Sentenza n. 531/2000

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SENTENZA N. 531

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83, primo comma, del codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera nazionale od altro emblema dello Stato), promosso con ordinanza emessa il 10 dicembre 1998 dal Tribunale militare di La Spezia, iscritta al n. 123 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un procedimento penale, nel quale l’imputato dei reati di insubordinazione con ingiuria e di vilipendio alla bandiera (quest’ultimo contestato perchè, soldato in servizio, in una pubblica via ad ora notturna, rivolgendosi a tre carabinieri "vilipendeva la bandiera italiana, dicendo "la bandiera italiana mi fa schifo"") aveva chiesto l’applicazione di una pena "patteggiata" calcolata partendo dalla pena base del secondo reato, il Tribunale militare di La Spezia, con ordinanza emessa il 10 dicembre 1998, pervenuta a questa Corte il 22 febbraio 1999, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 83, primo comma, del codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera nazionale od altro emblema dello Stato), "nella parte in cui prevede la pena della reclusione nella misura da tre a sette anni".

Il giudice a quo, muovendo dalla constatazione che il vilipendio alla bandiera é punito in modo assai diverso dall’art. 83 cod. pen. mil. pace (reclusione militare da tre a sette anni) rispetto all’art. 292 cod. pen. (reclusione da uno a tre anni), osserva che la norma incriminatrice denunciata, come altre relative ai "reati di tradimento" (libro secondo, titolo I, capo I, del cod. pen. mil. pace), corrispondenti ai delitti contro la personalità dello Stato previsti dal codice penale comune, si qualifica, rispetto all’omologo reato punito dall’art. 292 cod. pen., esclusivamente per la condizione di militare del soggetto attivo del reato. Secondo il remittente, il dovere di fedeltà sarebbe più intenso per chi appartiene alle forze armate, ma sussisterebbe per tutti i cittadini, onde la maggiore gravità dell’offesa derivante dalla particolare posizione soggettiva del militare potrebbe bensì comportare pene più gravi, ma solo nei limiti di un trattamento "ragionevolmente più afflittivo".

L’ordinanza osserva, inoltre, che il legislatore non ha adottato un criterio unitario nel determinare gli incrementi di pena per questi reati militari, rispetto ai corrispondenti reati comuni, ma ha fissato a volte aumenti di pena assai inferiori a quelli disposti per il vilipendio alla bandiera, altre volte aumenti anche più consistenti. Non sarebbe ragionevole, secondo il remittente, un criterio che, nell’incrementare la pena, si discosti da canoni di tendenziale uniformità: l’irrazionale eterogeneità degli aumenti di pena rispetto alla normativa comune rafforzerebbe i dubbi di legittimità costituzionale della norma denunciata.

Si pone poi a confronto il rispettivo trattamento sanzionatorio del vilipendio alla nazione e del vilipendio alla bandiera nei codici militare (artt. 82 e 83) e comune (artt. 291 e 292), osservandosi che, mentre nel codice comune i due reati sono puniti con la stessa pena, nel codice militare invece la pena é più grave per il vilipendio alla bandiera, alterandosi così il rapporto di gravità fra i due reati, mentre la qualità militare del soggetto agente, unico elemento differenziale dei reati militari rispetto a quelli comuni, dovrebbe influire in modo uniforme sull’aumento di pena.

L’attenuante prevista dall’art. 102 cod. pen. mil. pace per i fatti di lieve entità mitigherebbe bensì il rigore della pena edittale, ma non attenuerebbe i dubbi di legittimità costituzionale, essendo essa applicabile anche agli altri reati di tradimento, e trovando corrispondenza nell’attenuante di cui all’art. 311 del codice penale.

In definitiva, secondo il giudice a quo, la previsione di pena di cui all’art. 83 cod. pen. mil. pace darebbe luogo ad una violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, in relazione sia al raffronto con l’art. 292 cod. pen., sia alla comparazione tra i reati militari di tradimento, soggettivamente qualificati, e gli omologhi reati comuni nel loro insieme, sia al confronto tra le pene stabilite dai codici militare e comune per i reati di vilipendio alla bandiera e di vilipendio alla nazione.

Considerato in diritto

1.- La questione sollevata investe l’art. 83, primo comma, del codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera nazionale od altro emblema dello Stato), nella parte in cui prevede la pena della reclusione militare da tre a sette anni.

Tale previsione sanzionatoria sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, perchè comporterebbe un aumento di pena eccessivo rispetto a quella comminata per lo stesso reato dall’art. 292 del codice penale comune; perchè si discosterebbe da criteri di tendenziale uniformità nella determinazione degli incrementi di pena per i reati militari di tradimento rispetto ai corrispondenti reati previsti dal codice penale; e perchè, infine, comportando per il reato di vilipendio alla bandiera una pena più elevata di quella stabilita dallo stesso codice penale militare (art. 82) per il vilipendio alla nazione italiana, altererebbe il rapporto di corrispondente gravità fra i due reati, risultante dagli artt. 291 e 292 del codice penale, che prevedono la medesima pena.

2.- La questione, nei termini in cui é proposta, non é fondata.

Il reato di vilipendio alla bandiera, già previsto dal codice penale del 1889 solo sotto forma di offesa "materiale" (art. 115: "Chiunque, per fare atto di disprezzo, toglie, distrugge o sfregia in luogo pubblico o aperto al pubblico la bandiera o altro emblema dello Stato …"), e punito con una pena assai inferiore all’attuale (da tre a venti mesi di reclusione), fu trasformato in "vilipendio", punito in ogni forma, materiale o verbale, con la pena della reclusione da uno a tre anni, dal legislatore del codice penale del 1930, nel clima ideologico, proprio dell’epoca, di tutela dello Stato come entità "ideale"; é rimasto infine in vita nel contesto della legislazione dello Stato democratico fondato sulla Costituzione repubblicana, senza che il legislatore abbia finora posto mano a sostanziali riforme della materia.

Nel codice penale per l’esercito e in quello marittimo, approvati rispettivamente con il R.D. 28 novembre 1869, n. 5378, e con la legge 28 novembre 1869, n. 5366, tale reato non era contemplato. Esso é stato invece previsto nel vigente codice penale militare di pace, e configurato, dal punto di vista oggettivo, in modo identico rispetto al codice comune: solo, la pena prevista é considerevolmente più severa (da tre a sette anni di reclusione militare: pena ulteriormente aumentata quando si applica il codice penale militare di guerra, ai sensi dell’art. 47 di tale codice).

Il bene protetto dalla norma incriminatrice é, in questo caso, la dignità del simbolo dello Stato, come espressione della dignità dello Stato medesimo nell’unità delle istituzioni che la collettività nazionale si é data: simbolo che, nell’ambito delle istituzioni e delle attività militari, é esposto e utilizzato con particolare solennità e frequenza, ed é oggetto di speciale attenzione e rispetto: nella normativa disciplinare delle forze armate, infatti, é espressamente previsto che alla bandiera siano "tributati i massimi onori" (art. 7, comma 3, del d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545).

Come per tutti i reati di questa natura, si pongono delicati problemi di confine con l’area della libertà di espressione, come dimostra anche la giurisprudenza costituzionale di altri paesi. Nel nostro ordinamento, é da richiamare la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’incriminazione per vilipendio (in quel caso, della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze armate: art. 290 cod. pen.) non si estende alle espressioni di critica, anche aspra, potendosi applicare solo a manifestazioni offensive che neghino ogni valore ed ogni rispetto ("tenere a vile") all’entità oggetto di protezione, in modo idoneo ad indurre i destinatari della manifestazione "al disprezzo delle istituzioni o addirittura ad ingiustificate disobbedienze" (sentenza n. 20 del 1974; cfr. anche sentenza n. 199 del 1972). Così che non può certo ritenersi ricadere nell’ambito delle fattispecie incriminatrici di vilipendio qualsiasi espressione di personale dissenso, di avversione o di disdegno, priva di concreta idoneità offensiva, spettando al giudice di "impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria e illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale" (sentenza n. 263 del 2000).

3.- Nella specie, peraltro, il remittente, senza porsi il problema della sfera di applicabilità della incriminazione e della riconducibilità ad essa della condotta contestata all’imputato, solleva una questione riguardante esclusivamente l’entità della sanzione prevista. Ma il giudice a quo non pone nemmeno in dubbio la legittimità costituzionale di un trattamento penale più severo di tale reato quando esso sia commesso da militare in servizio, soggetto al codice penale militare di pace, rispetto al medesimo reato commesso da civili, soggetti al codice penale comune; afferma anzi esplicitamente che tale differenza di trattamento si giustifica in relazione alla maggiore intensità che il dovere di fedeltà rivestirebbe nei riguardi dei militari.

Egli si limita, evocando come unico parametro l’art. 3 della Costituzione, a contestare l’eccessiva gravosità del trattamento sanzionatorio del vilipendio alla bandiera nel codice militare, raffrontato con quello previsto da altre norme.

4.- I tertia comparationis indicati dal remittente, peraltro, non fanno capo ad altre figure di reato, previste dallo stesso codice militare, che egli dimostri essere di pari gravità e offensività, e al relativo trattamento sanzionatorio con il quale quello denunciato possa utilmente confrontarsi; e sono anzi tra di loro eterogenei e perfino in parte contraddittori.

In primo luogo, infatti, si lamenta l’eccessivo divario rispetto alla sanzione prevista dal codice penale comune per il medesimo reato: ma, avendo lo stesso remittente premesso di ritenere giustificato un trattamento più severo nei confronti dei militari, la censura si riduce ad un profilo quantitativo, difficilmente traducibile in dimostrazione di assoluta irragionevolezza del divario medesimo. Senza dire che il giudice a quo, nell’indicare come termine di raffronto la pena prevista dall’art. 292 cod. pen., trascura di osservare che essa, in forza della circostanza aggravante di cui all’art. 292-bis, introdotta dall’art. 9 della legge 23 marzo 1956, n. 167, é aumentata nel caso in cui il reato sia commesso da un militare in congedo: onde l’eventuale annullamento dell’art. 83 cod. pen. mil. di pace, che desse luogo alla applicazione ai militari in servizio dell’art. 292 cod. pen. comune, produrrebbe un nuovo paradossale squilibrio, risultando il vilipendio alla bandiera punito più gravemente per i militari in congedo (art. 292-bis) che per i militari in servizio, a meno di assimilare questi ultimi in sede interpretativa (ma arbitrariamente) ai primi.

In secondo luogo, si invoca l’eterogeneità delle scelte del codice militare nel determinare il quantum di aggravamento delle pene rispetto a quelle previste dal codice comune per i reati corrispondenti, e si osserva come, accanto a livelli meno elevati di aggravamento in taluni casi, in altri siano previsti livelli di aggravamento anche maggiori di quelli che valgono nell’ipotesi del vilipendio alla bandiera (é il caso dell’offesa all’onore e al prestigio del Presidente della Repubblica, punito rispettivamente dall’art. 79 del codice penale militare di pace con la reclusione militare da cinque a quindici anni, e dall’art. 278 del codice penale comune con la reclusione da uno a cinque anni). Ma proprio l’eterogeneità degli elementi di raffronto impedisce di considerare idonei tali tertia comparationis.

In terzo luogo, si mette a confronto la pena comminata per il vilipendio alla bandiera con quella comminata per il vilipendio alla nazione, ma non già per sostenere che, nell’ambito del codice militare, questi debbano essere considerati reati di pari gravità (il remittente non si pone nemmeno il problema del significato di questa seconda figura di reato, che si direbbe posta a tutela di un valore solo "spirituale", non altrettanto facilmente riferibile allo Stato com’é invece la bandiera), bensì, ancora una volta, per lamentare la diversità delle scelte fatte in materia, rispettivamente, dal codice penale comune e da quello militare, senza argomentare circa l’esistenza di eventuali giustificazioni di tale diversità.

Onde, in definitiva, la censura mossa alla norma impugnata si riduce ad una critica, di significato essenzialmente politico-legislativo, all’eccessiva severità sanzionatoria del codice militare.

Ma é appunto al legislatore che incombe il dovere di ripensare e ridimensionare il sistema dei reati e delle pene recato da tale codice, avendo naturalmente riguardo, anzitutto, ai principi costituzionali. Interventi demolitori o "manipolativi" di questa Corte possono configurarsi solo in presenza di accertate violazioni dei precetti costituzionali in materia di reati e di pene, nella specie non dedotte, o di manifesta irragionevolezza delle previsioni sanzionatorie, di cui, nella specie, non é dimostrata in modo convincente la sussistenza.

Resta fermo comunque il dovere dei giudicanti di verificare, in sede applicativa, la riconducibilità della condotta al modello legale e la sua concreta offensività.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, primo comma, del codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera nazionale od altro emblema dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale militare di La Spezia con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 23 novembre 2000.