Sentenza n. 137 del 2018

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SENTENZA N. 137

ANNO 2018

 

Commento alla decisione di

 

Valeria Marcenò

Come decide la Corte costituzionale dinanzi alle lacune tecniche?

Il particolare caso della mancata riassegnazione delle risorse agli enti subentranti dopo la riforma Delrio

 

per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                

-      Franco                        MODUGNO                                             

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               

-      Giulio                         PROSPERETTI                                         

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 16, commi 1 e 2, 39, 41-bis, 48, commi 4 e 6, lettera a), del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96, promossi dalle Regioni Liguria, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Piemonte con ricorsi notificati i primi due il 3-7 agosto e il 21-24 agosto, il terzo spedito per la notificazione il 21 agosto, gli altri notificati il 22-24 agosto, il 22 agosto e il 17-21 agosto 2017, depositati in cancelleria il 4, 23, 24 e 28 agosto 2017, iscritti rispettivamente ai numeri 53 e da 57 a 61 del registro ricorsi 2017 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 36 e da 38 a 40, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Gabriele Pafundi per le Regioni Liguria e Piemonte, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Almerina Bove per la Regione Campania, Ezio Zanon e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Maria Lucia Tamborino per la Regione Lombardia, Giovanna Scollo per la Regione Piemonte e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 3-7 agosto 2017, depositato in cancelleria il 4 agosto 2017 e iscritto al n. 53 reg. ric. 2017, la Regione Liguria ha impugnato l’art. 39 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96.

La norma impugnata, rubricata «Trasferimenti regionali a province e città metropolitane per funzioni conferite», dispone quanto segue:

«1. Ai fini del coordinamento della finanza pubblica, per il quadriennio 2017-2020, una quota del 20 per cento del fondo di cui all’articolo 16-bis, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, è riconosciuta a condizione che la regione entro il 30 giugno di ciascun anno abbia certificato, in conformità alla legge regionale di attuazione dell’Accordo sancito tra Stato e regioni in sede di Conferenza unificata dell’11 settembre 2014, l’avvenuta erogazione a ciascuna provincia e città metropolitana del rispettivo territorio delle risorse per l’esercizio delle funzioni ad esse conferite. La predetta certificazione è formalizzata tramite Intesa in Conferenza unificata da raggiungere entro il 10 luglio di ciascun anno.

2. In caso di mancata Intesa, il riconoscimento in favore della regione interessata del 20 per cento del fondo per il trasporto pubblico locale di cui al comma 1 è deliberato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Dipartimento per gli Affari regionali».

1.1.– L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 contrasterebbe in primo luogo con l’art. 3 della Costituzione, per violazione dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza, non corrispondendo alle dichiarate finalità di coordinamento della finanza pubblica.

La ricorrente osserva che la norma impugnata – destinando l’erogazione della quota del 20 per cento del fondo nazionale per il concorso dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, di cui all’art. 16-bis, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, solo a quelle regioni che abbiano certificato entro il 30 giugno di ogni anno l’avvenuta erogazione a province e città metropolitane delle risorse per l’esercizio delle funzioni ad esse conferite a seguito del riordino istituzionale previsto dalla legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni) – perseguirebbe nei confronti delle regioni finalità di tipo sanzionatorio non collegate a «criticità interne al settore dei trasporti», in quanto la riduzione del 20 per cento del fondo conseguirebbe alla mancata erogazione di risorse in tutti gli ambiti in cui le regioni hanno conferito funzioni a province e città metropolitane, come dimostrerebbe il riferimento normativo alla legge regionale di attuazione dell’«Accordo ai sensi del comma 91 dell’art. 1 della Legge n. 56/2014 tra Governo e Regioni, sancito in Conferenza unificata, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, concernente l’individuazione delle funzioni di cui al comma 89 dello stesso articolo», dell’11 settembre 2014, che concerne tutte le funzioni oggetto del riordino istituzionale di cui alla legge n. 56 del 2014. Lo "sblocco” della quota del 20 per cento, dunque, verrebbe fatto irragionevolmente dipendere dalla soluzione di aspetti economici che trascendono completamente il settore del trasporto pubblico locale, con il risultato finale di impedire la programmazione, l’organizzazione, la gestione e la soddisfazione dei fabbisogni in tale specifica materia.

L’irragionevolezza della previsione emergerebbe anche dal contrasto con l’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017, che disciplina il riparto tra le regioni del fondo in questione. La ricorrente richiama, in particolare, la lettera e) del comma 2 e il comma 4 dell’art. 27, che così rispettivamente recitano: «in ogni caso, al fine di garantire una ragionevole certezza delle risorse finanziarie disponibili, il riparto derivante dall’attuazione delle lettere da a) a d) non può determinare per ciascuna regione una riduzione annua maggiore del cinque per cento rispetto alla quota attribuita nell’anno precedente; ove l’importo complessivo del Fondo nell’anno di riferimento sia inferiore a quello dell’anno precedente, tale limite è rideterminato in misura proporzionale alla riduzione del Fondo medesimo. Nel primo quinquennio di applicazione il riparto non può determinare per ciascuna regione, una riduzione annua maggiore del 10 per cento rispetto alle risorse trasferite nel 2015; ove l’importo complessivo del Fondo nell’anno di riferimento sia inferiore a quello del 2015, tale limite è rideterminato in misura proporzionale alla riduzione del Fondo medesimo» (comma 2, lettera e); e «[n]elle more dell’emanazione del decreto di cui all’alinea del comma 2 [id est: il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa con la Conferenza unificata, che deve ripartire le risorse del fondo entro il 30 giugno di ogni anno] […], è ripartito, entro il 15 gennaio di ciascun anno, tra le regioni, a titolo di anticipazione, l’ottanta per cento dello stanziamento del Fondo. L’anticipazione è effettuata sulla base delle percentuali attribuite a ciascuna regione l’anno precedente. Le risorse erogate a titolo di anticipazione sono oggetto di integrazione, di saldo o di compensazione con gli anni successivi. La relativa erogazione alle regioni a statuto ordinario è disposta con cadenza mensile» (comma 4).

Ad avviso della ricorrente, dalla lettura congiunta di tali disposizioni e della norma impugnata consegue che le regioni potrebbero beneficiare solo in apparenza di un’anticipazione pari all’ottanta per cento del fondo, poiché l’anticipazione si ridurrebbe in realtà a 64 punti percentuali (l’80 per cento dell’80 per cento).

1.2.– Sussisterebbe anche la violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

In primo luogo, il riconoscimento della quota del 20 per cento del fondo solo alle regioni che certifichino l’erogazione delle risorse a province e città metropolitane differenzierebbe il finanziamento del trasporto pubblico locale tra regione e regione, abdicando all’imprescindibile necessità di assicurare in tutto il territorio nazionale livelli omogenei di prestazione del servizio.

In secondo luogo, la norma impugnata produrrebbe effetti sulla provvista destinata ai contratti di servizio in corso, esponendo le pubbliche amministrazioni al rischio di contenziosi.

Infine, verrebbe meno la certezza delle risorse effettivamente disponibili per il trasporto pubblico locale e, con essa, la possibilità di programmare e di prestare il servizio, in quanto la norma impugnata subordina la disponibilità della quota del 20 per cento del fondo a eventi futuri e incerti quali la certificazione delle erogazioni a province e città metropolitane e il raggiungimento di un’intesa in settori di notevole vastità.

1.3.– L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 violerebbe anche l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto non sarebbero rispettate le condizioni che secondo la giurisprudenza costituzionale legittimano lo Stato a dettare norme di principio in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Le disposizioni statali introduttive di restrizioni dei bilanci regionali sarebbero ammissibili solo alla duplice condizione che prevedano un limite complessivo alla spesa corrente e che abbiano il carattere della transitorietà (è citata la sentenza n. 64 del 2016), mentre la norma impugnata imporrebbe una decurtazione puntuale di una voce del bilancio regionale dedicata al trasporto pubblico locale, senza garanzia di transitorietà e con il fine palese di «far cassa».

1.4.– La prevista decurtazione del fondo statale violerebbe altresì l’art. 117, quarto comma, Cost., in quanto limiterebbe la competenza esclusiva delle regioni in materia di trasporto pubblico locale, e l’art. 119, primo comma, Cost., tagliando il relativo finanziamento in modo arbitrario, senza collegamenti con le necessità di programmazione e di gestione del servizio.

Infine, sarebbe violato il principio di leale collaborazione, poiché il comma 2 dell’art. 39 introdurrebbe un potere sostitutivo non conforme all’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), non prevedendo un termine per provvedere, l’audizione dell’ente inadempiente e la partecipazione del Presidente della Regione alla riunione del Consiglio dei ministri che adotta i provvedimenti necessari.

1.5.– Con atto depositato in cancelleria il 12 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni promosse dalla Regione Liguria.

L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 perseguirebbe chiari obiettivi di coordinamento della finanza pubblica, in un’ottica attenta alle esigenze finanziarie non soltanto delle regioni, ma anche delle province e delle città metropolitane, nell’intento di indurre le regioni inadempienti alla completa attuazione dell’Accordo sancito l’11 settembre 2014 in sede di Conferenza unificata per l’erogazione delle risorse necessarie allo svolgimento delle funzioni conferite a province e città metropolitane ai sensi della legge n. 56 del 2014.

La previsione contestata non rappresenterebbe dunque uno strumento sanzionatorio, dal momento che prevede un’intesa in sede di Conferenza unificata, ma avrebbe il fine di stimolare le regioni inadempienti a completare il processo di riordino delineato dalla legge n. 56 del 2014, in presenza di «lacune e vuoti attuativi» a tre anni dalla sua introduzione. Il mancato o parziale trasferimento di risorse alle province e città metropolitane sarebbe stato più volte lamentato da questi enti in sede di Conferenza, sicché il Governo avrebbe ritenuto di intervenire per risolvere le criticità derivanti dalla mancata attuazione dell’Accordo richiamato, al fine di coordinare e stimolare tutti i soggetti coinvolti.

L’asserito contrasto tra il contenuto della norma impugnata e l’art. 27, commi 2 e 4, dello stesso d.l. n. 50 del 2017 non sarebbe elemento sufficiente a fondare la questione di illegittimità costituzionale, in quanto le previste modalità di concertazione e coordinamento in sede di Conferenza unificata consentirebbero «di individuare un percorso ragionevole e condiviso, al termine del quale sancire una intesa, per risolvere eventuali incertezze applicative e dubbi interpretativi sul primo periodo di applicazione delle norme in esame».

A conferma dell’assunto, l’Avvocatura rileva che l’iter procedimentale diretto a raggiungere l’intesa prevista dall’art. 39 del d.l. n. 50 del 2015 avrebbe già segnato importanti punti di convergenza e consenso, formalizzati nella seduta della Conferenza unificata del 3 agosto 2017 (dove sarebbero state condivise, a seguito di apposite riunioni tecniche, «una tabella-tipo contenente i dati e le informazioni che ciascuna regione dovrà fornire e una nota metodologica volta a chiarire gli impegni delle parti e le procedure necessarie per pervenire all’intesa»), così da far ritenere infondato il rischio, paventato dalla ricorrente, che sia pregiudicata la chiusura dei bilanci regionali, essendo prevedibile il raggiungimento dell’intesa all’esito della successiva seduta della Conferenza unificata fissata il 21 settembre 2017.

La norma impugnata interverrebbe dunque per assicurare il buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., introducendo un meccanismo di verifica e di certificazione degli impegni assunti dalle regioni con l’Accordo dell’11 settembre 2014, così da garantire e rendere effettivo anche per le pubbliche amministrazioni il principio pacta sunt servanda. Sulle presunte incertezze delle risorse effettivamente disponibili per il trasporto pubblico locale, lamentate dalla ricorrente, dovrebbero comunque prevalere le analoghe e più rilevanti incertezze sulle risorse non ancora ricevute da province e città metropolitane per svolgere le funzioni a esse conferite secondo quanto convenuto nel richiamato Accordo, atteso il lungo lasso di tempo trascorso dalla sua sottoscrizione.

Quanto all’asserita violazione dell’art. 117 Cost., la norma impugnata non interverrebbe «nell’ambito delle attribuzioni normative regionali» e non entrerebbe nel merito delle leggi regionali emanate in attuazione dell’Accordo dell’11 settembre 2014, limitandosi a disciplinare le modalità di verifica di quanto disposto dalle medesime leggi regionali. Essa avrebbe altresì carattere provvisorio e non permanente, operando solo nel periodo 2017-2020.

Infine, la norma impugnata non contrasterebbe con il meccanismo di finanziamento delineato dall’art. 119 Cost., in quanto l’eventuale decurtazione delle risorse provenienti dal fondo nazionale per il concorso dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale non sarebbe arbitraria, ma deriverebbe dalla certificazione delle risorse assegnate a province e città metropolitane, svolta attraverso un confronto con tutte le amministrazioni interessate sulla base dei dati e delle informazioni forniti dalle stesse regioni.

2.– Con ricorso notificato il 21-24 agosto 2017, depositato in cancelleria il 23 agosto 2017 e iscritto al n. 57 reg. ric. 2017, la Regione Toscana ha impugnato gli artt. 16, commi 1 e 2, 39 e 48, commi 4 e 6, lettera a), del d.l. n. 50 del 2017.

2.1.– Il comma 1 dell’art. 16 modifica l’art. 1, comma 418, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», che prevede una riduzione della spesa corrente delle province e delle città metropolitane – di 1.000 milioni di euro per l’anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l’anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a decorrere dall’anno 2017 – e un corrispondente versamento da parte di ciascuna provincia e città metropolitana ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato. L’art. 16, comma 1, dispone che «[…] il terzo periodo [del comma 418] è sostituito dal seguente: "Fermo restando per ciascun ente il versamento relativo all’anno 2015, l’incremento di 900 milioni di euro per l’anno 2016 e l’ulteriore incremento di 900 milioni di euro a decorrere dal 2017 a carico degli enti appartenenti alle regioni a statuto ordinario sono ripartiti per 650 milioni di euro a carico delle province e per 250 milioni di euro a carico delle città metropolitane.”». L’art. 16, comma 2, stabilisce poi che «[p]er gli anni 2017 e seguenti l’ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascuna provincia e città metropolitana deve conseguire e del corrispondente versamento, ai sensi dell’articolo 1, comma 418, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è stabilito negli importi indicati nella tabella 1 allegata al presente decreto».

La Regione rileva che, in base alla sentenza di questa Corte n. 205 del 2016, il comma 418 dovrebbe essere inteso nel senso che le risorse versate allo Stato – e connesse al riordino delle funzioni non fondamentali delle province e delle città metropolitane, previsto dalla legge n. 56 del 2014 – devono essere riassegnate agli enti subentranti nell’esercizio di tali funzioni. Tale vincolo di destinazione risulterebbe anche dall’art. 1, comma 97, lettera b) della legge n. 56 del 2014. La ricorrente riferisce che, in Toscana, la stessa Regione è subentrata nell’esercizio di diverse funzioni (indicate nel ricorso) delle province e della Città metropolitana di Firenze, ai sensi della legge della Regione Toscana 3 marzo 2015, n. 22, recante «Riordino delle funzioni provinciali e attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni). Modifiche alle leggi regionali 32/2002, 67/2003, 41/2005, 68/2011, 65/2014», e osserva che l’esercizio di tali funzioni richiederebbe risorse aggiuntive, richieste dalla Regione ma non assegnate dallo Stato.

L’art. 16, commi 1 e 2, del d.l. n. 50 del 2017, omettendo di riassegnare alle regioni e ai comuni subentranti – in attuazione della citata sentenza n. 205 – le risorse sottratte alle province e alle città metropolitane, violerebbe l’art. 119, primo, secondo, terzo e quarto comma Cost. In particolare, il quarto comma dell’art. 119 Cost., in base al quale «[l]e risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite», sarebbe violato dalle norme impugnate, che non permetterebbero alle regioni di disporre delle risorse necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni.

2.2.– La Regione Toscana impugna anche l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, per violazione degli artt. 97, 117, quarto comma, e 119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.

I motivi dell’impugnazione sono sostanzialmente analoghi a quelli dedotti dalla Regione Liguria nel giudizio relativo al ricorso iscritto al registro ricorsi n. 53 del 2017.

Il buon andamento dell’azione amministrativa sarebbe compromesso dall’incidenza della norma sulla possibilità della regione di esercitare correttamente le funzioni connesse al trasporto pubblico locale, per carenza delle risorse finanziarie necessarie, sicché l’eventuale inadempienza regionale nel finanziare le province si riverserebbe, in modo del tutto illogico, sulle aziende che gestiscono il trasporto pubblico locale e quindi, alla fine, sulla collettività.

La sanzione prevista dall’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 limiterebbe le competenze in materia di trasporto pubblico locale attribuite alle regioni in via esclusiva dall’art. 117, quarto comma, Cost. e contrasterebbe con il meccanismo di finanziamento delle funzioni delineato dall’art. 119, primo, secondo, terzo e quarto comma, Cost., tagliando il finanziamento del trasporto pubblico locale in modo arbitrario. La violazione dell’art. 119 Cost. rileverebbe sotto un ulteriore profilo, derivante dalla mancata erogazione statale delle risorse connesse al subentro delle regioni nelle funzioni non fondamentali delle province, oggetto del riordino disposto dalla legge n. 56 del 2014. Richiamando la sentenza n. 205 del 2016, la ricorrente osserva che lo Stato non potrebbe penalizzare le regioni con un altro taglio, dovendo esso prima assicurare la disponibilità delle risorse destinate al finanziamento delle funzioni riassegnate ad altri enti in attuazione delle legge n. 56 del 2014, salvo poi procedere alla decurtazione qualora le regioni, per inadempimento imputabile, non erogassero le risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni non fondamentali da esse conferite alle province.

Infine, la norma impugnata introdurrebbe un potere sostitutivo del Governo, senza rispettare le garanzie procedurali previste dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003.

2.3.– La Regione Toscana censura altresì l’art. 48, commi 4 e 6, lettera a), del d.l. n. 50 del 2017.

Il comma 4 dispone: «Ai fini dello svolgimento delle procedure di scelta del contraente per i servizi di trasporto locale e regionale, gli enti affidanti, con l’obiettivo di promuovere la più ampia partecipazione alle medesime, articolano i bacini di mobilità in più lotti, oggetto di procedure di gara e di contratti di servizio, tenuto conto delle caratteristiche della domanda e salvo eccezioni motivate da economie di scala proprie di ciascuna modalità e da altre ragioni di efficienza economica, nonché relative alla specificità territoriale dell’area soggetta alle disposizioni di cui alla legge 16 aprile 1973, n. 171 e successive modificazioni. Tali eccezioni sono disciplinate con delibera dell’Autorità di regolazione dei trasporti, ai sensi dell’articolo 37, comma 2, lettera f) del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dal comma 6, lettera a), del presente articolo. Per quanto riguarda i servizi ferroviari l’Autorità può prevedere eccezioni relative anche a lotti comprendenti territori appartenenti a più Regioni, previa intesa tra le regioni interessate».

Il comma 6, lettera a), recita: «All’articolo 37 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre [2011], n. 214, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 2, lettera f) sono anteposte le seguenti parole: "a definire i criteri per la determinazione delle eccezioni al principio della minore estensione territoriale dei lotti di gara rispetto ai bacini di pianificazione, tenendo conto della domanda effettiva e di quella potenziale, delle economie di scala e di integrazione tra servizi, di eventuali altri criteri determinati dalla normativa vigente, nonché”».

Le citate disposizioni sarebbero lesive delle attribuzioni regionali per vari motivi.

In primo luogo, non sussisterebbero i presupposti richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., per la decretazione d’urgenza, sia perché le misure introdotte per l’organizzazione e la gestione del trasporto pubblico locale non dovrebbero fare fronte a circostanze accidentali ed eccezionali, sia perché i contenuti normativi del decreto-legge sarebbero privi di omogeneità. Secondo la ricorrente, inoltre, il Governo avrebbe adombrato che il decreto-legge sarebbe stato impiegato, in difetto dei suoi presupposti, al fine di sottrarre la materia all’intesa con le regioni. Ai fini della ridondanza, viene precisato che l’oggetto della disciplina qui contestata inciderebbe sulle attribuzioni regionali in materia di trasporto pubblico locale, con l’effetto di vanificare l’art. 84 della legge della Regione Toscana 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011), che ha istituito il lotto unico regionale come ambito territoriale ottimale.

Sotto altro profilo, viene dedotta la violazione della potestà legislativa residuale in materia di organizzazione del servizio di trasporto pubblico locale, ex art. 117, quarto comma, Cost., poiché le regioni verrebbero private della possibilità di decidere come organizzare il servizio di trasporto e il livello ottimale di gestione. Viene rilevato sul punto che non esisterebbe un modello di ambito territoriale adatto per tutti i contesti regionali, dovendosi invece verificare caso per caso le esigenze del territorio. Proprio per questo la dimensione del lotto dovrebbe rimanere una scelta discrezionale dell’ente di governo e non potrebbe essere imposta per norma statale.

Specularmente, si deduce anche la violazione dell’art. 117, secondo comma, Cost., in quanto non sarebbe invocabile la potestà legislativa dello Stato in materia di tutela della concorrenza. L’articolazione del bacino in più lotti non garantirebbe affatto maggiore efficienza e concorrenza, e la fondatezza di tale assunto sarebbe avvalorata dall’art. 51 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale affida alla singola stazione appaltante la scelta della deroga rispetto alla suddivisione dell’appalto in più lotti, con l’onere di motivarla (così disporrebbe anche il "considerando” n. 78 della direttiva 2014/24/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE). L’imposizione della pluralità di lotti determinerebbe anzi una lievitazione degli oneri economici per la stazione appaltante, in aperta antitesi quindi con la logica della razionalizzazione e della semplificazione dei processi di acquisto e fornitura di beni e servizi. L’obbligatoria suddivisione in più lotti non permetterebbe inoltre di ridurre gli squilibri tra le diverse zone territoriali all’interno della Regione, compensando le più redditizie con quelle che lo sono meno.

Da ultimo, secondo la ricorrente sarebbe violato il principio di leale collaborazione sotto due differenti profili: da un lato, la disciplina avrebbe dovuto essere emanata d’intesa con le regioni, come sancito dalla sentenza n. 251 del 2016; dall’altro, il compito di definire le deroghe alla regola della obbligatoria suddivisione dei bacini di mobilità in più lotti ai fini della gara verrebbe affidato in via esclusiva all’Autorità di regolazione dei trasporti, senza alcun coinvolgimento delle regioni, pur essendo queste ultime titolari della potestà in materia di trasporto e in grado di offrire importanti elementi conoscitivi del territorio ai fini dell’articolazione delle gare.

2.4.– Con atto depositato in cancelleria il 29 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni promosse dalla Regione Toscana.

2.4.1.– In relazione all’art. 16, commi 1 e 2, il resistente osserva che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le regioni che lamentano la violazione dell’art. 119, quarto comma, Cost., dovrebbero provare l’impossibilità di esercizio delle funzioni di loro spettanza, mentre la Regione Toscana non avrebbe soddisfatto tale onere probatorio.

Inoltre, la difesa erariale rileva che lo Stato ha competenza esclusiva in materia di contabilità (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), per cui potrebbe «stabilire autonomamente con quali provvedimenti sancire l’attribuzione di risorse e l’istituzione di fondi, considerato, peraltro, che la […] sentenza n. 205 del 2016 non ha sancito nel dispositivo l’illegittimità costituzionale della norma impugnata e il correlato obbligo del Legislatore a provvedere». Il resistente rileva poi che «allo stato non è ipotizzabile la retrocessione integrale delle somme previste dal comma 418 della legge n. 190 del 2014 alle Regioni e ai Comuni eventualmente destinatari delle funzioni non fondamentali»: «[p]er la determinazione delle risorse eventualmente e potenzialmente trasferibili occorre, in primo luogo, procedere all’effettiva determinazione dell’ammontare di risorse necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali».

Ancora, secondo l’Avvocatura, per stabilire le risorse da destinare agli enti subentranti occorrerebbe tener conto: «a) degli effetti di risparmio connessi all’attuazione dei commi 421 e seguenti del citato art. 1 della legge n. 190 del 2014 […]; b) dei risparmi derivanti dall’efficientamento delle province e delle città metropolitane; c) dei diversi interventi legislativi finalizzati ad assicurare contributi a favore dei predetti enti a parziale ristoro dei versamenti connessi al comma 418».

Inoltre, il resistente osserva che la legge reg. Toscana n. 22 del 2015 ha disposto che le entrate extratributarie connesse alle funzioni non fondamentali siano acquisite al bilancio regionale, con la conseguenza che, «non potendosi ipotizzare che la Regione Toscana abbia adottato una legge priva della necessaria copertura finanziaria […] occorre presupporre […] che il gettito derivante dalle entrate extra-tributarie sia tale da coprire gli oneri per l’esercizio delle funzioni non fondamentali».

La difesa erariale osserva poi che le somme versate dalle province allo Stato derivano dalla riduzione della spesa corrente: dunque, i risparmi in questione farebbero parte della manovra complessiva di contenimento della finanza pubblica e non potrebbero essere destinati a finanziare gli enti subentranti nell’esercizio delle funzioni non fondamentali.

Infine, l’Avvocatura rileva che parte delle funzioni passate dalle province alla Regione erano state trasferite alle regioni, assieme ai mezzi necessari per il loro svolgimento, in virtù del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), e che poi la Regione Toscana ha delegato tali funzioni agli enti locali, dotandoli delle necessarie risorse. Dunque, le funzioni non fondamentali da finanziare dovrebbero essere diverse da tali funzioni delegate, «alle quali già occorre che corrispondano specifici e congrui finanziamenti da parte delle medesime regioni».

2.4.2.– Quanto all’impugnazione dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce, in primo luogo, la genericità dei rilievi svolti dalla ricorrente, in quanto non sarebbe dimostrato l’effetto negativo dell’applicazione della norma sulla prestazione del servizio di trasporto pubblico locale.

In secondo luogo, la norma impugnata assolverebbe a una funzione di coordinamento della finanza pubblica, il cui esercizio da parte dello Stato non è impedito dall’incidenza dell’intervento in un ambito materiale rimesso alla potestà legislativa residuale delle regioni, e risponderebbe al compito di assicurare uno standard omogeneo nella fruizione del servizio a livello nazionale, subordinando il trasferimento automatico di una quota del concorso statale all’accertamento, tramite intesa, dell’avvenuta erogazione da parte delle regioni alle province e città metropolitane. L’eventuale impatto della disciplina sull’autonomia finanziaria e organizzativa regionale costituirebbe dunque una mera circostanza di fatto, non incidente sul piano della legittimità costituzionale.

Il fondo in questione risponderebbe all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione, sicché sarebbe giustificato un meccanismo di verifica dell’effettiva erogazione delle risorse ai destinatari, senza che sia prevista una verifica anche della specifica destinazione dei trasferimenti.

Sarebbe infondata anche la dedotta violazione del principio di leale collaborazione, poiché la norma non disciplinerebbe una forma di esercizio del potere sostitutivo dello Stato in attribuzioni proprie delle regioni, ma introdurrebbe una garanzia di effettività del sostegno che si è inteso assicurare al settore.

Nel resto, l’Avvocatura ripropone gli argomenti difensivi svolti nel giudizio reg. ric. n. 53 del 2017 e riportati al punto 1.5.

2.4.3.– In relazione all’art. 48, commi 4 e 6, lettera a), il Presidente del Consiglio dei ministri replica quanto segue.

La censura incentrata sulla violazione dell’art. 77 Cost. ‒ oltre che generica ‒ sarebbe infondata. Il titolo del decreto-legge e il suo preambolo fanno riferimento alla straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure finanziarie e per il contenimento della spesa pubblica, strumenti volti a consentire, in favore degli enti territoriali, una migliore perequazione delle risorse e la programmazione di nuovi o maggiori investimenti, favorendo così la crescita economica del Paese. Viene altresì sottolineato come il Titolo IV (Misure urgenti per rilancio economico e sociale) contenga ben undici articoli in materia di «misure nel settore dei trasporti e delle infrastrutture», sicché non si potrebbe sostenere che la norma impugnata sia dissonante rispetto al contenuto ed alla materia del decreto-legge. Quanto esposto avrebbe valore assorbente anche con riferimento alla denunciata violazione del principio di leale collaborazione, considerato che la celerità con cui il decreto-legge deve essere adottato escluderebbe la necessità del previo coinvolgimento delle regioni nella sua formulazione (sono citate le sentenze n. 298 del 2009, n. 371 e n. 159 del 2008).

La questione sarebbe infondata anche con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 117 Cost. La norma in contestazione detta disposizioni per la promozione della concorrenza e, nel dichiarato obiettivo di promuovere la partecipazione alle gare, prevede che i bacini di mobilità siano articolati in più lotti, salve eccezioni da individuare sulla base di criteri stabiliti dall’Autorità di regolazione dei trasporti. Le funzioni attribuite a quest’ultima non assorbirebbero le competenze spettanti alle amministrazioni regionali in materia di trasporto pubblico locale (cui continuerebbe a spettare l’articolazione dei bacini d’utenza in più lotti), bensì le presupporrebbero e supporterebbero. In ogni caso, è sottolineata anche qui la genericità della prospettazione, che si limiterebbe a petizioni di principio sull’opportunità che la definizione della dimensione dei lotti di gara sia rimessa agli enti territoriali per una migliore organizzazione del servizio.

Non sussisterebbe la dedotta violazione del principio di leale collaborazione, il quale non opererebbe quando lo Stato esercita la propria competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza.

3.– Con ricorso spedito per la notificazione il 21 agosto 2017, depositato in cancelleria il 24 agosto 2017 e iscritto al n. 58 reg. ric. 2017, anche la Regione Campania ha impugnato l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017.

Tale disposizione, nella parte in cui subordina il riconoscimento della quota del 20 per cento del fondo nazionale trasporti all’erogazione delle risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni conferite a province e città metropolitane in attuazione della legge n. 56 del 2014, imporrebbe alle regioni un indebito vincolo alla spesa per i servizi e per gli altri interventi in materia di trasporto attraverso la sottrazione, potenzialmente a titolo definitivo, delle relative risorse nella misura indicata. Ne conseguirebbe la violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119, primo comma, Cost., per l’eccesso della norma dai limiti propri dei principi di coordinamento della finanza pubblica, che impedirebbe alle regioni di esercitare la propria autonomia finanziaria e di spesa.

Ad avviso della ricorrente, trattandosi di una previsione che incide sul mancato trasferimento delle risorse destinate a una specifica spesa, si dovrebbe ritenere applicabile il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui la disciplina di principio dei vincoli finanziari è compatibile con l’autonomia delle regioni solo se stabilisce un limite complessivo di intervento avente a oggetto l’entità del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita di spesa corrente, lasciando alle regioni stesse piena autonomia e libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.

La violazione dei parametri indicati sarebbe tanto più grave, in quanto la norma impugnata collegherebbe alla mancata certificazione dell’erogazione entro il 30 giugno di ciascun anno la definitiva sottrazione alla regione interessata della quota del 20 per cento di sua competenza, ponendo in essere un’illegittima riserva allo Stato delle entrate di competenza delle regioni in luogo del mero accantonamento di poste attive conservate nella titolarità delle regioni.

Sussisterebbe altresì la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., per irragionevolezza, per difetto di proporzionalità e per mancanza di corrispondenza logica rispetto alle dichiarate finalità di coordinamento della finanza pubblica, con ridondanza «anche in termini di contrasto con la disposizione di cui all’art. 119, comma 4 della Costituzione». La norma impugnata interferirebbe con l’esercizio delle funzioni regionali connesse all’erogazione del fondamentale servizio di trasporto pubblico locale, introducendo una condizione e prevedendo un procedimento ad hoc sottratto al "governo” della regione, alla cui definizione è subordinato il riconoscimento delle risorse necessarie nella specifica materia, in contrasto con l’imprescindibile necessità di assicurare livelli di omogeneità nella prestazione del servizio su tutto il territorio nazionale.

Gli stessi parametri sarebbero violati anche sotto il profilo concernente il procedimento di formalizzazione mediante intesa in sede di Conferenza unificata. Esso condurrebbe al differimento del termine per la certificazione e modificherebbe la natura di quest’ultima da atto dichiarativo ad atto di volizione, demandando l’eventuale erogazione della quota, in mancanza di intesa, alla competenza del Consiglio dei ministri senza prevedere termini e presupposti della relativa deliberazione. Il legislatore statale avrebbe così delineato un meccanismo irrispettoso dell’assetto delle competenze, erroneo sotto l’aspetto «della qualificazione degli atti prescritti e del relativo perfezionamento», nonché farraginoso e incerto nei tempi, con evidenti riflessi sulla gestione delle risorse e sull’erogazione dei servizi di trasporto pubblico locale di competenza delle regioni, in evidente distonia con le previsioni dell’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017. Ne conseguirebbe un’alea «indebita e ingiustificata», collegata ad adempimenti estranei al settore dei trasporti, che esporrebbe le regioni al concreto rischio di non conseguire l’apporto finanziario e la liquidità necessari a coprire il fabbisogno minimo di mobilità, con effetti gravissimi sull’efficacia della programmazione del servizio, sul piano occupazionale e più in generale sull’economia del settore.

La norma impugnata contrasterebbe infine con il principio di leale collaborazione e dell’intesa (sono evocati gli artt. 114, primo e secondo comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, Cost.), in quanto si tradurrebbe in un intralcio alla gestione regionale delle risorse e delle competenze in materia di trasporto pubblico locale, prevedendo un incerto meccanismo sostitutivo nelle attribuzioni regionali, non conforme all’art. 8 della legge n. 131 del 2003.

3.1.– Con atto depositato in cancelleria il 27 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni, sulla base di difese analoghe a quelle svolte nel giudizio relativo al ricorso iscritto al registro ricorsi n. 53 del 2017, riportate al punto 1.5.

4.– Con ricorso notificato il 22-24 agosto 2017, depositato in cancelleria il 24 agosto 2017 e iscritto al n. 59 reg. ric. 2017, la Regione Veneto ha impugnato gli artt. 39 e 41-bis del d.l. n. 50 del 2017.

4.1– L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 violerebbe gli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., oltre al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.

In primo luogo, la norma impugnata sarebbe irragionevole e quindi lesiva degli artt. 3 e 97 Cost., in quanto idonea a pregiudicare in concreto il buon andamento dell’azione amministrativa e il soddisfacimento degli interessi pubblici sottesi ad esso, con ridondanza «in una lesione […] delle competenze regionali in materia di trasporto pubblico locale, ascrivibile alla potestà legislativa regionale residuale ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost.».

La sanzione in essa prevista, assimilabile a una astreinte, consistente nella decurtazione di una quota del fondo nazionale per il concorso dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, deriverebbe dall’inadempimento della regione, incolpevole o meno, nell’erogazione di risorse destinate alle funzioni non fondamentali delle province. Il legislatore avrebbe dunque messo irragionevolmente in relazione due "poste” funzionali «del tutto incommensurabili», senza compiere la necessaria opera di bilanciamento tra gli interessi sottesi alle diverse situazioni coinvolte. Il servizio di trasporto pubblico locale rappresenterebbe, infatti, un servizio pubblico fondamentale, non comprimibile in ragione della mancata erogazione del finanziamento delle funzioni non fondamentali delle province, il cui rilievo non secondario, nel quadro del soddisfacimento degli interessi pubblici affidati alle cure degli enti locali, dovrebbe essere tutelato mediante meccanismi idonei ad assicurarne il sovvenzionamento senza pregiudizio diretto di altri interessi pubblici di primaria importanza. La sottrazione di risorse statali ad altre funzioni fondamentali costituirebbe pertanto un sistema coercitivo insoddisfacente e incongruo, operante in danno degli interessi della collettività, che potrebbero risultare doppiamente compromessi da una disposizione sanzionatoria come quella impugnata.

La sanzione sarebbe viziata anche da assenza di proporzionalità, in quanto la decurtazione del 20 per cento provocherebbe, prendendo come valore di riferimento la quota del fondo assegnata alla Regione Veneto nel 2017 (pari a 395.993.123,16 euro), l’impossibilità per la ricorrente di finanziare i servizi automobilistici e di navigazione lagunare per un quadrimestre, mentre dovrebbe garantire comunque il trasporto ferroviario locale, con rilevantissimi effetti in danno dei cittadini.

La prevista decurtazione del 20 per cento, pari al doppio della riduzione massima consentita dall’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017, impedirebbe inoltre di garantire la ragionevole certezza delle risorse finanziarie disponibili, tradendo la doverosa cooperazione tra Stato e regioni nell’interesse superiore del cittadino e ponendosi così in contrasto con la Costituzione (è citata la sentenza n. 169 del 2017 in tema di servizio sanitario).

L’irragionevolezza della norma impugnata deriverebbe altresì dal meccanismo di accertamento-verificazione delineato in concreto dal legislatore, in quanto lo strumento dell’intesa in sede di Conferenza unificata, dove le altre regioni non sembrano avere alcun ruolo in relazione all’inadempimento di una di esse, costituirebbe un inutile aggravio dell’iter procedimentale.

Sussisterebbe anche la lesione dell’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria delle regioni in materia di trasporto pubblico locale ex artt. 118 e 119 Cost. Essa sarebbe compressa da un regime sanzionatorio vessatorio e irragionevole, in grado di alterare la libertà di scelta politica delle regioni, senza che sia possibile invocare la competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica.

A dimostrazione della concreta lesività della norma impugnata, la Regione Veneto invoca a sua volta il mancato trasferimento statale delle risorse connesse al subentro delle regioni nelle funzioni non fondamentali delle province, oggetto del riordino disposto dalla legge n. 56 del 2014. A questo proposito richiama la sentenza n. 205 del 2016 e una nota della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome del 6 luglio 2017, da cui emergerebbe che le regioni hanno colmato direttamente, con strumenti di emergenza e contingenti, l’insufficiente finanziamento delle funzioni provinciali fondamentali. Ad avviso della ricorrente, prevedere in un tale contesto economico-finanziario un sistema sanzionatorio gravoso e sproporzionato in relazione a un fatto di inadempimento dipendente dall’omessa erogazione di risorse dallo Stato alle regioni sarebbe ingiusto, prim’ancora che irragionevole, in quanto si sanzionerebbe così un comportamento incolpevole.

L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 violerebbe anche il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., là dove, al comma 2, non prevede che in caso di mancata "ratifica” della certificazione da parte della Conferenza unificata il Consiglio dei ministri provveda in contraddittorio con il Presidente della Regione interessata e sulla base di criteri predeterminati in sede di conferenza intergovernativa. La mancanza di tali criteri potrebbe determinare ingiustificate disparità di trattamento trasmodanti in arbitrio, con ulteriore lesione degli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., per l’ingiustificata compressione e menomazione dell’autonomia regionale che ne deriverebbe.

La norma impugnata sarebbe inoltre direttamente lesiva dell’autonomia finanziaria e, di conseguenza, dell’autonomia amministrativa delle regioni ex artt. 119 e 118 Cost., nonché in generale della loro autonomia politica ex art. 114 Cost., in quanto il previsto regime sanzionatorio priverebbe le regioni della possibilità di perseguire i fini di interesse pubblico affidati alle loro cure e di orientare liberamente le proprie scelte politiche. Al riguardo, la ricorrente si diffonde sull’insufficienza del margine residuale delle risorse disponibili, sulla base della legge regionale di bilancio 2017, per garantire il trasporto pubblico locale a seguito della decurtazione sanzionatoria del fondo statale, osservando che dovrebbero essere "distratte” voci di spesa già autorizzate dalla legge di bilancio per azioni di grande valenza socio-economica (interventi di prevenzione, soccorso e pronto intervento per calamità naturali; misure per la prevenzione e la riduzione del rischio idraulico e idrogeologico; attività connesse alla pianificazione di interventi in materia ambientale; azioni a favore delle forme di esercizio associato di funzioni e servizi comunali e delle fusioni di comuni; interventi per garantire la parità scolastica a favore delle famiglie degli alunni frequentanti il sistema scolastico di istruzione), ma non ancora impegnate.

4.2.– L’art. 41-bis del d.l. n. 50 del 2017, nel testo vigente al momento del ricorso, stabiliva al comma 1 quanto segue: «[a]l fine di favorire gli investimenti, per il triennio 2017-2019, sono assegnati ai comuni, compresi, alla data di presentazione della richiesta di cui al comma 2, nelle zone a rischio sismico 1 ai sensi dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3519 del 28 aprile 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 108 dell’11 maggio 2006, contributi soggetti a rendicontazione a copertura delle spese di progettazione definitiva ed esecutiva, relativa ad interventi di opere pubbliche, nel limite di 5 milioni di euro per l’anno 2017, di 15 milioni di euro per l’anno 2018 e di 20 milioni di euro per l’anno 2019» (successivamente l’art. 41-bis è stato modificato dal decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148, recante «Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili», convertito, con modificazioni, nella legge 4 dicembre 2017, n. 172). Il comma 2 dell’art. 41-bis regolava la richiesta di contributo rivolta dai comuni al Ministero dell’interno e il comma 3 disciplinava l’assegnazione del contributo, di competenza del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.

Secondo la ricorrente, la norma istituisce un fondo a favore dei comuni situati in zona sismica e il riferimento agli immobili pubblici e la preminente finalità di adeguamento sismico dovrebbero indurre a collocare l’art. 41-bis nelle materie «governo del territorio» e «protezione civile». La Regione ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale, sarebbero preclusi interventi finanziari statali a destinazione vincolata a favore dei comuni, per i normali compiti di questi ultimi, al di fuori delle materie di competenza statale o dei casi di cui all’art. 119, quinto comma, Cost. (sono richiamate le sentenze n. 16 del 2004 e n. 189 del 2015). La norma impugnata contemplerebbe un fondo privo dei presupposti considerati necessari dalla Corte costituzionale per la sua legittimità: infatti, essa perseguirebbe una finalità (di favorire gli investimenti) diversa da quelle di perequazione e garanzia indicate nell’art. 119, quinto comma, Cost.; inoltre i contributi in questione sarebbero volti a finanziare una «segmento della complessiva realizzazione di interventi e opere pubbliche già programmati nell’esercizio delle ordinarie competenze degli enti locali», per cui si ricadrebbe nell’ambito dei normali compiti ad essi spettanti.

Secondo la ricorrente, anche qualora si ritenesse che la norma prevede «interventi speciali» ai sensi dell’art. 119, quinto comma, Cost., essa sarebbe incostituzionale in quanto non assegna alle regioni «compiti di programmazione e di riparto dei fondi all’interno del proprio territorio», come sarebbe richiesto dalla giurisprudenza costituzionale. L’art. 41-bis, infatti, non contemplerebbe alcun intervento delle regioni e dei comuni, «né istruttorio né decisorio né programmatorio», violando il principio di leale collaborazione e l’art. 119, quinto comma, Cost. e ledendo l’autonomia legislativa e amministrativa regionale in materia di «governo del territorio» e «protezione civile».

Inoltre, la «mancata previsione di ogni apporto partecipativo da parte delle Regioni» determinerebbe la violazione del principio di leale collaborazione: l’art. 41-bis potrebbe essere «ricondotto a legittimità unicamente prevedendo l’intervento diretto delle Regioni in sede di determinazione dei criteri di ripartizione del Fondo sui rispettivi territori e di distribuzione delle relative risorse».

4.3.– Con atto depositato in cancelleria il 29 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

4.3.1.– Quanto all’impugnazione dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, la difesa erariale eccepisce l’inammissibilità sia delle questioni promosse con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., per difetto di motivazione sulla ridondanza dell’asserita lesione di tali parametri sulle competenze regionali, sia di quelle promosse con riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., per carenza di adeguata motivazione sul concreto effetto lesivo conseguente alle modifiche introdotte dal legislatore, motivazione tanto più necessaria in quanto il mancato raggiungimento dell’intesa non comporterebbe la perdita certa e automatica della quota del 20 per cento del fondo, essendone previsto il riconoscimento da parte del Consiglio dei ministri.

Nel merito, l’Avvocatura osserva che l’incidenza della norma su una materia di competenza residuale delle regioni, quale il trasporto pubblico locale, non sarebbe d’ostacolo all’esercizio della competenza concorrente dello Stato in tema di coordinamento della finanza pubblica, svolgendo nel resto difese analoghe a quelle del giudizio relativo al ricorso iscritto al reg. ric. n. 53 del 2017 e concludendo per l’infondatezza delle questioni.

4.3.2.– In relazione all’art. 41-bis, il resistente si sofferma sulla portata della materia «protezione civile» e osserva che la norma impugnata persegue «finalità di sviluppo del territorio, di tutela dell’incolumità pubblica e dell’ambiente». Secondo l’Avvocatura, dalla giurisprudenza costituzionale risulterebbe che la protezione civile non è solo una «materia», ma «un insieme di funzioni, trasversale rispetto alle materie». La «disciplina sull’emergenza» avrebbe dunque «finito per investire i più diversi ambiti materiali». In particolare, l’«edilizia in zona sismica» rientrerebbe nel «governo del territorio» nonché «nella materia della protezione civile, per il profilo concernente la tutela dell’incolumità pubblica». Secondo il resistente, occorrerebbe valutare la possibile qualificazione del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2016, n. 229, «come norma interposta nel presente giudizio di compatibilità costituzionale fra l’art. 41bis e l’art. 117, comma 3, Cost.». Il principio fondamentale espresso da tale norma interposta sarebbe individuabile «nella tutela dell’incolumità pubblica, quale profilo di protezione civile», e la norma impugnata mirerebbe a sostenere progetti «per il miglioramento e l’adeguamento antisismico degli immobili pubblici e privati»: «il perseguimento di tali finalità, tramite i detti interventi statali», potrebbe realizzarsi «senza dar luogo ad alcuna lesione della sfera di competenza regionale».

5.– Con ricorso notificato il 22 agosto 2017, depositato in cancelleria il 28 agosto 2017 e iscritto al n. 60 reg. ric. 2017, anche la Regione Lombardia ha impugnato l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, per violazione degli artt. 3, 97, 114, primo e secondo comma, 117, terzo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, 119, primo, secondo e quarto comma, e 120, secondo comma, Cost.

5.1.– La norma impugnata sarebbe lesiva del principio di buon andamento dell’azione amministrativa, per il grave pregiudizio arrecato all’erogazione del servizio fondamentale del trasporto pubblico locale, con incidenza sull’esercizio delle competenze regionali legislative e amministrative in materia.

Tale lesione deriverebbe da plurime ragioni.

In primo luogo, dalla previsione di un procedimento ad hoc per il riconoscimento di risorse altrimenti spettanti alle regioni in via diretta e automatica ai sensi dell’art. 16-bis, comma 1, del d.l. n. 95 del 2015, come modificato, e dall’art. 27 del d.l. n. 50 del 2017, norme che non contemplerebbero né la preventiva certificazione regionale né la rimessione di una quota delle risorse statali alla determinazione del Presidente del Consiglio dei ministri, attribuendo invece la competenza sul riparto del fondo al Ministro delle infrastrutture e trasporti, di concerto con il Ministro delle finanze. Inoltre, secondo il richiamato art. 27 del d.l. n. 50 del 2017 la quota del fondo potrebbe essere decurtata al massimo del cinque per cento rispetto alla misura attribuita l’anno precedente, mentre la norma impugnata, manifestando sotto questo profilo anche irragionevolezza, contraddittorietà e illogicità, lascerebbe intendere che sia possibile non erogare il 20 per cento alla regione che non riesca a raggiungere l’intesa.

In secondo luogo, il principio di buon andamento sarebbe leso dalla farraginosità e iniquità del procedimento, che richiede il consenso unanime in sede di Conferenza unificata, rendendo estremamente difficoltoso il raggiungimento dell’intesa anche per le regioni più virtuose, e attribuisce a un organo politico la decisione su un atto tecnico-finanziario, quale è la certificazione. Tale procedimento costringerebbe le regioni a operare già dal 2017 un accantonamento di bilancio pari al 20 per cento delle risorse destinate al trasporto pubblico locale, senza consentire agli enti locali e alle aziende esercenti il servizio le conseguenti riprogrammazioni, con il risultato che la norma impugnata, volendo assicurare l’erogazione agli enti locali delle risorse necessarie per le funzioni a essi conferite, metterebbe a rischio lo stesso svolgimento di una di tali funzioni, come quella del trasporto pubblico locale, inerente a un servizio per il quale dovrebbe essere garantito un livello uniforme di godimento.

Il procedimento previsto dall’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 non consentirebbe il trasferimento alle regioni di una quota del 20 per cento del fondo in tempi certi, in quanto la norma stabilisce sì termini stringenti per la certificazione regionale e per il raggiungimento dell’intesa, ma non per il riconoscimento delle risorse da parte del Governo in mancanza dell’intesa, sicché le regioni potrebbero autodeterminarsi sul piano legislativo e amministrativo sulla base delle uniche risorse "certe”, corrispondenti all’ottanta per cento della quota spettante a ciascuna di esse, compromettendo l’esercizio dei servizi di trasporto pubblico locale.

Il principio di ragionevolezza sarebbe violato dall’evidente mancanza di proporzionalità e di «rispondenza logica» della norma rispetto alle finalità di coordinamento della finanza pubblica da essa stessa dichiarate, in quanto non sarebbero imposti vincoli alle politiche di bilancio delle regioni, ma un’abnorme misura sanzionatoria, che farebbe ricadere sul cruciale settore dei trasporti le conseguenze della pressione esercitata sugli equilibri già precari della finanza provinciale.

Anche la Regione Lombardia lamenta poi l’irragionevolezza derivante dall’asserita «distonia» della norma impugnata con la previsione dell’art. 27, comma 4, dello stesso d.l. n. 50 del 2017, che aumenta all’80 per cento la misura dell’anticipazione di cassa sul fondo nazionale trasporti da ripartire tra le regioni entro il 15 gennaio di ogni anno, dal momento che la decurtazione del 20 per cento stabilita dall’art. 39 comporterebbe un’anticipazione reale del 64 per cento, id est dell’importo risultante dalla riduzione del 20 per cento sull’80 per cento della quota complessiva.

Il legislatore statale sarebbe intervenuto dopo l’Accordo sancito in sede di Conferenza unificata l’11 settembre 2014 violandone le clausole, in quanto avrebbe previsto unilateralmente ulteriori oneri a carico delle regioni, compromettendo lo svolgimento delle stesse funzioni conferite a province e città metropolitane che la norma impugnata intenderebbe salvaguardare. Ne deriverebbe anche sotto questo profilo la lesione del principio di ragionevolezza, oltre che di legittimo affidamento, resa evidente dal fatto che, per un verso, entro il 30 giugno di ogni anno le regioni dovrebbero trasferire agli enti locali tutte le risorse per lo svolgimento delle funzioni a essi conferite, compresa la quota maggioritaria afferente al trasporto pubblico locale (che per la Lombardia ammonta a oltre 152 milioni di euro su un importo complessivo di 195 milioni di euro), mentre lo Stato, per altro verso, destinerebbe alle regioni solo l’ottanta per cento delle risorse destinate al trasporto pubblico locale, assoggettando il restante 20 per cento alla descritta certificazione e intesa nonché, in mancanza di quest’ultima, alla determinazione del Governo.

5.1.1.– La norma impugnata violerebbe altresì il principio di leale collaborazione e dell’intesa di cui all’art. 114, primo e secondo comma, Cost., i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., e i principi di «attribuzione, sussidiarietà e differenziazione» di cui agli artt. 118, primo comma, e 120, secondo comma, Cost.

L’intesa prevista dall’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 si tradurrebbe in un intralcio alla gestione regionale delle risorse e delle competenze in materia di trasporto pubblico locale, producendo a cascata una seria compromissione all’esercizio delle funzioni amministrative degli enti locali e delle agenzie regionali di trasporto pubblico. La norma non attuerebbe il principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni, ma introdurrebbe uno strumento di controllo contabile-finanziario diretto alla verifica del trasferimento delle risorse derivanti dall’Accordo sancito in sede di Conferenza unificata l’11 settembre 2014. L’intesa assumerebbe pertanto finalità e modalità inedite, non conformi alla Costituzione, in quanto espressive di un rapporto di gerarchia e non della necessità di evitare i conflitti derivanti dall’inestricabile connessione di competenze regionali e statali, alla quale fa riferimento la giurisprudenza costituzionale in materia (è citata la sentenza n. 251 del 2016). Nel caso specifico, comunque, si dovrebbe escludere anche la sussistenza di tali inestricabili connessioni e comunque sarebbe prevalente la competenza residuale delle regioni in materia di trasporto pubblico locale.

La norma impugnata neppure sarebbe espressione della competenza dello Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica ex art. 117, terzo comma, Cost., in quanto attribuirebbe direttamente al Governo un potere di verifica e sorveglianza sull’intero spettro delle attività amministrative e finanziarie della regione, anche nel caso di insussistenza di uno squilibrio finanziario, apprestando uno strumento sproporzionato rispetto al fine perseguito.

5.1.2.– Ad avviso della ricorrente, l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 violerebbe anche la competenza residuale in materia di trasporto pubblico locale attribuita alle regioni all’art. 117, quarto comma, Cost., in assenza dei presupposti per la chiamata in sussidiarietà ex art. 118 Cost., in quanto la norma non si traduce in una diversa allocazione delle funzioni amministrative delle regioni nella suddetta materia, previo giudizio di inadeguatezza del livello regionale allo svolgimento delle medesime funzioni, ma, come visto, in una sanzione finanziaria a carico delle regioni ai fini dell’attuazione dell’Accordo dell’11 settembre 2014, incidente su plurime materie, così da riverberarsi sull’esercizio delle funzioni amministrative in tema di trasporto pubblico locale svolte dagli stessi enti che il legislatore intenderebbe salvaguardare.

Tale previsione, inoltre, sarebbe lesiva dell’autonomia finanziaria di spesa riconosciuta alle regioni dall’art. 119, primo, secondo e quarto comma, Cost., eccedendo dai limiti del coordinamento della finanza pubblica, come visto, e non prevedendo risorse aggiuntive o interventi speciali, ma producendo l’effetto opposto di ridurre e rendere incerte nel loro ammontare complessivo le risorse destinate al trasporto pubblico locale da un fondo istituito con legge statale.

5.1.3.– Infine, la Regione Lombardia ha proposto istanza di sospensione dell’efficacia della norma impugnata, ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), adducendo che la riduzione sin dal mese di settembre 2017 degli stanziamenti a favore degli enti locali e delle agenzie di trasporto pubblico locale, causata dall’impossibilità di disporre della quota del 20 per cento del fondo, avrebbe comportato la riduzione dei servizi, qualora gli enti gestori non avessero potuto sopperire con risorse proprie o con aumenti tariffari sulla base della normativa regionale vigente, con gravi conseguenze su tutto il territorio, tra cui l’interruzione del servizio, l’isolamento dei territori periferici, possibili licenziamenti del personale addetto, gravi disagi per i pendolari, l’aumento dell’inquinamento ambientale per il maggior uso dei mezzi privati di trasporto e l’incremento della congestione stradale, con ricadute anche sul sistema logistico delle merci, senza considerare i probabili disordini pubblici e i contenziosi promossi dalle aziende di gestione del servizio nei confronti degli enti locali e della stessa Regione.

5.2.– Con atto depositato in cancelleria il 27 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni, anche in questo caso sulla base di difese analoghe a quelle svolte nel giudizio relativo al ricorso iscritto al reg. ric. n. 53 del 2017, riportate al punto 1.5.

6.– Con ricorso notificato il 17-21 agosto 2017, depositato in cancelleria il 28 agosto 2017 e iscritto al n. 61 del reg. ric. 2017, la Regione Piemonte ha impugnato a sua volta l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, per violazione degli artt. 97, 114, primo e secondo comma, 117, terzo e quarto comma, e 119, primo comma, Cost.

6.1.– Dopo avere riportato il resoconto di un punto all’ordine del giorno della riunione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome del 6 luglio 2017, relativo agli effetti della norma impugnata, la ricorrente lamenta che quest’ultima costituirebbe un’indebita intromissione nell’esercizio delle competenze delle regioni in materia di trasporto pubblico locale, di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., e non potrebbe ascriversi ai principi fondamentali di coordinamento della finanzia pubblica, non prescrivendo una riduzione del debito pubblico, bensì introducendo un vero e proprio sistema sanzionatorio.

Ne conseguirebbe anche la violazione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., per il grave pregiudizio arrecato all’erogazione di un servizio fondamentale. Sarebbe previsto, infatti, un procedimento ad hoc per il riconoscimento di risorse finanziarie altrimenti spettanti alle regioni, caratterizzato da termini stringenti solo per le regioni e per la Conferenza unificata ma non per il Presidente del Consiglio dei ministri, con conseguente incertezza dei tempi di trasferimento delle risorse necessarie allo svolgimento del servizio.

6.1.1.– Sussisterebbe altresì il contrasto con l’art. 114, primo e secondo comma, Cost., per violazione del principio di leale collaborazione e dell’intesa, in quanto l’intesa prevista dall’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 avrebbe «fini impeditivi più che collaborativi» tra le amministrazioni interessate. La «certificazione» regionale e la sua «formalizzazione» tramite intesa, invero, si porrebbero al di fuori degli istituti di riferimento, traducendosi in un originale procedimento di tipo sanzionatorio.

6.1.2.– La norma impugnata violerebbe anche l’autonomia finanziaria e di spesa delle regioni di cui all’art. 119, primo comma, Cost., poiché il legislatore statale non si sarebbe limitato a imporre temporanei vincoli alle politiche di bilancio per ragioni di coordinamento finanziario, lasciando alle regioni ampia libertà di allocazione delle risorse tra i vari ambiti e obiettivi di spesa, ma avrebbe escogitato un meccanismo farraginoso e iniquo che di fatto accantonerebbe il 20 per cento delle risorse già in corso d’anno e senza consentire la preventiva possibilità di riprogrammazione, tanto declamata dal precedente art. 27 dello stesso decreto-legge.

6.2.– Con atto depositato in cancelleria il 26 settembre 2017 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza delle questioni, anche in questo caso sulla base di difese analoghe a quelle svolte nel giudizio relativo al ricorso iscritto al reg. ric. n. 53 del 2017, riportate al punto 1.5.

7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato in tutti i giudizi memorie in prossimità dell’udienza.

Con riferimento all’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, segnala che nella seduta del 21 settembre 2017 la Conferenza unificata ha sancito il raggiungimento dell’intesa prevista al comma 1 della disposizione censurata. Eccepisce inoltre (o ribadisce l’eccezione, quanto al ricorso del Veneto) l’inammissibilità delle questioni riferite agli artt. 3 e 97 Cost. per difetto di motivazione sulla ridondanza. Nel resto, le memorie illustrano le difese già svolte.

Con riguardo all’art. 16, commi 1 e 2 (reg. ric. n. 57 del 2017), il resistente osserva che «il mero aggiornamento delle somme già individuate da una disposizione che ha superato il vaglio costituzionale» non potrebbe essere considerato «violativo dell’articolo 119 Cost., spettando con tutta evidenza allo Stato l’individuazione della sede e del momento più opportuno per provvedere alla redistribuzione delle risorse».

Con riferimento all’art. 41-bis (reg. ric. n. 59 del 2017) e all’art. 48, commi 4 e 6, lettera a) (reg. ric. n. 57 del 2017), ribadisce le considerazioni già svolte negli atti di costituzione.

8.– In prossimità dell’udienza hanno presentato memorie anche le Regioni Toscana, Veneto e Lombardia.

8.1.– La Regione Toscana (reg. ric. n. 57 del 2017), con riferimento all’art. 16, commi 1 e 2, del d.l. n. 50 del 2017, replica agli argomenti dedotti dall’Avvocatura nell’atto di costituzione.

Sull’impugnazione dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, la stessa Regione replica all’eccezione di genericità della motivazione, sollevata dall’Avvocatura, deducendo che l’incidenza negativa della norma impugnata sullo svolgimento del trasporto pubblico locale sarebbe in re ipsa, sia per l’impatto sul servizio di una riduzione del finanziamento pari al 20 per cento, sia perché il "blocco” di tale quota dipenderebbe da un fatto (la certificazione formalizzata in Conferenza unificata) non dipendente dal comportamento della singola regione. Nel resto, la ricorrente ribadisce che la norma avrebbe natura puntuale e non costituirebbe perciò principio di coordinamento della finanza pubblica. Osserva inoltre che il sopravvenuto raggiungimento dell’intesa vale solo per il 2017, cosicché il suo interesse all’impugnazione permane, come specificato anche in sede di trasmissione dei dati ai fini della certificazione.

Con riferimento all’art. 48, commi 4 e 6, lettera a), del citato decreto-legge, la Regione Toscana ribadisce e specifica gli argomenti posti a fondamento della impugnazione.

8.2.– La Regione Veneto (reg. ric. n. 59 del 2017), sull’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, ribadisce le deduzioni già svolte sull’irragionevolezza della norma impugnata e replica all’eccezione di carenza di adeguata motivazione sull’effetto lesivo della norma stessa, rilevando che la misura introdotta dal legislatore statale indurrebbe a distrarre risorse dal proprio bilancio regionale per garantire in ogni evenienza l’erogazione del servizio del trasporto pubblico locale mediante misure compensative (è citato l’art. 14 della legge della Regione Veneto 29 dicembre 2017, n. 45, recante «Collegato alla legge di stabilità regionale 2018»). Osserva altresì che le considerazioni dell’Avvocatura in ordine al raggiungimento dell’intesa sarebbero inconferenti, considerando il carattere stabile della previsione sanzionatoria, i cui effetti non si esauriscono nel corrente anno, ma opereranno anche per gli anni a venire, fino all’abrogazione della norma o al suo annullamento da parte della Corte costituzionale.

Con riferimento all’art. 41-bis, la Regione Veneto afferma che le novità introdotte dal d.l. n. 148 del 2017 non avrebbero modificato il contenuto sostanziale della disposizione impugnata, limitandosi esse ad estendere il suo oggetto agli interventi relativi al dissesto idrogeologico; dunque, la questione andrebbe trasferita sulla nuova disposizione. La Regione poi ribadisce gli argomenti già svolti nel ricorso e replica alle deduzioni contenute nell’atto di costituzione dell’Avvocatura.

8.3.– La Regione Lombardia (reg. ric. n. 60 del 2017) illustra i passaggi che hanno condotto al raggiungimento dell’intesa per il 2017 in sede di Conferenza unificata e si sofferma sulle difficoltà che avrebbero contrassegnato l’iniziale applicazione dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 e sugli effetti distorsivi da essa derivanti. Si sarebbero infatti prodotti significativi ritardi nell’erogazione delle risorse ai gestori del trasporto pubblico locale nel territorio regionale. Osserva altresì che, essendo solo alcune le regioni inadempienti, la norma impugnata si confermerebbe irragionevole e non corrispondente all’obiettivo prefissato nel subordinare l’erogazione della quota del 20 per cento del fondo alla certificazione da formalizzare con intesa, sicché sarebbe violato il principio di proporzionalità e sarebbero penalizzate le regioni che hanno adempiuto all’Accordo dell’11 settembre 2014. Inoltre, la distonia dell’art. 39 con l’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017 emergerebbe anche dalle modalità di raggiungimento dell’intesa, con la quale si sarebbe approdati a una soluzione «pilatesca e compromissoria». Si sarebbe infatti inteso che il dovere di certificazione venga adempiuto con il semplice monitoraggio delle risorse erogate per il 2016, mentre la norma sembra riferirsi all’anno in corso, ovvero al 2017. La ricorrente insiste, infine, nell’istanza di sospensione, lamentando l’incertezza sull’ammontare e sulla data di erogazione delle risorse destinate al trasporto pubblico locale, derivante dall’applicazione della disposizione impugnata.

Considerato in diritto

1.– Con separati ricorsi, iscritti rispettivamente ai numeri 53 e da 57 a 61 del registro ricorsi 2017, le Regioni Liguria, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Piemonte hanno impugnato l’art. 39 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96. La Regione Toscana ha impugnato, altresì, gli artt. 16, commi 1 e 2, e 48, commi 4 e 6, lettera a), e la Regione Veneto l’art. 41-bis dello stesso decreto-legge.

I giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alla medesima norma, censurata in riferimento a parametri in larga parte coincidenti, e, nel resto, ad altre disposizioni dello stesso d.l. n. 50 del 2017.

2.– Si esaminano innanzi tutto le questioni concernenti l’art. 16, commi 1 e 2, impugnato dalla sola Regione Toscana.

Il comma 1 dell’art. 16 modifica l’art. 1, comma 418, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», che prevede una riduzione della spesa corrente delle province e delle città metropolitane – di 1.000 milioni di euro per l’anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l’anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a decorrere dall’anno 2017 – e un corrispondente versamento da parte di ciascuna provincia e città metropolitana ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato. L’art. 16, comma 1, dispone che «[…] il terzo periodo [del comma 418] è sostituito dal seguente: "Fermo restando per ciascun ente il versamento relativo all’anno 2015, l’incremento di 900 milioni di euro per l’anno 2016 e l’ulteriore incremento di 900 milioni di euro a decorrere dal 2017 a carico degli enti appartenenti alle regioni a statuto ordinario sono ripartiti per 650 milioni di euro a carico delle province e per 250 milioni di euro a carico delle città metropolitane.”». L’art. 16, comma 2, stabilisce poi che «[p]er gli anni 2017 e seguenti l’ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascuna provincia e città metropolitana deve conseguire e del corrispondente versamento, ai sensi dell’articolo 1, comma 418, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è stabilito negli importi indicati nella tabella 1 allegata al presente decreto».

La Regione, invocando il vincolo di destinazione che risulterebbe dalla sentenza n. 205 del 2016 della Corte costituzionale e dall’art. 1, comma 97, lettera b), della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), censura la disposizione citata, «nella parte in cui non prevede la riassegnazione alle Regioni e agli enti locali, subentrati nell’esercizio delle funzioni provinciali non fondamentali, delle risorse sottratte alle province e città metropolitane, per violazione dell’art. 119, commi 1, 2, 3 e 4, Cost.».

2.1.– La questione è parzialmente fondata, nei termini di seguito indicati.

Il comma 418 della legge n. 190 del 2014 era stato impugnato (insieme al comma 419) dalla Regione Veneto, con due distinti ricorsi che sono stati decisi dalla sentenza n. 205 del 2016 di questa Corte. La Regione contestava, fra l’altro, «il disposto passaggio di risorse dal bilancio degli enti di area vasta a quello statale senza prescrizioni sulla destinazione di tali risorse».

Questa Corte ha dichiarato la questione non fondata, sulla considerazione che, «disponendo il comma 418 che le risorse affluiscano "ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato”, si deve ritenere – e in questi termini la disposizione va correttamente interpretata – che tale allocazione sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di area vasta connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio delle stesse funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della legge n. 56 del 2014)». In questo contesto, risolvendosi la previsione del versamento al bilancio statale «in uno specifico passaggio della vicenda straordinaria di trasferimento delle risorse da detti enti [di area vasta] ai nuovi soggetti ad essi subentranti nelle funzioni riallocate, vicenda la cui gestione deve necessariamente essere affidata allo Stato», la sentenza conclude che «[i] commi 418, 419 e 451 […] non violano l’art. 119, primo, secondo e terzo comma, Cost. nei termini lamentati dalla ricorrente, perché le disposizioni in essi contenute vanno intese nel senso che il versamento delle risorse ad apposito capitolo del bilancio statale (così come l’eventuale recupero delle somme a valere sui tributi di cui al comma 419) è specificamente destinato al finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale misura si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di tali funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti» (sentenza n. 205 del 2016, punto 6.2. del Considerato in diritto).

Dopo tale pronuncia, il dovere dello Stato di riassegnare le risorse in questione agli enti subentranti nell’esercizio delle funzioni non fondamentali è già stato fatto valere davanti a questa Corte dalla Regione Lombardia, che ha impugnato l’intera legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019) perché, in contrasto con l’art. 119 della Costituzione, non aveva disposto alcuna riassegnazione delle risorse de quibus a favore delle regioni e degli enti locali subentrati nell’esercizio delle funzioni provinciali non fondamentali. Le questioni sollevate dalla Regione Lombardia sono state dichiarate inammissibili per genericità del petitum e per la natura discrezionale della scelta oggetto dell’intervento additivo richiesto, ma la sentenza con cui sono state decise ribadisce, nella forma di un monito allo Stato, «quanto asserito nella sentenza n. 205 del 2016 con riguardo all’esistenza stessa di tale dovere [di riassegnazione], alla stregua dell’art. 1, comma 97, lettera b), della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni) e, ancor prima, della logica stessa del processo di riordino delle funzioni provinciali non fondamentali», aggiungendo che «la realizzazione di tale riforma non deve comportare una compromissione delle funzioni interessate: nel "processo riorganizzativo generale delle Province […] l’esercizio delle funzioni a suo tempo conferite − così come obiettivamente configurato dalla legislazione vigente − deve essere correttamente attuato, indipendentemente dal soggetto che ne è temporalmente titolare e comporta, soprattutto in un momento di transizione caratterizzato da plurime criticità, che il suo svolgimento non sia negativamente influenzato dalla complessità di tale processo di passaggio tra diversi modelli di gestione” (sentenza n. 10 del 2016, richiamata dalla già citata sentenza n. 205 del 2016)» (sentenza n. 84 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto).

2.2.– A differenza del ricorso allora proposto dalla Regione Lombardia, il ricorso della Regione Toscana indica in primo luogo l’ente che dovrebbe essere beneficiario della riassegnazione delle risorse. In esso si precisa infatti che la Regione stessa è subentrata nell’esercizio di diverse funzioni spettanti alle province e alla Città metropolitana di Firenze, in virtù di quanto disposto dalla legge della Regione Toscana 3 marzo 2015, n. 22, recante «Riordino delle funzioni provinciali e attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni). Modifiche alle leggi regionali 32/2002, 67/2003, 41/2005, 68/2011, 65/2014», e si indicano specificamente le funzioni trasferite alla Regione.

La Regione ha inoltre depositato in giudizio la nota del Presidente della Regione 30 marzo 2017, n. prot. 168867/A.130, con la quale si chiede allo Stato di trasferire al bilancio regionale le somme corrispondenti alle riduzioni di spesa di cui all’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014 (nella nota si indicano le riduzioni subite dalle singole province toscane in relazione agli anni 2015 e 2016).

In secondo luogo, oggetto dell’impugnazione della Regione Toscana non è l’intera legge di bilancio del 2017 ma due specifiche disposizioni, delle quali una modifica proprio l’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014 (art. 16, comma 1, del d.l. n. 50 del 2017) e l’altra determina l’ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascuna provincia e città metropolitana deve conseguire e del corrispondente versamento, con riferimento agli anni 2017 e seguenti (art. 16, comma 2, del citato decreto).

Il petitum risulta dunque sufficientemente definito e non interferisce con la discrezionalità del legislatore, giacché la Regione non chiede a questa Corte di intervenire sulla legge di bilancio aggiungendo una nuova previsione, estranea a quelle ivi contenute, né di disporre direttamente il trasferimento a suo favore di un certo quantum di risorse, ma chiede di dichiarare l’illegittimità della specifica disposizione impugnata nella parte in cui, modificando l’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014, non sancisce il dovere statale di riassegnare agli enti subentrati nell’esercizio delle funzioni non fondamentali le risorse di cui allo stesso comma 418 .

2.3.– Tale richiesta, come detto, è parzialmente fondata.

Le citate sentenze n. 205 del 2016 e n. 84 del 2018 non hanno affermato il dovere dello Stato di assegnare agli enti subentranti nell’esercizio delle funzioni non fondamentali delle province tutte le risorse di cui all’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014, ma solo quelle connesse allo svolgimento delle funzioni stesse. Come già sottolineato nella sentenza n. 205 del 2016, la riduzione della spesa corrente disposta dal comma 418 è collegata – oltre che al riordino delle funzioni non fondamentali e al conseguente dimezzamento dell’organico delle province, stabilito dall’art. 1, comma 421, della legge n. 190 del 2014 – anche ad altri fattori, fra i quali in particolare la gratuità degli incarichi politici provinciali e il miglioramento dell’efficienza della spesa provinciale relativa alle funzioni fondamentali, come risulta dall’ultimo periodo del comma 418, ove è previsto che l’ammontare della riduzione per ciascun ente è determinato «tenendo conto anche della differenza tra spesa storica e fabbisogni standard».

La questione è dunque fondata solo con riferimento alle risorse connesse allo svolgimento delle funzioni non fondamentali delle province, fermo restando che resta riservata alla legislazione statale la quantificazione delle risorse da trasferire, tenuto conto del costo delle funzioni stesse e delle complessive esigenze di bilancio. La necessità che il riordino di tali funzioni sia accompagnato dal passaggio delle relative risorse – oltre a risultare da diverse disposizioni della legge n. 56 del 2014 (art. 1, commi 92, 96 e 97, lettera b) e dagli atti attuativi di essa (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 settembre 2014, recante «Criteri per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse con l’esercizio delle funzioni provinciali», e «Accordo ai sensi del comma 91 dell’art. 1 della Legge n. 56/2014 tra Governo e Regioni, sancito in Conferenza unificata, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, concernente l’individuazione delle funzioni di cui al comma 89 dello stesso articolo», dell’11 settembre 2014: punti 14, 15 e 16) – deriva dall’art. 119 Cost. Nel momento in cui lo Stato avvia un processo di riordino delle funzioni non fondamentali delle province, alle quali erano state assegnate risorse per svolgerle, in attuazione dell’art. 119 Cost., questa stessa norma costituzionale impedisce che lo Stato si appropri di quelle risorse, costringendo gli enti subentranti (regioni o enti locali) a rinvenire i fondi necessari nell’ambito del proprio bilancio, adeguato alle funzioni preesistenti. L’omissione del legislatore statale lede l’autonomia di spesa degli enti in questione (art. 119, primo comma, Cost.), perché la necessità di trovare risorse per le nuove funzioni comprime inevitabilmente le scelte di spesa relative alle funzioni preesistenti, e si pone altresì in contrasto con il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse, ricavabile dall’art. 119, quarto comma, Cost. (sentenze n. 10 del 2016, n. 188 del 2015, n. 17 del 2015, n. 22 del 2012, n. 206 del 2001, n. 138 del 1999, n. 381 del 1990), perché all’assegnazione delle funzioni non corrisponde l’attribuzione delle relative risorse, nonostante quanto richiesto dalla legge n. 56 del 2014 e dalla sentenza n. 205 del 2016 di questa Corte. La necessità del finanziamento degli enti destinatari delle funzioni amministrative, del resto, si fonda sulla «logica stessa del processo di riordino delle funzioni» (sentenza n. 84 del 2018), come è confermato dai diversi atti legislativi che hanno disciplinato conferimenti di funzioni: si vedano gli artt. 3, comma 1, lettera b), e 7, comma 1, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa); gli artt. 3, comma 3, e 7 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59); l’art. 149, comma 12, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali); l’art. 2, comma 5, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); gli artt. 2, comma 2, lettera ll), 8, comma 1, lettera i), e 10 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione); l’art. 19, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica).

Poiché l’interpretazione accolta dalla sentenza n. 205 del 2016 di questa Corte non ha trovato riscontro nel successivo operato dello Stato, si rende ora necessario sancire il dovere statale di riassegnazione delle risorse con una pronuncia di accoglimento che dichiari illegittimo l’art. 16, comma 1, nella parte in cui – modificando l’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014 – non prevede la riassegnazione alle regioni e agli enti locali, subentrati nelle diverse regioni nell’esercizio delle funzioni provinciali non fondamentali, delle risorse acquisite dallo Stato per effetto dell’art. 1, commi 418 e 419, della legge n. 190 del 2014 e connesse alle stesse funzioni non fondamentali. Resta riservata al legislatore statale l’individuazione, nel contesto delle valutazioni attinenti alle scelte generali di bilancio, del quantum da trasferire, con l’onere tuttavia di rendere trasparenti, in sede di approvazione dell’atto legislativo di riassegnazione delle risorse, i criteri seguiti per la quantificazione (sul rilievo dell’istruttoria tecnica ai fini del controllo di costituzionalità sentenze n. 20 del 2018, n. 124 del 2017, n. 133 del 2016, n. 70 del 2015).

In relazione all’art. 16, comma 2, che non modifica l’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014 ma si limita a fissare l’ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascuna provincia e città metropolitana deve conseguire e del corrispondente versamento, per gli anni 2017 e seguenti, la questione va dichiarata non fondata.

3.– Tutte le Regioni ricorrenti impugnano l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, recante una disposizione che incide sul riparto del fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto ordinario.

Tale fondo è istituito dall’art. 16-bis, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, e è alimentato da una compartecipazione al gettito derivante dalle accise sul gasolio per autotrazione e sulla benzina. Il comma 3 dello stesso art. 16-bis prevede che i criteri e le modalità di riparto delle risorse del fondo fra le regioni a statuto ordinario sono definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata. I criteri di riparto sono diretti a incentivare le regioni e gli enti locali a razionalizzare e favorire un incremento dell’efficienza nella programmazione e gestione dei servizi relativi al trasporto pubblico locale, mediante: un’offerta di servizio più idonea, più efficiente ed economica per il soddisfacimento della domanda di trasporto pubblico; il progressivo incremento del rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi; la progressiva riduzione dei servizi offerti in eccesso in relazione alla domanda e un corrispondente incremento qualitativo e quantitativo dei servizi a domanda elevata; la definizione di livelli occupazionali appropriati; la predisposizione di strumenti di monitoraggio e di verifica. Il successivo comma 5 prevede che la ripartizione è operata con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare, sentita la Conferenza unificata, entro il 30 giugno di ciascun anno.

I criteri di riparto del fondo sono stati poi modificati dall’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017. Sono qui di particolare rilievo la lettera e) del comma 2 e il comma 4 dell’art. 27, che così recitano: «in ogni caso, al fine di garantire una ragionevole certezza delle risorse finanziarie disponibili, il riparto derivante dall’attuazione delle lettere da a) a d) non può determinare per ciascuna regione una riduzione annua maggiore del cinque per cento rispetto alla quota attribuita nell’anno precedente; ove l’importo complessivo del Fondo nell’anno di riferimento sia inferiore a quello dell’anno precedente, tale limite è rideterminato in misura proporzionale alla riduzione del Fondo medesimo. Nel primo quinquennio di applicazione il riparto non può determinare per ciascuna regione, una riduzione annua maggiore del 10 per cento rispetto alle risorse trasferite nel 2015; ove l’importo complessivo del Fondo nell’anno di riferimento sia inferiore a quello del 2015, tale limite è rideterminato in misura proporzionale alla riduzione del Fondo medesimo» (comma 2, lettera e); «[n]elle more dell’emanazione del decreto di cui all’alinea del comma 2 [id est: il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, adottato di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata, che deve ripartire le risorse del fondo entro il 30 giugno di ogni anno], […] è ripartito, entro il 15 gennaio di ciascun anno, tra le regioni, a titolo di anticipazione, l’ottanta per cento dello stanziamento del Fondo. L’anticipazione è effettuata sulla base delle percentuali attribuite a ciascuna regione l’anno precedente. Le risorse erogate a titolo di anticipazione sono oggetto di integrazione, di saldo o di compensazione con gli anni successivi. La relativa erogazione alle regioni a statuto ordinario è disposta con cadenza mensile» (comma 4).

L’impugnato art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 si inserisce in questo quadro disponendo, al comma 1, che per il quadriennio 2017-2020, ai fini di coordinamento della finanza pubblica, una quota del 20 per cento del fondo è riconosciuta alla regione a condizione che essa entro il 30 giugno di ciascun anno abbia certificato – con successiva formalizzazione mediante intesa in sede di Conferenza unificata da raggiungere entro il l0 luglio di ciascun anno – l’avvenuta erogazione a ciascuna provincia e città metropolitana del rispettivo territorio delle risorse per l’esercizio delle funzioni ad esse conferite, in conformità alla legge regionale di attuazione dell’Accordo sancito tra Governo e regioni in sede di Conferenza unificata dell’11 settembre 2014.

Si tratta dell’Accordo intervenuto ai sensi dell’art. l, comma 91, della legge n. 56 del 2014, con cui si è delineato il quadro attuativo del riordino delle funzioni delle province e si è stabilito che le regioni avrebbero proceduto all’approvazione delle leggi contenenti i criteri e le modalità di trasferimento delle funzioni non fondamentali esercitate dalle province, individuando altresì l’ente cui trasferire le funzioni regionali che erano state delegate alle province e impegnandosi inoltre a garantire il criterio di sussidiarietà e adeguatezza e a curare le modalità di trasferimento del personale e la gestione delle risorse.

Con l’inizio del 2016, tutte le regioni a statuto ordinario hanno adottato la normativa sul riordino delle funzioni delle province in attuazione della legge n. 56 del 2014 e dell’accordo Stato-regioni dell’11 settembre 2014.

La disposizione, pertanto, subordina per un quadriennio il riconoscimento integrale alle regioni delle quote del fondo nazionale trasporti alla condizione che esse abbiano erogato le risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni conferite alle province e alle città metropolitane a seguito del riordino. L’avveramento della condizione è certificato ogni anno da ciascuna regione e formalizzato da un’intesa in sede di Conferenza unificata, entro termini prefissati. In caso di mancata intesa, il riconoscimento della quota "bloccata” è deliberato dal Consiglio dei ministri.

3.1.– L’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 è censurato con riferimento a plurimi parametri.

Un gruppo di censure attiene alla violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, Cost. La disposizione impugnata, prevedendo la decurtazione puntuale di una voce del bilancio regionale dedicata al trasporto pubblico locale senza garanzia di transitorietà, non rispetterebbe le condizioni che legittimano lo Stato a dettare norme di principio in materia di coordinamento della finanza pubblica. Essa attribuirebbe inoltre direttamente al Governo un potere di verifica e sorveglianza sull’intero spettro delle attività amministrative e finanziarie della regione, anche in assenza di uno squilibrio finanziario, apprestando così uno strumento sproporzionato rispetto al fine perseguito. Ne deriverebbe il contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. e l’invasione della competenza esclusiva residuale in materia di trasporto pubblico locale attribuita alle regioni dall’art. 117, quarto comma, Cost.

Sarebbe altresì violata l’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria delle regioni in materia di trasporto pubblico locale, nonché in generale la loro autonomia politica, in quanto esse si vedrebbero private, in applicazione di un meccanismo sanzionatorio incongruo e ingiusto, della possibilità di perseguire i fini di interesse pubblico affidati alle loro cure e di orientare liberamente le proprie scelte politiche (sono variamente evocati gli artt. 114, 118 e 119 Cost.).

Lo specifico contrasto con l’art. 119 Cost. emergerebbe inoltre dai seguenti rilievi.

In primo luogo, la disposizione impugnata produrrebbe l’effetto di ridurre e rendere incerte nel loro ammontare complessivo le risorse destinate al trasporto pubblico locale, eccedendo dai limiti del coordinamento della finanza pubblica e non prevedendo risorse aggiuntive o interventi speciali.

Inoltre, essa "taglierebbe” il finanziamento del trasporto pubblico locale in modo arbitrario, senza consentire la possibilità di riprogrammare e gestire il servizio e senza assicurare la previa disponibilità delle risorse destinate al finanziamento delle funzioni riassegnate ad altri enti, in attuazione della legge n. 56 del 2014 e della sentenza n. 205 del 2016, con cui questa Corte ha ritenuto che il versamento allo Stato delle risorse sottratte a province e città metropolitane per effetto dell’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014 «[…] è specificamente destinato al finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale misura si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di tali funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti».

La disposizione violerebbe poi il principio di leale collaborazione, per la natura e le finalità dell’intesa prevista al comma 1 della norma impugnata, e per la previsione della deliberazione del Consiglio dei ministri in mancanza dell’intesa (alcune ricorrenti evocano fra gli altri gli artt. 114, primo e secondo comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, Cost.).

Il procedimento congegnato dal legislatore comporterebbe un intralcio alla gestione regionale delle risorse e lederebbe le competenze regionali in materia di trasporto pubblico locale, con un meccanismo sostitutivo non conforme all’art. 8 della legge n. 131 del 2003, giacché la deliberazione del Consiglio dei ministri non sarebbe assunta in contraddittorio con il Presidente della Regione interessata e sulla base di criteri predeterminati. Sarebbero violati anche i principi di «attribuzione, sussidiarietà e differenziazione», e l’intesa, traducendosi in uno strumento di controllo contabile-finanziario diretto alla verifica del trasferimento delle risorse derivanti dall’Accordo sancito in sede di Conferenza unificata tra Stato e regioni l’11 settembre 2014, assumerebbe inedite finalità e modalità non conformi alla Costituzione, espressive di un rapporto di gerarchia anziché dell’obiettivo di evitare i conflitti causati dall’inestricabile connessione di competenze regionali e statali.

Un ulteriore gruppo di censure attiene alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., per lesione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità (declinati da alcune ricorrenti anche sotto i profili della contraddittorietà logica della norma e della tutela dell’affidamento) nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa.

La previsione impugnata perseguirebbe irragionevoli e sproporzionate finalità di tipo sanzionatorio nei confronti delle regioni, sottraendo risorse statali alla funzione fondamentale del trasporto pubblico locale e introducendo un sistema coercitivo insoddisfacente e incongruo, operante in danno degli interessi della collettività. Essa contrasterebbe illogicamente con le previsioni contenute nell’art. 27 dello stesso d.l. n. 50 del 2017, che assicurano alle regioni un’anticipazione pari all’80 per cento del fondo in questione, e con la necessità di assicurare livelli di omogeneità nella prestazione del servizio su tutto il territorio nazionale, disciplinando un procedimento con termini stringenti per la certificazione regionale e per il raggiungimento dell’intesa ma non per il riconoscimento delle risorse da parte del Governo in mancanza dell’intesa. Ciò differenzierebbe il finanziamento del trasporto pubblico locale tra regione e regione, con effetti sulla provvista destinata ai contratti di servizio in corso e con l’esposizione delle pubbliche amministrazioni al rischio di contenziosi. Il procedimento di formalizzazione con intesa, farraginoso e inutilmente gravoso, porterebbe a un differimento del termine per la certificazione regionale, modificandone la natura da atto dichiarativo ad atto di volizione, e, in mancanza di intesa, affiderebbe la decisione, di natura tecnico-finanziaria, di erogazione della quota a un organo politico quale il Consiglio dei ministri. Le regioni sarebbero inoltre costrette a operare già dal 2017 un accantonamento di bilancio pari al 20 per cento delle risorse destinate al trasporto pubblico locale, sicché l’obiettivo di assicurare l’erogazione agli enti locali delle risorse necessarie per le funzioni a essi conferite sarebbe perseguito mettendo a rischio lo stesso svolgimento di una di tali funzioni, e cioè il trasporto pubblico locale. Infine, le regioni sarebbero irragionevolmente tenute a trasferire entro il 30 giugno di ogni anno agli enti locali tutte le risorse per lo svolgimento delle funzioni conferite, compresa la quota maggioritaria afferente al trasporto pubblico locale, mentre lo Stato potrebbe destinare alle regioni stesse solo l’80 per cento delle risorse riservate a quest’ultima funzione, avvalendosi di una misura che riduce risorse statali necessarie per erogare gli stessi finanziamenti oggetto della certificazione regionale.

3.2.– Prima di esaminare le singole questioni, va escluso che sulla definizione del presente giudizio possa incidere il sopravvenuto raggiungimento dell’intesa prevista dal comma 1 della disposizione impugnata, sancito dalla Conferenza unificata nella seduta del 21 settembre 2017, e riferito dalle parti nelle memorie illustrative.

La sopravvenienza dell’intesa non fa venire meno l’interesse delle ricorrenti all’impugnazione, sia perché il suo raggiungimento non elimina il vulnus alle prerogative regionali lamentato nei ricorsi delle regioni, sia perché l’intesa raggiunta vale solo per il 2017, e non per gli anni successivi fino al 2020, per i quali dovrà essere reiterata anno per anno previa certificazione delle regioni, come condizione per il riparto integrale del fondo.

3.3.– Le questioni che denunciano la violazione delle competenze e dell’autonomia regionali (artt. 114, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost.) non sono fondate.

L’incipit dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 ne dichiara le finalità di «[…] coordinamento della finanza pubblica», evocando in tal modo una competenza statale concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’autoqualificazione compiuta dal legislatore «[…] non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza», sicché «[p]er individuare la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censura, non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all’oggetto e alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli effetti marginali e riflessi, in guisa da identificare correttamente anche l’interesse tutelato (ex plurimis: sentenze n. 207 del 2010; n. 1 del 2008; n. 169 del 2007; n. 447 del 2006; n. 406 e n. 29 del 1995)» (sentenza n. 203 del 2012).

Nondimeno, nel caso in esame la natura della norma appare conforme alla qualificazione che ne dà il testo legislativo.

Il fatto che l’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 non imponga limiti alla spesa complessiva delle regioni, fissando obiettivi di suo riequilibrio e contenimento, non osta alla propria riconducibilità ai principi di «coordinamento della finanza pubblica». Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, infatti, tale materia «[…] non può essere limitata alle norme aventi lo scopo di limitare la spesa, ma comprende anche quelle aventi la funzione di "riorientare” la spesa pubblica […], per una complessiva maggiore efficienza del sistema» (sentenza n. 272 del 2015).

Scopo della disposizione impugnata è assicurare che a province e città metropolitane siano effettivamente erogate le risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni non fondamentali ad esse conferite dalle regioni in attuazione dell’Accordo dell’11 settembre 2014 nel quadro del riordino di tali funzioni disposto dalla legge n. 56 del 2014. Questo scopo è perseguito mediante la predisposizione di un meccanismo incentivante che subordina il riconoscimento di una quota del fondo per il trasporto pubblico locale all’erogazione delle risorse da parte delle regioni e, in questa logica, alla previsione può essere riconosciuta la natura di principio di coordinamento della finanza pubblica, rientrando in essa sia la fissazione delle modalità di verifica dei trasferimenti finanziari mediante le certificazioni e le conseguenti intese annuali entro termini prefissati, sia la subordinazione a tale verifica del riparto integrale del fondo, con la conseguenza di porre così in essere una penalizzazione per le regioni inadempienti.

La circostanza che la norma possa costituire una prescrizione specifica rivolta alle regioni non esclude, di per sé, il suo carattere di norma di principio. Come questa Corte ha ripetutamente affermato, «la stessa nozione di principio fondamentale non può essere cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, ma deve tenere conto del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l’accertamento va compiuto e della peculiarità della materia» (sentenza n. 16 del 2010). Pertanto, possono essere ricondotte nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica anche norme puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali (sentenze n. 38 del 2016, n. 153 del 2015 e n. 237 del 2009), giacché «il finalismo» insito in tale genere di disposizioni esclude che possa invocarsi «la logica della norma di dettaglio» (sentenza n. 205 del 2013). In linea con questa ricostruzione finalistica del coordinamento, è stato altresì affermato che «la specificità delle prescrizioni, di per sé, neppure può escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione (sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007)» (sentenza n. 16 del 2010).

Anche per i meccanismi specifici individuati dalla norma impugnata è ravvisabile un rapporto di coessenzialità con il principio di coordinamento perseguito, giacché, una volta assunto dal legislatore l’obiettivo generale di assicurare, mediante una misura a un tempo incentivante e sanzionatoria nei confronti delle regioni, i trasferimenti delle risorse per le funzioni conferite dalle regioni stesse alle province e alle città metropolitane, la specificazione puntuale della misura destinata allo scopo appare mezzo necessario al suo raggiungimento (in senso analogo, sentenza n. 38 del 2016).

A sua volta, la transitorietà della misura, quale ulteriore condizione legittimante l’esercizio della competenza statale in materia, risulta soddisfatta dall’espressa limitazione dell’efficacia della previsione al quadriennio 2017-2020.

La disposizione impugnata, incidendo sulla ripartizione fra le regioni del fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri di tale servizio, ha indubbia attinenza anche con il trasporto pubblico locale, materia che, come questa Corte ha reiteratamente affermato, rientra nell’ambito delle competenze residuali delle regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenze n. 211 del 2016, n. 30 del 2016, n. 452 del 2007, n. 80 del 2006 e n. 222 del 2005).

Per costante giurisprudenza costituzionale, tuttavia, la funzione statale di coordinamento della finanza pubblica prevale su tutte le competenze regionali, anche esclusive (ex plurimis, sentenze n. 65 del 2016, n. 250 del 2015 e n. 151 del 2012), sicché la qualificazione dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 come principio statale di coordinamento della finanza pubblica comporta la prevalenza di questo titolo di competenza sulla invocata potestà legislativa regionale in materia di trasporto pubblico locale.

Alle stesse conclusioni di prevalenza della competenza statale in materia di coordinamento finanziario si deve pervenire anche per quel che riguarda la lamentata incidenza della disposizione in esame sull’autonomia amministrativa e finanziaria delle regioni ex artt. 118 e 119 Cost.

Con specifico riguardo poi al censurato pregiudizio all’esercizio delle funzioni in materia di trasporto pubblico locale, ricondotto alla violazione dell’art. 119, quarto comma, Cost., si deve preliminarmente osservare che i ricorsi, contrariamente a quanto assume l’Avvocatura, sono assistiti da sufficiente motivazione sulla lesività della norma impugnata, essendo in essi adeguatamente prospettata l’incidenza della misura introdotta dal legislatore statale sulle risorse destinate a tali funzioni nonché sulla programmazione e gestione del relativo servizio.

Tuttavia nel merito le questioni sono infondate, non avendo offerto le ricorrenti adeguata prova dell’impossibilità di svolgere le funzioni in esame per effetto della disposizione impugnata, com’è invece richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze 239 e n. 89 del 2015, n. 26 e n. 23 del 2014). Neppure i dati finanziari relativi al 2017 forniti da alcune Regioni sono idonei a dimostrare l’assunto, e ciò senza considerare che il sopravvenuto raggiungimento dell’intesa e il conseguente "sblocco” della quota residua del fondo statale per il 2017 hanno neutralizzato l’impatto sui rispettivi bilanci lamentato nell’immediatezza dalle ricorrenti.

3.4.– Nemmeno le questioni che denunciano la violazione del principio di leale collaborazione (artt. 114, primo e secondo comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, Cost.) sono fondate.

Quanto alle censure relative a finalità e modalità dell’intesa prevista al comma 1, si deve osservare che la verifica delle risorse erogate dalle regioni alle province e alle città metropolitane in attuazione dell’Accordo sancito in Conferenza unificata l’11 settembre 2014 non costituisce un obiettivo estraneo alla sede concertativa. Il principio di leale collaborazione consente infatti, per la sua elasticità, di avere riguardo alle peculiarità delle singole situazioni, sicché il confronto tra Stato e regioni è suscettibile di essere organizzato in modi diversi per forme e intensità (sentenze n. 192 del 2017, n. 83 del 2016, n. 50 del 2005 e n. 308 del 2003). Una volta fissato dal legislatore statale l’obiettivo di assicurare il trasferimento delle risorse per le funzioni non fondamentali conferite a province e città metropolitane dalle leggi regionali emanate in attuazione del citato Accordo nel quadro del riordino di cui alla legge n. 56 del 2014, l’intesa in sede di Conferenza unificata è strumento idoneo – in applicazione di una scelta discrezionale dello stesso legislatore – al fine di accertare con metodo condiviso l’effettività delle erogazioni sulla base di dati e informazioni forniti dalle regioni e nel confronto di tutti gli enti interessati.

La natura di accertamento propria dell’intesa qui esaminata non sembra inoltre modificare le conclusioni di compatibilità del meccanismo con il principio di leale collaborazione, ben potendo la sede concertativa essere dedicata anche ad azioni diverse dalla volizione, come avviene ad esempio quando si recepisce uno stato di fatto o si opera una ricognizione.

Le censure che si appuntano sulla deliberazione del Consiglio dei ministri prevista al comma 2 presuppongono, erroneamente, che la norma impugnata disciplini in parte qua una forma di esercizio del potere sostitutivo dello Stato ex art. 120, secondo comma, Cost. Con la prevista deliberazione il Governo provvede definitivamente sul riparto tra le regioni di risorse statali, come sono quelle che costituiscono il fondo per il trasporto pubblico locale, nel caso in cui manchi l’intesa sulla certificazione regionale di cui al comma 1. Poiché dunque il Governo esercita una funzione sua propria e non si sostituisce alle regioni nelle loro attribuzioni, secondo quanto previsto all’art. 120, secondo comma, Cost., la norma che disciplina il relativo potere non deve necessariamente delineare un procedimento rispettoso dell’art. 8 della legge n. 131 del 2003, che prevede particolari garanzie a tutela del contraddittorio con la regione per l’ipotesi in cui il Governo eserciti il suo potere sostitutivo.

3.5.– Quanto alle questioni promosse con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri ne ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla ridondanza dell’asserita lesione di tali parametri sulle competenze regionali.

L’eccezione non è fondata.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2017, n. 287, n. 251, n. 244, n. 147 e n. 145 del 2016), le regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze fra Stato e regioni solo a due condizioni: che la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite e che le regioni ricorrenti abbiano sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata illegittimità costituzionale sul riparto di competenze, indicando la specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in proposito.

Entrambe le condizioni sono in concreto rispettate.

La Regione Veneto deduce che «l’irragionevolezza della disposizione impugnata appare […] lesiva dell’artt. 3 Cost. oltreché dell’art. 97 Cost., in quanto idonea a pregiudicare in concreto il buon andamento dell’agire amministrativo e il soddisfacimento degli interessi pubblici ad esso sottesi. Lesioni, queste, che ridondano a loro volta in una lesione (la cui gravità è già stata sottolineata) delle competenze regionali nella materia del trasporto pubblico locale, ascrivibile alla potestà legislativa regionale residuale ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost. (v. ex multis, sentenza n. 273/2013, 42/2008, 452/2007)». Il ricorso motiva sul punto, argomentando diffusamente sulle ragioni della lesione.

La ricorrente dà dunque conto della ridondanza sulle sue attribuzioni della lamentata violazione dei parametri non riguardanti la competenza regionale, con l’indicazione delle attribuzioni costituzionali in materia di trasporto pubblico locale ex art. 117, quarto comma, Cost., che ne sarebbero potenzialmente lese. Come visto, infatti, la disciplina statale impugnata, pur trovando il proprio titolo di legittimazione nella prevalenza della competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, potrebbe interferire con la citata materia regionale.

Analoghe conclusioni valgono anche per gli altri ricorsi.

La Regione Campania deduce che la violazione degli artt. 3 e 97 Cost. «[…] ridonda anche in termini di contrasto con la disposizione di cui all’art. 119, comma 4 della Costituzione», lamentando tra l’altro «[…] le interferenze nell’esercizio delle funzioni regionali connesse all’erogazione di un servizio fondamentale, quale quello dei trasporti». Il ricorso argomenta sinteticamente circa i riflessi pregiudizievoli della violazione dei suddetti parametri «[…] sulla gestione e sulla erogazione dei servizi di trasporto pubblico locale la cui competenza è posta in capo alle Regioni». È dunque prospettata e sufficientemente motivata la lesione indiretta dell’autonomia finanziaria regionale ex art. 119 Cost., oltre che della competenza residuale in materia di trasporto pubblico locale, pur non essendo espressamente indicato l’art. 117, quarto comma, Cost.

La Liguria, la Lombardia e il Piemonte censurano la norma perché, dettando disposizioni puntuali, invaderebbe la sfera di competenza regionale residuale in materia di trasporto pubblico locale, e sostengono in definitiva che tale invasione si rivelerebbe anche irragionevole e lesiva del buon andamento dell’amministrazione. Argomenti sostanzialmente analoghi sono spesi dalla Toscana, che lamenta la sola violazione dell’art. 97 Cost.

Le questioni superano quindi il vaglio dell’ammissibilità.

3.5.1.– Passando al merito, si rammenta innanzitutto lo scopo della norma impugnata, ossia assicurare a province e città metropolitane le risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni a esse conferite dalle regioni, in attuazione dell’Accordo dell’11 settembre 2014, attraverso un meccanismo che, subordinando il «riconoscimento» di una quota del fondo per il trasporto pubblico locale alla verifica dell’erogazione delle risorse, introduce una penalizzazione per le regioni inadempienti, le quali subiscono dal risultato negativo della verifica il mancato «riconoscimento» (e dunque la decurtazione) della quota del fondo.

Censurandone la ragionevolezza, le ricorrenti lamentano che la disposizione, laddove nega il «riconoscimento» del 20 per cento del fondo alla regione che non abbia trasferito le risorse a province e a città metropolitane, può colpire regioni che, nell’anno di riferimento, non sono state in grado di provvedere per cause legate, anche solo in parte, a fattori a esse non imputabili. Tale circostanza potrebbe dipendere ad esempio dal mancato trasferimento finanziario alle regioni da parte di altri soggetti, e segnatamente dello Stato e, in tale caso, potrebbe assumere specifico rilievo il profilo (messo in evidenza da Toscana, Veneto e, tramite il richiamo a un documento della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dal Piemonte) concernente le risorse versate allo Stato da province e città metropolitane ai sensi dell’art. 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014, ovvero recuperate sulla base del meccanismo previsto dal comma 419 della stessa disposizione, e non riassegnate dallo Stato agli enti subentranti nell’esercizio delle funzioni non fondamentali, di cui si è trattato in precedenza.

La mancata considerazione delle cause dell’inadempimento renderebbe ipotetica e, in definitiva, aleatoria l’idoneità della norma a conseguire la sua finalità, dal momento che nei casi in cui l’omissione non fosse superabile con un’attività rientrante nelle scelte di azione e di organizzazione proprie dell’ente regionale, la minaccia del blocco della quota del fondo per il trasporto pubblico locale non potrebbe sortire l’effetto auspicato.

Le censure muovono tuttavia da un erroneo presupposto interpretativo: la norma impugnata non fa automaticamente discendere la penalizzazione in essa prevista dalla verifica dei mancati trasferimenti a province e città metropolitane. Al contrario, si deve ritenere che, correttamente intesa, essa subordina l’accertamento dell’eventuale non imputabilità dell’inadempimento alla regione a un’adeguata valutazione da compiere o nella sede concertativa prevista al comma 1 dell’art. 39 al fine del «riconoscimento» della quota del fondo o, nel caso di mancata intesa, in occasione della deliberazione del Consiglio dei ministri di cui al comma 2. La non imputabilità alla regione della mancata erogazione – ipotesi che potrebbe verificarsi in concreto, come visto, nell’ipotesi dell’omessa riassegnazione delle risorse versate allo Stato da province e città metropolitane – accertata in quelle sedi comporterà il riconoscimento della quota in favore della regione interessata. A fortiori ciò avverrà anche nei confronti di quelle regioni che, pur avendo certificato le erogazioni, non abbiano potuto ottenere il riconoscimento della quota a causa del mancato raggiungimento dell’intesa dovuto all’inadempimento di altre regioni.

Così correttamente intesa, dunque, la disposizione in esame non presenta i profili di irragionevolezza e non proporzionalità individuati dalle ricorrenti nella mancata considerazione, da parte del legislatore, delle ragioni dell’omessa erogazione e negli effetti ritenuti distorsivi della previsione dell’intesa.

3.5.2.– La misura non è nemmeno irragionevolmente destinata, come lamentano alcune ricorrenti, a incidere su risorse statali necessarie per erogare gli stessi finanziamenti oggetto della certificazione regionale. La norma che la prevede è infatti interpretabile nel senso – seguito in sede di intesa per il 2017, raggiunta sui trasferimenti a province e città metropolitane relativi al 2016 – che il blocco del 20 per cento del fondo riguarda l’annualità successiva a quella cui si riferisce la certificazione regionale dei trasferimenti finanziari a province e città metropolitane.

Neppure è fondata la tesi di talune ricorrenti secondo cui gli effetti della norma impugnata ricadrebbero sull’anticipazione dello stanziamento da assegnare alle regioni entro il 15 gennaio di ciascun anno, nelle more del decreto ministeriale di riparto del fondo, ex art. 27, comma 4, dello stesso d.l. n. 50 del 2017. Né la lettera, né la ratio dell’art. 39 impongono di ridurre del 20 per cento anche tale anticipazione, proporzionalmente alla quota temporaneamente bloccata.

3.5.3.– Sulle censure proposte in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., attinenti al procedimento delineato dalla norma impugnata, vanno richiamate in primo luogo le considerazioni svolte sopra sulla violazione del principio di leale collaborazione. Ad esse si può aggiungere che la mancata fissazione di un termine per la deliberazione del Consiglio dei ministri di cui al comma 2 non è tale da comportare, di per se stessa, i rischi paventati dalle ricorrenti di un trattamento differenziato fra le regioni nella provvista delle risorse destinate al trasporto pubblico locale. Né si può d’altro canto invocare il principio di affidamento, lamentando (come la Regione Lombardia) che il legislatore statale sarebbe intervenuto unilateralmente dopo l’Accordo sancito in sede di Conferenza unificata l’11 settembre 2014, «[…] dato che, come affermato da questa Corte, un accordo non può condizionare l’esercizio della funzione legislativa (sentenze n. 160 del 2009 e n. 437 del 2001)» (sentenza n. 205 del 2016).

3.5.4.– Ciò precisato, si deve passare a considerare un ulteriore profilo della censura di violazione del principio di proporzionalità ex art. 3 Cost. Pur dovendosi infatti escludere per le ragioni fin qui svolte che la misura prevista nella disposizione impugnata arrechi di per se stessa al principio un vulnus tale da imporne la caducazione, nondimeno una violazione deve essere ravvisata nello specifico trattamento riservato dal legislatore all’inadempimento delle regioni, da identificare nella parte della disposizione in cui la riduzione della quota del fondo per il trasporto pubblico locale è stabilita nella misura fissa del 20 per cento, qualunque sia l’entità dei mancati trasferimenti regionali rispetto alla totalità del dovuto.

Questa Corte ha più volte affermato che «[…] il principio di proporzionalità, […] se deve sempre caratterizzare il rapporto fra violazione e sanzione (sentenze n. 132 e n. 98 del 2015, n. 254 e n. 39 del 2014, n. 57 del 2013, n. 338 del 2011, n. 333 del 2001), tanto più deve trovare rigorosa applicazione nel contesto delle relazioni fra Stato e regioni, quando, come nel caso in esame, la previsione della sanzione ad opera del legislatore statale comporti una significativa compressione dell’autonomia regionale (sentenze n. 156 del 2015, n. 278 e n. 215 del 2010, n. 50 del 2008, n. 285 e n. 62 del 2005, n. 272 del 2004)», precisando che «[…] il test di proporzionalità […] "richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (sentenza n. 1 del 2014)» (sentenza n. 272 del 2015).

La rigida previsione di una sanzione fissa per qualsiasi inadempimento, a prescindere dalla sua consistenza, non solo non è di per sé idonea a raggiungere i fini perseguiti – far sì che le regioni eroghino tempestivamente tutte le risorse per lo svolgimento delle funzioni da esse conferite a province e città metropolitane – ma può comportare un onere sproporzionato anche rispetto al loro raggiungimento, giacché le regioni si vedrebbero riservate, anche in caso di modeste inadempienze, un trattamento di penalizzazione – la decurtazione del 20 per cento del fondo – destinato a incidere in modo significativo e ingiustificato sull’erogazione del servizio di trasporto pubblico locale, e per giunta irragionevolmente identico a quello riservato alle regioni responsabili invece di omissioni di maggiore impatto sulle esigenze finanziarie di province e città metropolitane.

Ciò chiarito sull’illegittimità costituzionale dell’automatismo della misura prevista dalla norma censurata, si può osservare che la norma stessa consente di individuare nell’ammontare annuo delle risorse non erogate da ciascuna regione – che pur vi sarebbe tenuta in conformità alle leggi di attuazione dell’Accordo dell’11 settembre 2014 – il parametro al quale commisurare proporzionalmente la decurtazione percentuale della quota, fino alla misura massima del 20 per cento già determinata dal legislatore, onde renderla adeguata all’effettiva rilevanza dell’inadempimento, e in questi termini indenne dal vizio indicato.

Per queste ragioni va dichiarata l’illegittimità dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017 nella parte in cui determina la riduzione della quota del fondo per il trasporto pubblico locale spettante alla regione interessata nella misura del 20 per cento, anziché fino al 20 per cento, in proporzione all’entità della mancata erogazione a ciascuna provincia e città metropolitana del rispettivo territorio delle risorse per l’esercizio delle funzioni ad esse conferite.

3.5.5.– Nel resto, con riferimento agli altri profili sollevati dal rimettente, va dichiarata la non fondatezza delle questioni.

3.5.6.– L’istanza formulata dalla Regione Lombardia di sospensione dell’efficacia della norma impugnata, ex art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), rimane assorbita dalla decisione di merito (ex plurimis, sentenze n. 211, n. 145 e n. 141 del 2016).

4.– La Regione Veneto ha impugnato, come già detto, anche l’art. 41-bis del d.l. n. 50 del 2017.

Tale disposizione, nel testo vigente al momento del ricorso, stabiliva al comma 1 quanto segue: «[a]l fine di favorire gli investimenti, per il triennio 2017-2019, sono assegnati ai comuni, compresi, alla data di presentazione della richiesta di cui al comma 2, nelle zone a rischio sismico 1 ai sensi dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3519 del 28 aprile 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 108 dell’11 maggio 2006, contributi soggetti a rendicontazione a copertura delle spese di progettazione definitiva ed esecutiva, relativa ad interventi di opere pubbliche, nel limite di 5 milioni di euro per l’anno 2017, di 15 milioni di euro per l’anno 2018 e di 20 milioni di euro per l’anno 2019». Il comma 2 dell’art. 41-bis regolava la richiesta di contributo rivolta dai comuni al Ministero dell’interno e il comma 3 disciplinava l’assegnazione del contributo, di competenza del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.

La ricorrente censura l’istituzione di un fondo settoriale statale in materie di competenza regionale, in violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119, quinto comma, Cost. e del principio di leale collaborazione.

4.1.– In via preliminare, occorre definire l’esatto oggetto della questione e verificare il rilievo dello jus superveniens.

Quanto al primo punto, la Regione Veneto contesta l’intero art. 41-bis ma, considerando il complesso del motivo di ricorso, mira non alla eliminazione del fondo quanto piuttosto al coinvolgimento regionale. Nella seconda parte del motivo la Regione sottolinea la mancata previsione di un intervento delle regioni e fa riferimento alle «concrete modalità di funzionamento del fondo»; soprattutto dalla lettera f) risulta che il punto censurato è il mancato coinvolgimento regionale e che per la Regione l’unico rimedio all’illegittimità è «l’intervento diretto delle Regioni in sede di determinazione dei criteri di ripartizione del Fondo sui rispettivi territori e di distribuzione delle relative risorse».

L’oggetto del ricorso può quindi essere circoscritto al comma 3 dell’art. 41-bis, che fissa i criteri da seguire nell’assegnazione del contributo, assegnandone la competenza al Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, senza prevedere il coinvolgimento delle regioni.

4.2.– Quanto al secondo punto, l’art. 41-bis è stato modificato dall’art. 17-quater, comma 1, del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 4 dicembre 2017, n. 172. Il d.l. n. 148 del 2017 ha introdotto innovazioni sostanziali. In particolare, al posto della regolazione unitaria delle tre annualità di riferimento del contributo (dal 2017 al 2019), originariamente prevista, il nuovo art. 41-bis differenzia la disciplina relativa agli anni 2018 e 2019.

La novità più significativa attiene all’ambito degli interventi finanziati. Mentre la disposizione impugnata li individuava in generici «interventi di opere pubbliche», l’attuale art. 41-bis li identifica, per gli anni 2018 e 2019, in «interventi di miglioramento e di adeguamento antisismico di immobili pubblici e messa in sicurezza del territorio dal dissesto idrogeologico». In corrispondenza a ciò, l’art. 17-quater, comma 1, lettera l), del d.l. n. 148 del 2017 ha modificato la rubrica dell’art. 41-bis del d.l. n. 50 del 2017, che ora è intitolato «Fondo per la progettazione definitiva ed esecutiva nelle zone a rischio sismico e per la messa in sicurezza del territorio dal dissesto idrogeologico».

Altre novità riguardano l’ambito territoriale dei comuni interessati (ora i contributi sono dati ai comuni compresi nelle zone a rischio sismico 1 e 2); l’importo complessivo dei contributi; la previsione di un tetto massimo al contributo (nuovo comma 1-bis) e di diverse condizioni che, in base al nuovo comma 2, devono essere soddisfatte dalla richiesta di contributo; i criteri di priorità per il 2018 e 2019 (nuovo comma 3-bis).

Non è dunque fondata la richiesta di trasferimento della questione avanzata dalla Regione Veneto nella memoria integrativa, poiché il nuovo art. 41-bis, essendo stato modificato in modo sostanziale e non satisfattivo, avrebbe dovuto essere, se del caso, autonomamente impugnato dalla Regione (da ultimo, sentenza n. 44 del 2018).

Ribadito che l’oggetto del ricorso è da circoscrivere al comma 3 dell’art. 41-bis, si deve dunque aggiungere ora che la censura relativa al comma 3, motivata in base al contenuto complessivo dell’art. 41-bis, deve essere limitata a quanto disposto in relazione al 2017, essendo successivamente mutata la disciplina relativa agli anni 2018 e 2019.

4.3.– Prima di definire la questione sollevata dalla Regione Veneto, si rende opportuna una precisazione sull’ambito materiale in cui si colloca la norma impugnata. Come visto, la ricorrente riconduce l’art. 41-bis alle materie «governo del territorio» e «protezione civile». La norma impugnata interviene effettivamente in tali materie (sulle costruzioni in zona sismica si vedano, ex multis, le sentenze n. 232 e n. 60 del 2017 e n. 272 del 2016) ma essa è idonea ad incidere anche su altre. Poiché, come visto, il contesto normativo nel quale questa Corte deve muoversi è quello dell’originario art. 41-bis, occorre rilevare che l’originario comma 1 di tale articolo, pur rivolto solo a comuni situati in zone sismiche, non contemplava specificamente interventi aventi finalità antisismiche ma si riferiva a generici «interventi di opere pubbliche». Nemmeno i primi due criteri di priorità fissati dal comma 3 avevano a che fare con la finalità antisismica ma facevano riferimento soltanto alla dimensione dei comuni e al livello della progettazione.

L’attuazione ricevuta dalla norma impugnata per il 2017 (con il decreto del Ministro dell’interno 13 dicembre 2017, recante «Contributo erariale per il finanziamento delle spese di progettazione definitiva ed esecutiva relativa ad interventi di opere pubbliche») conferma che le opere pubbliche finanziabili in virtù della norma impugnata erano di vario tipo. Il decreto ministeriale ha finanziato solo opere conformi al primo criterio di priorità – dal momento che l’ammontare delle relative richieste superava il budget disponibile – e fra esse si trovano, oltre a opere di adeguamento antisismico di diverse strutture, anche interventi di altra natura.

Questa Corte ha già chiarito, per quanto riguarda le attribuzioni legislative delle regioni ordinarie, che «i lavori pubblici "non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono” e pertanto possono essere ascritti, di volta in volta, a potestà legislative statali o regionali (sentenza numero 303 del 2003)» (sentenza n. 401 del 2007; nello stesso senso, sentenze n. 45 del 2010, n. 256 del 2007 e n. 303 del 2003). La norma impugnata è quindi idonea a incidere su materie ulteriori rispetto al «governo del territorio» e alla «protezione civile», eventualmente anche di competenza statale.

4.4.– Precisato ciò, si può passare ad affrontare le questioni sollevate dalla Regione.

Auspicando «l’intervento diretto delle Regioni in sede di determinazione dei criteri di ripartizione del Fondo sui rispettivi territori e di distribuzione delle relative risorse», la ricorrente chiede in sostanza a questa Corte di introdurre due distinti raccordi con le regioni: la richiesta è inammissibile relativamente al primo profilo, non fondata per il secondo.

In generale, la Regione fa leva sul fatto che, come visto, l’art. 41-bis prevede un fondo suscettibile di coinvolgere (anche) materie regionali (in primis, governo del territorio e protezione civile), e che pertanto, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, dovrebbe essere previsto un coinvolgimento degli enti territoriali (da ultimo, sentenze n. 78 e n. 71 del 2018). Nel caso di specie, tuttavia, il richiamato orientamento non può trovare applicazione.

La richiesta di coinvolgimento delle regioni nella determinazione dei criteri di ripartizione del fondo è inammissibile per oscurità della censura (sentenze n. 175 e n. 114 del 2017, n. 127 e n. 43 del 2016). A differenza di quanto sembra implicitamente postulare la ricorrente, la disposizione impugnata non regola le modalità di determinazione dei criteri di assegnazione dei contributi, che sono già direttamente fissati dalla norma stessa (art. 41-bis, commi 3 e 4), sicché la censura avente ad oggetto la mancata previsione di un raccordo con le regioni in sede di determinazione dei criteri risulta oscura. Poiché i criteri sono individuati direttamente dalla legge, non è chiaro – e comunque non è spiegato nel ricorso – in che modo questa Corte potrebbe, con una pronuncia additiva, prevedere il richiesto coinvolgimento.

Quanto alla richiesta previsione di un «intervento diretto delle Regioni in sede di […] distribuzione delle relative risorse», si può osservare che effettivamente l’art. 41-bis, comma 3, prevede che l’assegnazione dei contributi ai comuni venga operata con decreto ministeriale, senza alcun coinvolgimento degli enti territoriali. Ma si deve ugualmente riconoscere che, nell’adottare tale decreto, l’amministrazione non compie alcuna scelta né valutazioni di sorta, nemmeno di natura semplicemente tecnica. Il comma 4 dispone infatti che, «[f]erme restando le priorità di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 3, qualora l’entità delle richieste pervenute superi l’ammontare delle risorse disponibili, l’attribuzione è effettuata a favore dei comuni che presentano la maggiore incidenza del fondo di cassa al 31 dicembre dell’esercizio precedente rispetto al risultato di amministrazione risultante dal rendiconto della gestione del medesimo esercizio». E, in base al comma 5, «[l]e informazioni sul fondo di cassa e sul risultato di amministrazione sono desunte dal prospetto dimostrativo del risultato di amministrazione allegato al rendiconto della gestione trasmesso ai sensi dell’articolo 18, comma 2, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, alla banca dati delle amministrazioni pubbliche […]».

In virtù di tali previsioni, dunque, i contributi sono assegnati a seguito della mera attività di accertamento, non complesso, di un dato contabile, come è confermato anche dal citato decreto ministeriale attuativo del 13 dicembre 2017, che reca in allegato la graduatoria dei comuni, redatta sulla base del rapporto fra fondo di cassa e risultato di amministrazione. Il principio di leale collaborazione richiede il coinvolgimento regionale nelle scelte statali o nelle valutazioni anche non discrezionali oppure negli accertamenti complessi dello Stato, che possano incidere sull’autonomia regionale, mentre esso risulta non pertinente rispetto ad atti non complessi di mero accertamento di dati contabili. Questa Corte ha già respinto censure con le quali si invocava il coinvolgimento regionale nel procedimento di determinazione del maggior gettito riservato allo Stato, osservando che la partecipazione regionale è necessaria «solamente se la determinazione in concreto del gettito derivante dalle nuove norme sia complessa» (sentenze n. 77 del 2016, n. 42 del 2013, n. 265 e n. 143 del 2012; si vedano anche le sentenze n. 273 del 2013 e n. 272 del 2005).

A riprova di tale conclusione, si può osservare che, qualora si affermasse la necessità di coinvolgere la Conferenza unificata nella procedura di approvazione del decreto di assegnazione dei contributi, ciò non gioverebbe all’autonomia degli enti territoriali, visto che la loro interlocuzione in sede di riadozione del decreto non potrebbe influire sul suo contenuto.

5.– La Regione Toscana ha impugnato anche l’art. 48, commi 4 e 6, lettera a), del d.l. n. 50 del 2017.

5.1.‒ La disposizione, secondo la ricorrente, violerebbe in primo luogo l’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto non sussisterebbero i presupposti che giustificano la decretazione d’urgenza.

Si pone in via preliminare il tema della ridondanza sul riparto delle competenze fra Stato e regioni delle asserite violazioni di parametri diversi da quelli riguardanti tale riparto. La ricorrente offre sul punto una adeguata motivazione facendo riferimento alla supposta incidenza della violazione dell’art. 77 Cost. sulla propria potestà legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale. La norma statale impugnata avrebbe, a suo dire, anche l’effetto di vanificare la disciplina contenuta all’art. 84 della legge della Regione Toscana 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011), che ha istituito il lotto unico regionale come articolazione territoriale cui riferire la gara per la scelta del gestore del servizio.

La censura supera dunque il vaglio di ammissibilità, ma deve essere respinta nel merito.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato alla verifica dell’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze n. 287 e n. 133 del 2016, n. 10 del 2015, n. 22 del 2012, n. 93 del 2011, n. 355 e n. 83 del 2010, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007).

Il d.l. n. 50 del 2017 reca «Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo» e, nel suo preambolo, il Governo fa riferimento, per quanto qui di interesse, alla necessità straordinaria e urgente di introdurre «misure volte a favorire la crescita economica del Paese».

Tali ragioni ‒ soprattutto alla luce delle pesanti conseguenze della crisi economica che aveva colpito il Paese ‒ non sono affette da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, avuto riguardo al largo margine di elasticità che connota l’espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti della decretazione d’urgenza, al fine di consentire al Governo di apprezzare la loro esistenza con riguardo a una pluralità di situazioni per le quali non sono configurabili rigidi parametri (sentenza n. 171 del 2007).

Le disposizioni segnatamente censurate ‒ recanti misure per promuovere la più ampia partecipazione alle procedure di scelta del gestore dei servizi di trasporto locale e regionale, nel quadro di un complesso sinergico di interventi riguardanti l’intero settore della mobilità (artt. da 47 a 52) ‒ non sono, inoltre, estranee o dissonanti rispetto alle finalità dichiaratamente perseguite dal decreto. I servizi di trasporto esercitano infatti un’influenza decisiva sulla competitività complessiva del sistema economico, rientrando tra le priorità industriali del Paese. L’esigenza di razionalizzarle e renderle efficienti è resa ancor più pressante dalla circostanza che l’obbligo per tutte le amministrazioni di concorrere al risanamento della finanza pubblica si è tradotto negli ultimi anni in tagli ai trasferimenti erariali verso le regioni e gli enti locali e questo ha spesso comportato una diminuzione dei servizi offerti.

Ai fini del riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., questa Corte ha affermato che «[l]a urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare» (sentenza n. 22 del 2012).

Su queste basi la lamentata eterogeneità ‒ tratteggiata peraltro in termini alquanto vaghi ‒ non sussiste, poiché tutte le misure contemplate dal d.l. n. 50 del 2017, per quanto attinenti ad ambiti materiali diversi (segnatamente: finanza pubblica, ausilio alle zone terremotate e messa in sicurezza del territorio dal dissesto idrogeologico, rilancio economico e sociale) sono accomunate da un’intrinseca coerenza dal punto di vista funzionale e finalistico.

5.2.‒ Con altro ordine di motivi, la Regione Toscana deduce la violazione della potestà legislativa residuale regionale in materia di organizzazione del servizio di trasporto pubblico locale di cui all’art. 117, quarto comma Cost., dal momento che la norma statale priverebbe gli enti territoriali della possibilità di decidere come organizzare il servizio di trasporto e il livello ottimale della sua gestione.

Lamenta altresì la violazione dell’art. 117, secondo comma, Cost., in quanto non sarebbe invocabile la potestà legislativa statale in materia di «tutela della concorrenza». L’articolazione del bacino in più lotti non garantirebbe maggiore efficienza e concorrenza, e la fondatezza di tale assunto sarebbe avvalorata dall’art. 51 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), che affida alla singola stazione appaltante la scelta della deroga rispetto alla suddivisione dell’appalto in più lotti, con l’onere di motivarla (così disporrebbe anche il "considerando” n. 78 della direttiva 2014/24/UE, del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE).

I due ordini di motivi ‒ che, in quanto speculari, possono essere trattati congiuntamente ‒ non sono fondati.

L’identificazione della materia in cui si colloca la disposizione censurata richiede di fare riferimento all’oggetto e alla disciplina da essa stabilita, tenendo conto altresì della sua ratio e dell’interesse tutelato (ex plurimis, sentenze n. 119 del 2014, n. 300 del 2011, n. 430 e n. 165 del 2007).

Il comma 4 dell’art. 48 prevede che, ai fini dello svolgimento delle procedure di scelta del contraente per i servizi di trasporto locale e regionale, gli enti affidanti, con l’obiettivo di promuovere la più ampia partecipazione, articolano i bacini di mobilità in più lotti, oggetto di procedure di gara e di contratti di servizio, tenuto conto delle caratteristiche della domanda e salvo eccezioni motivate da economie di scala proprie di ciascuna modalità e da altre ragioni di efficienza economica, nonché relative alla specificità territoriale dell’area. Tali eccezioni sono disciplinate con delibera dell’Autorità di regolazione dei trasporti, ai sensi dell’art. 37, comma 2, lettera f), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dal comma 6, lettere a) e b), dello stesso art. 48.

La scelta normativa di distinguere la dimensione organizzativa ottimale del servizio di trasporto da quella prettamente gestionale si fonda sulla considerazione che la previsione di lotti molto ampi può non garantire un miglioramento in termini di superiore efficienza e di ottimizzazione dei processi produttivi, atteso l’impatto talora trascurabile delle economie di scala nel trasporto pubblico locale, in ragione delle diverse caratteristiche geografiche e demografiche del territorio italiano. La predisposizione di un lotto unico costituisce, al contrario, una rilevante barriera di accesso al mercato, in quanto limita fortemente la platea dei soggetti in possesso dei requisiti per la partecipazione alle gare per il trasporto pubblico locale. Il ricorso a una pluralità di operatori all’interno di uno stesso ambito territoriale ottimale consente invece che anche imprese di medie e piccole dimensioni possano presentare, per quanto possibile, offerte in forma singola, e che siano favorite forme di concorrenza per comparazione tra gli operatori titolari di contratti di servizio gestiti dallo stesso soggetto pubblico.

Così ricostruito il contenuto e il fondamento della disposizione censurata, essa va ricondotta alla materia della «tutela della concorrenza», di esclusiva pertinenza statale.

La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la nozione di «concorrenza» di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost., non può non riflettere quella operante in ambito europeo (sentenze n. 83 del 2018, n. 291 e n. 200 del 2012, n. 45 del 2010). Essa comprende, pertanto, sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati, sia le misure legislative di promozione, volte a eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza "nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza "per il mercato”). In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenze n. 299 del 2012 e n. 401 del 2007).

Su queste basi, la disciplina in esame ‒ diretta segnatamente a individuare un numero di lotti superiore al bacino di programmazione, quale condizione necessaria (salvo eccezioni derivanti dalle specifiche caratteristiche del mercato e del territorio interessato) per garantire la più ampia contendibilità delle gare, che rischierebbero di essere altrimenti riservate a pochissimi partecipanti ‒ rientra appieno nell’accezione dinamica di concorrenza, che, come detto, contempla anche le misure pubbliche volte a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo degli assetti concorrenziali.

Tale conclusione trova riscontro anche nella giurisprudenza costituzionale che riconduce alla competenza legislativa statale in tema di «tutela della concorrenza», sia la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (ex plurimis, sentenze n. 93 del 2017, n. 117 del 2015, n. 28, n. 22 e n. 2 del 2014, n. 46 del 2013, n. 123 del 2011, n. 325 del 2010, n. 246 del 2009 e n. 80 del 2006), sia più in generale le norme che regolano le procedure di gara per l’aggiudicazione dei contratti pubblici (ex plurimis, sentenze n. 263 del 2016, n. 184 del 2011, n. 283 e n. 160 del 2009, n. 401 del 2007).

Il riferimento alla tutela della concorrenza è coerente anche con l’assegnazione all’Autorità di regolazione dei trasporti della funzione di definire i criteri per la determinazione delle eccezioni al principio della minore estensione territoriale dei lotti di gara rispetto ai bacini di pianificazione. Questa Corte ha già escluso che le competenze regolatorie conferite a tale Autorità determinino un’interferenza con le competenze regionali, dal momento che le sue funzioni, pur avendo attinenza con la materia del trasporto pubblico locale, perseguono precipuamente una finalità di promozione della concorrenza e quindi afferiscono alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenza n. 41 del 2013).

L’attribuzione della nuova competenza in capo al regolatore indipendente è, del resto, rispettosa dei canoni di adeguatezza e proporzionalità ‒ cui deve attenersi l’esercizio della competenza trasversale per la «tutela della concorrenza» quando interseca titoli di potestà regionale (ex plurimis, sentenze n. 325 del 2010 e n. 452 del 2007) ‒ in quanto non esaurisce le attribuzioni delle amministrazioni locali. Infatti, sia pure nel quadro definitorio fornito dall’Autorità di regolazione dei trasporti, saranno pur sempre tali attribuzioni a determinare la dimensione concreta del lotto oggetto delle procedure di gara.

5.3.‒ Con l’ultima censura, la ricorrente si duole del fatto che le disposizioni impugnate violerebbero il principio di leale collaborazione sotto due differenti profili: da un lato, la disciplina avrebbe dovuto essere emanata d’intesa con le regioni, come sancito dalla sentenza di questa Corte n. 251 del 2016; dall’altro, il compito di definire le deroghe alla regola della obbligatoria suddivisione dei bacini di mobilità in più lotti ai fini della gara verrebbe affidato in via esclusiva all’Autorità di regolazione dei trasporti senza alcun coinvolgimento delle Regioni, pur essendo queste ultime titolari della potestà in materia di trasporto e in grado di offrire importanti elementi conoscitivi del territorio ai fini dell’articolazione delle gare. Per quanto non espressamente evocati, il riferimento agli artt. 5 e 120 Cost. emerge in modo chiaro, ancorché implicito, dall’intero contesto dell’impugnativa.

Anche tale questione è infondata.

Il principio di leale collaborazione non opera quando lo Stato ‒ come accade nella fattispecie normativa in contestazione ‒ esercita la sua competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza (ex plurimis, sentenza n. 339 del 2011), la cui natura trasversale funge da limite alla disciplina che le regioni possono dettare nelle materie di competenza concorrente o residuale (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012; da ultimo, sentenza n. 165 del 2014). Nel caso in cui si tratti di una competenza esclusiva dello Stato, infatti, non ricorre neppure quella inscindibile commistione tra diverse competenze legislative dello Stato e delle Regioni che hanno eccezionalmente giustificato le conclusioni della sentenza n. 251 del 2016 (riferite, per altro, al procedimento di delegazione e non alla decretazione d’urgenza).

Si deve inoltre aggiungere ‒ con specifico riguardo alla leale collaborazione da attuare sul versante dell’attività amministrativa ‒ che tale principio «attiene ai rapporti tra Governo, o Ministeri, e Regioni e non riguarda, invece le Autorità indipendenti […] chiamate ad operare "in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione”. Esse dovranno, invece, agire nel rispetto delle modalità di partecipazione previste dalla legge generale sul procedimento amministrativo, 7 agosto 1990, n. 241 […] e dalle altre leggi dello Stato applicabili alle Autorità indipendenti […]» (sentenza n. 41 del 2013).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96, nella parte in cui non prevede la riassegnazione alle regioni e agli enti locali, subentrati nelle diverse regioni nell’esercizio delle funzioni provinciali non fondamentali, delle risorse acquisite dallo Stato per effetto dell’art. 1, commi 418 e 419, della legge 29 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», e connesse alle stesse funzioni non fondamentali, restando riservata al legislatore statale l’individuazione del quantum da trasferire;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, nella parte in cui determina la riduzione della quota del fondo per il trasporto pubblico locale spettante alla regione interessata nella misura del 20 per cento, anziché fino al 20 per cento, in proporzione all’entità della mancata erogazione a ciascuna provincia e città metropolitana del rispettivo territorio delle risorse per l’esercizio delle funzioni ad esse conferite;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 2, del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, promossa dalla Regione Toscana, in riferimento all’art. 119, primo, secondo, terzo e quarto comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 39 del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, promosse dalle Regioni Liguria, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Piemonte, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120, secondo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe;

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119, quinto comma, Cost. e al principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe;

6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 118 e 119, quinto comma, Cost. e al principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe;

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 48, commi 4 e 6, lettera a), del d.l. n. 50 del 2017, come convertito, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 77, secondo comma, e 117, secondo e quarto comma, Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2018.