disposizioni che vengono coinvolte evidenzia contraddittorietà di scelte normative non giustificate sul piano dei valori costituzionali, generando disparità di trattamento che vulnera l'art. 3 della Costituzione. Tale disparità emergerebbe, secondo il rimettente, in relazione all'ipotesi descritta dall'art.16, lett. c), della legge 22 maggio 1975, n. 152, considerato che i delitti cui questa norma si riferisce richiedono con minore evidenza la disciplina sospensiva che la norma stessa prevede in quanto caratterizzati da termini di prescrizione assai lunghi, mentre una simile scelta può apparire necessaria in relazione ai reati che presentino termini di prescrizione molto brevi e che attengono ad interessi costituzionalmente tutelati, quale è quello all'ambiente.
Altra disposizione che viene evocata è l'art. 304, primo comma, lett.b), del codice di procedura penale, in quanto - sostiene il giudice a quo - sarebbe priva di razionalità la scelta del legislatore di essersi fatto carico di impedire in determinati casi la perenzione della custodia cautelare, istituto di carattere meramente processuale, senza preoccuparsi "invece di assicurare, nelle stesse situazioni, l'interesse sostanziale alla punizione del colpevole impedendo la prescrizione dei reati".
Da tutto ciò, quindi, il rimettente trae fondamento per sollevare, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 159, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede l'ipotesi di specie tra le cause di sospensione del corso della prescrizione ovvero, in subordine, non consente l'adozione di un provvedimento analogo a quello previsto dall'art. 304, primo comma, lett. b), del codice di procedura penale.
2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Deduce anzitutto l'Avvocatura che il caso prospettato dal giudice a quo deve qualificarsi come rinvio e non come sospensione, sicchè diverrebbe irrilevante l'art. 159 del codice penale, che si riferisce, invece, ai casi di sospensione del procedimento penale.
Scandagliata, poi, la problematica relativa alla disciplina dettata in tema di impedimento del difensore, l'Avvocatura osserva che l'art.486, quinto comma, del codice di procedura penale, sembra demandare al giudice una scelta tra sospensione e rinvio. Per i casi in cui la soluzione obbligata sia la sospensione, non è escluso - afferma l'Avvocatura - che la Corte ravvisi per tali ipotesi un caso di sospensione "disposta da una particolare disposizione di legge" che, a norma dell'art.159, primo comma, del codice penale, condurrebbe a conseguenze opposte a quelle che il giudice a quo presuppone, in quanto il periodo intercorso tra le due udienze del giudizio principale citate nell'ordinanza di rimessione non dovrebbe essere computato a fini di prescrizione.
Considerato in diritto
1. Il Pretore di Potenza, nel rilevare che il reato in ordine al quale procede in fase dibattimentale è estinto per intervenuta prescrizione e che il verificarsi di tale causa estintiva è in parte dovuto alla "forzata sospensione con rinvio del dibattimento" cagionato dalla assenza di tutti i difensori degli imputati, avendo questi aderito alla astensione dalle udienze proclamata dal locale Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 159, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo della durata della sospensione e del rinvio del dibattimento conseguenti a mancata presentazione, allontanamento o mancata partecipazione del difensore dell'imputato, dovuti alla astensione dalle udienze deliberata dalla categoria professionale, che rendono l'imputato stesso privo di assistenza.
In subordine - prosegue l'ordinanza di rimessione - l'illegittimità stessa potrebbe profilarsi per la parte in cui l'art.159, primo comma, del codice penale non prevede, per le suddette ipotesi, l'adozione di un provvedimento giudiziale impugnabile di sospensione dei termini di prescrizione del reato per il tempo corrispondente alla durata della sospensione e del rinvio del dibattimento. Al nucleo della dedotta violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza starebbe, secondo il giudice a quo, un duplice profilo di contraddittorietà delle scelte operate dal legislatore: da un lato, infatti, la disciplina della sospensione della prescrizione dettata dall'art. 16, lett.c), della legge 22 maggio 1975, n. 152, dovrebbe estendersi anche ad altre fattispecie che, prevedendo termini di prescrizione assai brevi, offendono valori di risalto costituzionale; sotto altro aspetto, il rimettente censura come non rispondente "a canoni di razionalità" l'opzione legislativa di impedire la "perenzione" della custodia cautelare attraverso l'istituto disciplinato dall'art. 304, primo comma, lett. b), del codice di procedura penale, senza che una omologa previsione sia invece dettata al fine di "assicurare, nelle stesse situazioni, l'interesse sostanziale alla punizione del colpevole impedendo la prescrizione dei reati".
2. L'Avvocatura Generale dello Stato, nel sollecitare declaratoria di non fondatezza della questione, conclusivamente rileva come l'art. 486, quinto comma, del codice di procedura penale, sembra riservare al giudice una scelta tra la sospensione o il rinvio del dibattimento, sicchè, osserva la difesa dello Stato, "ove la soluzione tecnicamente obbligata fosse quella della sospensione", non sarebbe escluso che questa Corte ravvisasse una ipotesi di sospensione del procedimento "imposta da una particolare disposizione di legge" che, a norma dell'art. 159, primo comma, del codice penale, determinerebbe l'effetto di sospendere il corso della prescrizione con conseguenze antitetiche rispetto a quelle che il giudice a quo pone a base delle proprie doglianze.
La soluzione interpretativa che l'Avvocatura, seppur dubitativamente, rimette a questa Corte, non può essere accolta. A prescindere, infatti, dalla mancata puntualizzazione di quali sarebbero le ipotesi in cui la sospensione del dibattimento integrerebbe "soluzione tecnicamente obbligata" e dalla quanto mai discutibile tesi secondo la quale l'art. 486, quinto comma, del codice di procedura penale, riserverebbe al giudice un potere di scelta - e non è dato comprendere in base a quali parametri - tra il provvedimento di sospensione e quello di rinvio, resta il fatto che, nè sotto la vigenza del codice abrogato nè con riferimento al nuovo codice di rito, risulta essersi affermata in dottrina o in giurisprudenza una tesi interpretativa che abbia ricondotto le ipotesi di stasi dibatti mentale dovute all'impedimento dell'imputato o del suo difensore nell'alveo del concetto di sospensione del procedimento penale imposto da una particolare disposizione di legge, sospensione che, a mente della norma oggetto di impugnativa, opera anche sul corso della prescrizione.
Se, da un lato, dunque, può riconoscersi che la mancanza di una chiara definizione normativa della complessa problematica che ruota attorno alla fenomenologia della sospensione del processo, già avvertita con riferimento al codice del 1930, non solo non è stata portata a coerente soluzione dal legislatore del 1988 ma, anzi, risulterebbe acuita attraverso l'impiego di quella che la stessa Avvocatura definisce essere una "disarmonica terminologia", è altrettanto vero che, proprio in virtù di tale ambiguità di fondo, la linea interpretativa presupposta dal giudice a quo, sin qui priva di adeguati contrasti, non può essere disattesa da questa Corte.
3. Entrambe le questioni che il rimettente solleva, in via principale l'una e in via subordinata l'altra, sono però inammissibili.
Con la prima, infatti, il giudice a quo mira ad introdurre una nuova ipotesi di sospensione del corso della prescrizione per i casi in cui il dibattimento non possa essere celebrato per mancata partecipazione del difensore dell'imputato dipendente dalla astensione dalle udienze deliberato dalla categoria professionale; con la seconda, invece, si intende perseguire il medesimo risultato attraverso un provvedimento del giudice modellato sulla falsariga di quello previsto dall'art. 304, primo comma, lett. b), del codice di procedura penale, in tema di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare. Già l'alternativa che il giudice a quo propone, evidenzia, dunque, la pluralità delle possibili opzioni normative che varrebbero a soddisfare il petitum che il rimettente mostra di perseguire: scelte, quindi, che soltanto il legislatore può essere abilitato a compiere, non potendosi prefigurare una soluzione univoca come la sola costituzionalmente dovuta. Ma al di là di tale rilievo, che pur scaturisce dalla stessa articolazione dei quesiti sottoposti all'esame di questa Corte, resta il dato assorbente e pregiudiziale rappresentato dal fatto che il giudice a quo sollecita nella specie una pronuncia additiva in malam partem, volta ad introdurre una nuova ipotesi di sospensione del corso della prescrizione al di fuori dei casi previsti dalla legge: una pronuncia, quindi, che palesemente fuoriesce dai poteri spettanti a questa Corte, ostandovi il principio di legalità sancito dall'art. 25 della Costituzione (v., da ultimo, sempre in tema di prescrizione del reato, l'ordinanza n. 489 del 1993 e, per ipotesi analoghe, le ordinanze nn. 188 e 98 del 1983).
Ciò non esclude peraltro l'auspicio che situazioni del tutto patologiche, come quella descritta nel provvedimento di rimessione, formino oggetto di attento esame da parte del legislatore. Infatti, se può ritenersi risolto con equilibrio il problema dell'impedimento del difensore dovuto a concorrenti impegni professionali, alla luce dei risultati cui è pervenuta sul punto la giurisprudenza di legittimità (v., in particolare, la sentenza delle Sezioni Unite penali del 27 marzo 1992, n. 4708), resta al contrario privo di qualsiasi adeguato bilanciamento di valori il ben diverso aspetto dell'assenza, non del singolo difensore, ma di tutti i difensori, in dipendenza della loro adesione alle manifestazioni di protesta deliberate dagli organismi di categoria.
Manifestazioni che, per livello partecipativo e durata, possono in concreto determinare la paralisi dell'esercizio della funzione giurisdizionale, con conseguente, grave compromissione di fondamentali principii che il costituente ha inteso affermare. D'altra parte, se il legislatore ha avvertito la necessità di dettare, proprio in funzione della salvaguardia di beni costituzionalmente tutelati, norme sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ricomprendendo fra questi anche l'amministrazione della giustizia (v. art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146), non v'è ragione per cui debbano restare esenti da specifiche previsioni forme di protesta collettiva che, al pari dello sciopero, sono in grado di impedire il pieno esercizio di funzioni che assumono, come quella giurisdizionale, un risalto primario nell'ordinamento dello Stato.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 159, primo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Potenza con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/03/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 31/03/94.