SENTENZA N. 120
ANNO 1972
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 93, n. 2, del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro), promosso con ordinanza emessa il 26 febbraio 1970 dal tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra Ciscato Antonio ed altri e l'Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritta al n. 212 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 267 del 21 ottobre 1970.
Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione finanziaria dello Stato e d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 9 maggio 1972 il Giudice relatore Nicola Reale;
udito il vice avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per l'Amministrazione delle finanze.
Ritenuto in fatto
Pertile Arnaldo, assumendo d’essere creditore verso Scalchi Luigi a titolo di mutuo, agiva in sostituzione del debitore, ai sensi dell'art. 2900 codice civile, contro Pileggi richille, Cernico Pietro, Marangoni Italo, Ciscato Antonio, e Santini Luciano, per il recupero di crediti di vario ammontare di cui lo Scalchi risultava essere titolare, a seguito del pagamento d’interessi usurari in adempimento di contratti di mutuo distintamente conclusi.
In base a tali premesse, il Pertile otteneva provvedimenti di sequestro conservativo e con separati atti di citazione del 5 gennaio 1965 conveniva i predetti debitori davanti al tribunale di Vicenza unitamente allo Scalchi, per la convalida delle misure conservative e per la condanna di ciascuno di essi alla restituzione delle somme indebitamente percepite, oltre al risarcimento dei danni, agli interessi ed alle spese.
Le cause, riunite all'udienza del 24 febbraio 1965, venivano congiuntamente decise con unica sentenza del 29 dicembre 1967 del tribunale di Vicenza (e non di Treviso, come erroneamente indicato nell’ordinanza del giudice a quo), nella quale si accertavano il credito del Pertile verso lo Scalchi, nonché i singoli contratti di mutuo e la percezione da parte dei convenuti d’interessi usurari.
In sede di registrazione della sentenza l'ufficio del registro di Venezia liquidava l'imposta graduale sulle somme per le quali la sentenza recava condanna, nonché l'imposta di titolo, ai sensi dell'art. 72 della legge di registro, sia sul mutuo concesso dal Pertile allo Scalchi, sia su ciascuno dei mutui precedentemente conclusi fra i singoli convenuti e lo Scalchi.
In difetto di pagamento l'Intendente di finanza emanava, nei confronti di tutti i predetti soggetti e dei rispettivi procuratori, ingiunzione fiscale di pagamento solidale delle somme dovute a titolo di imposta, soprattasse ed accessori per un totale di lire 4.233.340, con l'avvertenza che i procuratori dovevano intedersi obbligati per il pagamento della sola imposta graduale e relativa soprattassa.
A seguito della notifica dell’ingiunzione, il Pileggi ed il Ciscato ed i loro procuratori avvocati Salerno ed Uderzo proponevano opposizione davanti al tribunale di Venezia, eccependo, fra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 93, n. 2, della legge di registro.
Il tribunale, con ordinanza 26 febbraio 1970, ha proposto, in riferimento all'art. 53, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità di detta norma, nelle parti in cui, in relazione all'art. 72 della legge citata, consente che l'obbligo della tassa di titolo ricada su soggetti estranei alla convenzione enunciata, e indica come solidalmente tenuti al pagamento delle tasse giudiziali i procuratori delle parti.
Il tribunale ha rilevato che la norma impugnata, secondo la comune interpretazione, consentirebbe che l'obbligo della tassa di titolo, in relazione ai richiami che allo stesso siano contenuti in sentenza, ricada su soggetti estranei alla convenzione enunciata. Donde il contrasto con l'art. 53, primo comma, della Costituzione, che esige che ogni imposizione tributaria sia ancorata alla capacità contributiva del soggetto gravato: e ciò sia nel rispetto del principio di eguaglianza, sia per l'esigenza che ogni imposta trovi causa in un fatto concretamente rivelatore di ricchezza.
L'art. 93, n. 2, chiarisce il tribunale, accomunerebbe nel medesimo trattamento così i soggetti che furono parti della convenzione, come quelli che alla medesima rimasero estranei e che, quindi, versano in una situazione diversa dagli altri e sembrerebbero, perciò, meritevoli di trattamento differenziato, cui dovrebbe essere estraneo il regime della solidarietà.
D'altra parte, per il solo fatto meramente formale della partecipazione al processo e della posizione ivi assunta, non si realizzerebbe quell'indice concreto rivelatore di ricchezza che dovrebbe essere alla base di ogni imposizione, tanto più che lo stesso interesse, di cui il soggetto estraneo alla convenzione enunciata in sentenza può essere portatore nel processo, potrebbe risultare non proporzionato all’imposizione che, secondo la norma denunciata, dovrebbe ricadere su di lui.
Parimenti non infondata sarebbe la questione sotto il profilo della responsabilità dei procuratori in ordine alle tasse giudiziali, responsabilità che non potrebbe addursi essere fondata sul fatto della rappresentanza processuale.
Né la capacità contributiva dei procuratori potrebbe trovare base nell'interesse dei procuratori alla retribuzione delle proprie prestazioni professionali; interesse del tutto autonomo e indipendente da quelli regolati con la sentenza tassata e i cui substrati economici costituiscono il parametro dell'imposizione.
L'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza dell'Amministrazione finanziaria, già parte costituita nel giudizio di merito, e del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio davanti a questa Corte, con atti di identico contenuto ha negato validità ai dubbi di costituzionalità sollevati nei confronti dell'art. 93, n. 2, della legge di registro, sostenendo che l'obbligo di pagare le imposte di registro, giudiziali e di titolo, deriverebbe nella specie dal fatto che, "pur essendo convenuti, i soggetti obbligati al pagamento del tributo avevano nella specie proposto domande riconvenzionali, per le quali si presentavano quali parti istanti".
Ma sussisterebbe anche un loro interesse, che, investendo la sentenza pronunziata nella sua unitarietà ed interezza e quindi anche in quelle disposizioni riguardanti altre parti, si risolverebbe in un interesse agli atti posti a base della sentenza. Donde un criterio di collegamento fra tutti i soggetti degli atti dedotti in giudizio, per effetto della partecipazione al medesimo processo.
Quanto ai procuratori legali, si osserva dall'Avvocatura che essi non possono essere considerati debitori, ma responsabili d'imposta. L'obbligazione solidale (per la sola tassa di sentenza) che grava su di essi troverebbe fondamento nel fatto stesso della rappresentanza che hanno dei propri clienti, in conformità dei principi circa la responsabilità del mandatario.
Se, pertanto, i procuratori non sono da considerare, - conclude l'Avvocatura, - contribuenti, ma responsabili d'imposta, sotto questo profilo il loro obbligo non investe il principio della capacità contributiva. Ma se anche tale principio fosse applicabile, l'attività svolta dai procuratori nella lite e l'interesse che hanno, nei limiti dei compiti professionali, alla sentenza, offrirebbero un indice di collegamento con il presupposto dell'imposta sufficiente a giustificare la relativa obbligazione.
Considerato in diritto
Con l'art. 93, n. 2, del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269, (la c.d. legge di registro) si dispone che, salvo gli obblighi dei funzionari e delle persone indicate negli artt. 80, 81, 82, 83, 84 e 86, sono inoltre solidalmente tenute verso l'Amministrazione dello Stato, per il pagamento delle "tasse sulle sentenze" sui decreti, provvedimenti ed altri atti giudiziari, nei procedimenti contenziosi in materia civile e commerciale, le parti istanti e quelle che fanno uso delle sentenze, dei decreti ed altri atti, ed i rispettivi loro procuratori, nonché le parti a carico delle quali siano state poste le relative spese in proporzione della loro condanna nelle medesime"; la responsabilità dei procuratori é però limitata alle tasse giudiziali.
Il tribunale di Venezia, nel corso di un giudizio di opposizione alla liquidazione dell'imposta di registro su una sentenza riguardante varie parti con pluralità di domande principali e riconvenzionali, ha denunziato l’illegittimità della norma suddetta, in riferimento al principio della capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.). E ciò in primo luogo sul riflesso che l'obbligo del pagamento della c.d. imposta di titolo, riguardante (ai sensi dell'art. 72 della legge di registro) convenzioni su cui si basano le domande oggetto della pronuncia giudiziale, grava solidalmente su tutte le parti istanti, anche se estranee alle convenzioni enunziate in sentenza; in secondo luogo, in quanto viene estesa ai procuratori delle parti l'obbligazione solidale relativa alle c.d. tasse giudiziali.
Le questioni sollevate non concernono, quindi, le ulteriori disposizioni del citato art. 93, n. 2, le quali prevedono l'obbligazione per l'imposta di titolo sia a carico delle parti che fanno uso delle sentenze o di altri provvedimenti giurisdizionali, sia delle parti nei confronti delle quali sia stata pronunciata condanna alle spese processuali.
2. - In ordine alla prima questione si rileva nell'ordinanza che l'art. 93, n. 2, nella genericità del suo dettato, consente un’interpretazione per effetto della quale l'obbligo d'imposta viene a gravare anche su soggetti estranei alle convenzioni su cui si basano domande giudiziali da essi non proposte o pendenti davanti allo stesso giudice a seguito della riunione di procedimenti separatamente instaurati.
Ciò in contrasto con l'art. 53, primo comma, della Costituzione.
La questione é fondata.
3. - Il precetto enunciato nell'art. 53, primo comma, della Costituzione, per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche, in ragione della loro capacità contributiva, va interpretato quale specificazione del generale principio di uguaglianza, nel senso che a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale. Sul piano garantistico costituzionale esso deve essere inteso come espressione dell’esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza.
In riferimento a tali indici, costituenti il presupposto dell'imposizione tributaria, i soggetti rivelano, come questa Corte ha più volte affermato, capacità contributiva e idoneità all’obbligazione d'imposta, deducibile esclusivamente dal collegamento fra i soggetti medesimi e le fattispecie cui la norma tributaria attribuisce tale efficacia, secondo valutazioni riservate al legislatore. Il che, secondo il disposto dell'art. 53, comma primo, Cost., cui deve riconoscersi, disattendendosi l'assunto dell'Avvocatura dello Stato, valore precettivo e non meramente programmatico e applicabilità anche in materia d'imposte indirette, non esclude tuttavia il controllo della legittimità della norma sotto il profilo dell'assoluta arbitrarietà ed irrazionalità. Concetto quest'ultimo che la Corte ha avuto occasione di affermare anche nella recente sentenza n. 92 del 1972.
In materia di imposte indirette, in particolare, il necessario collegamento con la capacità contributiva non esclude che la legge stabilisca prestazioni tributarie a carico solidalmente oltre che del debitore principale, anche di altri soggetti, non direttamente partecipi dell'atto assunto come indice di capacità contributiva. In tali casi, peraltro, occorre che una siffatta imposizione risulti legittimata da rapporti giuridico-economici, intercorrenti fra i soggetti predetti, rapporti idonei alla configurazione di unitarie situazioni che possano giustificare razionalmente il vincolo obbligatorio e la sua causa.
Alla stregua di tali criteri non può ravvisarsi il presupposto dell'obbligazione solidale per il pagamento dell'imposta di registro sul titolo, preventivamente non registrato, nella mera situazione processuale in cui versi il soggetto rimasto estraneo alla convenzione considerata in sentenza e che abbia formulato domande non aventi immediato fondamento sulla convenzione stessa. Situazione che l'ordinanza del giudice a quo delinea nelle due fattispecie in esame, con riferimento all'imposizione del tributo solidalmente a carico di parti convenute e relativa alla registrazione di un contratto di mutuo dedotto in causa quale titolo legittimante, in via surrogatoria, l'esercizio di diritti di credito contro le medesime parti, ancorché rimaste estranee al contratto, nonché in riferimento ad analoghe imposizioni relative a contratti intercorsi fra altre parti, con vincolo di solidarietà basato, in questo secondo caso, sulla semplice circostanza formale della unicità del processo, a seguito della riunione discrezionalmente disposta dal giudice, di procedimenti distintamente promossi dagli interessati.
E non vale opporre, come si fa dall'Avvocatura dello Stato, la speciale configurazione unitaria della imposizione di registro come tributo sugli atti privati o giudiziali, tale cioé da non ammettere il frazionamento del contenuto e l'individuazione, nel suo contesto, di presupposti d'imposta oggettivamente e soggettivamente diversi.
Non esattamente é invocato in proposito l'effetto c.d. documentativo e rappresentativo della sentenza rispetto alle convenzioni in essa richiamate e soggette alla imposta di titolo.
Tale effetto, invero, mentre esprime la funzione probatoria documentale svolta dalla sentenza a seguito degli accertamenti che in essa siano contenuti, non comporta sicuramente estensione dei limiti soggettivi di rilevanza degli atti e delle convenzioni dedotte, così come l'eventuale efficacia della cosa giudicata formatasi sugli accertamenti che le concernono, senza alcun vincolo di inscindibilità, non potrebbe riguardare dal lato attivo o passivo i soggetti delle pretese non aventi causa dalle convenzioni medesime.
Deve pertanto, e nei sensi suindicati, essere dichiarata la illegittimità dell'art. 93, n. 2, nella disposizione in cui si consente l'imposizione del tributo di registro anche sulle parti che abbiano proposto domande principali e riconvenzionali, ma che siano rimaste del tutto estranee al titolo considerato nella sentenza o in altro provvedimento giurisdizionale, titolo assunto quale indice rivelatore di ricchezza soggetta a prelievo fiscale.
4. - La seconda questione riguarda i procuratori costituiti in giudizio cui la norma impugnata, come sopra accennato, impone l'obbligo di pagamento limitatamente alle così dette tasse giudiziali e in solido con le parti istanti o che fanno uso delle sentenze o degli altri provvedimenti giudiziari.
Alla norma stessa é rivolta la censura di incompatibilità con il principio dell'art. 53, primo comma, Cost., giacché, si assume, non sussisterebbe nei confronti dei soggetti predetti un indice di collegamento con il presupposto dell'imposta, sufficiente a giustificare l'imposizione. L'interesse dei procuratori alla retribuzione delle prestazioni professionali risulterebbe, infatti, del tutto indipendente da quelli regolati con la sentenza soggetta a registrazione e considerati dalla legge come parametro dell'imposizione.
La questione é fondata.
5. - In merito alla estensione dell'obbligazione solidale per le tasse giudiziali a carico dei procuratori che si siano costituiti in giudizio in rappresentanza dei propri clienti, si é rilevato dall'Avvocatura che essi sono chiamati a rispondere dell'adempimento di un'obbligazione tributaria riferibile ad un presupposto di cui sono partecipi soltanto i rispettivi clienti.
Si riconosce, cioé, essere i procuratori estranei a quelle situazioni e fatti di cui la sentenza dà atto ed ai quali la legge ha riguardo ai fini della imposizione tributaria.
Essi sono indicati, tuttavia, quali soggetti passivi di una misura fiscale, inquadrata nell'ambito di una responsabilità d'imposta, il cui tratto saliente é quello di garanzia e rafforzamento dell'adempimento del debito altrui.
La loro responsabilità risulta così preordinata all'interesse del fisco alla realizzazione del credito d'imposta, senza che emerga dall'interpretazione della norma in questione alcun elemento che valga a collegare razionalmente, come invece avviene per altre categorie di responsabili d'imposta, l'obbligazione dei procuratori al presupposto del tributo.
Senza attardarsi nelle dispute circa la definizione della posizione giuridica dei soggetti in questione, va ricordato che le prestazioni del procuratore legale sono dall'ordinamento considerate servizio di pubblica necessità e costituiscono, normalmente, strumento necessario per l'esercizio del diritto di difesa garantito dalla Costituzione (art. 24).
Agli stessi procuratori l'ordinamento impone l'obbligo di assumere il patrocinio legale; la legge stessa, per vero, prevede il rifiuto dell'incarico "per giusto motivo", ma appare quanto meno dubbio, al lume dei principi giuridici e di deontologia professionale, che sia sempre giustificato il diniego di prestazioni legali in caso di mancato o di inadeguato deposito dei fondi occorrenti per sostenere le spese giudiziali ed in particolare quelle, il cui ammontare oltre tutto non é agevolmente preventivabile, inerenti alla registrazione del provvedimento così come invece é preveduto in altri casi di legge.
Da quanto sopra emerge che il rapporto intercorrente fra il procuratore legale e il cliente, per quanto concerne la rappresentanza giudiziale, non consente alcun razionale collegamento con il presupposto del tributo di registro. Ne un simile collegamento può basarsi su di un supposto interesse del procuratore alla decisione; interesse che é, invece, diretto al conseguimento dei compensi preveduti dalle tariffe vigenti ed ha fondamento nella prestazione professionale e non certo nella pronuncia giudiziale.
Da queste considerazioni deriva che l'art. 93, n. 2, della legge di registro deve essere dichiarato illegittimo per la parte in cui pone a carico dei procuratori legali la responsabilità per il pagamento delle c.d. "tasse giudiziali".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 93, n. 2, del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, nelle parti in cui:
a) dichiara solidalmente tenute verso l'amministrazione dello Stato le parti istanti nei giudizi contenziosi civili per le tasse di registro sulle sentenze e sugli altri provvedimenti giurisdizionali e riguardanti convenzioni cui esse parti sono rimaste estranee;
b) pone a carico dei procuratori le "tasse giudiziali".
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1972.
Giuseppe CHIARELLI - Nicola REALE
Depositata in cancelleria il 6 luglio 1972.