SENTENZA N. 103
ANNO 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Ettore GALLO Presidente
Dott. Aldo CORASANITI Giudice
Prof. Giuseppe BORZELLINO “
Dott. Francesco GRECO “
Prof. Gabriele PESCATORE “
Avv. Ugo SPAGNOLI “
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA “
Prof. Antonio BALDASSARRE “
Prof. Vincenzo CAIANIELLO “
Avv. Mauro FERRI “
Prof. Luigi MENGONI “
Prof. Enzo CHELI “
Dott. Renato GRANATA “
Prof. Giuliano VASSALLI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale) convertito in legge 24 aprile 1989, n. 144, promossi con ordinanze emesse il 22 dicembre 1989 dal Tribunale di Napoli, il 17 gennaio 1990 (con tre ordinanze), dal Tribunale amministrativo regionale per l'Umbria, iscritte rispettivamente ai nn. 671, 717, 726 e 739 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 44, 49 e 50, prima serie speciale dell'anno 1990;
Visto l'atto di costituzione di Guerrieri Luigi ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 1991 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino;
Udito l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.1 - Nel corso di un procedimento civile promosso da professionisti per l'accertamento negativo dell'obbligo tributario in relazione alla I.C.I.A.P. (imposta comunale per l'esercizio di imprese e di arti e professioni), il Tribunale di Napoli (ord. n. 671 del 22 dicembre 1989), dichiarata con sentenza non definitiva la giurisdizione del giudice ordinario, ha sollevato questione di legittimità costituzionale "degli artt. da 1 a 2 della legge 24 aprile 1989, n. 144" (recte decreto legge 11 marzo 1989, n. 66, convertito in legge con modificazioni, 24 aprile 1989, n. 144, istitutivo della imposta comunale per l'esercizio di arti e professioni e di imprese), nella parte in cui, quale parametro e indice di rilevazione della capacità contributiva, si assume la superficie dei locali utilizzati per l'esercizio di una professione, di un'arte e di un'impresa, senza consentire prova contraria, in riferimento all'art. 53 Cost., nonché nella parte in cui è attribuita all'ente impositore (Comune) la facoltà di aumentare o ridurre discrezionalmente la misura base dell'importo consentendo di colpire con aliquote non omogenee attività identiche, esercitate in Comuni diversi, in riferimento all'art. 3 Cost.
Il Collegio a quo deduce che il dato obiettivo della superficie dei locali utilizzati è "illogico" indice rivelatore della capacità contributiva, desumibile viceversa "dalla qualità e quantità della clientela, dall'abitualità della stessa, dalla competenza professionale del titolare e dei suoi collaboratori, dall'organizzazione dell'attività e del servizio".
1.2 - È intervenuta in giudizio, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato che ha in primo luogo eccepito l'inammissibilità della questione. Si osserva infatti che il Tribunale ha sollevato la questione sulla normativa "così come mod. dal decreto legge 30 settembre 1989 n. 332": ma tale provvedimento si applicherebbe "dall'anno 1990", mentre la fattispecie oggetto del giudizio a quo concerne la denuncia I.C.I.A.P. 1989.
L'inammissibilità della questione deriverebbe anche dal difetto di giurisdizione dell'A.G.O. ex art. 20 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 638 (richiamato dall'art. 4, ottavo comma, decreto legge 2 marzo 1989 n. 66).
Nel merito la questione sarebbe infondata. In primo luogo perché il legislatore avrebbe attribuito circoscritte potestà impositive agli enti locali proprio per accrescerne l'autonomia. E poi nell'area tributaria molti sarebbero gli elementi, gli indicatori di capacità contributiva tenuti presenti dal legislatore al quale la Costituzione lascia in merito ampia discrezionalità. L'esercizio di un'impresa o di una professione sarebbe "di per sé indice rivelatore di ricchezza", e il dato relativo alla "superficie utilizzata" renderebbe ancora più concreto detto indice, rivelando la dimensione dell'attività esercitata.
In definitiva, sarebbe stata scelta la soluzione di un tributo (I.C.I.A.P.) "ipersemplificato e un po' rozzo", in considerazione della modesta entità media del tributo; della sua attribuzione alla finanza locale non dotata di uffici attrezzati; dell'esigenza di non caricare il "presupposto-reddito" di ulteriori compiti di rivelatore di ricchezza.
Infatti, "affidare solo all'IRPEF il compito di attuare l'art. 53 comma secondo Cost." comporterebbe "inevitabilmente una riduzione dell'effettività del sistema".
2.1 - Con tre ordinanze di pari data (717, 726, 739 del 17 gennaio 1990), il T.a.r. per l'Umbria ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale degli stessi artt. 1 e 2 decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 conv. in legge 24 aprile 1989 n. 144, nella parte in cui, identicamente, fanno irrazionale riferimento, per determinare la misura del tributo, alla superficie dell'immobile utilizzato e affidano all'Ente impositore la determinazione della misura dell'imposta tra il minimo ed il massimo stabilito nella tabella allegata alla legge, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.
Le ordinanze, che ripetono gli argomenti indicati sub 1.1, risultano emesse nel corso di giudizi promossi avverso la delibera (27 febbraio 1989 n. 733) della Giunta del Comune di Perugia (ord. n. 717 e 739), nonché (ord. n. 726) avverso la delibera consiliare del Comune di Pietralunga (31 marzo 1989, n. 14), con le quali, in applicazione di quanto disposto dalla normativa sull'I.C.I.A.P., è stata fissata nel massimo la misura del tributo dovuto.
2.2 - Si sono costituiti taluni ricorrenti osservando che le modifiche migliorative apportate dal decreto legge 30 settembre 1989 n. 332, conv. nella legge 27 novembre 1989 n. 384, ma a decorrere dal 1990, dimostrerebbero l'indubbia incostituzionalità della normativa precedente, corretta nel senso di consentire prova in adverso, nonché spettare ai Comuni solo la facoltà di ridurre o elevare, entro certi limiti, i livelli di reddito per determinate riduzioni o aumenti della misura dell'imposta.
In particolare, si insiste per l'incostituzionalità dell'art. 1, sesto comma, decreto legge n. 66 in quanto riferisce il prelievo ad una (pretesa) manifestazione di capacità contributiva non effettiva, in contrasto con l'art. 53 Cost. e con la relativa giurisprudenza costituzionale.
2.3 - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta nei tre giudizi, ha dedotto l'inammissibilità della questione sotto il profilo che "l'eventuale accoglimento del ricorso (annullamento della delibera con cui si stabilisce la misura massima del tributo) condurrebbe soltanto alla applicazione dell'I.C.I.A.P. nella misura minima, non alla totale esclusione della debenza del tributo (argomento quest'ultimo sul quale ha giurisdizione, dopo fase amministrativa, il Giudice ordinario)".
In ordine all'infondatezza vengono richiamati gli argomenti dedotti sub 1.2.
Considerato in diritto
1. - Le ordinanze concernono una identica questione: i relativi giudizi vanno riuniti, in conseguenza, per formare oggetto di un'unica pronuncia.
2.1 - Il Tribunale di Napoli, chiamato a pronunciarsi per l'accertamento negativo di obbligo tributario da parte di soggetti colpiti dall'imposta comunale per l'esercizio di arti e professioni e di imprese, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 24 aprile 1989, n. 144 (recte decreto legge 1° marzo 1989, n. 66 convertito in legge, con modificazioni, 24 aprile 1989, n. 144) recante disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale, per contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione.
Con le riferite norme si è istituita, e a decorrere dall'anno 1989, l'imposta di cui trattasi: la relativa misura è rimessa all'ente locale interessato, con possibilità di fissazione di aliquote diverse tra Comune e Comune per attività identiche e conseguente asserita irrazionale disomogeneità del sistema impositivo. Sistema poi che fa derivare il prelievo unicamente dal dato oggettivo della superficie dei locali usufruiti con disarticolazione da qualsivoglia indice reddituale, rivelatore, cioè, di capacità contributiva. Né resta in tal modo consentito ai soggetti della obbligazione tributaria di fornire prova contraria.
2.2 - Analoghe argomentazioni sono svolte dal Tribunale amministrativo dell'Umbria su ricorsi avverso le deliberazioni comunali di fissazione, nel massimo, dell'aliquota di prelievo dell'imposta.
3. - L'inammissibilità della questione proposta dal Tribunale di Napoli (supra 2.1) è sostenuta dall'Avvocatura generale dello Stato sotto un duplice profilo:
a) ancorché si verta in causa sui criteri di applicabilità delle norme per l'anno 1989, l'incidente avrebbe riferimento anche a norme migliorative successive in vigore dal 1990, avendo il giudice a quo denunciato le precedenti disposizioni "così come modificate dalla legge 27 novembre 1989, n. 344" (recte decreto legge 30 settembre 1989, n. 332 - Misure fiscali urgenti - convertito in legge, con modificazioni, 27 novembre 1989, n. 384);
b) nei termini della dedotta pretesa, così come processualmente introdotta, il giudice ordinario difetterebbe di giurisdizione.
Entrambe le censure non hanno pregio: non la prima perché il contesto dell'ordinanza di rimessione appare inequivocamente circoscritto alle disposizioni applicabili solo per l'anno 1989 (artt. 1 e 2 d. l. 1° marzo 1989, n. 66 e relativa legge di conversione). Quanto poi alla seconda eccezione, il Collegio remittente ha espressamente affermato in causa la propria giurisdizione, il che è bastevole, per le finalità del processo costituzionale, a dare ingresso alla successiva disamina del merito (cfr. sentenza n. 414 del 1989).
Tali conclusioni consentono di affrontare nel merito le questioni anche nella prospettiva degli incidenti sollevati dal Tribunale amministrativo dell'Umbria (supra 2.2), restando ininfluente la relativa eccezione posta dall'Avvocatura.
4. - Viene dapprima all'esame l'assunta disomogeneità di deliberazione, da Comune a Comune, per situazioni identiche. La questione non è fondata.
La Corte ha già avuto modo di considerare che si è di fronte, in casi del genere, alle inevitabili conseguenze del fatto che gli enti locali impositori godono di autonomia e possono esercitarla, nelle loro scelte, con valutazioni diverse a seconda delle rispettive differenti situazioni ambientali che sono variabili da territorio a territorio, senza che tanto abbia, e per ciò solo, a comportare censura (cfr. sentenza n. 159 del 1985).
5. - Fondata è la questione attinente al riferimento, quale indice per l'assoggettamento all'imposta, unicamente alla superficie dei locali adibiti all'esercizio di attività.
Giova ricordare all'uopo che le presunzioni tributarie, e di ciò in effetti si tratta, intanto possono legittimamente operare quali rivelatrici di ricchezza in quanto restino collegate in qualche modo a elementi concreti di redditività ancorché di non semplice accertamento. In altri termini, l'applicazione del tributo che ne deriva non può riposare su basi del tutto incontrollabili per i fini che si ripropongono, quando non addirittura fittizie (sentenze n. 42 del 1980 e n. 283 del 1987).
E infatti, per ciò che attiene all'odierno esame, il parametro è stato inteso come rapporto unico - in assoluto - di causa ed effetto rispetto al volume d'affari conseguito, essendo in ordine a questo privo di qualsivoglia collegamento o riscontro.
Né vale obiettare, come fa l'Avvocatura, che si tratterebbe di un sistema originato da necessità di ipersemplificazione, essendo contraddetta l'asserzione stessa dalla immediata introduzione di correttivi, a valere tuttavia dal successivo anno 1990. Conclusivamente la presunzione di cui trattasi, in quanto preclusiva di prova in adverso, è insuscettibile, per la irrazionalità che ne deriva, di porsi come fonte rivelatrice di una concreta capacità contributiva.
Al che consegue l'accoglimento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi:
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale) convertito in legge, con modificazioni, 24 aprile 1989, n. 144, nella parte in cui - relativamente all'applicazione per l'anno 1989 dell'imposta comunale per l'esercizio, nel territorio del Comune, di arti e professioni e di imprese - non consente ai soggetti d'imposta di fornire alcuna prova contraria in ordine alla propria effettiva redditività;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 (Disposizioni urgenti in materia di autonomia impositiva degli enti locali e di finanza locale) convertito in legge, con modificazioni, 24 aprile 1989, n. 144, per la parte in cui è attribuito ai Comuni, nei confronti dell'imposta comunale per l'esercizio di arti e professioni e di imprese, il potere di determinarne la misura, sollevata dal Tribunale di Napoli nonché dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 1991.
Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.
Depositata in cancelleria l'11 marzo 1991.