SENTENZA N. 518
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Cesare RUPERTO
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 28 gennaio 1998 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di G. L. e altra, iscritta al n. 698 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1. — Con ordinanza del 28 gennaio 1998 emessa nel corso dell’udienza preliminare, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale, "nella parte in cui punisce, qualificandolo come incestuoso, il rapporto sessuale e/o sentimentale tra affini in linea retta".
2. — Nel giudizio principale si procede nei confronti di due persone, rispettivamente suocero e nuora, per il reato di cui all’art. 564, secondo comma, cod. pen., perchè – secondo l’imputazione - essendo tra loro affini in linea retta, hanno instaurato una relazione incestuosa in modo da farne derivare pubblico scandalo. All’esito delle indagini e dell’udienza preliminare, osserva il rimettente, le fonti di prova acquisite risultano sufficienti ai fini del rinvio a giudizio degli imputati, per il reato loro contestato; ma riguardo alla norma incriminatrice il giudice di merito prospetta dubbi di costituzionalità, rilevanti in quanto non sussistono le condizioni per una pronuncia di non luogo a procedere a norma dell’art. 425 cod. proc. pen.
3. — Il giudice rimettente osserva che stabilire una sanzione penale per determinate condotte é indubbiamente una scelta che compete al legislatore nella sua discrezionalità, della quale, proprio in tema di incesto, storicamente risultano numerose manifestazioni, ad esempio nella legislazione penale preunitaria.
Ma - prosegue il rimettente - é altrettanto vero che le scelte del legislatore in materia di incriminazioni sono controllabili, in sede di giudizio di costituzionalità, secondo il criterio di ragionevolezza; un criterio, questo, che nell’ordinanza di rimessione é individuato attraverso il testuale richiamo di enunciati della Corte costituzionale che di esso hanno definito i contenuti, relativamente alla materia della legge penale sostanziale: a) la necessità che la previsione incriminatrice, anche se "... presumibilmente idonea a raggiungere finalità statuali di prevenzione, non produca, attraverso la pena, danni ai diritti fondamentali dell’individuo ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (e da ottenere) ... con la tutela dei beni e dei valori offesi" (così la sentenza n. 409 del 1989, richiamata nella successiva n. 341 del 1994); b) l’esigenza che "... la pena sia proporzionale al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuali".
Inoltre, il giudice a quo, in relazione al parametro della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione), richiama la necessaria proporzione tra la qualità e l’entità delle pene, da un lato, e l’offesa recata dal fatto, dall’altro (secondo le indicazioni delle sentenze nn. 313 del 1990, 343 del 1993 e 341 del 1994).
Nella verifica del rispetto del canone di ragionevolezza, aggiunge il rimettente, sono stati inoltre valorizzati dalla Corte elementi di indagine storico-comparatistica (così nella sentenza n. 341 del 1994), ovvero é stata rilevata l’incongruenza tra il comune sentire di un certo tempo - la "coscienza sociale" - e l’incriminazione di certi fatti, e ciò sia sul piano della quantità della pena (ancora la sentenza n. 341), sia su quello della stessa tipologia dell’incriminazione (sentenza n. 519 del 1995).
Alla luce di tali enunciati della giurisprudenza costituzionale, il giudice di merito dubita, sul piano costituzionale, che la compressione della libertà personale - diritto inviolabile della persona (art. 13, primo comma, in relazione all’art. 2 della Costituzione) - che consegue al reato in discorso possa dirsi proporzionata e giustificata rispetto ai beni che la fattispecie penale mira a tutelare.
Quest’ultima, osserva il giudice a quo, non può certo dirsi dettata dalla ratio di evitare relazioni sessuali tra consanguinei, poichè gli affini tali non sono, nè dall’obiettivo di tutela dell’unità e integrità della famiglia in sé considerata, giacchè la sanzione penale é applicabile solo se alla condotta di incesto segue il "pubblico scandalo", requisito in mancanza del quale - indipendentemente dalla sua qualificazione giuridica come elemento della condotta o come condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 cod. pen. - l’incesto non é punibile.
Se ne desume, prosegue il rimettente, che l’incriminazione in argomento, relativamente agli affini, assume quale proprio oggetto di tutela l’obbligo di fedeltà coniugale, in quanto il rapporto di affinità sorge come conseguenza di un rapporto coniugale; e la fedeltà coniugale non é neppure tutelata in modo assoluto, perchè, come già accennato, é richiesto che si verifichi il "pubblico scandalo", cosicchè può dirsi conclusivamente che lo scopo della fattispecie incriminatrice é quello della "tutela del valore sociale che alla fedeltà coniugale viene attribuito".
Ma l’obbligo di fedeltà coniugale non potrebbe dirsi oggi un bene fondamentale sul piano costituzionale, come dimostrerebbero le pronunce della Corte in tema di reati di adulterio e di concubinato (sentenze nn. 126 del 1968 e 147 del 1969); appare dunque sproporzionato e irragionevole il sacrificio della libertà personale rispetto a una ipotetica tutela di un sentimento collettivo di riprovevolezza che, nel tempo attuale, non sembra più sostenibile, posto che non vengono in rilievo nè i legami di consanguineità nè l’unità familiare in sè considerata ma, al più, l’"immagine" del contesto e dei rapporti familiari quali si presentano all’esterno. La punizione dell’incesto tra affini risulta così rispondente a una concezione che ha riguardo all’"apparire" della famiglia, vista come cellula etica e autoritaria in seno a una società che tuttavia non risponde più nel suo complesso a questa impostazione.
Del resto, più in generale non sembra al rimettente comunque possibile giustificare oggi una sanzione penale solo alla stregua di concezioni etiche o religiose, come dimostrerebbero le normative in tema di divorzio, di aborto, di transessualità.
Da ultimo, si osserva nell’ordinanza di rinvio che la norma denunciata contiene una ulteriore incongruenza: essa punisce il rapporto tra affini in linea retta, ma non quello tra zio e nipote, che pure sono legati da vincoli di sangue e che sono considerati, agli effetti della legge penale, quali "prossimi congiunti" (art. 307, secondo comma, cod. pen.).
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno dubita della legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale, nella parte in cui punisce - con la reclusione da uno a cinque anni - chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un affine in linea retta. La disposizione denunciata violerebbe gli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.
Ad avviso del rimettente, l’incriminazione dell’incesto tra affini in linea retta (nella specie: suocero e nuora) sarebbe viziata per irragionevolezza sotto vari profili, con riferimento ai principi che le norme costituzionali evocate esprimono e alla luce dei limiti di discrezionalità del legislatore penale elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte.
Il giudice rimettente, innanzitutto, esclude che la ragion d’essere della figura di reato prevista dall’art. 564, primo comma, del codice penale possa essere individuata nell’intento di evitare una possibile commixtio sanguinis. La fattispecie incriminatrice abbraccia infatti anche il fatto commesso tra non consanguinei (gli affini in linea retta, per l’appunto) e non quello fra zio e nipote, soggetti tra i quali esiste invece un rapporto di consanguineità. Ad avviso del rimettente, poi, essendo la punibilità dell’incesto subordinata al verificarsi del pubblico scandalo, si dovrebbe escludere anche che il bene protetto sia l’unità e l’integrità della famiglia come valore concreto. Poichè l’incesto dal quale non derivi pubblico scandalo resta confinato tra le relazioni interpersonali prive di rilevanza per la legge penale, se ne dovrebbe inferire che la norma che lo prevede come reato protegge esclusivamente l’immagine esteriore della famiglia, in corrispondenza con una concezione etica e autoritaria della famiglia stessa e della vita in società, non conforme al sistema dei diritti di libertà previsti dalla Costituzione.
Sempre ad avviso del giudice rimettente, la norma denunciata sarebbe altresì irragionevole per violazione del limite della discrezionalità legislativa, tanto sotto il profilo della necessaria proporzione tra il valore del bene protetto e il valore della libertà individuale (artt. 13, primo comma, e 2 della Costituzione) (sentenze nn. 409 del 1989 e 341 del 1994) quanto rispetto alla finalità rieducativa della sanzione penale (art. 27, terzo comma, della Costituzione): una sanzione - come sarebbe dimostrato dalle sentenze nn. 126 del 1968 e 147 del 1969 di questa Corte, in materia di adulterio - per sua natura incongrua, in generale, nel campo delle relazioni affettive e sessuali, e, in particolare, come misura sanzionatoria comminata a presidio della fedeltà coniugale, bene che si potrebbe ritenere compromesso nel caso dell’incesto tra affini, in relazione agli obblighi di questi verso i rispettivi coniugi.
A ciò sarebbe da aggiungere, sempre secondo il giudice rimettente, che la norma denunciata non corrisponde, allo stato attuale del costume, alla coscienza sociale, posto che la condotta punita, nel caso di incesto tra affini, non interferisce con rapporti di consanguineità e in generale non necessariamente attenta all’unità familiare.
2. – La questione non é fondata.
2.1. – L’art. 564 del codice penale punisce come incesto i rapporti sessuali tra soggetti legati da vincoli di parentela o di affinità, tenuti in modo che ne derivi pubblico scandalo.
Quale sia il "bene giuridico" protetto dalla norma é oggetto di discussione già dal momento dell’elaborazione del codice penale.
E’ da escludere innanzitutto che esso consista nella difesa delle relazioni familiari dalle prevaricazioni di natura sessuale. L’incesto é atto di persone consenzienti, la violenza (effettiva o presunta) rilevando rispetto ad altri reati, non a questo. E’ altresì da escludere che la norma miri a proteggere la fedeltà coniugale.
Dai lavori preparatori risulta che il legislatore dell’epoca fu mosso da un duplice interesse: l’uno, di natura eugenetica (l’integrità e sanità della stirpe, nel linguaggio di allora); l’altro, di natura familiare. La giustificazione obbiettiva della norma, peraltro, non può essere individuata nel primo di tali interessi. Non solo essa si baserebbe su un assunto - l’unione tra consanguinei essere di per sè foriera di danni genetici – sul piano scientifico dibattuto. Ma soprattutto, alla stregua di tale giustificazione, non si comprenderebbe nè l’inclusione nella fattispecie di reato del rapporto sessuale tra soggetti, gli affini, tra i quali non corrono legami di sangue, nè l’irrilevanza della procreazione, come fatto o come possibilità. La protezione di un "bene eugenetico", ancorchè preso in considerazione dal legislatore del tempo, non può dunque essere assunta come ragion d’essere della norma denunciata e ciò esclude che l’esame della questione di legittimità costituzionale sottoposta alla Corte debba essere impostato sotto un simile punto di vista.
L’art. 564 del codice penale, invece, offre protezione alla famiglia, come é testimoniato dalla sua collocazione nel Titolo XI del Libro II del codice penale, "Dei delitti contro la famiglia" (e non nell’abrogato Titolo X, "Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe"). Più precisamente, in corrispondenza a un ethos le cui radici si perdono lontano nel tempo, mira a escludere i rapporti sessuali tra componenti della famiglia diversi dai coniugi: un’esclusione determinata dall’intento di evitare perturbazioni della vita familiare e di aprire alla più vasta società la formazione di strutture di natura familiare.
Non c’é nessuna ragione per escludere che il legislatore possa dettare norme per il perseguimento di queste finalità: finalità che non corrispondono solo a punti di vista morali o religiosi circa la concezione della famiglia. E, allo stesso modo, non c’é motivo di dubitare che al legislatore spetti altresì il potere – da esercitare nell’ambito delle sue facoltà di apprezzamento discrezionale, censurabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale nei soli limiti della manifesta arbitrarietà – di valutare l’estensione dei tipi di relazione familiare, cioé di definire i confini della famiglia nella specie rilevante, in cui il divieto penalmente sanzionato viene fatto operare.
Sotto questo profilo – diversamente da ciò che si dovrebbe ritenere se la ratio della norma denunciata fosse da rinvenire nella protezione di un interesse eugenetico – non sembra potersi dubitare che l’inclusione degli affini in linea retta tra i soggetti i cui rapporti sessuali integrano il reato di incesto rientri nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore che questa Corte deve rispettare.
Le ragioni anzidette conducono così a ritenere l’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte del legislatore.
2.2. – Il giudice rimettente trae motivi di dubbio circa la legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale dalla previsione del pubblico scandalo (non importa qui se elemento della fattispecie o condizione obiettiva di punibilità: questione discussa) per farne dipendere l’irrogazione della pena prevista. La sanzione penale mirerebbe alla salvaguardia di un’immagine esteriore della famiglia come valore astratto, al quale le posizioni dei singoli sarebbero finalizzate e, se del caso, sacrificate. Si potrebbe dire così: dalla norma penale, per il modo in cui é strutturata, risulterebbe che lo stesso fatto di incesto, se confinato nello spazio privato delle relazioni interpersonali, é penalmente irrilevante; se viene invece a essere conosciuto all’esterno provocando scandalo, solo allora assume rilievo penale. I singoli colpiti dalla sanzione penale fungerebbero da mezzi; il fine sarebbe la moralità, o la percezione sociale della moralità della famiglia. Ma – questa é la conclusione del giudice rimettente – nel sistema costituzionale fondato sulla priorità della persona rispetto agli organismi sociali in cui si svolge la personalità, sono i secondi a poter essere finalizzati alla prima, non viceversa.
L’opportunità della previsione del pubblico scandalo fu oggetto di una certa divisione di opinioni e lo stesso Ministro guardasigilli dell’epoca oscillò. Il Progetto preliminare del codice penale lo menzionava solo come aggravante. Negli argomenti portati a favore della soluzione adottata, non mancarono certo toni che avvalorano il punto di vista del giudice rimettente, come quando si osservò, ancora dal Ministro (Relazione del Guardasigilli sul Progetto definitivo del codice penale - Libro II, punto n. 628) che aprire l’adito a indagini nell’interno delle famiglie sarebbe stato gravissimo per le "funeste conseguenze" che ne sarebbero derivate, con "danno incalcolabile alla morale pubblica". Tuttavia, la scelta alla fine prevalsa si può giustificare semplicemente come un non irragionevole bilanciamento (non infrequente ove si abbia a che fare con la vita familiare) tra l’esigenza di repressione dell’illecito e la protezione della tranquillità degli equilibri domestici da ingerenze intrusive, quali investigazioni della pubblica autorità alla ricerca del reato (ricerca che in ipotesi potrebbe non avere esito, derivando da informative infondate, pretestuose o persecutorie). Una volta verificatosi il pubblico scandalo, però, non vi é più ragione per frapporre ostacolo all’azione repressiva dello Stato.
Così ragionando, senza evocare impegnativi dilemmi ideologici, si finisce per giustificare la scelta, conforme a quella contenuta nel codice Zanardelli, compiuta dal legislatore penale del 1930 e per escludere la violazione dell’invocato art. 2 della Costituzione.
2.3. – Deve essere altresì respinto il dubbio di costituzionalità formulato in riferimento all’art. 13, primo comma, in relazione all’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della necessaria proporzione tra il valore del bene protetto dalla norma penale e il valore della libertà individuale: dubbio prospettato dal giudice rimettente sulla base della convinzione che la norma denunciata, per avere incorporato l’elemento del pubblico scandalo, sia posta a presidio di un mero modo di apparire dell’istituto familiare. Una volta confutata - come si é fatto al punto precedente - questa premessa, cade la possibilità di ragionare nei termini proposti di esigenze di proporzionalità rispetto al valore della libertà personale.
2.4. – Anche rispetto al principio della finalità rieducativa della sanzione penale (art. 27, terzo comma, della Costituzione), la questione di costituzionalità non é fondata. Il giudice rimettente é scettico sulla possibilità che, quando siano in campo relazioni affettive e sessuali, la pena detentiva possa di per sè promuovere la rieducazione del condannato, secondo l’espressione e l’intendimento della Costituzione. Ricorda in proposito, a sostegno della sua posizione, le sentenze di questa Corte nn. 126 del 1968 e 147 del 1969, in materia di adulterio: due decisioni di incostituzionalità di norme penali, tuttavia, che facevano valere il principio di uguaglianza e quindi difficilmente utilizzabili in un’argomentazione circa il rapporto tra il tipo di pena e il tipo di reato.
Sennonchè, l’argomento speso dal giudice rimettente, rilevante in sede di politica delle pene, andrebbe troppo in là se applicato nel giudizio di costituzionalità sulle leggi. Esso assolutizza nella sola rieducazione la funzione della pena e introduce una valutazione sulla congruità del nesso tra tipo di reato e tipo di pena che, potendosi applicare per qualunque fattispecie incriminatrice, potrebbe finire per sconvolgere il sistema sanzionatorio penale. E porterebbe all’assurda conclusione che, per fatti di possibile rilevanza penale (come é l’incesto, alla stregua delle considerazioni del punto 2.1.), possa accadere che non vi siano pene idonee, per irraggiungibilità del risultato al quale, secondo l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, esse devono tendere.
3. – Queste considerazioni portano a concludere che le censure mosse dal giudice rimettente all’art. 564 del codice penale non si basano su vizi rilevabili nel giudizio di legittimità costituzionale ma si risolvono in critiche di opportunità alla norma, il cui apprezzamento non compete a questa Corte, rientrando nella discrezionalità del legislatore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 564 del codice penale (Incesto), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata in cancelleria il 21 novembre 2000.