SENTENZA N.42
ANNO 1980
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Avv. Leonetto AMADEI, Presidente
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 7 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 599 (Istituzione e disciplina dell'imposta locale sui redditi) e dell'art. 4, n. 1, del d.P.R. 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria) promosso con ordinanze emesse dalle Commissioni tributarie di 1° grado di Lecco il 13 aprile 1977, di Grosseto il 4 giugno 1977, di Pordenone i1 29 marzo 1977, di Lucca il 1° dicembre 1977, di Pinerolo i1 7 novembre 1977 (due ordinanze), di Milano il 17 giugno 1977, di Bassano del Grappa il 10 aprile 1978, di Palermo i124 giugno 1977, di Torino il 5 maggio 1978 (due ordinanze), di Cuneo il 3 maggio 1978 e di Bassano del Grappa il 12 aprile 1979, rispettivamente iscritte ai nn. 458, 464 e 541 del registro ordinanze 1977; 150, 159, 160, 209, 442 e 464 del registro ordinanze 1978, e 256, 257, 333 e 456 del registro ordinanze 1979, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 327 e 334 del 1977; nn. 39, 154, 158, 179 e 347 del 1978 e nn. 3,147,175 e 210 del 1979.
Visto l'atto di costituzione di Romano Fabio e Studio Verna, di Bianchi Luigi e Chiesa Gabriele;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 5 dicembre 1979 il Giudice relatore Livio Paladin;
uditi gli avvocati Victor Uckmar e Paolo Barile, per Bianchi e Chiesa, ed Emanuele Granelli, per Romano e Studio Verna, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Cipparrone, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1. - Le tredici ordinanze di rimessione contestano tutte la legittimità costituzionale delle norme concernenti l'istituzione e la disciplina dell'imposta locale sui redditi, in quanto prevedono (o in quanto non escludono) l'applicazione dell'imposta a carico dei lavoratori autonomi.
Precisamente, la Commissione tributaria di 1° grado di Lecco impugna in questo senso l'intero d.P.R. 29 settembre 1973, n. 599.
Le altre Commissioni prendono invece di mira l'art. 1 del decreto stesso, ora assumendolo nel suo complesso, ora mettendo in questione il solo capoverso, ora censurando la mancata esclusione dei lavoratori autonomi e dei professionisti, per disparità di trattamento rispetto ai lavoratori dipendenti, di cui all'art. 1, primo comma, lett. a) (ma trattasi in tal caso di un evidente errore materiale, dal momento che la lettera a, relativa all'esenzione dei redditi di lavoro dipendente e assimilati, è contenuta nel secondo e non nel primo comma dell'articolo impugnato). E varie ordinanze estendono l'impugnativa all'art. 7 del predetto decreto, con particolare riguardo al primo, secondo e quarto comma, in quanto non consentono un differenziato tratta mento tributario del lavoro autonomo, ai fini delle deduzioni dai rispettivi redditi; mentre la Commissione tributaria di 1° grado di Palermo, oltre all'art. 1, lett. a), del d.P.R. n. 599 del 1973, coinvolge nella sua denuncia l'art. 4, n. 1, della legge-delega per la riforma tributaria (sia pure indicata attraverso il riferimento, anch'esso manifestamente erroneo e quindi suscettibile di venire corretto, ad un insussistente d.P.R. 9 ottobre 1971, n. 825).
Quali parametri, tutte le ordinanze (con l'unica eccezione di quella emessa il 24 giugno 1977 dalla Commissione tributaria di 1° grado di Palermo, che fa richiamo al solo principio di capacita contributiva) invocano congiuntamente gli artt. 3 e 53 della Costituzione. Ma varie Commissioni prospettano altresì la violazione dell'art. 35, là dove esso dichiara che < la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni >. E la Commissione tributaria di 1° grado di Bassano del Grappa-mediante l'ordinanza datata 12 aprile 1979-sostiene a sua volta che l'art. 7 del d.P.R. n. 599 del 1973 si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost., violando il principio direttivo stabilito dall'art. 4, n. 5, della legge-delega n. 825 del 1971, per la mancata concessione delle relative deduzioni a favore dei redditi di lavoro autonomo occasionale.
Ma l'apparente varietà delle prospettazioni non toglie che la questione di legittimità costituzionale, così sollevata dalle tredici ordinanze di rimessione, si presenti pur sempre in termini fondamentalmente comuni; sicché i relativi giudizi si prestano ad essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. - All'origine del problema che la Corte è chiamata a risolvere, stanno le profonde modifiche introdotte quanto all'ambito di applicazione dell'imposta in esame, a partire dai progetti governativi di riforma tributaria sino all'entrata in vigore della legge-delega n. 825 del 1971 e della conseguente legge-delegata n. 599 del 1973.
Concepito e denominato inizialmente come < imposta locale sui redditi patrimoniali >, questo tributo avrebbe dovuto colpire i redditi di capitale, i redditi di terreni e di fabbricati, i redditi agrari e quelli derivanti dall'esercizio di imprese commerciali: realizzando con ciò una discriminazione qualitativa dei redditi stessi, che era destinata per definizione come chiariva espressamente la relazione all'art. 4 del disegno di legge n. 1639, presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 1° luglio 1969-a lasciare esenti i redditi di lavoro, qualunque fosse la loro fonte e la loro natura. L'originaria configurazione del tributo venne invece abbandonata per motivi che non sono mai stati ufficialmente esposti in modo organico - nel seguito dei lavori preparatori, a cominciare dal testo alternativo, elaborato in seno alla sesta Commissione permanente della Camera. In un primo tempo, la denominazione prescelta dal progetto governativo fu dunque ampliata, nel senso di prevedere un'< imposta locale sui redditi patrimoniali, d'impresa e professionali >, estesa anche a carico dei liberi professionisti, sia pure con le stesse deduzioni già predisposte a beneficio degli imprenditori che prestassero continuativamente la propria opera nelle imprese in questione. In un secondo tempo, si preferì trattare sinteticamente di < imposta locale sui redditi >, in quanto applicabile alla generalità dei < singoli redditi prodotti nel territorio dello Stato, esclusi quelli di lavoro subordinato > (secondo il definitivo disposto dell'art. 4, n. 1, della legge-delega n. 825 del 1971).
A conclusione di tali sviluppi, potrebbe parere che l'imposta abbia completamente smarrito l'iniziale ragion d'essere. Non a caso, nella relazione ministeriale allo schema del decreto delegato per l'istituzione dell'ILOR si afferma appunto che essa < viene ad assumere ... la prevalente funzione di fattore discriminante il trattamento tributario dei redditi diversi da quelli di lavoro subordinato >. Ed anche in dottrina vari autori ragionano dell'imposta medesima a costo di una certa imprecisione di linguaggio come d'una sorta di addizionale o come d'una rinnovata imposta complementare; o, più semplicemente, ne mettono in rilievo il carattere accessorio rispetto all'IRPEF e all'IRPEG, fatta salva l'esclusione del lavoro dipendente (nonché degli altri redditi specificamente riguardati dalle lettere b) e c) dell'art. 1, secondo comma, del decreto istitutivo).
Sennonché, a ben vedere, nel vigente ordinamento dell'ILOR continuano a riflettersi i motivi ispiratori dell'originaria concezione. Da un lato, nell'ambito del presupposto identificato dall'art. 1 del d.P.R. n. 599 del 1973, tutti i redditi diversi da quelli di lavoro autonomo sono pur sempre redditi fondati o contraddistinti, in ogni caso, da una significativa componente di capitale; sicché sembra lecito desumerne che lo stesso lavoro autonomo sia stato inquadrato dal legislatore tributario fra le attività produttive di redditi misti, di capitale e non solo di lavoro. D'altro lato, una tale ipotesi interpretativa è larga mente confermata dall'art. 7 del decreto istitutivo: poiché l'aver previsto una comune deduzione, sia per i redditi di lavoro autonomo sia per i redditi agrari o d'impresa quando le prestazioni personali del soggetto passivo del tributo costituiscano < la sua occupazione prevalente >, sembra fornire la riprova che anche per i lavoratori autonomi sia stato così perseguito l'intento di < eliminare dall'imponibile la parte che si può considerare formata dal lavoro del soggetto > (come precisava la citata relazione al disegno governativo n. 1639 del 1969). E, coerentemente, l'Avvocatura dello Stato non esita, nella sua memoria, a dare per scontata la premessa che l'ILOR si configuri tuttora < come imposta reale proporzionale finalizzata alla tassazione oggettiva di tutti i redditi caratterizzati, totalmente o anche solo parzialmente, da elementi di patrimonialità >.
3. - E' precisamente da queste ambiguità del disegno legislativo, che traggono lo spunto le ordinanze di rimessione, in riferimento al combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost.: denunciando in sostanza la violazione di quel principio d i eguaglianza tributaria, per cui la Corte ha affermato nella sentenza n. 120 del 1972-< che a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale >, attuando in tal modo l'< esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza >.
Vero è che i profili evidenziati in questo senso, nelle motivazioni e nei dispositivi delle varie ordinanze, si presentano duplici e di segno apparentemente opposto. Per un primo verso, infatti, alcune Commissioni tributarie sottolineano l'irragionevolezza della discriminazione stabilita dalla disciplina concernente l'ILOR, secondo che si tratti di lavoro autonomo oppure dipendente; per un secondo verso, altre Commissioni danno piuttosto rilievo all'ingiustificatezza dell'assimilazione fra i redditi di lavoro autonomo, i redditi agrari ed i redditi di impresa (per non dire degli stessi redditi puramente patrimoniali), derivante dall'art. 1 prima ancora che dall'art. 7 del decreto istitutivo.
Ma le due prospettive si risolvono, in realtà, nei diversi aspetti di un'unica questione di legittimità costituzionale. Le norme relative all'ILOR sono cioè censurate, in quanto distraggono i redditi di lavoro autonomo dalla disciplina tributaria del lavoro dipendente, al solo scopo di attrarre i redditi stessi corrispondentemente nell'ambito della disciplina dei redditi misti o fondati: senza che le conseguenti classificazioni legislative si ricolleghino ad una specifica e congrua capacita contributiva dei lavoratori sottoposti al tributo.
Così ricostruita, l'impugnativa dev'essere accolta. E ne risulta assorbita l'ulteriore questione riguardante la legittimità dell'art. 1 del d.P.R. n. 599 del 1973, sollevata in vista dell'art. 35 della Costituzione.
4. - Nello sforzo di sostenere la costituzionalità dell'assoggettamento del lavoro autonomo all'imposta locale sui redditi, l'Avvocatura dello Stato ha svolto due ordini di considerazioni, pertinenti entrambe alla sistemazione concettuale delle attività così colpite. In primo luogo, tanto in sede giuridica quanto in sede economica, il lavoro autonomo rappresenterebbe un fenomeno ben differenziato dal lavoro dipendente. In secondo luogo, sussisterebbe invece una strettissima < contiguità > fra i redditi di lavoro autonomo e i redditi d'impresa, tale che non sarebbe ragionevole la contrapposizione dei lavoratori autonomi (e dei liberi professionisti, in particolar modo) ai piccoli imprenditori ed agli stessi commercianti.
Né l'uno né l'altro assunto valgono però a giustificare la scelta legislativa in questione. I marcati tratti distintivi del lavoro autonomo nei confronti del lavoro dipendente sono certo incontestabili, sul piano del diritto tributario come già sul piano del diritto civile. Ma la discriminazione qualitativa dei redditi non implica soltanto che le rispettive fonti di produzione siano diverse; bensì richiede per dimostrarsi costituzionalmente legittima che a questa diversità corrisponda una peculiare e differenziata capacità contributiva, propria dei redditi incisi rispetto ai redditi esclusi dal tributo, a parità di ammontare della base imponibile. E nulla consente di desumere, né dai lavori preparatori né dal testo delle norme riguardanti l'imposta in esame, che la capacità posta a base dell'ILOR possa farsi consistere nelle caratteristiche differenziali delle varie forme di lavoro, per sé considerato.
D'altra parte, per dare la prova di una maggiore attitudine dei lavoratori autonomi alla contribuzione, non giova postulare l'esistenza di un inscindibile continuum, comprensivo dei redditi di lavoro autonomo (e specialmente dei redditi professionali) unitamente ai redditi d'impresa: la cui discriminazione qualitativa, rispetto ai redditi esclusi dall'ILOR, non viene contestata per lo meno di massima sul piano della legittimità costituzionale. Indiscutibilmente, può essere arduo stabilire al limite se singole specie di attività lavorative appartengano all'area imprenditoriale oppure al lavoro autonomo strettamente inteso. Così pure, sono sempre controversi in dottrina gli stessi criteri di definizione dei concetti d'impresa e d'imprenditore; e le difficoltà si accentuano nel campo tributario, poiché le nozioni adottate dall'art. 51 del d.P .R. 29 settembre 1973, n. 597, differiscono in parte dalle configurazioni civilistiche, sia nel senso di riguardare soggetti passivi che non sono veri e propri imprenditori commerciali, sia nel senso di colpire attività diverse da quelle considerate nell'art. 2195 cod. civ.
Ma la presenza di una zona grigia, intermedia fra i redditi sicura mente imprenditoriali e quelli sicuramente lavorativi, non toglie che sul piano normativo altro siano il lavoro autonomo in genere e le libere professioni in specie, altro le attività peculiari delle imprese commerciali (o giuridicamente assimilate od assimilabili ad esse).
Le realtà del lavoro e dell'impresa sono bensì interferenti: tanto è vero che l'art. 2238 cod. civ. prevede che l'esercizio della professione possa costituire < elemento di un'attività organizzata in forma d'impresa >; e che la stessa Corte ha ipotizzato nella sentenza n. 17 del 1976 < che determinate attività professionali ... richiedano oggi un'organizzazione a base imprenditoriale >. Precisamente dall'art. 2238 cod. civ. si ricava pero, con certezza, che il libero professionista come tale non è un imprenditore. E ne danno larghissima conferma il carattere personale delle prestazioni ex articolo 2232 cod. civ., le caratteristiche forme e misure di compenso che in proposito impone l'art. 2233, il diverso rischio che grava sull'imprenditore, rispetto al prestatore di opera intellettuale.
Del resto, se anche si restringe l'indagine all'ordinamento tributario immediatamente anteriore alla riforma del 1971, è vero che i redditi d'impresa ne venivano considerati di categoria C1, quando si trattasse di attività < organizzate prevalentemente con il lavoro proprio del contribuente e dei componenti della famiglia > (secondo l'art. 85 del d.P.R. n. 645 del 1958); ma non è meno vero che la relativa aliquota dell'imposta di ricchezza mobile risultava allora identica a quella stabilita per la categoria C2, ossia per i redditi di lavoro subordinato (anche se da ultimo le rispettive quote esenti erano state diversificate dall'art. 1 della legge n. 801 del 1970). Sicché i precedenti non sorreggono affatto la tesi dell'Avvocatura dello Stato; ma, tutt'al più, offrono argomenti non certo decisivi in un giudizio di legittimità costituzionale che riguarda il solo ordinamento successivo alla riforma adducibili a sostegno di entrambe le tesi in contrasto.
In ogni caso, di fronte alla soluzione accolta dall'art. 4, n. 1, della legge n. 825 del 1971 e dall'art. 1 del d.P.R. numero 599 del 1973 che sottopongono all'ILOR tanto i redditi di lavoro autonomo quanto i redditi d'impresa, come pure i redditi agrari e di terreni in genere, i redditi di fabbricati, i redditi di capitale non si può non concludere che il legislatore ha adottato in sostanza (quali che fossero le intenzioni degli autori della riforma tributaria) una scelta di comodo, utile per superare le difficoltà operative inerenti all'esatta determinazione di una categoria così composita come quella costituita dai redditi patrimoniali. Sotto il profilo in esame, pero, soluzioni del genere non risultano compatibili con i principi costituzionali di eguaglianza e di capacità contributiva. Come questa Corte ha più volte chiarito (cfr. le sentt. n. 103 e n. 109 del 1967, n. 99 del 1968, n. 200 del 1976), le presunzioni tributarie non sono di per sé illegittime, ma debbono fondarsi su < indici concretamente rivelatori di ricchezza > ovvero su < fatti reali >, quand'anche difficilmente accertabili, affinché l'imposizione non abbia una < base fittizia >. Viceversa, la presunzione su cui dovrebbe reggersi l'assoggettamento del lavoro autonomo all'ILOR si dimostra così incontrollabile ed indiscriminata, da rivelarsi per ciò solo irragionevole e dunque lesiva dell'eguaglianza tributaria.
5. - Analoghi motivi inducono ad escludere che la giustificazione delle norme impugnate possa farsi consistere-secondo le insistite argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato -nella circostanza che a formare i redditi di lavoro autonomo concorrerebbe < una componente produttiva patrimoniale (anche se in misura ridotta o minima) >; sicché l'imposta tenderebbe appunto a colpire la < generica patrimonialità > dei redditi stessi, non diversamente dagli altri redditi misti.
In realtà, anche questa configurazione del lavoro autonomo risulta postulata assai più che dimostrata. Non a caso, l'Avvocatura dello Stato è costretta a riconoscere che la regola da essa affermata subisce, quanto meno, alcune eccezioni: dal momento che < non sempre > -come precisa la memoria depositata il 22 novembre 1979 < il reddito di lavoro professionale può essere riferito, anche per parte modesta >, ad una < base genericamente patrimonialistica >. Ma, una volta fatta questa necessaria ammissione, la pretesa giustificazione rimane senz'altro privata del suo fondamento. Ed effettivamente non è in tali termini, così generalizzati ed approssimativi, che si può salvare una presunzione tributaria come quella in esame: non incidente sul quantum ma sull'an dell'obbligazione tributaria, cioè sulla stessa esistenza e non sulla sola consistenza del presupposto del tributo.
D'altronde, la comune esperienza dimostra che una significativa componente patrimoniale, nonché difettare in alcune eccezionali ipotesi, manca addirittura per ciò che riguarda una maggior parte dei redditi da lavoro autonomo. É infatti ben noto che i beni strumentali generalmente necessari per produrre i redditi stessi non hanno, di massima, natura e dimensioni economiche tali che il legislatore tributario ne possa ragionevolmente tener conto, ai fini di un'imposta sul tipo dell'ILOR. Ed è ancor più conclusiva la considerazione che, nei confronti di intere categorie di lavoratori autonomi, la patrimonialità del reddito non può essere neppure ipotizzata o postulata: in linea di fatto, per attività lavorative come quelle degli autori di opere letterarie e scientifiche o dei titolari di redditi < derivanti dalla collaborazione a giornali, riviste ed enciclopedie > (di cui all'art. 49, terzo comma, lett. a, del d.P.R. n. 597 del 1973); in linea di diritto, circa < i redditi derivanti dalla partecipazione ad associazioni in partecipazione in qualità di associato quando l'apporto è costituito esclusivamente dalla prestazione di lavoro > (secondo l'espressa previsione dell'art. 49, terzo comma, lett. c); per non dire dei redditi di lavoro autonomo occasionale, assoggettati integralmente all'ILOR senza che i modelli per la dichiarazione annuale dei redditi consentano nemmeno di effettuare le deduzioni disposte dall'art. 7 del d.P.R. n. 599 del 1973.
Né si dimostra producente addurre il carattere sostanzialmente patrimoniale della clientela, dalla quale i liberi professionisti (come pure altri lavoratori autonomi) ricavano il loro reddito.
Sotto questo stesso aspetto, non possono venir confuse e ridotte ad un'artificiosa unità fattispecie che si presentano assai diversificate: in quanto è ben diverso il caso delle società di professionisti, ai fini delle quali la clientela di uno dei soci può anche venir equiparata ad un apporto di capitale, dal caso del professionista isolato, che non disponga -intuitu personae - se non di clienti acquisiti mediante le sue proprie prestazioni. Ed è appunto quest'ultima la situazione che il legislatore dimostra di considerare normale: come si desume -indirettamente - dall'art. 35 della legge n. 392 del 1978, che non attribuisce al conduttore il diritto ad una indennità per la perdita dell'avviamento qualora si tratti di immobili < destinati all'esercizio di attività professionali >, diversamente da ciò che si verifica di regola per le attività industriali, commerciali e artigianali.
Se a tutto ciò si aggiunge che i finanziamenti agevolati e gli altri contributi della mano pubblica, in conto interessi od anche in conto capitale, sono sistematicamente concessi alle grandi ed alle piccole imprese, mentre non vanno quasi mai a beneficio del lavoro autonomo strettamente inteso (e, in particolar modo, delle libere professioni), se ne ricava una ulteriore conferma dell'impossibilità di inquadrare indiscriminatamente i redditi di lavoro autonomo fra i redditi misti, in ragione della loro asserita patrimonialità.
6. - A compensare gli squilibri derivanti dall'art. 1, non basta la deduzione prevista dall'art. 7 del d.P.R. n. 599 del 1973, nella misura del cinquanta per cento del reddito annuo di lavoro autonomo, da un minimo di due milioni e cinquecentomila fino a un massimo di sette milioni e cinquecentomila lire (rispettivamente elevati a sei milioni e dodici milioni, per effetto dell'art. 11 della legge 2 dicembre 1975; n. 576). Malgrado si tratti di un notevole abbattimento alla base, questo beneficio non fa che ribadire sul piano giuridico l'illegittima presunzione che i redditi in esame ricadano fra i redditi misti e siano pertanto equiparabili ai redditi d'impresa: dal momento che la deduzione non spetta ai soli lavoratori autonomi, ma si applica secondo il capoverso dell'art. 7 agli stessi redditi agrari ed imprenditoriali, < a condizione che il soggetto presti la propria opera nell'impresa e tale prestazione costituisca la sua occupazione prevalente >.
Ciò che è più grave, la discriminazione qualitativa dei redditi si degrada in tal senso a discriminazione quantitativa; e l'imposta locale sui redditi, quasi concepita come un duplicato dell'imposta personale, si trasforma corrispondentemente secondo certe impostazioni dottrinali da proporzionale in progressiva. In base alla ratio originaria della deduzione, essa mirava e verosimilmente mira, come si è già ricordato, a lasciare esente quella parte dei redditi misti che si presume imputabile al lavoro dei soggetti passivi del tributo. Sennonché, mentre operazioni del genere si addicono ai redditi d'impresa, esse deformano le caratteristiche del lavoro autonomo, in ordine al quale non è certo sostenibile che l'elevatezza del reddito valga da sola a mutare sopra una determinata soglia la stessa natura dell'attività colpita dall'imposta.
Per i lavoratori autonomi, in altre parole, l'avere stabilito in modo meccanico che fino a due milioni e cinquecentomila lire (ora elevati a sei milioni) i loro redditi siano qualificabili di puro lavoro, che da questa cifra fino a quindici milioni (ora elevati a ventiquattro) si tratti di redditi misti, che oltre un tale tetto essi debbano invece venire imputati ad una componente di puro capitale, rappresenta il frutto d'una presunzione tributaria basata sopra un'altra presunzione: cioè sulla premessa, già di per sé irragionevole, che i redditi di lavoro autonomo siano tutti assimilabili ai redditi d'impresa, dalla quale in sostanza procede l'art. 1 del d.P.R. n. 599 del 1973.
7. - A questo punto, per superare le censure mosse alla legittimità costituzionale dell'ILOR, nella parte concernente il lavoro autonomo, non resterebbe che cercare giustificazioni estrinseche rispetto ai presupposti del tributo. Ma anche un siffatto tentativo, variamente operato già nel corso dei lavori preparatori della legge-delega per la riforma tributaria, appare destinato all'insuccesso.
In primo luogo, non giova addurre come si legge negli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri < la considerazione, non ignorata dal legislatore, che i redditi di lavoro autonomo, indipendentemente dall'efficienza degli apparati amministrativi preposti, sono per loro natura meno suscettibili di completo ed integrale accertamento capace di eliminare in modo assoluto sottrazioni alla imposizione >. Di fatto, può ben darsi che l'intento di reagire all'evasione tributaria dei lavoratori autonomi (e, in particolar modo, dei liberi professionisti), abbia pesato sulle scelte poste a fondamento dell'ILOR, nella sua versione conclusiva. Ufficialmente, pero, l'argomento dell'evasione è stato più volte contestato, non senza una certa indignazione, durante i lavori preparatori della legge n. 825 del 1971: a partire dalla relazione di maggioranza della quinta Commissione permanente della Camera, là dove si precisa che < un trattamento fiscale commisurato, anche solo parzialmente, ad una presunzione di evasione sarebbe in stridente contraddizione con i motivi ispiratori della riforma, che mirano all'acquisizione di dichiarazioni veritiere >, risolvendosi quindi in < un invito indiretto > all'evasione stessa. E d'altra parte, se questa ne fosse la giustificazione, l'ILOR non ristabilirebbe affatto una superiore eguaglianza fra i contribuenti, bensì aggraverebbe le sperequazioni già in atto fra coloro che dichiarano i propri redditi in termini assolutamente o almeno relativamente esatti e quanti invece presentano dichiarazioni incomplete o infedeli (o addirittura omettono di presentarle): poiché la circostanza che dichiarazioni, accertamenti e rettifiche siano comuni all'IRPEF e all'ILOR, verrebbe ancora una volta a premiare chi sfugge del tutto od in parte all'imposta personale, evadendo in tal modo parallelamente anche l'imposta locale sui redditi.
In secondo luogo, ai fini dell'attuale decisione non è probante osservare come già riferiva la quinta Commissione permanente del Senato che i redditi di lavoro autonomo sono preventivamente depurati da tutte le spese di produzione; diversamente dai redditi di lavoro dipendente, che in tal senso non beneficiano altro che di una detrazione fissa. Da un lato, la deduzione delle < spese inerenti all'esercizio dell'arte o professione effettivamente sostenute > nel periodo d'imposta, nonché delle < spese per l'acquisto di beni strumentali > (di cui al primo ed al secondo comma dell'art. 50 del d.P.R. n. 597 del 1973), persegue l'ovvia esigenza di considerare un reddito netto anziché un reddito lordo. D'altro lato, se ciò comportasse una irragionevole disparità di trattamento fra lavoratori autonomi e subordinati, il rimedio dovrebbe consistere in una diversa regolamentazione della base imponibile dell'imposta personale e non certo nell'introduzione di una nuova ed apposita imposta, come quella locale sui redditi.
In terzo luogo, non regge nemmeno il rilievo-proposto dall'Avvocatura dello Stato- che non sussisterebbe < una piena uniformità dei sistemi di accertamento e di riscossione > delle somme rispettivamente dovute dai lavoratori autonomi e dai lavoratori dipendenti, quanto all'imposta sul reddito delle persone fisiche. Per meglio dire, il rilievo è incontestabile di per se stesso, specialmente per chi abbia riguardo agli anni antecedenti la cosiddetta autotassazione introdotta dall'art. 17 della legge n. 576 del 1975. In quel primo biennio di applicazione della riforma tributaria, cui si riferiscono tutte le ordinanze di rimessione, era infatti normale che l'imposta personale fosse pagata dai lavoratori autonomi a due - tre anni di distanza dalla produzione del reddito così colpito; tanto è vero che l'art. 16, secondo comma, della ricordata legge n. 576 prevedeva che l'IRPEF e l'ILOR dovute per il 1974 potessero < essere iscritte nei ruoli entro il 31 dicembre 1976 >, in vista della successiva riscossione < in quattro rate consecutive > (ed analogamente disponevano l'art. 1 della legge n. 160 e l'articolo 3 del d.P.R. n. 920 del 1976).
Qui pure, tuttavia, il rimedio andava naturalmente escogitato all'interno della disciplina dell'IRPEF: per esempio, maggiorando l'ammontare dell'imposta medesima in ragione del tempo trascorso fra la dichiarazione (o la percezione) del reddito ed il versamento del relativo tributo, anziché istituire un'imposta specifica. Ciò che più conta, fin d'allora vari redditi di lavoro autonomo venivano in parte colpiti alla fonte, mediante le ritenute previste dall'art. 25 del d.P.R. numero 600 del 1973, senza che il decreto istitutivo dell'ILOR tenesse il minimo conto di ciò, al fine di ridurre correlativamente l'incidenza dell'imposta locale: il che rappresenta la riprova che la giustificazione dell'imposta stessa non può farsi consistere-neanche in relazione agli anni 1974 e 1975-nel ritardato pagamento dell'IRPEF da parte dei titolari di redditi non derivanti da lavoro dipendente.
8. - Da nessun punto di vista, l'indiscriminata sottoposizione dei redditi di lavoro autonomo all'ILOR si presenta, dunque, costituzionalmente difendibile. Tuttavia, ciò non significa che tali redditi vadano comunque sottratti all'imposta locale, pur dove sussistano valide ragioni per assimilarli ai redditi d'impresa e, più in generale, per iscriverli fra i redditi misti. Allo stato attuale dell'ordinamento tributario, che non può essere diversamente articolato dalla Corte stessa, la distinzione fra i redditi di lavoro e i redditi d'impresa dovrà essere operata alla stregua dell'art. 51 del d.P.R. n. 597 del 1973: dal quale già risulta un ampliamento della nozione d'impresa, rispetto ai criteri adottati nel codice civile. Ma il legislatore potrà bene stabilire-nei limiti della ragionevolezza- ulteriori criteri, specificativi di quelli dettati dall'articolo 5l.
L'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n. 1, della legge n. 825 del 1971 e dell'art. 1 del d.P.R. n. 599 del 1973 va pertanto dichiarata nella parte in cui tali norme non escludono i redditi di lavoro autonomo, che non possano venire assimilati ai redditi d'impresa.
Quanto invece all'art. 7 del predetto decreto non occorre che, negli stessi termini, ne venga pronunciato l'annullamento: poiché la disciplina delle deduzioni a favore dei lavoratori autonomi è resa a sua volta inoperante, circa i rapporti ai quali non possa più essere applicato l'art. 1, già in forza della dichiarazione d'illegittimità parziale della disciplina riguardante il presupposto dell'imposta locale sui redditi. Ciò considerato, rimane assorbita anche la questione riguardante il preteso contrasto fra l'art. 7 e l'art. 76 Cost., per la mancata concessione del relativo beneficio a favore dei redditi di lavoro autonomo occasionale: questione che il giudice a quo ha sollevato congiuntamente, ed anzi subordinatamente, rispetto all'impugnativa dell'art. 1 del d.P.R. n. 599 del 1973.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, n. 1, della legge 9 ottobre 1971, n. 825, e dell'art. 1, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, in quanto non escludono i redditi di lavoro autonomo, che non siano assimilabili ai redditi d'impresa, dall'imposta locale sui redditi.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/03/80.
Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI.
Giovanni VITALE – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 26/03/80.