ORDINANZA N. 397
ANNO 2000REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare MIRABELLI, Presidente
- Francesco GUIZZI
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Guido NEPPI MODONA
- Annibale MARINI
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 304, sesto comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 4 giugno 1999 dal Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, sull’appello proposto da BRANDI Enrico, iscritta al n. 679 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 giugno 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con ordinanza emessa il 4 giugno 1999, il Tribunale di Napoli, adìto quale giudice di appello de libertate, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 304, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la durata massima della custodia cautelare non possa comunque superare i due terzi della pena concretamente irrogata, allorché questa risulti non più modificabile in peius;
che il giudice a quo premette che nel corso di un procedimento nei confronti di persone imputate del delitto di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il difensore di uno degli imputati aveva proposto alla Corte di appello di Napoli istanza di scarcerazione per decorso dei termini massimi di custodia cautelare, avendo il proprio assistito sofferto un periodo di custodia (due anni e undici mesi) di durata superiore ai due terzi della pena concretamente inflittagli da essa Corte di appello (quattro anni di reclusione), e dunque in assunto eccedente il limite previsto dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., così come interpretato con sentenza n. 292 del 1998 di questa Corte;
che avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza era stato interposto il gravame oggetto del giudizio a quo, a sostegno del quale la difesa dell’appellante aveva riproposto l’originaria deduzione, eccependo, altresì, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale degli artt. 303, comma 4, e 304, comma 6, cod. proc. pen.;
che, ad avviso del rimettente, il motivo principale di gravame non poteva trovare accoglimento sulla base della attuale situazione normativa: nella specie, infatti, essendo stato l’imputato condannato tanto in primo grado che in appello, il termine massimo di fase veniva a coincidere, in virtù dell’art. 303, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., con quello di durata complessiva della custodia di cui al comma 4, lettera b), dello stesso art. 303 — quattro anni — con la conseguenza che né il termine di fase né quello complessivo potevano considerarsi scaduti;
che, allo stesso modo, doveva escludersi il superamento del limite finale di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., in forza del quale “la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303, commi 1, 2 e 3 e i termini aumentati della metà previsti dall’art. 304, comma 4, ovvero, se più favorevole, i due terzi del massimo della pena temporanea previsto per il reato contestato o ritenuto in sentenza”: giacché detto limite risultava pari, in base al primo criterio di computo, ad anni sei (anni quattro, ex art. 303, comma 4, cod. proc. pen., aumentati della metà), e, in base al secondo, ad anni tredici e mesi quattro (due terzi di anni venti, pena massima prevista per il reato per cui era intervenuta condanna);
che, peraltro, secondo il rimettente, l’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. confliggerebbe con gli invocati parametri costituzionali, nella parte in cui àncora il limite massimo della custodia cautelare ai due terzi della pena edittale, anziché della pena concretamente inflitta, pure quando quest’ultima non risulti più modificabile in peius — come nella specie — per mancata impugnazione del pubblico ministero sul punto;
che il giudice a quo sottolinea, al riguardo, come — alla stregua di quanto affermato da questa Corte con sentenza n. 292 del 1998 — il limite in parola (da ritenere di valenza generale, e quindi applicabile, se più favorevole, anche nei casi previsti dall’art. 303, comma 4, cod. proc. pen.) costituisca attuazione del canone della proporzionalità: nel senso che, “come la custodia può essere imposta solo se risulti proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa esser irrogata (art. 275, comma 2), allo stesso modo la durata della misura non può eccedere lo stesso parametro, perché non si corra il rischio di una consumazione della pena in fase custodiale”;
che l’accennato principio di proporzionalità — a cui tutela è posto il quinto comma dell’art. 13 Cost. — sarebbe peraltro violato dalla previsione di un termine massimo di custodia di durata superiore all’entità della pena concretamente inflitta e non più modificabile in senso peggiorativo: in questo modo, infatti, la durata massima della custodia cautelare verrebbe praticamente a coincidere — una volta rispettati i termini di fase — con la stessa durata della pena irrogata, non potendo la misura cautelare mai perdere efficacia in base alla norma impugnata, ma soltanto in virtù del disposto dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen. (secondo cui la custodia cautelare deve cessare quando la sua durata non è inferiore alla pena inflitta);
che verrebbero così irragionevolmente equiparate situazioni disomogenee, quali quelle del condannato a pena non suscettibile, ovvero ancora suscettibile di modifica peggiorativa: giacché, mentre nel secondo caso l’eventuale mutamento in peius potrà far risultare la durata della custodia non sproporzionata, ciò non potrà mai verificarsi nella prima ipotesi, nella quale si realizzerà proprio quello che il principio di proporzionalità, assunto a valore costituzionale, tende ad evitare, vale a dire la sicura consumazione della pena in fase custodiale (e ciò senza considerare che una eventuale riduzione della pena per effetto dell’impugnazione dell’imputato finirebbe per far scendere la sua entità al di sotto della custodia presofferta, la cui eccedenza non risulterebbe neppure fonte del diritto all’equa riparazione a norma dell’art. 314 cod. proc. pen.);
che la norma impugnata sarebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza, ad avviso del giudice a quo, anche sotto un ulteriore profilo: giacché, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 2 del d.l. 9 settembre 1991, n. 292, convertito in legge 8 novembre 1991, n. 356, i termini relativi alla fase di appello, di cui all’art. 303, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. — originariamente riferiti alla pena prevista per il reato contestato — sono stati invece parametrati all’entità della pena inflitta con la sentenza di primo grado;
che, per effetto di tale modifica normativa, l’entità della pena concretamente inflitta viene dunque a determinare la maggiore o minore durata della custodia nella fase di appello e, di riflesso, anche il termine finale di tale fase, di cui alla prima parte dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., aggiunta dall’art. 15 della legge 8 agosto 1995, n. 332: onde sarebbe del tutto incoerente, sul piano sistematico, che la seconda parte dello stesso art. 304, comma 6, continui a far riferimento, come limite ormai residuale, applicabile solo se più favorevole, ad un parametro — la pena edittale per il reato ritenuto in sentenza — che lo stesso legislatore ha per altro profilo abbandonato;
che, infine, quanto alla rilevanza della questione, la stessa si connette al fatto che, ove la questione stessa fosse accolta, l’imputato avrebbe maturato il diritto alla scarcerazione, trovandosi in custodia cautelare da oltre due anni e nove mesi rispetto ad una condanna a quattro anni di reclusione;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di non fondatezza della questione.
Considerato che il rimettente, prendendo le mosse da un obiter dictum della sentenza n. 292 del 1998 di questa Corte ed estrapolandolo dal tessuto argomentativo nel quale esso risultava inserito, perviene ad una postulazione che stravolge completamente il ruolo e la ratio dell’istituto dei termini finali nella cornice del sistema;
che, come è noto, la disciplina dei termini di durata massima di custodia cautelare — la quale, secondo quanto si ricorda nella citata sentenza n. 292 del 1998, è il frutto di “numerosissime stratificazioni e interpolazioni”, le quali hanno finito per imprimere ai relativi meccanismi connotati di rilevante complessità — si fonda attualmente sulla distinzione tra termini di fase (ragguagliati a ciascuna fase o grado del procedimento e reciprocamente indipendenti), termini complessivi (riferiti a tutte le fasi e gradi del procedimento cumulativamente considerati) e termini finali (rapportati tanto ai termini di fase che ai termini complessivi, che segnano limiti assolutamente invalicabili anche nel caso di verificazione di particolari “accidenti”);
che il compito di garantire il rispetto dell’art. 13, quinto comma, Cost., è affidato, in via primaria e “normale”, ai termini di fase e complessivi; l’esigenza di prevedere, in aggiunta ad essi, anche termini finali nasce, invero — come parimenti si ricorda nella sentenza n. 292 del 1998 — dall’avvenuta introduzione di meccanismi di “sfondamento” delle prime due classi di termini, connessi a specifiche evenienze: donde la necessità di stabilire limiti “comunque” insuperabili, che valgano ad evitare (ad esempio, di fronte all’accumulo di ipotesi di sospensione) un prolungamento della custodia cautelare sine die;
che, in tale ottica, la norma denunciata rappresenta una attuazione di “secondo grado” dell’art. 13, quinto comma, Cost.: essa fissa, cioè, dei limiti ulteriori — si parla ordinariamente di “massimi dei massimi” — rispetto ai limiti di fase e complessivi, i quali, proprio per tale loro ratio, risultano logicamente più elevati di questi ultimi (il che è evidente tanto per il termine finale “principale” di cui alla prima parte dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., aggiunto dalla novella del ’95, il quale corrisponde ad un multiplo dei termini di fase e complessivi — rispettivamente il doppio e una volta e mezzo — quanto per il termine finale “residuale” di cui alla seconda parte della norma, che nel frangente viene in considerazione, ragguagliato ai due terzi della pena massima prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza: termine che si applica solo se più favorevole del primo);
che, per converso, il giudice a quo richiede alla Corte una sentenza “manipolativa” che muterebbe completamente il significato del limite finale dei due terzi della pena, trasformandolo in un correttivo verso il basso dei termini di fase e complessivi, svincolato da ogni evento “anomalo” di “sfondamento”, e tale da comportare, in concreto, un drastico abbattimento dei termini stessi (paradigmatico il caso di specie: a fronte di un termine complessivo pari “fisiologicamente” a quattro anni, il criterio di computo caldeggiato dal rimettente — due terzi della pena concretamente inflitta — comporterebbe la riduzione del termine massimo a due anni e nove mesi);
che, in realtà, una volta ricondotto l’istituto dei termini finali alla corretta dimensione teleologica — stabilire, per l’appunto, il “massimo dei massimi” — deve riconoscersi che il riferimento del legislatore ai due terzi della pena edittale massima, anziché della pena concretamente inflitta (anche se non più modificabile in peius) non può ritenersi affatto irrazionale ed arbitrario, né tantomeno confliggente con l’art. 13, quinto comma, Cost.;
che l’adeguamento della durata della custodia cautelare alla pena concretamente inflitta viene garantito dalla disciplina ordinaria dei termini di fase, e segnatamente proprio dalle lettere c) e d) dell’art. 303, comma 1, cod. proc. pen., che il giudice a quo invoca come tertium comparationis: tali disposizioni, infatti, parametrano la durata massima della custodia cautelare nel giudizio di secondo grado e nella fase successiva (fino alla sentenza definitiva) per l’appunto sull’entità della condanna concretamente inflitta all’imputato;
che, d’altro canto — come lo stesso rimettente sottolinea — la disciplina ordinaria dei termini di fase serve di base anche per il computo del termine finale “principale” di cui alla prima parte dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. (doppio dei termini di fase): sicché, in sostanza, anche tale termine risulta di norma parametrato sulla pena concretamente irrogata;
che, tuttavia — ed è da questa previsione che nasce, in realtà, il problema che il giudice a quo ha inteso risolvere tramite l’intervento della Corte — la lettera d) dell’art. 303, comma 1, cod. proc. pen. esclude l’applicabilità di un autonomo termine (basato sulla pena concretamente inflitta) per la fase successiva al giudizio di secondo grado nel caso di “doppia conforme” (quando, cioè, come nella specie, l’imputato sia stato condannato tanto in primo che in secondo grado): ipotesi nella quale trova applicazione solo il termine complessivo (parametrato invece sulla pena edittale);
che il legislatore ha cioè ritenuto — ed anche questa soluzione non è manifestamente irrazionale ed arbitraria — che nel caso di duplice riconoscimento di responsabilità dell’imputato debba stabilirsi una disciplina più rigorosa, stante l’incremento delle probabilità che la decisione assunta sia corretta, fermo restando, comunque, lo sbarramento dell’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., a fronte del quale — anche a prescindere dal superamento dei termini massimi — la custodia cautelare deve cessare quando la sua durata risulti pari a quella della pena concretamente inflitta;
che, in tale prospettiva, appare dunque evidente come il radicale mutamento della valenza dell’istituto del termine finale, conseguente all’accoglimento della questione — termine che perderebbe il suo significato di “garanzia supplementare” rispetto ai termini di fase e complessivi, intesa ad arginare gli effetti dei meccanismi di “sfondamento”, per diventare invece un limite “equiordinato” e suscettivo di determinare l’“abbattimento” di tali termini anche in un ordinario svolgersi degli eventi — rappresenti una scelta di natura essenzialmente “politica”, rientrante, come tale, nella discrezionalità del legislatore.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 304, sesto comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in cancelleria il 28 luglio 2000.