Sentenza n. 163 del 1993

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SENTENZA N. 163

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Provincia autonoma di Trento 15 febbraio 1980, n.3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), che ha introdotto l'art.56 bis della legge della Provincia autonoma di Trento 23 agosto 1963, n. 8 (Ordinamento degli uffici e Statuto del personale della Provincia di Trento), promosso con ordinanza emessa il 5 maggio 1992 dal Pretore di Trento nel procedimento civile instaurato da Ceschini Mariantonia e dalla Commissione provinciale per la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna contro la Provincia autonoma di Trento, iscritta al n.408 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di intervento della Provincia autonoma di Trento;

 

udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 1993 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

 

udito l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per la Provincia autonoma di Trento.

 

Ritenuto in fatto

 

l.- Nel giudizio promosso dalla Commissione provinciale per la realizzazione della parità tra uomo e donna e da una aspirante al posto di funzionario del Servizio antincendi della Provincia di Trento, che era stata esclusa dal relativo concorso a seguito dell'accertamento del difetto del richiesto requisito della statura minima, il pretore di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), che ha introdotto l'art. 56 bis della legge provinciale 23 agosto 1963, n. 8 (Ordinamento degli uffici e Statuto del personale della Provincia di Trento), nella parte in cui prevede, in modo indifferenziato per uomini e donne, la statura non inferiore a metri 1,65 tra i requisiti richiesti per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi. Secondo il giudice rimettente, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 3, primo e secondo comma, e 37, primo comma, della Costituzione, nonchè gli artt. 4 e 8 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), in relazione alle norme fondamentali di riforma economico-sociale contenute nell'art. 1 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) e nell'art. 4, primo e secondo comma, della legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro).

 

Dopo aver ricordato che la Provincia di Trento, convenuta nel processo a quo, aveva eccepito in quella sede il difetto di giurisdizione, il pretore rimettente osserva, in punto di rilevanza, che la clausola del bando di concorso contestata nel giudizio pendente di fronte a lui, la quale costituisce pedissequa riproduzione di un'espressa norma di legge provinciale, non sarebbe soggetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come pure sostiene la Corte di cassazione, poichè diffusa è in dottrina la tesi che le controversie sul pubblico impiego, escluse dalla cognizione del giudice ordinario, presuppongono un rapporto già costituito. Al contrario, nel caso, continua il giudice a quo, si è in una fase anteriore alla costituzione di quel rapporto, in relazione alla quale le ricorrenti nel giudizio principale fanno valere una posizione giuridica rientrante nella categoria dei diritti soggettivi e, precisamente, il diritto costituzionale alla parità di trattamento in materia di lavoro. Le parti ricorrenti, infatti, non richiedono che il posto in concorso possa essere assegnato indipendentemente dal requisito di una statura minima e non contestano, quindi, il cattivo uso del potere discrezionale della pubblica amministrazione in ordine alla determinazione delle clausole del bando. Esse, invece, denunciano un atto dell'amministrazione, corrispondente a una conforme scelta del legislatore provinciale, in quanto avrebbe una natura discriminatoria nel richiedere, in modo indifferenziato per i due sessi, l'identica statura minima, senza tener conto della diversa struttura fisica media dell'uomo e della donna. In altri termini, afferma il giudice a quo, le parti ricorrenti contestano la violazione dell'obbligo della pubblica amministrazione di non effettuare "discriminazioni indirette" fondate esclusivamente sul sesso, obbligo di fronte al quale sussisterebbe il diritto soggettivo alla parità di trattamento delle ricorrenti. Pertanto, come è stato deciso anche da altre preture, non si potrebbe negare la giurisdizione in materia del pretore del lavoro.

 

Nè è di ostacolo a ciò, continua il giudice a quo, il fatto che le ricorrenti chiedono la dichiarazione di inefficacia dell'atto amministrativo impugnato, poichè, in analogia con la particolare tutela apprestata dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori in relazione alla circostanza che il comportamento antisindacale si sostanzi in un provvedimento amministrativo, anche il rimedio previsto dall'art. 15 della legge n. 907 del 1977 contro le condotte discriminatorie del datore di lavoro fondate sul sesso non dovrebbe fermarsi di fronte a condotte di tal genere realizzate con atti amministrativi. Del resto, conclude sul punto il giudice a quo, se così non fosse, si dovrebbe riferire all'art. 15, prima citato, un limite non previsto, nel senso che si dovrebbe dire che tale articolo non offre tutela ai comportamenti discriminatori posti in essere da datori di lavoro pubblici e concretantesi in provvedimenti amministrativi.

 

In ordine al merito della questione il pretore rimettente osserva che l'ipotesi esaminata costituisce un caso di scuola di "discriminazione indiretta", ai sensi dell'art. 4 della legge n. 125 del 1991, poichè si è di fronte a un trattamento pregiudiziale conseguente all'adozione di criteri che svantaggiano in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori di sesso femminile, stante il fatto che l'altezza "normale" femminile, secondo parametri medico-statistici, oscilla da metri 1,51 a metri 1,73 contro quella maschile, oscillante fra metri 1,63 e metri 1,87. Nel richiedere un'indifferenziata statura minima di metri 1,65, la disposizione impugnata si pone nettamente al di sopra della statura media femminile, finendo per escludere dal concorso la maggioranza delle candidate donne in ragione del loro sesso.

 

Essa, pertanto, appare innanzitutto contraria all'art. 3, primo e secondo comma, e all'art. 37 della Costituzione, i cui principi sono stati attuati nel campo del lavoro dalle leggi n. 903 del 1977 e n. 125 del 1991, in quanto disciplina in modo omogeneo situazioni la cui eterogeneità è connessa alla naturale diversità di struttura fisica dell'uomo e della donna.

 

Sempre ad avviso del giudice a quo, l'impugnato art. 4 sarebbe, inoltre, irragionevole, poichè la limitazione ivi prescritta non appare giustificata dalla particolarità delle mansioni proprie del posto messo a concorso, che non giustifica un trattamento di fatto più rigoroso verso le donne. Di qui discenderebbe anche la violazione del principio sancito dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione, che, al contrario, giustifica trattamenti più favorevoli nei confronti delle donne, diretti a rimuovere le cause della tradizionale diseguaglianza di fatto nell'accesso al lavoro a danno delle persone di sesso femminile.

 

Infine, secondo il pretore rimettente, la disposizione impugnata sarebbe contraria anche all'art. 4 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, che vincola l'esercizio della competenza provinciale di tipo esclusivo (nel caso quella relativa alla materia del personale addetto agli uffici delle province autonome) al rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali. E tali sono, secondo lo stesso giudice, le leggi n. 903 del 1977 e n. 125 del 1991, che vietano le "discriminazioni indirette" nel campo del lavoro, costituendo esse i principali momenti di attuazione dei precetti contenuti negli artt. 3 e 37 della Costituzione.

 

2.- Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Trento, convenuta nel processo a quo, per chiedere che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

 

Sul primo punto, la Provincia osserva che la questione è irrilevante a causa del difetto di giurisdizione del giudice rimettente di fronte a una richiesta di annullamento parziale di un atto amministrativo, qual è il bando di concorso ad un pubblico impiego. Questo, secondo la stessa Provincia, è l'orientamento costante della Corte di cassazione, che non sarebbe contraddetto dall'art. 15, ultimo comma, della legge n. 903 del 1977. Infatti, pur se in tale disposizione si parla di "dipendenti pubblici", si dovrebbe intendere che la giurisdizione del giudice amministrativo abbia ad oggetto tanto i dipendenti con rapporto d'impiego già costituito quanto gli aspiranti all'assunzione.

 

Nel merito, la questione appare infondata, poichè la disposizione contestata, ad avviso della Provincia, è frutto di una scelta discrezionale del legislatore, che, lungi dall'introdurre un'irragionevole e ingiustificata discriminazione tra uomo e donna, sarebbe diretta a realizzare un incontestabile e rilevante interesse pubblico. Posto che ai funzionari del servizio antincendi della Provincia di Trento competono anche attività operative nei campi della prevenzione e del soccorso e in quello della protezione civile (ai sensi della deliberazione della Giunta provinciale del 2 novembre 1984, n. 11012), la difesa della parte convenuta nel giudizio a quo afferma conclusivamente che, ove la questione fosse accolta, si realizzerebbe una in giustificata discriminazione alla rovescia: gli aspiranti uomini, solo in quanto uomini, verrebbero assoggettati a requisiti di prestanza fisica più rigorosi, mentre le aspiranti donne, solo in quanto donne, verrebbero esonerate da un requisito posto obiettivamente per tutelare un fondamentale interesse della collettività.

 

Considerato in diritto

 

l.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe il pretore di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge provinciale 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), il quale ha modificato la legge provinciale 23 agosto 1963, n. 8, aggiungendovi, come art. 56 bis, l'insieme delle disposizioni contenute nello stesso art.4.

 

Secondo il giudice rimettente, l'articolo impugnato, nel prevedere, fra i requisiti particolari per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi, la condizione che i candidati, siano essi indifferentemente uomo o donna, abbiano una statura non inferiore a metri 1,65, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma, e 37, primo comma, della Costituzione, nonchè con gli artt. 4 e 8 (competenze legislative e amministrative in materia di personale dei propri uffici, attribuite in via esclusiva alle Province autonome) del d.P.R.31 agosto 1972, n. 670 (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), in connessione con l'art. 1 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) e con l'art. 4, primo e secondo comma, della legge 10 aprile 1991, n. 125 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro).

 

La Provincia autonoma di Trento ha formulato un'eccezione di inammissibilità, basata sull'asserito difetto di giurisdizione del giudice rimettente, che deve essere esaminata preliminarmente.

 

2.- L'eccezione di inammissibilità non può essere accolta.

 

É giurisprudenza costituzionale costante che eventuali vizi attinenti alla legittima instaurazione del giudizio a quo non sono soggetti al riesame di questa Corte, poichè l'autonomia del giudizio di costituzionalità rispetto a quello da cui proviene la questione preclude alla Corte medesima di sostituirsi materialmente al giudice rimettente nel compiere la valutazione relativa ai prerequisiti processuali che precedono l'incardinamento del giudizio di costituzionalità (v., ad esempio, sentenze n. 103 del 1991, n. 239 del 1984, n. 46 del 1983 e n. 131 del 1976). Da ciò consegue che, in sede di verifica dell'ammissibilità della questione sollevata, la Corte può rilevare il difetto di giurisdizione soltanto nei casi in cui questo dovesse essere macroscopico, così che nessun dubbio potrebbe aversi sulla sussistenza di quel vizio (v., ad esempio, sentenze n. 439 del 1991, n. 283 del 1990, n. 414 del 1989 e n. 777 del 1988, nonchè ordinanze n.458 del 1992 e n. 100 del 1988).

 

Rispetto a tali principi un caso particolare è quello del giudice a quo, il quale, dubitando dell'orientamento giurisprudenziale prevalente rivolto in senso contrario, afferma la propria giurisdizione argomentando specificamente sul punto. In recenti pronunzie questa Corte ha precisato che in casi del genere si può pervenire a una dichiarazione di inammissibilità soltanto nella ipotesi in cui le argomentazioni addotte dal giudice rimettente risultassero del tutto implausibili (v. sentenze n.436 del 1992 e n. 103 del 1993, nonchè sentenza n. 112 del 1993).

 

Il caso in esame rientra nell'ambito delle ipotesi da ultimo ricordate.

 

Il pretore di Trento, infatti, a seguito di un'eccezione preliminarmente sollevata dalla parte convenuta (Provincia di Trento) nel giudizio a quo, ha dato ampio spazio nell'ordinanza di rimessione a un'argomentata presa di posizione contraria alla giurisprudenza prevalente, che afferma in materia la giurisdizione del giudice amministrativo. Considerato che il giudice a quo lamenta la lesione di un diritto costituzionale fondamentale, facendo leva su orientamenti presenti in alcune decisioni di giudici di merito e rispondenti a posizioni enunciate anche in dottrina, si deve concludere che nel caso non sussiste quella totale mancanza di plausibilità nelle argomentazioni del giudice a quo in presenza della qua le soltanto si può pervenire, in ipotesi del genere, a una pronunzia d'inammissibilità.

 

3.- La questione è fondata.

 

L'art. 3, primo comma, della Costituzione pone un principio avente un valore fondante, e perciò inviolabile, diretto a garantire l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e a vietare che il sesso - al pari della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche e delle condizioni personali e sociali - costituisca fonte di qualsivoglia discriminazione nel trattamento giuridico delle persone. Il secondo comma dello stesso art. 3 della Costituzione - oltre a stabilire un autonomo principio di eguaglianza "sostanziale" e di parità delle opportunità fra tutti i cittadini nella vita sociale, economica e politica - esprime un criterio interpretativo che si riflette anche sulla latitudine e sull'attuazione da dare al principio di eguaglianza "formale", nel senso che ne qualifica la garanzia in relazione ai risultati effettivi prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita, grazie al primario imperativo costituzionale di rimuovere i limiti "di fatto" all'eguaglianza (e alla libertà) e di perseguire l'obiettivo finale della "piena" autodeterminazione della persona e quello della "effettiva" partecipazione alla vita comunitaria.

 

Il principio di eguaglianza - con il conseguente divieto di discriminazione, diretta o indiretta, in base al sesso - ha una generale applicazione nei rapporti della vita, considerati nella loro concreta conformazione. La Costituzione, comunque, conferisce uno specifico risalto a determinate applicazioni di quel principio in ordine alle relazioni sociali ritenute più significative. Con riferimento ai rapporti di lavoro, l'art.37 della Costituzione ribadisce il principio di parità di trattamento fra uomo e donna. Inoltre, l'art. 51 della Costituzione sottolinea lo stesso principio in relazione all'accesso agli uffici pubblici. Ma, una volta riconosciuto il diritto alla parità di trattamento fra uomo e donna, la stessa Costituzione prevede, all'art. 37, che il legislatore, nel dare attuazione a quel diritto, sia tenuto a bilanciarlo con altri valori costituzionali e, in particolare, con quelli connessi alle norme che tutelano la maternità e i "diritti della famiglia", in modo che sia assicurato alla donna il diritto-dovere di adempiere alla sua essenziale funzione familiare (v. sentenze n. 210 e n. 137 del 1986 e n.123 del 1969).

 

In definitiva, fermo restando il particolare ruolo sociale della donna in riferimento ai valori costituzionali positivamente collegati a quel ruolo (maternità, famiglia, etc.), dall'insieme dei principi appena ricordati deriva il divieto - significativamente enunciato in termini analoghi anche in ambito europeo (v. artt. 2 e 3 della direttiva CEE n. 76/207 del 9 febbraio 1976) - volto a impedire qualsiasi discriminazione basata sul sesso in relazione alle condizioni di accesso nel posto di lavoro e, in particolare, nei pubblici uffici.

 

4.- Il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata definita quella determinata categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono.

 

In breve, il principio di eguaglianza pone al giudice di costituzionalità l'esigenza di verificare che non sussista violazione di alcuno dei seguenti criteri: a) la correttezza della classificazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della disciplina normativa apprestata; b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un trattamento giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito; c) la proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita.

 

5.- La disposizione contestata si inserisce in un articolo di legge (provinciale) diretto a stabilire i requisiti particolari per l'accesso alle carriere direttiva e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia autonoma di Trento. Più precisamente, essa è specificamente rivolta a prevedere come criterio di selezione nel relativo concorso pubblico il possesso da parte dei candidati - tanto se di sesso maschile, quanto se di sesso femminile - di una determinata statura minima (pari a metri 1,65). La previsione di tale requisito fisico non è contestata in sè, in ragione del fatto che il personale considerato, pur se è destinato a svolgere normalmente funzioni direttive o impiegatizie, può tuttavia essere adibito, in determinate circostanze, anche a compiti operativi, compiti che, per le caratteristiche delle attività di cui constano, esigono nei soggetti chiamati ad espletarli una certa prestanza fisica. Ciò che si contesta, invece, è che la previsione di una statura minima identica per gli uomini e per le donne costituirebbe un'irragionevole sottoposizione a un trattamento giuridico uniforme di categorie di persone caratterizzate, in base ai dati desumibili da una media statistica, da stature differenti. Con la conseguenza che le candidate al concorso pubblico precedentemente ricordato sarebbero penalizzate in ragione del sesso, dovendo subire, in conseguenza della disposizione contestata, quella che l'art. 4, secondo comma, della legge n.125 del 1991 definisce una "discriminazione indiretta".

 

La fondatezza della doglianza deriva dalla corretta applicazione al caso di specie dei criteri di giudizio, indicati al punto precedente, riconducibili al principio di eguaglianza. Nel condizionare la partecipazione al concorso pubblico sopra detto al possesso del requisito fisico di una determinata statura minima, identica per gli uomini e per le donne, il legislatore provinciale ha individuato come destinataria del precetto normativo contestato una generalità di cittadini, senza distinguere all'interno della categoria le persone di sesso femminile da quelle di sesso maschile. Tale classificazione risponde evidentemente a una valutazione legislativa che è basata su un presupposto di fatto erroneo, vale a dire l'insussistenza di una statura fisica mediamente differenziata tra uomo e donna, ovvero è fondata su una valutazione altrettanto erronea, concernente la supposta irrilevanza, ai fini del trattamento giuridico (uniforme) previsto, della differenza di statura fisica ipoteticamente ritenuta come sussistente nella realtà naturale.

 

Nel primo caso, la violazione del principio di eguaglianza, stabilito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, è indubitabile, per aver il legislatore classificato una categoria di persone in relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti all'ordine naturale, avuto presente che il fine obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l'accesso al posto di lavoro sulla base di criteri attinenti alla statura fisica.

 

Non meno evidente è la violazione dello stesso principio costituzionale nel secondo caso: in quest'ultima ipotesi, infatti, l'aver previsto un requisito fisico identico per l'uno e per l'altro sesso sul presupposto della irrilevanza, ai fini dell'accesso al posto di lavoro, della diversità di statura fisica tra l'uomo e la donna - mediamente consistente, come risulta da rilevazioni antropometriche, in una differenza considerevole a sfavore delle persone di sesso femminile - comporta la produzione sistematica di effetti concreti proporzionalmente più svantaggiosi per i candidati di sesso femminile, proprio in ragione del loro sesso. In altri termini, l'adozione di un trattamento giuri dico uniforme - cioé la previsione di un requisito fisico per l'accesso al posto di lavoro, che è identico per gli uomini e per le donne, - è causa di una "discriminazione indiretta" a sfavore delle persone di sesso femminile, poichè svantaggia queste ultime in modo proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini, in considerazione di una differenza fisica statisticamente riscontrabile e obiettivamente dipendente dal sesso.

 

6.- La violazione, da parte della disposizione di legge contestata, del principio costituzionale di eguaglianza rende superfluo l'esame della compatibilità della stessa disposizione in riferimento agli altri parametri invocati dal giudice a quo.

 

Allo stesso modo è superfluo prendere in considerazione la direttiva della Comunità Economica Europea n. 76/207, precedentemente citata, per il fatto che, limitatamente agli articoli rilevanti per la fattispecie ora esaminata (artt. 2 e 3), la direttiva in questione, per un verso, pone un principio analogo a quello contenuto negli artt. 3, 37 e 51 della Costituzione (v. artt. 2, primo comma; 3, primo comma) e, per altro verso, stabilisce indirizzi rivolti agli Stati membri affinchè questi ultimi, nell'adozione della disciplina normativa nazionale conseguente, si conformino al principio sopra enunciato (v. artt. 2, secondo, terzo e quarto comma; 3, secondo comma).

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n.2, della legge della Provincia autonoma di Trento 15 febbraio 1980, n. 3 (Norme concernenti il trasferimento alla Provincia autonoma di Trento del personale della Regione Trentino-Alto Adige addetto agli uffici dell'ispettorato provinciale del servizio antincendi e di quello appartenente al corpo permanente dei vigili del fuoco di Trento e altre disposizioni riguardanti il personale provinciale), nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l'accesso alle carriere direttive e di concetto del ruolo tecnico del servizio antincendi della Provincia di Trento, il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e donne.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 02/04/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Antonio BALDASSARRE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 15/04/93.