SENTENZA N. 343
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 148 e 151 del codice penale militare di pace e dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), promosso con ordinanza emessa il 22 luglio 1992 dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico di Cospito Alfredo, iscritta al n. 507 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 1993 il Giudice relatore Antonio BALDASSARRE.
Ritenuto in fatto
l. Con ordinanza regolarmente notificata e pubblicata, il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione, nei confronti degli artt.148 e 151 del codice penale militare di pace e dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), nella parte in cui non prevedono che siano esonerati dal servizio militare coloro che, avendo dichiarato di rifiutare incondizionatamente il servizio militare per motivi diversi da quelli indicati dall'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, siano stati condannati per l'omessa prestazione del servizio militare ad una pena complessivamente non inferiore ad un anno di reclusione.
Il giudice a quo - dopo aver ricordato di essere stato investito della richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto di rinvio a giudizio per il reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.) nei confronti di Alfredo Cospito, un militare ex detenuto, condannato per diserzione aggravata e ammesso al differimento dell'esecuzione della pena, che non si era ripresentato alle armi alla scadenza di una licenza di convalescenza e a tutt'oggi in arbitraria assenza - osserva che l'esame degli indicati profili di legittimità costituzionale non può prescindere da una descrizione della vicenda giudiziaria accaduta all'imputato in conseguenza della pervicace inosservanza, da parte dello stesso, dell'obbligo di prestare servizio militare.
Chiamato alle armi e dichiaratosi "obiettore totale" per motivi non riconducibili all'art. 1 della legge n. 772 del 1972 (dalla lettura del fascicolo risulta che l'imputato ha dichiarato al giudice di essere anarchico e, pertanto, ha sostenuto di non sentirsi vincolato in coscienza dal dovere di prestare il servizio militare o altro servizio alternativo), Alfredo Cospito è stato condannato una prima volta per il reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.) ad un anno di reclusione. Scontata soltanto in parte la pena a seguito del sopravvenire di un'amnistia, lo stesso Cospito, nei cui confronti non era venuto meno l'obbligo del servizio militare, il 16 aprile 1991 è stato condannato di nuovo alla pena di un anno, nove mesi e dieci giorni di reclusione militare per il reato di diserzione aggravata. Dallo stesso giorno dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione (27 agosto 1991) il detenuto ha iniziato uno "sciopero della fame" ad oltranza per protestare contro la nuova condanna, a seguito del quale, quando la situazione organica e psichica del detenuto era divenuta di estremo disagio, il padre del detenuto si è determinato a presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica (27 settembre 1991).
Tre giorni dopo, il Tribunale militare di sorveglianza ha disposto il differimento dell'esecuzione della pena in attesa della domanda di grazia, osservando, nella motivazione del relativo decreto, che l'immutata volontà del condannato di sottrarsi totalmente e definitivamente all'obbligo del servi zio militare e l'inapplicabilità nei suoi confronti dell'art.8 della legge n. 772 del 1972 hanno comportato l'insorgere della c.d. "spirale delle condanne", che costituisce senza dubbio un'anomalia del sistema penale. Su tale base lo stesso Tribunale, pur giudicando inaccettabili le forme di protesta intraprese, auspicava l'accoglimento della domanda di grazia come via obbligata per risolvere un caso giudiziario che presentava i caratteri di una vistosa ingiustizia e poneva a nudo una carenza della legislazione in vigore. Il 27 dicembre 1991 il Presidente della Repubblica ha concesso ad Alfredo Cospito la grazia, condonando la pena detentiva ancora da espiare. Tuttavia, con riferimento al periodo decorrente dalla data della condanna per il reato di diserzione (16 aprile 1991) al giorno in cui è stato tratto in arresto (27 agosto 1991), lo stesso obiettore è stato nuovamente imputato di diserzione. Con riguardo a tale nuova imputazione, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Roma, in data 15 giugno 1992, ha emesso sentenza di non luogo a procedere. Nondimeno, il pubblico ministero, perdurando ancora l'assenza arbitraria di Alfredo Cospito dalla data di scadenza della licenza di convalescenza (2 gennaio 1992) concessa dopo il differimento dell'esecuzione della pena ad opera del Tribunale militare di sorveglianza, ha chiesto allo stesso giudice il rinvio a giudizio per il reato di diserzione, in base al quale si è instaurato il processo a quo.
Alla luce dei precedenti giudiziari esposti e tenuto presente che sussistono tutti i requisiti per la configurazione del reato di diserzione contestato, il giudice rimettente osserva che, dovendosi escludere la continuazione per le ripetute condotte di assenza dal servizio militare, l'imputato dovrebbe essere sottoposto a successive e sempre più rigorose condanne fino al momento del congedo assoluto, e cioè fino al raggiungimento da parte dell'imputato del quarantacinquesimo anno di età. Secondo il giudice a quo, la normativa che consente di sottoporre a un numero indeterminato di procedimenti penali e a conseguenti condanne chi rifiuti incondizionatamente di svolgere il servizio militare per motivi diversi da quelli riconosciuti all'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza addurre alcun motivo appare inconciliabile con i principi costituzionali.
2.- In primo luogo, precisa il giudice a quo, l'ipotesi di una spietata successione di condanne per una condotta ontologicamente unitaria di rifiuto assoluto e incondizionato di svolgere il servi zio militare appare in contrasto con il principio costituzionale della tutela della coscienza individuale, il quale costituisce esplicazione della protezione dei diritti inviolabili assicurata dall'art. 2 della Costituzione. Per il giudice rimettente, l'effetto vessatorio della c.d. spirale delle condanne - che ha indotto il legislatore a varare la legge di tutela dell'obiezione di coscienza e a prevedere, in particolare, l'esonero dal servizio militare a pena espiata - non viene meno nel caso in cui gli obiettori abbiano mancato di "addurre" i motivi indicati nell'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o abbiano rifiutato il servizio militare per altri motivi o, addirittura, senza alcun motivo.
Dopo aver ricordato che nella sentenza n. 467 del 1991, con la quale è stato dichiarato parzialmente incostituzionale l'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 (nella parte in cui non prevede che siano esonerati dal servizio militare, a seguito dell'espiazione della pena, i soggetti che rifiutano il servizio militare di leva, dopo averlo assunto, per i motivi indicati dall'art. 1 della legge n. 772 del 1972), questa Corte ha affermato che la coscienza individuale "gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quella libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima", il giudice a quo sottolinea che nel caso di specie la condotta dell'imputato, peraltro precedente all'assunzione del servizio militare, non è stata compiuta per motivi che il legislatore riconosce come meritevoli di particolare considerazione. Ma ciò non potrebbe comunque portare, secondo lo stesso organo rimettente, ad irrogare a un soggetto che rifiuti irriducibilmente di svolgere il servizio militare quella "serie di condanne penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità umana e la speranza di una vita normale" (sent. n. 467 del 1991).
La libertà morale dell'individuo sarebbe, infatti, annullata da una pena che, pur se deve sussistere ed essere indubbiamente commisurata alla gravità del fatto, non dovrebbe comunque risolversi in uno stillicidio di condanne in grado di impedire a una persona, fino al quarantacinquesimo anno di età, di esplicare la propria personalità mediante il lavoro e le relazioni sociali. Sotto questo profilo - tenuto conto che ciò che caratterizza l'obiettore di coscienza non è la condotta posta in essere, ma i motivi che presiedono a tale condotta - non si comprende perchè la deliberazione di coscienza volta a rifiutare per sempre il servizio militare non possa essere giustificata come causa legittima per evitare la "spirale delle condanne" quando sia dettata da motivi non di natura religiosa o filosofica o morale (come nel caso di specie, ove l'obiezione era dettata da motivi politici). Del resto, continua il giudice a quo, anche l'eventuale riconoscimento del vincolo della continuazione tra le condotte successivamente sottoposte a processo potrebbe attenuare, ma non annullare, le conseguenze di quell'inaccettabile meccanismo di condanne a catena.
3.- Secondo il giudice rimettente, la sottoponibilità di una persona, che rifiuti di svolgere il servizio militare per motivi diversi da quelli previsti dalla legge sull'obiezione di coscienza, ad una serie indeterminata di condanne contrasterebbe anche con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
La pena, infatti, diviene un trattamento contrario al senso di umanità nel momento in cui tende alla coartazione morale della persona. Nè, continua lo stesso giudice, può essere ravvisata alcuna finalità rieducativa in una sorta di "sfida" o di "prova di forza" tra la volontà dello Stato e quella dell'individuo, che dovrebbe portare a "piegare" quest'ultima volontà solo dopo averne negato il valore come persona umana (come si può constatare da un esame del caso di specie).
4.- Le norme contestate, ad avviso del giudice rimettente, sarebbero in contrasto anche con i principi costituzionali di offensività e di materialità dell'illecito penale (artt. 13 e 25 della Costituzione), nonchè con quello di democraticità dell'ordinamento delle forze armate (art. 52 della Costituzione). Sotto il primo profilo, in particolare, la lesione di quei principi deriva dal rilievo che le norme impugnate mirano a colpire l'atteggiamento soggettivo di irriducibile contrarietà allo svolgimento del servizio militare, anzichè il fatto del rifiuto, cioè un fatto unitario rispetto al quale le singole condotte di omessa prestazione del servizio militare non sono che contingenti manifestazioni.
5.- Infine, il giudice a quo rileva la pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione in relazione all'asserita disparità di trattamento tra chi rifiuta il servizio militare "adducendo" i motivi di cui all'art. 1 della legge n. 772 del 1972 e chi rifiuta il servizio medesimo "adducendo" altri motivi ovvero senza "addurre" alcun motivo, sussistendo una sproporzione eccessiva di trattamento sanzionatorio per l'una e per l'altra ipotesi, pur essendo violato con modalità offensive analoghe lo stesso bene giuridico.
Dopo aver rilevato che l'attuale indiscutibile trattamento deteriore dei soggetti condannati per i reati di cui agli artt. 148 e 151 c.p.m.p. rispetto a quelli colpevoli per il reato di cui all'art. 8 della legge n.772 del 1972 deriva in gran parte dall'interpretazione giurisprudenziale data alla seconda fattispecie legale dopo la sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte, il giudice a quo sottolinea come, per altra parte, la stessa disparità derivi dalle norme vigenti.
Innanzitutto, ricorda che ai militari che non si presentano a svolgere il servizio militare è applicabile, quando la durata dell'assenza supera i sei mesi, un'aggravante ad effetto speciale per la quale la pena è aumentata da un terzo alla metà (v. art. 154, n. 1, c.p.m.p.). In secondo luogo, ed è ciò che qui maggiormente rileva, la mancata previsione dell'esonero per effetto della espiazione della pena comporta l'irragionevole proliferazione di comportamenti punibili nel caso di assoluto rifiuto del servizio militare: sicchè lo stesso fatto - rifiuto incondizionato del servizio militare - in un caso (quando è compiuto per motivi di coscienza previsti dalla legge) viene punito una sola volta (con la pena edittale da sei mesi a due anni) e in un altro caso (quando è compiuto per motivi diversi) viene punito per un numero indefinito di volte (con la stessa pena edittale aumentata da un terzo alla metà per l'applicazione dell'aggravante prevista per l'ipotesi che l'assenza superi i sei mesi).
Nel ricordare che i motivi di coscienza devono essere "addotti", ai sensi dell'art. 1 della legge n. 772 del 1972, e che su tale elemento si è formata una giurisprudenza molto permissiva che ha portato a un incremento di obiezioni totali "di convenienza", il giudice a quo sottolinea come si sia venuta a creare la situazione paradossale per la quale coloro che sinceramente dichiarano l'esistenza effettiva di motivi di obiezione diversi da quelli previsti dal legislatore - come nel caso dell'obiettore politico di cui si tratta - sono sottoposti a un trattamento deteriore rispetto agli obiettori "di convenienza" e, in ogni caso, sono vittime di una discriminazione inammissibile in base alla Costituzione, nel senso che, grazie all'innesco della c.d. spirale delle condanne, subiscono una disciplina che appare fuoriuscire dai limiti della proporzione e della ragionevolezza.
Certo, precisa conclusivamente il giudice rimettente, soltanto il legislatore potrebbe ricondurre a razionalità il sistema dei reati di assenza dal servizio militare e di rifiuto dello stesso (come richiesto anche dalla sentenza n.467 del 1991). Ma, di fronte all'inerzia del legislatore, il presentarsi di casi come quello posto alla cognizione del giudice a quo impone a quest'ultimo di richiedere una dichiarazione d'incostituzionalità delle norme denunciate, in conseguenza della quale, potendo considerare l'imputato esonerato da obblighi militari sin dal 2 gennaio 1992 (data di scadenza della licenza di convalescenza), potrebbe emettere sentenza dichiarativa di non luogo a procedere nei suoi confronti perchè il fatto non sussiste.
Considerato in diritto
l.- Il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma dubita della legittimità costituzionale degli artt. 148 e 151 del codice penale militare di pace, nonchè dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione, in quanto le norme contestate non prevedono che siano esonerati dal servizio militare coloro che, avendo rifiutato incondizionatamente la prestazione del servizio stesso sulla base di motivi di coscienza diversi da quelli indicati nell'art. 1, primo comma, della legge n. 772 del 1972 ovvero senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento una pena complessivamente non inferiore ad un anno di reclusione.
2.- La questione di legittimità costituzionale sollevata va dichiarata in parte inammissibile per l'irrilevanza del profilo relativo all'art. 151 c.p.m.p..
Ai fini dell'esame della rilevanza della questione sottoposta al giudizio di questa Corte, occorre muovere dalla premessa che in sostanza il giudice a quo intende contestare, sotto il profilo della legittimità costituzionale, l'effetto connesso alla c.d. spirale delle condanne, vale a dire il susseguirsi delle condanne penali che sistematicamente colpiscono coloro che, senza addurre i motivi di coscienza indicati dall'art. 1 della legge n.772 del 1972, rifiutano incondizionatamente e totalmente di prestare il servizio militare fino al momento della persistenza dell'obbligo di leva (compimento del quarantacinquesimo anno di età): il rinnovo della richiesta di inquadramento dopo un primo rifiuto, che va ripetuto, sino all'età del congedo per limiti di età, ogni volta che sia stata espiata la pena irrogata per qualcuno dei reati connessi al rifiuto del servizio militare (mancanza alla chiamata, diserzione, allontanamento illecito, disobbedienza, etc.), escluso quello regolato dall'art. 8, secondo comma, della legge n.772 del 1972, comporta infatti un susseguirsi di inottemperanze all'obbligo di leva, con il probabile formarsi di una catena di condanne conseguente ai vari episodi in cui si concreta l'originario e immodificato convincimento di non sentirsi vincolato al dovere di prestare il servizio militare.
Il legislatore, a seguito dell'adozione della legge n. 772 del 1972, ha impedito il prodursi del ricordato effetto a favore di coloro che rifiutino il servizio militare sulla base dei motivi di coscienza indicati nell'art. 1 della stessa legge, cioè per coloro "che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all'uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza (...) attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati".
Costoro, infatti, quando non siano ammessi al beneficio di prestare il servizio militare non armato o un servizio civile sostitutivo, sono sottoposti alla stessa pena prevista per chi rifiuta anche questi ultimi servizi (pena edittale poi ridotta da sei mesi a due anni, solo per il reato di cui all'art. 8, secondo comma, per effetto della sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte), ma, a norma dell'art. 8, terzo comma, della legge medesima, sono esonerati dall'obbligo di leva una volta che abbiano espiato la pena irrogata.
Questa clausola, come si è già accennato, non è prevista per gli obiettori totali che adducano motivi di coscienza diversi da quelli indicati nel ricordato art. 1 ovvero non adducano alcun motivo. Sicchè il giudice a quo, al fine di espungere dall'ordinamento la possibilità della c.d. spirale delle condanne a danno di costoro, ha chiesto a questa Corte una pronunzia additiva diretta a estendere anche ai soggetti appena menzionati la clausola di esonero dalla prestazione del servizio militare di leva prevista dall'art.8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972.
3.- Poichè la clausola ora ricordata viene riferita, nel petitum, a qualsiasi ipotesi di rifiuto di prestare il servizio militare, il giudice a quo, si è preoccupato di delimitarne la rilevanza alla fattispecie dedotta di fronte a lui stesso. Tuttavia, nel compiere siffatta operazione, egli ha correttamente individuato i confini della questione soltanto sotto il profilo soggettivo. L'imputato del giudizio a quo, infatti, non ha usufruito dei benefici previsti dalla legge sulla obiezione di coscienza, dal momento che non ha formalmente addotto i motivi individuati dallo stesso legislatore come valide ragioni di obiezione, ma ha informato della sua convinta adesione all'ideologia politica anarchica soltanto il giudice che l'ha interrogato in sede di accertamento del reato. Di modo che ben ha fatto il giudice rimettente a estendere i termini della questione al trattamento previsto per tutti gli obiettori totali che si pongono fuori della disciplina disposta dagli artt. 1 e 8 della legge n. 772 del 1972, vale a dire tanto coloro che non adducono alcun motivo, quanto coloro che adducono motivi diversi da quelli indicati dall'appena citato art. l.
Il giudice a quo ha, invece, peccato per eccesso nell'individuare le forme di illecito penale connesse al rifiuto di prestare il servizio militare. Il reato di rifiuto delineato dall'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, il cui elemento materiale è dato dalla manifestazione di volontà attinente all'inottemperanza dell'obbligo di leva, è un reato a forma libera, che può manifestarsi tanto in comportamenti meramente omissivi (come, ad esempio, il non rispondere alla chiamata alle armi) quanto in comportamenti commissivi (come, ad esempio, il rifiuto di indossare l'uniforme, l'allontanamento illecito). Sicchè quando non ricorre lo specifico elemento costitutivo del reato di rifiuto di cui all'art. 8, della legge n. 772 del 1972, consistente nell'adduzione dei motivi indicati dall'art. 1 della legge stessa, possono entrare in gioco altri reati militari, che si pongono come generali rispetto al reato speciale di rifiuto, configurato dal citato art. 8. Nella specie, trattandosi di un caso in cui non sono stati addotti i predetti motivi, il giudice a quo, al fine di radicare correttamente nell'ordinamento normativo la pronunzia additiva volta all'estensione della clausola di esonero prevista dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, ha giustamente collegato quest'ultimo articolo a disposizioni delineanti altre figure di reato militare.
Nell'operare tale riferimento, tuttavia, lo stesso giudice, mentre ha correttamente indicato la norma sul reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), ha invece erroneamente aggiunto il pur affine reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.).
Dall'ordinanza di rimessione, infatti, si deduce inequivocabilmente che l'unico reato per il quale l'imputato è chiamato a rispondere nel giudizio a quo è quello di diserzione (art. 148 c.p.m.p.). Per il reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.) lo stesso imputato era già stato condannato in un precedente giudizio e, precisamente, nel primo di quelli che lo hanno riguardato. Ma, anche se l'ordinanza di rimessione mira a colpire, in sostanza, la c.d. spirale delle condanne, questo intento non può legittimare una definizione della questione tale da scardinare il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità e non può, quindi, obliterare il principio che la rilevanza della questione va valutata soltanto rispetto al giudizio a quo.
Quest'ultima regola porta, dunque, a delimitare l'oggetto del giudizio in esame alla richiesta di estendere, mediante una pronunzia additiva, la clausola di esonero dal servizio militare prevista dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 a coloro che, rifiutando radicalmente, in tempo di pace, il predetto servizio dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell'art. 1 della medesima legge o senza aver addotto motivo alcuno, siano incorsi nel reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.).
4.- Così definita, la questione merita l'accoglimento.
Nel contestare, sotto il profilo del principio costituzionale di parità di trattamento (art. 3 della Costituzione), l'irragionevole discriminazione operata dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972 a danno di coloro che rifiutano "in toto" di prestare il servizio militare adducendo motivi diversi da quelli indicati dall'art.
1 della stessa legge ovvero non adducendo alcun motivo, il giudice a quo individua la manifestazione di tale arbitraria determinazione del legislatore nella macroscopica sproporzione sussistente, sul piano del regime sanzionatorio, tra l'ipotesi prima ricordata e quella dell'obiettore totale che adduce i motivi di coscienza riconosciuti come meritevoli di tutela dallo stesso legislatore. Infatti, egli precisa, mentre in quest'ultimo caso coloro che rifiutano il servizio militare, una volta espiata la pena inflitta, fruiscono dell'esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a norma del citato art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, nell'altro caso, invece, chi si rifiuta definitivamente di ottemperare all'obbligo della leva, pur essendo sottoposto a una pena edittale identica a quella prevista per l'ipotesi precedentemente considerata, è tuttavia soggetto, a causa della mancata previsione a suo favore della clausola di esonero, alla probabilità di un'ininterrotta catena di condanne, destinata a prolungarsi sino al venir meno dell'obbligo di leva per limiti di età.
Trattandosi di un giudizio che viene innanzitutto svolto sotto il profilo dell'art. 3 della Costituzione, occorre preliminarmente ribadire che i valori costituzionali, il cui bilanciamento ad opera del legislatore dev'essere in questa sede scrutinato, sono dati, da un lato, dall'obbligo di prestare il servizio militare di leva (art. 52, secondo comma, della Costituzione) - obbligo che va annoverato fra i doveri di solidarietà sociale di carattere inderogabile, ai sensi dell'art. 2 della Costituzione, - e, dall'altro lato, dalla libertà personale, connessa all'incriminazione del rifiuto di prestare il predetto servizio (art. 13 della Costituzione), libertà che gode anch'essa della copertura dell'art. 2 della Costituzione in quanto diritto inviolabile (v. sent. n. 409 del 1989). Poichè nella decisione appena ricordata è stato chiarito che tanto l'incriminazione del rifiuto totale di prestare il servizio militare, quanto la previsione di una clausola di esonero come quella stabilita dall'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, sono frutto di scelte discrezionalmente assunte dal legislatore, non rinvenendosi in Costituzione alcun obbligo in tal senso, è opportuno sottolineare, sempre in via di premessa, che il giudizio sotto il profilo considerato deve svolgersi nelle forme proprie dello scrutinio di ragionevolezza dell'uso discrezionale del potere legislativo in riferimento alla costellazione di valori costituzionali prima precisata.
5.- Nella sentenza n. 409 del 1989, questa Corte ha affermato che il caso di chi rifiuta di assolvere in ogni modo all'obbligo di leva senza addurre motivi o adducendo motivi diversi da quelli considerati nella legge sull'obiezione di coscienza merita un trattamento sanzionatorio differenziato, presumibilmente più severo, rispetto al caso di chi tiene lo stesso comportamento materiale adducendo motivi di coscienza meritevoli di tutela. Ma la stessa Corte nella medesima decisione, se pure con riferimento a un'ipotesi di raffronto esattamente inversa a quella ora esaminata, ha pure sostenuto che, in considerazione dell'identità dell'interesse leso nelle due distinte ipotesi criminose (interesse a una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva), oltrechè dell'analogia delle modalità oggettive di comportamento, non può ammettersi che fra le pene edittali previste per le suddette ipotesi sussista un'eccessiva sproporzione.
Sebbene, per effetto della stessa decisione, la pena edittale prevista per il reato di rifiuto totale della prestazione del servizio militare di cui all'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1992 sia stata eguagliata a quella stabilita per altri reati analoghi (come, ad esempio, la mancanza alla chiamata), l'omissione legislativa di una clausola di esonero simile a quella stabilita nel terzo comma del citato art. 8 rende palesemente sproporzionato il trattamento sanzionatorio complessivo concernente gli altri reati comunque collegati a un rifiuto totale di adempiere la prestazione del servizio militare di leva, relativamente ai quali sussiste, come si è già ricordato, la possibilità effettiva del realizzarsi della c.d. spirale delle condanne. E non può certo dirsi che tale effetto eventuale, ancorchè probabile, debba restar fuori dai confini di un giudizio di legittimità costituzionale, poichè, come questa Corte ha ribadito anche recentemente (v. sent. n. 163 del 1993), il rispetto del principio di eguaglianza, quale è configurato nell'art. 3 della Costituzione, comporta che la regola della proporzionalità in esso implicita debba esser valutata "in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita".
L'eccessiva sproporzione del trattamento sanzionatorio dei reati di rifiuto del servizio militare diversi da quello disciplinato nell'art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972 deriva dal fatto che la clausola di esonero prevista nel terzo comma del ricordato art. 8 costituisce una sorta di clausola di garanzia della proporzionalità della pena, nel senso che, in mancanza della stessa, di fronte alla manifestazione di un rifiuto totale del servizio di leva, la sanzione penale, pur se determinata nella stessa misura edittale stabilita per il reato di cui all'art. 8, è destinata ad applicazioni reiterate fino all'esaurimento del correlativo obbligo di leva.
Nelle precise parole usate da questa Corte nella già citata sentenza n. 409 del 1989, "l'esonero in discussione - conseguenza di una libera, discrezionale scelta del legislatore - non appare violare la Carta fondamentale (...), nè è irrazionale: non essendo ipotizzabili altre sanzioni adeguate al caso particolarissimo in discussione, il legislatore ritiene d'interrompere la spirale delle "condanne a catena", nella presunzione che, ormai, anche la sanzione penale non può raggiungere gli effetti rieducativi di cui all'art. 27, comma terzo, della Costituzione".
6.- Nel dictum di questa Corte appena citato è contenuta la ratio decidendi applicabile anche al presente giudizio.
La possibilità reale della c.d. spirale delle condanne in relazione ai reati di rifiuto totale di prestazione del servizio militare diversi da quello disciplinato dall'art. 8 della legge n. 772 del 1972 - conseguente alla mancanza di una clausola di esonero dall'obbligo di leva a pena espiata - è la manifestazione della palese irragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, in sede di trattamento sanzionatorio di quei reati, tra il valore costituzionale del dovere di prestare il servizio militare (art. 52 della Costituzione) e quello della libertà personale (art. 13 della Costituzione).
L'incriminazione del rifiuto totale di adempiere l'obbligo di leva, se deve condurre a un sacrificio della libertà personale, non può tuttavia estendere questo sacrificio sino al punto da sottoporre colui che abbia commesso i relativi reati "a una serie di condanne penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità umana e la speranza di una vita normale" (v. sent. n. 467 del 1991). La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale che così si realizza produce, infatti, una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione.
Sulla base di tali motivi, questa Corte dichiara l'illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972, in connessione con l'art. 148 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede l'esonero dalla prestazione del servizio militare di leva in favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell'art. 1 della legge n. 772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura quantomeno non inferiore complessivamente alla durata del servizio militare di leva.
Nell'adottare tale pronunzia di accoglimento questa Corte rinnova il pressante invito al legislatore in ordine a un urgente intervento razionalizzatore sull'insieme delle pene relative ai vari reati militari connessi al rifiuto di prestare il servizio di leva (v. già sent. n. 467 del 1991).
Tale intervento, che dovrebbe provvedere al necessario riproporzionamento delle pene concernenti i reati appena ricordati, assume ora i caratteri dell'improrogabilità, in ragione delle conseguenze che il principio di diritto affermato nella presente pronuncia può produrre su future decisioni.
Restano assorbiti gli ulteriori profili di legittimità costituzionale sollevati dal giudice rimettente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza), in connessione con l'art. 148 c.p.m.p., nella parte in cui non prevede l'esonero dalla prestazione del servizio militare di leva a favore di coloro che, avendo rifiutato totalmente in tempo di pace la prestazione del servizio stesso dopo aver addotto motivi diversi da quelli indicati nell'art. 1 della legge n.772 del 1972 o senza aver addotto motivo alcuno, abbiano espiato per quel comportamento la pena della reclusione in misura complessivamente non inferiore a quella del servizio militare di leva;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, in connessione con l'art. 151 c.p.m.p., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Roma, con l'ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/07/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Antonio BALDASSARRE, Redattore
Depositata in cancelleria il 28/07/93.