SENTENZA N. 109
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Dott. Antonio MANCA
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 31, primo, secondo e terzo comma, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, "Legge tributaria sulle successioni", promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 22 febbraio 1966 dalla Corte d'appello di Milano nel procedimento civile vertente tra Russo Mario e l'Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritta al n. 60 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966;
2) ordinanza emessa il 17 maggio 1966 dalla Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di Napoli su ricorso di Schiano Giuseppe contro l'Ufficio del registro di Ischia, iscritta al n. 211 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 26 novembre 1966.
Visti gli atti di costituzione di Russo Mario e dell'Amministrazione delle finanze dello Stato e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 18 maggio 1967 la relazione del Giudice Giuseppe Verzì;
uditi l'avv. Bruno Positano de Vincentiis, per il Russo, e il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e l'Amministrazione delle finanze dello Stato.
Ritenuto in fatto
Nella causa civile vertente fra Russo Mario e la Amministrazione delle finanze dello Stato in merito, tra l'altro, alla validità o meno dell'inventario notarile dei beni appartenenti alla defunta Angela Maino in Negri, ai fini dell'applicabilità del terzo comma dell'art. 31 della legge tributaria sulle successioni approvata con R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, la Corte d'appello di Milano, con ordinanza del 22 febbraio 1966, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'anzidetto art. 31, in relazione all'art. 53 della Costituzione.
Secondo l'ordinanza, la norma - che impone una presunzione assoluta di esistenza, nel patrimonio ereditario, di gioielli, denaro e mobili per un valore fisso e predeterminato in percentuale dell'intero asse ereditario - sarebbe incompatibile col principio costituzionale dettato dall'art. 53, per il quale ogni cittadino é tenuto a contribuire alle spese dello Stato non secondo astratte, e perciò arbitrarie presunzioni imposte da disposizioni sottordinate, ma secondo la sua reale e concreta capacità contributiva.
L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966.
Nel presente giudizio si sono costituiti il sig. Russo Mario assistito e difeso dagli avvocati Bernardo Pocherra e Bruno Positano de Vincentiis, e l'Amministrazione delle finanze dello Stato rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato.
La difesa del Russo sostiene che il criterio presuntivo della esistenza di una quantità di beni che contribuiscono alla formazione di una ricchezza colpita da imposta, non aderisce al concetto di rapporto fra capacità contributiva ed obbligazione di imposta, quale é stato chiarito dalle sentenze di questa Corte.
C'é contrasto fra la sussistenza di un indice effettivo di capacità contributiva e la presunzione valutativa di una ricchezza, che di fatto potrebbe non esservi. In sostanza, l'effetto della presunzione sarebbe quello di fare aumentare il patrimonio accertato di un valore pari al 7,10 per cento e di creare perciò fittiziamente una capacità contributiva diversa da quella che nell'erede si determina in forza della successione.
La medesima questione é stata proposta d'ufficio dalla Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di Napoli, la quale con ordinanza del 17 maggio 1966, ha eccepito la illegittimità costituzionale del primo, del secondo e del terzo comma dell'art. 31 della legge tributaria sulle successioni, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Secondo l'ordinanza la norma impugnata opera una ingiustificata discriminazione fra i cittadini che ricevono per successione ereditaria una azienda industriale, commerciale od agricola - dovendosi in tal caso calcolare la percentuale relativa alla esistenza di gioielli, denaro e mobilia sul valore dell'azienda al netto delle passività - ed i cittadini che ereditano altri beni, dei quali si tiene conto del valore lordo per il calcolo di detta percentuale.
In riferimento all'art. 53, la stessa ordinanza osserva che - secondo la giurisprudenza di questa Corte - per determinare l'imposta che si può esigere da ciascun obbligato deve farsi capo ad un indice effettivo, costituito dalla capacità contributiva reale del soggetto, e non da quella fittizia, derivante da una presunzione di legge.
L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 26 novembre 1966.
Nel presente giudizio non vi é stata costituzione delle parti, ma é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
In riferimento all'art. 53 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la capacità contributiva, intesa come idoneità a corrispondere la prestazione coattivamente imposta, deve porsi in relazione non già con la concreta capacità di ciascun contribuente, ma piuttosto con il presupposto al quale la prestazione stessa é collegata e con gli elementi essenziali dell'obbligazione tributaria. Il riferimento del presupposto alla sfera dell'obbligato deve risultare da un collegamento effettivo, mentre ad un indice effettivo deve farsi capo, per determinare la quantità di imposta che da ciascun obbligato si può esigere. Tutti questi requisiti ricorrono nella disposizione del primo comma dell'art. 31, la quale ancora la prova legale - qual'é la presunzione legale juris tantum in contestazione - a ragionevoli e predeterminate percentuali del valore dei beni ereditati.
Né é esatto che si finisce col dare una base fittizia alla imposizione, quando la determinazione dell'esistenza del ripetuto presupposto sia vincolata in tutto in parte ad un sistema di prove legali.
In riferimento poi al principio di eguaglianza, non sussiste - sempre a parere dell'Avvocatura dello Stato - alcuna differenza di trattamento nella valutazione delle aziende e degli altri beni caduti in successione. Ed invero, il valore di qualunque bene, diverso dall'azienda, é quello suo proprio, come stabilito, nel modo di determinazione, dal legislatore ai fini dell'imposta di successione (valore venale in comune commercio), essendo irrilevante, nei suoi confronti, il passivo ereditario, che si ricollega ad unità soltanto sotto il profilo subiettivo. Al contrario, il valore di una azienda non può essere costituito che dalla differenza fra attivo e passivo. Di conseguenza, il sistema adottato dalla legge tributaria sulle successioni, lungi dal violare il principio di uguaglianza, lo attua.
Considerato in diritto
1. - Le due ordinanze prospettano le medesime questioni di legittimità costituzionale, e pertanto i due procedimenti possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.
2. - Dopo che la sentenza di questa Corte n. 69 del 1965 ha dichiarato l'illegittimità del primo e del secondo comma dell'art. 31 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, limitatamente alla esclusione delle aziende agricole dal trattamento disposto per quelle industriali e commerciali, ed ha pertanto lasciato in vigore la restante disciplina dettata da tale articolo, e dopo che la legge 31 ottobre 1966, n. 948, eliminando ogni disparità, ha disposto che tanto per le aziende agricole quanto per quelle industriali o commerciali il computo della percentuale relativa alla presunta esistenza di mobili, gioielli e denaro sia effettuato in base al valore della azienda al netto delle passività, l'ordinanza della Commissione delle imposte dirette ed indirette di Napoli prospetta sotto altro profilo la violazione del principio di eguaglianza, assumendo che sussiste una ingiustificata disparità di trattamento tra i cittadini, i quali ricevono per successione una azienda e quelli che ereditano beni di altra natura, dal momento che, ai fini del cennato computo, le aziende vengono valutate al netto delle passività e gli altri beni al lordo.
3. - Sotto questo profilo, la questione non é fondata. L'imposta che colpisce il trasferimento della ricchezza in occasione di morte deve essere - per principio generale e per espressa disposizione dell'art. 34 della legge tributaria sulle successioni - commisurata al valore venale in comune commercio dei beni ereditati. Ed il diverso modo di calcolare il valore venale giustifica pienamente la differenza nel trattamento tributario, essendo certo - come esattamente rileva l'Avvocatura generale dello Stato - che il valore dell'azienda non potrebbe essere calcolato in modo diverso da quello disposto dalla norma impugnata. Ed invero l'azienda, nel suo carattere unitario, é costituita da un complesso di attività (beni, avviamento, crediti, ecc.) alle quali fa riscontro un complesso di passività (spese, perdite, debiti, ecc.) non separabili dal movimento degli affari di cui essa é costituita, sicché il valore si riduce alla differenza fra attivo e passivo. Del tutto differente appare la situazione nel trasferimento di beni di diversa natura, nei quali le passività, ricollegate al patrimonio soltanto sotto l'aspetto soggettivo, non hanno vera rilevanza nella stima del valore intrinseco del bene.
4. - Parimenti infondata appare anche l'altra questione sollevata tanto dall'ordinanza della Corte d'appello di Milano quanto dalla suindicata Commissione provinciale delle imposte, in riferimento al principio costituzionale della capacità contributiva dei soggetti obbligati al tributo: secondo le ordinanze la presunzione della esistenza di beni, che di fatto potrebbero non trovarsi nel patrimonio del de cuius, darebbe una base fittizia alla imposizione tributaria e prescinderebbe da un indice sicuro ed effettivo di ricchezza.
La Corte rileva che la disposizione impugnata é fondata sulla comune esperienza e risponde a principi di logica tanto rilevanti da legittimare la certezza giuridica della esistenza dei beni; e che, altresì, data la natura di essi facilmente occultabili, sfuggenti a qualsiasi accertamento fiscale e di valore difficilmente valutabile, sussisteva per il legislatore la necessità di rendere precisa la pretesa tributaria, sollecita la riscossione del tributo e vano ogni tentativo di evasione.
Della presunzione suindicata si é avvalso il legislatore, con un precetto impositivo, avente lo scopo di eliminare contrasti e di dare certezza e semplicità al rapporto tributario. Senza indagare in questa sede se trattasi di presunzione assoluta oppur no, il che é inconferente ai fini che qui interessano, importa invece affermare che essa rappresenta una verità giuridica avente come substrato fatti reali di difficile accertamento.
Né si può ritenere violato il principio della capacità contributiva allorquando la legge pone a presupposto della obbligazione tributaria il trasferimento della ricchezza a causa di morte, e fa riferimento ad un indice effettivo e concreto quale é quello del patrimonio ereditario. Per altro, la norma impugnata presenta analogia con quella che é stata oggetto della sentenza n. 50 del 1965, nella quale si é affermato che "nei casi in cui la legge ancora ad un sistema di prove legali la determinazione della esistenza del presupposto dell'obbligazione tributaria e della sua entità, non viola il principio della capacità contributiva del singolo obbligato".
5. - Dimostrata la legittimità della presunzione relativa alla esistenza dei beni, perde ogni rilevanza il fatto che la percentuale imponibile sia calcolata sul valore lordo o su quello netto, essendo questa una circostanza che si risolve soltanto sul quantum della imposta e riflette quindi un campo in cui il legislatore ha poteri discrezionali, sempre che ne usi razionalmente.
E non si può negare che la percentuale del 7,10 determina un imponibile proporzionato alla maggiore o minore ricchezza trasferita all'erede, ed é contenuta entro limiti prudenti e ragionevoli.
Infine é inesatto che la norma impugnata finisce col maggiorare del 7,10 per cento il patrimonio ereditario, ove si consideri che esistono in realtà, in misura più o meno apprezzabile, beni mobili non denunziati e pur soggetti al tributo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del primo, secondo e terzo comma dell'art. 31 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270, "legge tributaria sulle successioni" sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione con ordinanze del 22 febbraio 1966 della Corte d'appello di Milano e del 17 maggio 1966 della Commissione provinciale delle imposte dirette ed indirette di Napoli.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
Gaspare AMBROSINI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 12 luglio 1967.