SENTENZA N.
355
ANNO 2010
Commento alla
decisione di
Antonio Ruggeri, Ancora in tema di decreti-legge e leggi di
conversione
(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi
MAZZELLA ”
- Gaetano
SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria
Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 17,
comma 30-ter, periodi secondo, terzo
e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga
di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102,
come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni
correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con
modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, promossi dalla Corte dei
conti - sezione giurisdizionale per
Visti gli atti di costituzione di D.T.M.L.,
di P.G., di B.G. ed altri, fuori termine, nonché gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 novembre
2010 e nella camera di consiglio del 17 novembre 2010 il Giudice relatore
Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Luigi Manzi per
D.T.M.L., Luigi Medugno per P.G. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Con ordinanza del 16 novembre 2009
1.1.— Il giudice a quo premette
che la procura regionale ha convenuto il presidente, taluni consiglieri di
amministrazione e il direttore generale dell’azienda speciale farmacie
municipalizzate di Terni (AsFM) perché venissero condannati al risarcimento del
danno complessivo di euro 273.165,77, causato alle finanze aziendali per avere,
con condotta gravemente colposa, attivato il centro salute «Hera», previsto nel
piano- programma per gli anni 2000 e 2001, prima della richiesta delle
prescritte autorizzazioni. Inoltre, l’azienda, «per la diffusione mediatica assunta
dalla vicenda», avrebbe subito «un danno d’immagine stimato in 40 mila euro».
Il giudice a quo deduce come la
controversia abbia ad oggetto soltanto la questione relativa al danno
all’immagine, in quanto è stata disposta la separazione di quella avente ad
oggetto il danno patrimoniale.
1.2.— Il giudice stesso dubita della legittimità costituzionale del
citato art. 17, comma 30-ter, il
quale prevede che le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il
risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’articolo
7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra
procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo
fine, il decorso del termine di prescrizione, di cui al comma 2 dell’articolo
1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni
in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino alla conclusione del
procedimento penale.
A tale proposito, il
giudice remittente richiama l’orientamento della Corte di cassazione e della
stessa Corte dei conti, secondo cui il danno all’immagine e al prestigio della
pubblica amministrazione rientrerebbe nella categoria del danno patrimoniale e sarebbe
dovuto anche in assenza dell’accertamento di un fatto di reato.
Si assume al riguardo che
la questione sollevata sarebbe rilevante sia perché la norma impugnata ha una
valenza processuale, che la rende applicabile ai giudizi in corso, sia perché per
i fatti per i quali si procede non è stata proposta azione penale.
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, che «la
formulazione ellittica della disposizione in rassegna ha indotto il Collegio
dapprima a ricercarne una lettura "costituzionalmente orientata” e, all’esito,
di vedersi pervaso da dubbi di costituzionalità, quale che fosse la possibile
soluzione individuata». In particolare, si rileva come due sarebbero le
possibili interpretazioni della norma: una prima dovrebbe condurre a ritenere
che il legislatore ha voluto affermare il principio in base al quale il danno
all’immagine ed al prestigio della p.a. non possa ricevere tutela
giurisdizionale, se non in presenza di fattispecie costituenti anche reato
accertato; la seconda, invece, porterebbe a sostenere che la tutela sia piena
ma ottenibile in sedi giurisdizionali differenti e cioè innanzi alla Corte dei
conti per le fattispecie costituenti anche reato e innanzi ad altro giudice in
tutti gli altri casi.
Accedendo alla prima
interpretazione la norma impugnata sarebbe illegittima per violazione:
a) dell’art. 3 Cost., in
quanto introdurrebbe una irrazionale differenziazione di tutela tra le
fattispecie di danno all’immagine e le altre tipologie di danno subito dalla
p.a., aventi anch’esse rilievo patrimoniale;
b) dell’art. 24 Cost., in
quanto la procura contabile potrebbe agire in giudizio soltanto in presenza del
preventivo esercizio dell’azione penale;
c) degli artt. 54 e 97
Cost., in quanto si impedirebbe alla p.a. di ottenere piena tutela in tutte le
ipotesi in cui soggetti ad essa collegati da un rapporto di servizio «le
abbiano causato il danno all’immagine».
Si osserva, inoltre, come
siano state emanate altre disposizioni che si muovono in senso opposto rispetto
a quello tracciato dalla norma impugnata. Si richiama, al riguardo, la legge 4
marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo
finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni
integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro e alla Corte dei conti).
Accedendo alla seconda
interpretazione, sarebbe violato l’art. 103, secondo comma, Cost., il quale
attribuisce alla Corte dei conti la «giurisdizione nelle materie di contabilità
pubblica».
Sempre nell’ambito della
seconda interpretazione, si assume, altresì, il contrasto della norma impugnata
con il combinato disposto degli artt. 3 e 103 Cost. Ciò in quanto, dinnanzi al
giudice contabile varrebbe la limitazione di responsabilità soltanto in
presenza di condotte poste in essere con dolo o colpa grave, mentre tale
limitazione non opererebbe innanzi al giudice ordinario.
Il Collegio remittente
ritiene, infine, che sussistano altre ragioni di contrasto della norma con
In particolare, si assume,
in primo luogo, che sarebbe stato violato l’art. 81, quarto comma, Cost., il
quale prevede che «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve
indicare i mezzi per farvi fronte». Nel caso in esame la norma censurata,
limitando la responsabilità amministrativa, imporrebbe all’amministrazione di
sostenere con proprie risorse il danno subito senza, però, indicare come fare
fronte a tale «maggiore spesa».
In secondo luogo, il
giudice a quo rileva che le
disposizioni impugnate, insieme al quarto periodo, si porrebbero in contrasto
con l’art. 111 Cost. Ciò in quanto la disposizione «è suscettibile di provocare
una sorta di "doppio binario” processuale, ad assetto variabile, in quanto –
per gli stessi fatti – i limiti posti all’azione della procura, sanzionati con
la nullità, sono operanti esclusivamente se chi vi ha interesse dia o meno
corso al giudizio incidentale per l’accertamento della nullità degli atti
istruttori o processuali sui quali si fonda l’addebito».
2.— Si sono costituiti in
giudizio (oltre il termine previsto) G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R., chiedendo
che la questione venga dichiarata inammissibile per irrilevanza, in quanto il
giudice remittente avrebbe dovuto verificare, in via preliminare, se
sussistessero i presupposti per la condanna al risarcimento del danno
all’immagine; presupposti che non sarebbero presenti essendo, tra l’altro, il
relativo diritto prescritto.
Nel merito si svolgono
ampie argomentazioni volte a dimostrare la infondatezza di tutte le censure
formulate.
3.— Con ordinanza del 16
novembre 2009 (reg. ord. n. 24 del 2010),
Il giudice a quo premette, in
punto di fatto, che, con provvedimento n. 482 del 6 dicembre 1999,
Con nota n. 6261 del 20 febbraio 2001, il direttore generale
dell’assessorato alla sanità richiedeva al predetto assessorato di potere
acquistare, con l’impiego dei fondi regionali finalizzati, un particolare
sistema mammografico. Tale acquisto veniva autorizzato dall’assessorato con
nota del 12 aprile 2001 n. 9086.
Secondo la procura contabile, il predetto acquisto «avrebbe di fatto impedito la realizzazione dei programmi
di screening poiché le somme
destinate a tale acquisto (pari ad euro 647.822,88) sarebbero state sottratte
alla realizzazione del progetto di prevenzione cui erano state originariamente
destinate».
Da tali condotte sarebbe derivato, oltre un danno patrimoniale, anche un «danno all’immagine». In relazione a tale ultima
voce di danno si pone in evidenza come la vicenda avrebbe avuto una forte
risonanza sui mezzi di comunicazione.
3.1.— Esposto ciò, dopo avere
rilevato che non sussiste la eccepita nullità dell’atto di citazione per
indeterminatezza della notizia di reato,
3.1.1.— Per quanto attiene al giudizio
di non manifesta infondatezza,
In questa prospettiva, la tutela dell’immagine dovrebbe essere considerata
un diritto che trova la sua matrice costituzionale nell’art. 2 Cost., la cui
lesione sarebbe, pertanto, risarcibile ex
art. 2059 del codice civile, senza che sia necessario il previo accertamento
della sussistenza di una condotta penalmente rilevante.
3.1.2.— Ciò premesso, si assume il
contrasto della norma censurata con gli artt. 2 e 24 Cost. Infatti, tale norma,
consentendo la risarcibilità soltanto in presenza di una sentenza irrevocabile
di condanna per la commissione di un delitto contro la pubblica
amministrazione, negherebbe la possibilità giuridica alla procura contabile di
agire in giudizio, «così svuotando di contenuto un diritto riconosciuto alla
pubblica amministrazione proprio in virtù dell’art. 2 della Costituzione».
Il giudice a quo sottolinea,
inoltre, come non sarebbe neanche prospettabile una interpretazione conforme a
Costituzione, che riconosca "negli altri casi” la sussistenza di una tutela
giurisdizionale in altra sede.
Ne consegue che non si porrebbe una questione «di difetto di giurisdizione del giudice contabile a
favore di altro giudice ma di carenza di qualsivoglia tutela», con conseguente violazione
dell’art. 24 Cost.
3.1.3.— Sotto altro aspetto, si
assume il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Infatti, la
disposizione in esame creerebbe una irragionevole ed illogica disparità di
trattamento tra la tutela all’immagine assicurata alle persone giuridiche
private, per le quali non varrebbe alcun limite, e quella garantita alle
persone giuridiche pubbliche, per le quali varrebbero i limiti in esame.
Secondo
3.1.4.— Il remittente ritiene che la
disposizione censurata abbia un contenuto irragionevole anche perché
introdurrebbe una disciplina differenziata tra condotte delittuose, in relazione
alle quali si riconosce la tutela, e condotte illecite non delittuose, in
relazione alle quali non si riconosce la tutela, ancorché possano comunque
causare il danno all’immagine della pubblica amministrazione.
3.1.5.— La violazione dell’art. 3 Cost.
sussisterebbe anche perché il legislatore ha inteso limitare la responsabilità
soltanto in presenza dei reati previsti dal capo I, titolo II, del libro
secondo del codice penale, «precludendo così il risarcimento del danno all’immagine
in tutte le altre ipotesi delittuose, tra le quali ve ne sono certamente più
gravi».
Inoltre, la norma creerebbe una disparità di trattamento tra dipendenti
pubblici e amministratori, in quanto, per questi ultimi, non opererebbero le
limitazioni previste dalla disposizione impugnata.
Entrambi questi profili non sarebbero, però, rilevanti, in quanto nel caso
in esame non è stata pronunciata alcuna sentenza di condanna.
3.1.6.— Sarebbe, inoltre, violato
l’art. 97 Cost., atteso che, sebbene il buon andamento e l’imparzialità «non costituiscono il
fondamento costituzionale della tutela dell’immagine pubblica», la «stretta relazione tra
l’immagine pubblica e l’agire corretto» e la circostanza che gli
stessi costituiscono «criteri cui deve essere improntata l’azione amministrativa
affinché il prestigio pubblico non venga leso», comportano che «una ridotta tutela della
prima inevitabilmente indebolisce il diritto sostanziale dell’amministrazione
ad agire, attraverso i propri funzionari, in modo corretto, imparziale,
efficace ed efficiente».
3.1.7.— Viene ipotizzata, poi, la violazione degli artt. 25 e 103 Cost.
Si rileva, infatti, che
Orbene, poiché nessuno può
essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, non è possibile
configurare l’esercizio dell’azione per il risarcimento di tale danno innanzi
ad altra autorità giudiziaria diversa dalla Corte dei conti.
3.1.8.— Infine, il giudice a quo sottolinea come la norma, pur
essendo inserita nell’ambito di un decreto-legge volto a razionalizzare le
risorse erariali per il rilancio dell’economia, perseguirebbe «l’obiettivo contrario e cioè
quello di imporre alle amministrazioni pubbliche le spese effettivamente
sostenute a ristoro del detrimento del proprio prestigio».
3.2.— È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate vengano dichiarate manifestamente
inammissibili e infondate.
In primo luogo, si osserva come la limitazione di responsabilità in esame
non sarebbe viziata da manifesta illogicità. A dimostrazione di come il
legislatore possa introdurre limiti alla responsabilità contabile, si richiama
l’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di
giurisdizione e controllo della Corte dei conti) che, al comma 1, prevede che
tale responsabilità è configurabile in presenza, tra l’altro, di fatti ed
omissioni «commessi con dolo e colpa grave». Questa norma è stata ritenuta non
in contrasto con
L’Avvocatura sostiene che i principi enunciati dalla citata pronuncia varrebbero
anche nel caso in esame, in quanto verrebbe pur sempre in rilievo una norma che
pone limiti alla responsabilità contabile anche se «sotto il diverso profilo
oggettivo del danno per il cui ristoro si agisce» e non dei criteri di
imputazione della responsabilità.
La difesa dello Stato mette, poi, in rilievo che la norma censurata non
esclude in assoluto la risarcibilità del danno all’immagine «ma la limita a
quelle fattispecie ritenute di maggiore gravità alle quali si ricollega – con
l’esercizio dell’azione penale – anche l’evidente pregiudizio collegato allo strepitus fori».
Del resto, si sottolinea, anche le Sezioni unite della Corte di
cassazione, con la sentenza n. 26972 del 2008, hanno posto limiti alla
risarcibilità del danno non patrimoniale, richiedendo che la legge debba
riguardare un interesse avente rilevanza costituzionale e che la lesione debba
essere grave e il danno non futile.
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione dell’art. 24 Cost., si
richiama, per dimostrare l’infondatezza della censura, l’orientamento della
giurisprudenza costituzionale, secondo il quale «la garanzia apprestata
dall’art. 24 della Costituzione opera attribuendo tutela processuale delle
situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano
riconosciute dal legislatore», trovando dunque confini nel contenuto del
diritto sostanziale così come delineato dall’ordinamento (sentenza n. 327 del
1998).
Per quanto attiene alla censura fondata sugli artt. 25 e 103 Cost., se ne
deduce l’inammissibilità, «in quanto prospettata in via ipotetica ed eventuale
alla luce di una interpretazione della norma che si afferma non possibile». In
ogni caso, si aggiunge, «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione di
poteri giurisdizionali si verifica nel caso in esame, incidendo la disposizione
solo sull’ambito delle pronunce che possono essere rese nel merito dal giudice
contabile alla luce dei diritti sostanziali azionabili».
Non sarebbe, inoltre, fondata la censura con cui si deduce la violazione
del principio di uguaglianza, in quanto la diversità di trattamento giuridico
sarebbe giustificata dalla diversità delle posizioni dei soggetti coinvolti
dall’azione di responsabilità.
Per quanto attiene, poi, alla doglianza prospettata con riferimento alla
limitazione dei reati posta dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, si osserva,
in primo luogo, come, «ammesso che l’interpretazione delle norme suggerita
dalla Corte remittente sia effettivamente corretta, la stessa non esclude
l’esperibilità di altri rimedi in altra sede giurisdizionale diversa dalla
Corte di conti, sì da consentire un ristoro del danno all’immagine». In secondo
luogo, si sottolinea che si sarebbe, in ogni caso, in presenza di una
«valutazione discrezionale del legislatore, non irrazionale e quindi non
censurabile, essendo in linea di principio ragionevole volere limitare la
risarcibilità di un tipo di danno a quelle fattispecie che per
l’amministrazione di appartenenza – e quindi dall’opinione pubblica – possono
essere percepite come più gravi in quanto rivolte proprie contro l’ente
nell’interesse del quale si sarebbe dovuto agire».
Infine, in relazione all’asserita violazione dell’art. 97 Cost., si
osserva come «la norma delimiti in maniera equilibrata le ipotesi di
risarcibilità di cui si tratta, proprio nel perseguimento di quei fini pubblici
che – ha ritenuto il legislatore – rischierebbero di essere obliterati da un
troppo severo ampliamento della sfera di responsabilità: essa si
riverbererebbe, infatti, inevitabilmente sulla rapidità ed efficacia dell’agire
amministrativo».
4.— Analoga questione di
legittimità costituzionale della norma in esame ha sollevato, con ordinanza del
14 ottobre 2009,
La remittente premette che la procura contabile aveva evocato in giudizio
taluni «esponenti» del Comune di Benevento che, con il loro comportamento
gravemente colposo, consistito nel «mancato rispetto degli obblighi inerenti il
mancato raggiungimento delle percentuali minime di raccolta differenziata dei
rifiuti» per gli esercizi 2003, 2004 e 2005, avevano cagionato, oltre che un
rilevante danno patrimoniale, anche un danno derivante dalle spese necessarie
per il ripristino del pregiudizio all’immagine dell’ente.
4.1.—
4.1.1.— Con riferimento alla non
manifesta infondatezza della questione, si assume, in primo luogo, la
violazione dell’art. 2 Cost., in quanto tale articolo, garantendo i diritti
inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la
sua personalità, impone che venga assicurata la tutela del diritto all’immagine
sia delle persone fisiche sia delle persone giuridiche, pubbliche e private.
A tale proposito, si rileva come l’art. 2059 cod. civ. riconosca il
risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi in cui
le condotte poste in essere integrano gli estremi di fatti di reato,
ogniqualvolta venga lesa una posizione giuridica soggettiva tutelata a livello
costituzionale.
4.1.2.— Sotto altro profilo, il
giudice a quo ritiene che la norma
violi l’art. 3 Cost., in quanto creerebbe una disparità di trattamento tra il
dipendente pubblico e gli amministratori, compresi quelli degli enti locali,
che non sarebbero destinatari della disposizione censurata. Quest’ultima,
infatti, ammette il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi
previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale si occupa
esclusivamente dei dipendenti pubblici. Inoltre, l’ente si troverebbe in una
«ingiustificata posizione di svantaggio nei confronti del dipendente pubblico».
A tale proposito, si puntualizza che «l’irragionevolezza di tale
distinzione risulta di tutta evidenza ove si ponga mente alla circostanza che
sono proprio gli amministratori, che rappresentano nei rapporti giuridici e
politici gli enti pubblici, a porre maggiormente in pericolo il prestigio degli
enti stessi, piuttosto che i dipendenti pubblici legati a tali enti da un mero
rapporto lavorativo».
Non si comprenderebbero neanche le ragioni della scelta del legislatore,
il quale non avrebbe collegato il «privilegio perpetuo» ad una «fondata
circostanza».
Un ulteriore profilo di irragionevole disparità di trattamento vi sarebbe
tra la pubblica amministrazione e i restanti soggetti dell’ordinamento, «in
quanto il deterioramento dell’immagine della prima non è sanzionato se non in
casi limite dipendenti dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei
secondi è ben tutelato in tutti i casi di commissione di illecito anche di non
rilievo penale».
4.1.3.— Secondo il remittente, la
norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 97 Cost., in quanto,
da un lato, «determina un’alterazione della funzionalità degli enti pubblici
sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente fiducia dei
cittadini nei confronti delle istituzioni», dall’altro, «contraddice» il
principio di imparzialità «che si risolve essenzialmente nel rispetto della
giustizia sostanziale».
4.1.4.— Sotto altro aspetto la
manifesta irragionevolezza della disposizione in esame risulterebbe dal fatto
che la norma è stata introdotta dalla legge di conversione «senza che nel corso
della brevissima discussione», avente ad oggetto la norma stessa, «ne siano
state valutate a pieno la portata e le conseguenze».
4.1.5.— Sarebbero violati, altresì, gli
artt. 24, primo comma, che riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio a
tutela dei propri diritti e interessi e 113, primo e secondo comma, Cost., che
non consentirebbero «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti
ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa».
4.1.6.— Il contrasto, invece, con
l’art. 81, quarto comma, Cost., deriverebbe dal fatto che non sarebbe stata
prevista alcuna copertura finanziaria «della minore entrata imposta agli enti
pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di
natura derivata».
4.1.7.— Infine, si assume la
violazione degli artt. 103, secondo comma, e 25, primo comma, Cost. Ciò in
quanto, alla luce delle citate disposizioni costituzionali, al legislatore non
sarebbe consentito, da un lato, «escludere apoditticamente la giurisdizione
della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di responsabilità
rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità
pubblica», dall’altro, distogliere la controversia dal suo giudice naturale
«successivamente al verificarsi del fatto generatore».
4.2.— È intervenuto anche in tale
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate
vengano dichiarate inammissibili o infondate.
L’Avvocatura, dopo avere svolto la premessa già contenuta nell’atto di
intervento depositato nel giudizio riferito all’ordinanza n. 24 del 2010,
riprende le stesse argomentazioni con riguardo alle censure formulate in
relazione agli artt. 24 (nel caso in esame si richiama anche l’art. 113 ma le
deduzioni non mutano) e 97 Cost.
Con riferimento all’asserita violazione del principio di uguaglianza si
aggiunge come, «a prescindere dal fatto che è lecito dubitare che
l’interpretazione fornita dal remittente sia effettivamente corretta e l’unica
possibile sotto il profilo, ad esempio, della non applicabilità della norma in
esame agli "amministratori” degli enti e agli altri soggetti legati da (mero)
rapporto di servizio», sarebbe sufficiente porre in rilievo la diversità della
posizione dei soggetti che provocano o subiscono il danno per giustificare la
diversità di trattamento.
Per quanto attiene poi all’asserita violazione dell’art. 81 Cost.,
l’Avvocatura sottolinea l’inconferenza del parametro costituzionale evocato.
Infine, con riferimento all’asserita violazione degli artt. 25 e 103
Cost., si rileva come «nessuno spostamento di giurisdizione o limitazione dei
poteri giurisdizionali si verifica nel caso in esame».
5.— Con ordinanza del 27 ottobre
2009,
Il giudice a quo premette che la procura contabile
aveva citato in giudizio due dipendenti del Ministero delle finanze, uno solo
dei quali è stato condannato con sentenza passata in giudicato ma per un reato
non rientrante tra quelli indicati nel capo relativo ai «delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione».
5.1.— Ciò
premesso,
In particolare, si aggiunge che «non appare coerente con il sistema
costituzionale e con i principi del diritto non considerare dannosi per il
prestigio dell’amministrazione gli illeciti penali diversi da quelli specifici
contenuti nel capo I del titolo II del libro II del codice penale, in quanto
anche gli altri – ove compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche o in
occasione di esse – sono senz’altro lesivi dell’immagine della p.a.».
5.2.— È intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, che ha depositato un atto avente lo stesso contenuto di quello
depositato nel giudizio promosso con l’ordinanza reg. ord. n. 25 del 2006.
6.—
6.1.— Il giudice a quo premette che la procura contabile
aveva evocato in giudizio il sindaco, un dirigente, un capo servizio ed un
responsabile di un ufficio del Comune di Marcianise perché gli stessi venissero
condannati al pagamento, pro quota,
di determinate somme per il «mancato rispetto degli obblighi inerenti il
mancato raggiungimento da parte del Comune di Marcianise delle percentuali
minime di raccolta differenziata dei rifiuti» per gli esercizi 2003, 2004 e
6.1.2.— Si assume che la questione sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata, avendo natura processuale, si applicherebbe ai giudizi in corso, imponendo l’accoglimento dell’eccezione di nullità della domanda risarcitoria di danno all’immagine.
6.1.3.— Per
quanto attiene al giudizio di non manifesta infondatezza si assume la
violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata, con prescrizione
non ragionevole, avrebbe introdotto un limite all’esercizio dell’azione di
danno soltanto a favore dei dipendenti pubblici e non anche degli
amministratori, nonostante a quest’ultimi sia rimessa «l’attività di formazione
degli indirizzi politici dell’ente, laddove ai dipendenti è affidata la fase propriamente
gestionale se non addirittura operativa».
6.1.4.— Il
giudice a quo assume, inoltre, che
sia priva di ragionevole giustificazione la scelta legislativa di ammettere
l’azione di risarcimento del danno soltanto in presenza di una condanna
definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione e non anche in
presenza di altre ipotesi delittuose o di «illeciti gestionali caratterizzati da
colpa grave».
6.1.5.—
Sarebbe, inoltre, violato anche l’art. 103 Cost., in quanto la norma,
escludendo la risarcibilità in presenza di delitti diversi da quelli contro la
pubblica amministrazione, inciderebbe sull’ambito della giurisdizione della
Corte dei conti.
6.1.6.— Sarebbero, violati, anche
gli artt. 24, primo comma, che riconosce a tutti il diritto di agire in
giudizio a tutela dei propri diritti e interessi, e 113, primo e secondo comma,
Cost.
6.2.— È intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, che ha esposto, con riguardo agli evocati artt. 3, 24, 103 e 113 Cost.,
le argomentazioni già indicate negli altri atti di intervento. La difesa dello
Stato ha aggiunto che le norme in esame possono essere interpretate in senso
conforme a Costituzione, ritenendo che la responsabilità si estende non solo ai
dipendenti ma anche agli amministratori.
7.—
7.1.— Il remittente premette che
la procura contabile aveva chiesto la condanna di un assistente di polizia penitenziaria
presso la casa circondariale di Caltanissetta al pagamento della somma di euro
10.000,00, oltre le spese di giudizio, a titolo di danno erariale subito dal
Ministero della giustizia. In particolare, veniva contestato al dipendente la
lesione dell’immagine dell’ente a causa della condotta tenuta dallo stesso e
consistita nella commissione di reati, accertati con sentenza irrevocabile, di
violenza sessuale, con abuso di qualità e di poteri, e di concussione ai danni
di alcuni detenuti. In concreto la sussistenza del danno sarebbe dimostrata
dalla pubblicità che la vicenda in esame avrebbe avuto presso la stampa locale.
7.1.1.— Ciò
premesso, il giudice a quo assume che la questione è
rilevante, in quanto la norma impugnata, ammettendo la proposizione dell’azione
di danno soltanto in presenza di delitti contro la pubblica amministrazione,
non consentirebbe un giudizio di merito sull’intera domanda. Inoltre, la
nullità dell’azione può essere rilevata d’ufficio dal giudice; ma anche qualora
si volesse argomentare diversamente, deve ritenersi, puntualizza
7.1.2.— Prima di esporre le ragioni
a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il remittente
precisa che la norma, per il suo chiaro contenuto precettivo, non è
suscettibile di essere interpretata in modo conforme a Costituzione.
7.1.3.— Chiarito ciò, si assume,
innanzitutto, la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevolezza della
scelta legislativa di ammettere la risarcibilità soltanto in presenza di
comportamenti che integrano gli estremi di delitti contro la pubblica amministrazione
e non anche di altri reati, quali, ad esempio, i reati di violenza sessuale,
che possano avere anche una maggiore idoneità lesiva dell’immagine della
pubblica amministrazione, soprattutto quando, come nel caso oggetto del
giudizio a quo, essi vengono
consumati all’interno di un istituto penitenziario.
7.1.4.— Sotto altro aspetto, si rileva come sarebbe irragionevole la scelta legislativa di ancorare alla tipologia dei reati il ridimensionamento della legittimazione all’esercizio dell’azione.
7.1.5.—
Inoltre, la irragionevolezza della norma in esame risulterebbe dal fatto che
essa è inserita in un testo legislativo che ha, quale principale finalità,
quella di prevedere misure idonee a fronteggiare l’attuale crisi economica. La
disposizione in esame, si sottolinea, comporterebbe, invece, addirittura «un
maggiore esborso, qualora l’ente danneggiato debba ricorrere alla costituzione
di parte civile nel processo penale o alla coltivazione dell’azione
risarcitoria direttamente nel giudizio civile per ottenere la piena
reintegrazione alla propria immagine lesa».
7.1.6.— La norma
censurata comporterebbe, altresì, un’evidente disparità di trattamento tra
dipendenti dell’ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la
pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e
dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni
ricoperte e nell’esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento
del danno all’immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime
processuale e prescrizionale».
7.1.7.—
7.1.8.—
Infine, si assume la violazione dell’art. 24 Cost., «dal momento che la
limitazione della legittimazione ad agire del pubblico ministero, nella maggior
parte dei casi, si configura come una minorata tutela dell’erario giacché
l’iniziativa processuale è lasciata alle stesse amministrazioni danneggiate,
con possibili pratiche lassiste».
7.2.— È
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, dopo avere svolto la premessa
già esposta, ha sottolineato come le questioni siano inammissibili, in quanto
il remittente, formulando «un giudizio di "maggiore pregnanza” di determinate
fattispecie criminose rispetto ad altre, compie in realtà un apprezzamento assolutamente
soggettivo e ovviamente opinabile, intendendo così sostituire le proprie
valutazioni a quelle del legislatore».
In relazione, poi,
all’asserita irragionevolezza della norma, l’Avvocatura dello Stato fa presente
come sia lo stesso giudice remittente ad affermare che «non sarebbe preclusa,
in caso di presunto danno all’immagine derivante dalla commissione di reati
diversi da quelli previsti dalla norma, la possibilità di agire per il
risarcimento innanzi ad un giudice diverso dal giudice contabile».
Per quanto attiene,
invece, alla irragionevolezza connessa alla collocazione sistematica della
norma, si osserva come «a prescindere dalla correttezza di una prassi ormai
assolutamente costante dal (solo) punto di vista della "buona tecnica legislativa”,
non si vede (né si dimostra in alcun modo) come la sedes prescelta possa in sé aver inficiato le compiute valutazioni
del legislatore e la ragionevolezza della norma».
Con riferimento
all’asserita differenziazione ingiustificata tra le posizioni dei dipendenti
sottoposti o meno alla giurisdizione contabile, si deduce come non sia «del
tutto chiaro se la censura si riferisca alla differenza esistente, in linea
generale, tra soggetti-dipendenti pubblici sottoposti o sottratti alla
giurisdizione contabile (…), ovvero alla differenza di trattamento in ipotesi
ravvisata nell’ambito dei soggetti tutti sottoposti a tale giurisdizione con
riferimento alla risarcibilità di determinati danni».
Con riferimento alla
censura riferita all’art. 24 Cost., si assume come essa sia inammissibile, in
quanto formulata in forma eventuale. Nel merito, si ribadiscono le
argomentazioni contenute negli altri atti difensivi.
8.—
8.1.— La procura contabile aveva chiesto la condanna di un ispettore di polizia di Stato al risarcimento del danno subito dall’immagine dell’amministrazione di appartenenza. In particolare, si era contestato al convenuto di avere preteso, abusando della propria qualità e dei suoi poteri, di accedere gratuitamente in locali aperti al pubblico.
Per tale vicenda era stato
iniziato un procedimento penale per il reato di concussione, che aveva portato
alla condanna in primo grado e all’assoluzione in appello perché «il fatto non
costituisce reato».
8.1.1.—
Secondo il giudice a quo la questione
sarebbe rilevante, in quanto la norma, applicabile ai giudizi in corso, in
ragione della sua natura processuale, impedirebbe la definizione nel merito
della controversia, dovendo
8.1.2.— Con
riferimento al giudizio sulla non manifesta infondatezza, si assume,
innanzitutto, la violazione dell’art. 2 Cost. che, letto in combinato disposto
con l’art. 2059 cod. civ., assicurerebbe il risarcimento del danno per lesione
del diritto all’immagine della pubblica amministrazione a prescindere dalla
sussistenza di un fatto di reato. In questa prospettiva, sottolinea il giudice a quo, la norma censurata porrebbe «un
limite irragionevole (e, soprattutto, incomprensibile) alla piena protezione di
un primario valore costituzionale garantito anche per una figura soggettiva
pubblica».
8.1.3.—
Sarebbe violato, altresì, l’art. 97 Cost., in quanto la previsione legislativa
censurata favorirebbe «l’irresponsabilità dei dipendenti pubblici, non più
soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte di conti in caso di
comportamenti illeciti causativi di danno all’immagine dell’ente di riferimento
al di fuori delle ipotesi di reato».
8.1.4.—
L’asserita violazione dell’art. 3 Cost. deriverebbe dal fatto che sarebbe
intrinsecamente irragionevole limitare l’azione risarcitoria in esame
prescindendo da qualunque valutazione circa le caratteristiche e la specifica
gravità del comportamento illecito.
8.1.5.— La
irragionevolezza sarebbe, inoltre, ulteriormente rafforzata dal fatto che la
norma è inserita in una corpus
normativo che dovrebbe avere la finalità di introdurre misure idonee al
recupero di risorse utili per il Paese. La norma impugnata, invece, favorendo
il «lassismo e l’irresponsabilità dei (soli) dipendenti pubblici», si
muoverebbe in una contraria direzione.
8.1.6.—
L’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per la disparità di trattamento che la
norma introduce, da un lato, tra l’ente pubblico e le altre figure soggettive,
in quanto solo questi ultimi godrebbero di una tutela piena del proprio diritto
all’immagine; dall’altro, tra dipendenti pubblici e amministratori, atteso che
la norma censurata non comprenderebbe nel proprio ambito applicativo anche tale
ultima categoria di soggetti.
8.1.7.—
8.1.8.—
Sarebbe violato anche l’art. 24 Cost., in quanto «l’irrazionale e macchinoso
"doppio binario”» inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico
ministero contabile, «con una presumibile minore tutela dell’erario, in carenza
di un organo dotato di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli
ordinari uffici pubblici certo non possono disporre».
8.1.9.—
Infine, si deduce la violazione dell’art. 77 Cost., in quanto mancherebbero i
presupposti di necessità e di urgenza ai fini dell’emanazione della norma
censurata; presupposti che dovrebbero esistere anche in relazione alle norme,
quale quella censurata, previste direttamente dalla legge di conversione del
decreto-legge.
A tale proposito, il
giudice a quo sottolinea che il
principio affermato nella sentenza n. 391 del
1995 della Corte costituzionale, secondo cui i predetti presupposti non
devono sussistere in relazione alle norme introdotte in sede di conversione,
sarebbe stato superato dalla successiva giurisprudenza costituzionale (si
richiamano le sentenze n. 128 del 2008
e n. 171 del
2007), secondo cui anche gli emendamenti al decreto-legge in sede di
conversione, il cui contenuto sia «dissonante» con quello del decreto, devono
rispettare i requisiti della straordinaria necessità ed urgenza.
8.2.— È
intervenuto anche in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo quanto già
esposto a proposito di altre ordinanze di rimessione, con riferimento alle
censure prospettate in relazione agli artt. 2, 3, 24, 25, 97, 103 Cost.
Per quanto attiene
all’asserita violazione dell’art. 77 Cost., si assume che la stessa non è
fondata, in quanto i requisiti della necessità ed urgenza devono essere
presenti soltanto con riferimento al decreto-legge e non anche alla legge di
conversione. Si puntualizza, a tale proposito, che la sentenza n. 128 del
2008 della Corte, richiamata nell’ordinanza a sostegno della fondatezza
della doglianza, riguarderebbe una fattispecie in cui l’asserito difetto dei
presupposti era riferito alla norma contenuta nel decreto-legge.
9.— L’art.
17, comma 30-ter, periodi secondo e
terzo, è stato
censurato anche, con ordinanza del 10 dicembre 2009 (reg. ord. n. 145 del
2010), dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per
9.1.— Il giudice a quo espone che la procura contabile
aveva citato in giudizio taluni agenti della polizia di Stato in servizio
presso la stazione ferroviaria di Firenze perché venissero condannati al risarcimento
del danno all’immagine subito dall’amministrazione, in conseguenza della
condanna dei predetti agenti, con sentenza irrevocabile, per avere commesso,
con abuso di autorità, reati di violenza sessuale e di falsità ideologica in
atti pubblici.
9.1.2.— La questione di
costituzionalità sarebbe rilevante, in quanto la norma impugnata consente la
proposizione dell’azione di risarcimento del danno all’immagine soltanto in
presenza di delitti contro la pubblica amministrazione. Ne conseguirebbe che,
nella specie, se la norma non venisse dichiarata incostituzionale,
9.1.3.— Esposto ciò, si assume, innanzitutto, che la norma censurata contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto essa, in maniera irragionevole ed arbitraria, ammetterebbe la tutela risarcitoria del diritto all’immagine della pubblica amministrazione soltanto in presenza di talune condotte illecite.
9.1.4.—
Sarebbe, altresì, violato l’art. 24, primo comma, Cost., in quanto la norma
limiterebbe il diritto della pubblica amministrazione di agire in giudizio per
fare valere i propri diritti ed interessi.
9.1.5.— Viene
evocato anche l’art. 97 Cost., in quanto sarebbe violato, da un lato, il principio
di buon andamento in ragione della «perdita di fiducia che i cittadini possono
nutrire nei confronti delle istituzioni, dando luogo ad una visione poco
affidabile dell’amministrazione»; dall’altro, il principio di imparzialità «per
gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta sull’organizzazione della
pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta potenzialità
operativa ed efficienza nella cura dell’interesse pubblico».
9.2.— È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il
patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo le argomentazioni
già esposte negli altri atti difensivi al fine di dimostrare la infondatezza
anche della questione in esame.
10.— Il
medesimo comma 30-ter, periodi
secondo e terzo, è
stato censurato anche, con ordinanza del 17 marzo del 2010 (reg. n. 162 del
2010), dalla Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello.
10.1.—
La procura contabile aveva evocato in giudizio il Presidente dell’Anas,
carica ricoperta dal Ministro pro-tempore
dei lavori pubblici (dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992), perché egli venisse
condannato, a titolo di responsabilità amministrativa, al pagamento in favore
dell’erario della somma 32 miliardi di lire. Tale danno erariale si sarebbe
prodotto a causa dei maggiori costi sostenuti dall’amministrazione per
l’abnorme diffusione del sistema delle trattative private in luogo delle
licitazioni.
Successivamente veniva notificato un atto di citazione integrativo con il
quale, oltre a rimodulare l’importo del danno erariale patrimoniale (da
Con sentenza di primo grado del 17 ottobre 2007, n. 1527 la sezione
giurisdizionale per il Lazio ha condannato il convenuto al risarcimento del
danno patrimoniale per l’importo di euro 5.000.000. Con la stessa sentenza è
stata, invece, dichiarata inammissibile la richiesta di risarcimento del danno
non patrimoniale perché la relativa contestazione sarebbe stata introdotta per
la prima volta nell’atto di citazione integrativa realizzando una non
consentita mutatio libelli.
La predetta sentenza è stata appellata dalla procura. Il giudice
remittente, con sentenza del 5 febbraio 2010 n.
Per quanto attiene poi al procedimento penale, il giudice a quo descrive in maniera dettagliata
tutti i passaggi di tale procedimento, rilevando come esso si sia concluso con
una sentenza (n. 2257 del 2005), emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso
il Tribunale di Roma, di assoluzione «perché
il fatto non sussiste». Ma ciò, si puntualizza, non è avvenuto «a seguito di un sostanziale
riesame di merito, ovvero per vizi propri della sentenza di primo grado», ma «per la dichiarata
incompetenza funzionale del collegio per i reati ministeriali (accertata dalla
Corte d’appello applicando i principi resi da una sentenza della Corte
costituzionale nelle more intervenuta) e a seguito dell’approvazione
legislativa di una nuova norma di garanzia, incidente anche sul valore
probatorio delle dichiarazioni già correttamente rese».
10.1.2.— Ciò premesso, il giudice
remittente sottolinea come la questione proposta sia rilevante, in quanto l’applicazione
della norma impugnata precluderebbe l’analisi nel merito della domanda di
risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione.
10.1.3.— Prima di esporre, nello
specifico, le ragioni poste a fondamento del giudizio di non manifesta
infondatezza, il predetto giudice rileva come la norma censurata possa «prefigurare due distinte
opzioni interpretative, tra loro alternative». Secondo una prima
interpretazione la disposizione in esame avrebbe ridotto l’area di
configurabilità del danno all’immagine. Secondo una diversa interpretazione,
invece, il legislatore avrebbe inteso ripartire la cognizione dei comportamenti
lesivi del diritto all’immagine della pubblica amministrazione tra giudice
contabile e giudice ordinario.
Entrambe «le possibilità
interpretative», puntualizza il giudice remittente, «non sembrano
costituzionalmente conformi ed orientate». Infatti, in entrambe le
evenienze verrebbero violati i principi di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3
Cost.), nonché il principio di buon andamento (art. 97 Cost.). La prima
interpretazione contrasterebbe, inoltre, con gli artt. 24 e 25 Cost.
10.1.4.—
L’ordinanza assume che
la norma impugnata violerebbe il principio di buon andamento e imparzialità di
cui all’art. 97 Cost., in quanto «l’immagine della pubblica amministrazione si immedesima
con il buon andamento e con l’imparzialità costituzionalmente protetti» e «rappresenta uno strumento
per la percezione esterna della correttezza della gestione».
10.1.5.— Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza, atteso che il legislatore avrebbe limitato, senza alcuna giustificazione, che non potrebbe essere neanche individuata nella gravità delle condotte, il risarcimento del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione.
10.1.6.—
10.1.7.— La
norma censurata si porrebbe in contrasto pure con l’art. 24 Cost., atteso che,
in presenza della lesione di un bene garantito dall’art. 2 Cost. anche alle
persone giuridiche, non sarebbe assicurata all’amministrazione pubblica «una
tutela completa ed efficace».
10.1.8.—
Secondo
10.2.— Anche in questo
giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il
patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo, con riferimento
alle censure riferite agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., le argomentazioni
difensive già contenute nei precedenti interventi.
10.3.— Si è costituito in
giudizio il già Ministro dei lavori pubblici G.P., convenuto nel giudizio a quo, rilevando come la questione
sollevata sia priva del requisito della rilevanza, in quanto
11.— Con ordinanza del 12
novembre 2009 (reg. ord. n. 95 del 2010)
11.1.—
Il giudice a quo sottolinea che l’accoglimento
delle istanze di nullità «comporta la caducazione del giudizio di merito per
responsabilità amministrativa-contabile, con conseguente ricaduta in punto di
rilevanza ai fini del decidere».
11.1.2.— Chiarito ciò, il
giudice remittente assume l’incostituzionalità della norma in esame, in base
alla quale qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in
violazione delle disposizioni di cui al più volte citato comma 30-ter dell’art. 17 del d.l. n. 78 del
2009, «salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla
data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è
nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da
chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale
della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal
deposito della richiesta».
11.1.3.— In primo luogo,
secondo il remittente, l’illegittimità costituzionale discenderebbe dal fatto
che il procedimento, a cognizione sommaria, disciplinato dalla norma impugnata,
non prevedrebbe né la notifica dell’istanza alle parti costituite, né la
partecipazione all’incidentale procedimento «innanzi alla competente sezione
giurisdizionale della Corte dei conti, delle parti in giudizio, né di quella
pubblica attrice, né delle parti convenute», nonostante il contenuto decisorio
dell’istanza di nullità e la espressa previsione in tal senso contenuta, quale
regola generale, in tutte le norme processuali generali e speciali.
Tale omissione
legislativa, si osserva, violerebbe, in assenza di esigenze di celerità, il
principio costituzionale del diritto alla difesa e quello del contraddittorio ex artt. 24, primo e secondo comma, e
111 Cost.
11.1.4.— Il giudice a quo rileva come, anche a volere
ritenere che il procedimento decisorio preveda «implicitamente» il
contraddittorio tra le parti costituite «da instaurare con provvedimento del
Presidente della sezione giudicante da notificare alle parti costituite e
statuente una camera di consiglio ad hoc
e/o il deposito di memorie», il termine perentorio di trenta giorni dal
deposito dell’istanza per decidere sulla stessa, con cognizione sommaria, ma
con contenuto sostanzialmente decisorio, sarebbe costituzionalmente
illegittimo, in quanto «irragionevolmente breve». Da ciò conseguirebbe la
violazione degli artt. 3, 24, 103, secondo comma, e 111 Cost. per «eccessiva
brevità del termine a difesa» (si cita, tra l’altro, la sentenza n. 42 del
1981).
11.1.5.— Sotto altro aspetto,
si deduce che non sussisterebbe alcuna ragione cautelare di urgenza idonea a
giustificare la previsione di un termine così breve.
11.1.6.— Infine, si deduce
che la norma sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto «non prevede
alcun effetto giuridico derivante dal mancato deposito della decisione della
sezione nel "perentorio” termine o dal suo tardivo deposito: che ciò comporti
l’invalidazione dei successivi atti processuali o che tale inerzia o ritardo
non abbia conseguenze sostanziali e/o processuali, non è dato comprendere e ciò
si ripercuote, in punto di legittimità costituzionale, ancora una volta sul
diritto alla difesa delle parti (art. 24 Cost.)».
11.2.— Si è costituito in
giudizio il sig. M.L.D.T., convenuto, unitamente ad altri nel giudizio a quo, chiedendo che la questione
sollevata venga dichiarata non fondata.
11.3.— È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate
vengano dichiarate inammissibili e infondate.
In particolare, con
riferimento alla lamentata violazione del diritto di difesa e del
contraddittorio, si deduce come sia possibile una interpretazione conforme a
Costituzione, postulata dallo stesso remittente.
Per quanto attiene poi
alla doglianza relativa alla brevità del termine, si osserva come l’apposizione
di un termine per lo svolgimento di un’attività processuale costituisca
valutazione di merito rimessa alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile
dalla Corte costituzionale, se non nel caso, non ricorrente nella controversia
in esame, di valutazione assolutamente arbitraria e irragionevole (si richiama
la sentenza n.
427 del 1999).
In relazione alla censura
con cui il giudice a quo assume che
non sussisterebbero ragioni cautelari e di urgenza tali da giustificare la
previsione di un regime diverso rispetto alle altre eccezioni di rito, si
deduce, in primo luogo, come tale valutazione sia rimessa alla discrezionalità
del legislatore. In secondo luogo sussisterebbe l’opportunità di una immediata
decisione sulla eccezione di nullità sia nel caso di un suo rigetto, per
rimuovere immediatamente un possibile ostacolo alla definizione del giudizio,
sia nel caso di accoglimento, al fine di procedere alla rinnovazione degli atti
dichiarati nulli.
Infine si deduce come
quella impugnata non sia l’unica norma processuale che prevede l’imposizione di
un termine per il giudicante.
Considerato in diritto
1.—
1.1.—
2.— Considerata la sussistenza di spiccati elementi di connessione
oggettiva tra i dieci giudizi sopra indicati − due dei quali discussi in
udienza pubblica (reg. ord. n. 95 e n. 162 del 2010) e gli altri otto esaminati
in camera di consiglio (reg. ord. n. 331 del 2009, numeri 24, 25, 26, 27, 44,
125 e 145 del 2010) − gli stessi devono essere riuniti per una
trattazione unitaria e decisi con unica sentenza.
3.— Le disposizioni censurate prevedono, ai periodi secondo e terzo del
suindicato comma 30-ter, che le procure
regionali della Corte dei conti esercitino l’azione per il risarcimento del
danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’articolo 7 della legge 27
marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e
procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo fine, si precisa che
il decorso del termine di prescrizione, di cui al comma 2 dell’articolo
1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni
in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è sospeso fino alla conclusione del
procedimento penale.
Il richiamato art. 7 della legge n. 97 del
3.1.— Il medesimo comma 30-ter,
al quarto periodo – che, sebbene censurato anche dalla sezione giurisdizionale
per
4.— Preliminarmente, deve essere dichiarata la inammissibilità della
costituzione in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R. (reg. ord.
n. 331 del 2009), che, pur assumendo di essere parti nel processo a quo,
si sono costituiti oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo
1953, n. 87, computato secondo quanto previsto dall’art. 3 delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, essendo tale
termine, per costante giurisprudenza, perentorio (ex plurimis, sentenza n. 234 del
2007).
5.— Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la
questione sollevata dalla Corte di conti, sezione giurisdizionale per
In punto di fatto,
dall’ordinanza di remissione si rilevano soltanto una serie di nomi di persone
indicate come soggetti convenuti in un giudizio di responsabilità, il nome di
uno di essi, D.T.M.L., che ha presentato una istanza diretta alla declaratoria
di nullità di atti istruttori e processuali, la presentazione di una analoga istanza
avanzata dalla difesa del «convenuto Trevisan», nonché l’indicazione di un
«atto di costituzione in mora 8-11-2008 inoltrato (testualmente, n.d.r.)
dall’a. delegato della casa da gioco di Campione d’Italia al Trevisan per danni
erariali» e di una «citazione in giudizio della Procura nei confronti del
Trevisan». Nulla di più è dato evincere per quanto concerne la descrizione
della fattispecie, in particolare, con riguardo alle posizioni funzionali dei
convenuti, alle loro qualifiche, alle vicende per effetto delle quali si
sarebbero prodotti danni all’immagine di un ente pubblico e, soprattutto, al
contenuto degli addebiti contestati ai singoli convenuti, con specifico
riferimento alla posizione di ciascuno di essi.
In tale situazione, deve
ritenersi del tutto carente, per genericità, la descrizione della fattispecie
da parte del giudice a quo nella sua
ordinanza.
Di qui l’inammissibilità
della questione così come proposta.
5.1.— Con riguardo, invece, ai giudizi introdotti con le ordinanze n. 331
del 2009 e n. 162 del 2010, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti,
la prima operante nella Regione Umbria e la seconda in sede centrale d’appello,
prospettano due questioni, senza porle in rapporto tra loro di subordinazione:
una, relativa alla limitazione del danno all’immagine della pubblica
amministrazione soltanto nelle ipotesi di fatti di reato specificamente
indicati; l’altra, relativa all’introduzione di due diverse forme di tutela
innanzi a sedi giurisdizionali differenti e cioè alla Corte dei conti per le
fattispecie costituenti anche reato e all’autorità giudiziaria ordinaria in
tutti gli altri casi.
Così operando, i giudici a quibus hanno
omesso di chiarire quale sia l’interpretazione della norma censurata da essi
fatta propria. Siffatta omissione, oltre a conferire carattere sostanzialmente
ancipite alla loro prospettazione, rende perplessa la motivazione sulla
rilevanza e determina l’inammissibilità della questione sollevata.
Anche tali questioni, sulla base di una costante giurisprudenza di questa
Corte, devono essere dichiarate inammissibili, restando assorbita l’eccezione
di inammissibilità per difetto di rilevanza, sollevata dalla parte privata nel
giudizio incardinato sulla base dell’ordinanza n. 162 del 2010.
5.2.— Del pari inammissibile, infine, deve ritenersi la questione
indirizzata avverso il quarto periodo del comma 30-ter dell’art. 17 dalla sezione giurisdizionale della Corte dei
conti per
Risulta, infatti, carente – sul punto – qualsiasi autonoma motivazione,
tanto sulla rilevanza nei giudizi a
quibus di tale specifica questione, quanto sulla sua non manifesta
infondatezza.
6.— Nel merito, pertanto, devono essere esaminate le censure rivolte nei confronti
di quella parte della disposizione impugnata che pone limiti al risarcimento
del danno per lesione all’immagine della pubblica amministrazione, secondo le
prospettazioni delle ordinanze di rimessione.
Al riguardo, in via preliminare, è necessario individuare, anche al fine
di una corretta delimitazione del thema
decidendum, l’esatta portata della normativa impugnata.
Il legislatore ha ammesso la proposizione dell’azione risarcitoria per
danni all’immagine dell’ente pubblico da parte della procura operante presso il
giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla
categoria dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione»; ciò per effetto del richiamo, contenuto nella norma
censurata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che fa, appunto, espresso
riferimento ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del
codice penale.
Non vi è dubbio che la formulazione della disposizione non consente di
ritenere che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente
contemplate dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per
lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un
organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio
per responsabilità amministrativa ai sensi dell’art. 103 Cost. Deve, quindi,
ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della
giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di
quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile,
sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in
presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un
dipendente di questa. In altri termini, non è condivisibile una interpretazione
della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere
una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a
seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla
domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata, invece,
nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di
responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è
configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria.
Del resto, costituisce dato pacifico, come riconosciuto anche da questa
Corte con la sentenza
n. 371 del 1998, sulla quale si ritornerà nel prosieguo, che la limitazione
della responsabilità amministrativa, sul piano soggettivo, al dolo o alla colpa
grave, non implica che il dipendente pubblico, qualora la sua condotta si
caratterizzi per la presenza di un minore grado di colpa, possa essere evocato
in giudizio innanzi ad una autorità giudiziaria diversa dal giudice contabile.
7.— Così definita la portata della disposizione impugnata, si può passare
ad analizzare le singole doglianze prospettate dai giudici a quibus. In questa analisi si procederà
mediante un accorpamento delle diverse questioni, avendo riguardo ai parametri
costituzionali evocati.
8.— In tale indagine, ha
carattere prioritario la censura relativa all’art. 77 Cost. In particolare, con
la richiamata ordinanza n. 125 del 2010, la sezione giurisdizionale della Corte
dei conti per
La questione non è
fondata.
Questa Corte, in passato,
ha affermato che, con riferimento alla adozione di nuove norme da parte del
Parlamento nel corso dell’esame di un disegno di legge di conversione di un
decreto-legge, non è pertinente il richiamo all’art. 77 Cost. Ciò in quanto «la
valutazione preliminare dei presupposti della necessità e dell’urgenza investe
(…), secondo il disposto costituzionale, soltanto la fase della decretazione di
urgenza esercitata dal Governo, né può estendersi alle norme che le Camere, in
sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina
"aggiunta” a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente
al Parlamento e che – a differenza di quella espressa con la decretazione
d’urgenza del Governo – non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad
assumere la propria efficacia solo al momento dell’entrata in vigore della
legge di conversione» (sentenza n. 391 del
1995).
Successivamente, però,
questa stessa Corte, con la sentenza n. 171 del
2007, ha mutato orientamento sul punto, precisando − dopo aver
ribadito che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi
del decreto-legge − che «le disposizioni della legge di conversione in
quanto tali» – nei limiti, cioè, in cui «non incidono in modo sostanziale sul
contenuto normativo delle disposizioni del decreto», come nel caso (allora) in
esame – «non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità
costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso».
Seguendo il suddetto più
recente orientamento, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini
di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle
norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del
tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale
valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a
tale contenuto.
Orbene, nella specie, per
le ragioni che meglio risulteranno nel prosieguo della motivazione, la norma
contenuta nel comma 30-ter, aggiunto
all’art. 17 del decreto-legge n. 78 del 2009, non si trova in una condizione di
totale eterogeneità rispetto al contenuto del decreto-legge in esame; sicché
rispetto ad essa rileva la indispensabile sussistenza dei requisiti di
necessità e di urgenza.
I giudici remittenti, a
questo riguardo, osservano che la norma censurata sarebbe priva di siffatti
requisiti.
A giudizio di questa
Corte, invece, deve in contrario osservarsi, innanzi tutto, che la valutazione
in ordine alla sussistenza, in concreto, dei requisiti in parola è rimessa al
Parlamento all’atto della approvazione dell’emendamento ora oggetto di censure.
Tale valutazione non deve tradursi in una motivazione espressa, che sarebbe
incompatibile con le caratteristiche del procedimento di formazione legislativa.
Né, a questo riguardo, può assumere rilievo il contenuto del preambolo allo
stesso decreto-legge che, proveniente dal Governo, concerne le sole
disposizioni originarie del medesimo provvedimento.
In realtà, la suindicata
valutazione è rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata
innanzi a questa Corte soltanto se essa sia affetta da manifesta
irragionevolezza o arbitrarietà, ovvero per mancanza evidente dei presupposti (sentenza n. 116 del
2006). Evenienze queste che non possono ritenersi sussistenti nella specie,
in quanto non è dato evincere la carenza, nella censurata disposizione
introdotta dal Parlamento in sede di conversione del decreto-legge n. 78 del
2009, dei necessari presupposti di necessità ed urgenza. Né, sotto altro
aspetto, può ritenersi che la norma stessa sia del tutto dissonante rispetto al
contenuto della decretazione di urgenza emessa con il citato decreto-legge nel
quadro generale di «provvedimenti anticrisi, nonché proroga dei termini». E ciò
con specifico riguardo alla esigenza di limitare ambiti, ritenuti dal
legislatore troppo ampi (come, d’altronde, dimostrano il numero delle ordinanze
di remissione e – soprattutto – la tipologia delle contestazioni), di
responsabilità dei pubblici dipendenti cui sia imputabile la lesione del
diritto all’immagine delle amministrazioni di rispettiva appartenenza.
A questo proposito, può
ritenersi palese l’intento del legislatore di intervenire in questa materia sulla
base della considerazione secondo cui l’ampliamento dei casi di responsabilità
di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è
suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e tempestività
dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso
di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è
demandato l’esercizio dell’attività amministrativa. D’altronde, a tale precipuo
scopo risulta preordinato lo stesso potere discrezionale del giudice contabile
(c.d. "potere riduttivo”) di graduare la condanna sulla base della gravità
della colpa, così determinando il debito risarcitorio del convenuto (sentenze n. 184 e n. 183 del 2007).
Ed allo stesso scopo è preordinata anche la limitazione della responsabilità
amministrativa ai casi di dolo o colpa grave (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
Sotto altro aspetto, deve
pure osservarsi che, nella stessa ottica finalistica, il legislatore – come
emerge chiaramente dal tenore delle rispettive previsioni normative – ha
introdotto, anche in questo caso ex novo
nel testo del decreto-legge n. 78 del 2009, ulteriori disposizioni contenute
nei commi 30-bis e 30-quater. Esse perseguono lo scopo, da un
lato, di attenuare il regime dei controlli della Corte dei conti e, dall’altro
lato, di limitare ulteriormente l’area della gravità della colpa del dipendente
incorso in responsabilità, proprio all’evidente scopo di consentire un
esercizio dell’attività di amministrazione della cosa pubblica, oltre che più
efficace ed efficiente, il più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal
legislatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in
essere.
In definitiva, dunque, la
stessa ampiezza della disposizione della rubrica del decreto-legge in
questione, nonché il complessivo quadro legislativo che deriva dalle originarie
disposizioni della decretazione di urgenza e da quelle, aggiuntive, contenute
nella relativa legge di conversione, consentono di ricondurre anche la norma
ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni
da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei
meccanismi, previsti con il citato decreto-legge, aventi lo scopo di introdurre
nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa
il Paese.
9.— In più ordinanze di rimessione sono state formulate, sia pure con
argomentazioni non sempre coincidenti tra loro, censure volte a denunciare
l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., in alcuni casi richiamato unitamente
all’art. 97 Cost.
Un primo gruppo di ordinanze ha prospettato la irragionevolezza della
norma, sul piano oggettivo, per avere il legislatore limitato il risarcimento
del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica
amministrazione e non anche in presenza di condotte non delittuose altrettanto
gravi (reg. ord. n. 24, n. 27, n. 44 e n. 125 del 2010) ovvero in presenza di
reati diversi da quelli espressamente indicati (reg. ord. n. 26, n. 27 e n. 44
del 2010).
La questione non è fondata.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra, infatti, nella
discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta
irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le fattispecie di
responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover
fare fronte. Senza volere indagare in questa sede quale sia la effettiva natura
della responsabilità derivante dalla lesione del diritto all’immagine di un
ente pubblico, è indubbio che la responsabilità amministrativa, in generale,
presenti una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di
responsabilità previste dall’ordinamento, che deriva dalla accentuazione dei
profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
In questa prospettiva, il legislatore ha, tra l’altro, il potere di delimitare
l’ambito di rilevanza delle condotte perseguibili, stabilendo, «nella
combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», quanto «del rischio
dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del
dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per
dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità
ragione di stimolo, e non di disincentivo» (citata sentenza n. 371 del
1998).
Nel caso in esame, il legislatore ha ulteriormente delimitato, sul piano
oggettivo, gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo
la risarcibilità del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione
soltanto in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare
categoria di delitti. La scelta di non estendere l’azione risarcitoria anche in
presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso
da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente
irragionevole. Il legislatore ha ritenuto, infatti, nell’esercizio della
predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che
integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare,
tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio
dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno
per lesione dell’immagine dell’ente pubblico. In altri termini, la circostanza
che il legislatore abbia inteso individuare esclusivamente quei reati che
contemplano la pubblica amministrazione quale soggetto passivo concorre a
rendere non manifestamente irragionevole la scelta legislativa in esame.
In definitiva, pertanto, la particolare struttura e funzione della
responsabilità amministrativa, unitamente alla valutazione della specifica
natura del bene giuridico protetto dalle norme penali richiamate dalla
disposizione impugnata, rende non palesemente arbitraria la scelta con cui è
stato delimitato il campo di applicazione dell’azione risarcitoria esercitatile
dalla procura operante presso le sezioni della Corte dei conti.
10.— Le medesime ordinanze di rimessione prospettano, inoltre, la
violazione dell’art. 3 Cost., sul piano soggettivo, per la disparità di
trattamento che la norma censurata determinerebbe tra dipendenti e
amministratori dell’ente pubblico, questi ultimi esclusi dall’ambito
applicativo della norma per effetto del richiamo, da parte della disposizione
impugnata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale ammette il
risarcimento del danno all’immagine dell’amministrazione per i soli dipendenti
di questa (reg. ord. n. 25, n. 26, n. 27 e n. 125 del 2010). Altro profilo di
violazione dell’art. 3 Cost. per asserita disparità di trattamento è dedotto
con riferimento alle posizioni dei dipendenti, da un lato, e delle persone
giuridiche, dall’altro (reg. ord. n. 24 del 2010), o tra la pubblica
amministrazione e altri soggetti dell’ordinamento, «in quanto il deterioramento
dell’immagine della prima non è sanzionato se non in casi limite» rappresentati
«dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi è ben tutelato
in tutti i casi di commissione di illecito di non rilievo penale» (reg. ord. n.
25 e n. 26 del 2010; in analogo senso reg. ord. n. 125 del 2010).
Le questioni prospettate sono in parte inammissibili e in parte non
fondate.
È, innanzi tutto, inammissibile quella relativa alla dedotta disparità di
trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico, contemplati espressamente dalla
norma (art. 7 della legge n. 97 del 2001) cui fa rinvio la disposizione
impugnata, e gli amministratori dell’ente stesso cui, invece, le due
disposizioni non fanno riferimento. Ciò in quanto, prescindendo dalla
condivisibilità o meno dell’interpretazione proposta da alcuni dei remittenti
(comunque rimessa ai giudici competenti) che esclude gli amministratori
pubblici dalla sfera di applicazione della norma in esame, in nessuna delle
ordinanze di remissione, che propongono la questione, i giudici a quibus si sono posti il problema del
tipo di responsabilità per danni arrecati dagli amministratori dell’ente per
violazione dell’immagine di quest’ultimo e, conseguentemente, dell’autorità
giudiziaria eventualmente competente a conoscere della correlata vicenda
contenziosa. Essi, infatti, avrebbero dovuto esplorare la percorribilità di
soluzioni costituzionalmente orientate, prima di sollevare la questione di
costituzionalità della norma ora impugnata.
Quanto poi alle restanti censure relative alla presunta disparità di
trattamento tra la situazione giuridica del dipendente, da un lato, e quelle
delle persone giuridiche private e pubbliche, dall’altro, deve rilevarsene la
non fondatezza, attesa la eterogeneità delle situazioni poste a confronto.
11.— Ancora con riferimento all’art. 3 Cost., deve essere esaminata la
censura con cui alcuni remittenti deducono, da un lato, la irragionevolezza
derivante dall’inserimento di una norma, che comporta un maggiore esborso
economico, in un testo legislativo che persegue, quale principale finalità,
quella di adottare misure idonee a fronteggiare l’attuale crisi economica (reg.
ord. n. 24, 44 e 125 del 2010), nonché, dall’altro, la mancata valutazione, nel
corso della «brevissima discussione» svolta in sede di conversione, della
portata e delle conseguenze che sarebbero derivate dalla sua applicazione; né
sarebbero emerse esigenze di natura finanziaria o di interesse pubblico idonee
a giustificare la introduzione nel sistema della norma censurata (reg. ord. n.
25 e n. 26 del 2010).
Tali questioni non sono fondate.
A prescindere da valutazioni, sulle quali si ritornerà tra breve, circa
la correttezza dell’assunto secondo cui la norma censurata comporterebbe una
maggiore spesa per la pubblica amministrazione, deve ritenersi, in relazione
alla prima questione, come non possa considerarsi manifestamente irragionevole
il precetto normativo in esame, almeno avendo riguardo alla peculiarietà della
vicenda oggetto del presente giudizio.
Con riferimento poi alla seconda doglianza, è sufficiente rilevare come
non occorra che gli atti legislativi contengano una motivazione, ovvero che
questa comunque risulti dal loro iter
di approvazione, circa le esigenze che è necessario assicurare, essendo
sufficiente che la norma stessa non sia viziata da palese irragionevolezza o
arbitrarietà.
12.— Infine, è destituita di fondamento la ulteriore censura, prospettata
anch’essa con riferimento all’art. 3 Cost., con cui si lamenta che la
disposizione in esame comporterebbe una evidente disparità di trattamento tra
dipendenti dell’ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la
pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e
dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni
ricoperte e nell’esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento
del danno all’immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime
processuale e prescrizionale» (reg. ord. n. 44 del 2010).
A tale riguardo, è sufficiente richiamare quanto già sopra precisato
(punto 6) in ordine alla definizione del campo di applicazione della norma e,
in particolare, ai limiti con i quali tale tipologia di responsabilità è stata
configurata dal legislatore e alla esclusione di forme di concorrenza di altre
giurisdizioni in relazione a fattispecie diverse da quelle contemplate dalla
norma stessa.
13.— Sotto altro aspetto taluni giudici remittenti assumono la violazione
dell’art. 2 Cost., in un caso evocato unitamente all’art. 24 Cost. (reg. ord.
n. 24 del 2010), in quanto tale norma, da leggere in combinato disposto con
l’art. 2059 del codice civile (reg. ord. n. 125 del 2010), imporrebbe una
tutela piena, e non limitata, come nel caso in esame, dei diritti della
personalità, tra i quali deve essere ricompreso quello all’immagine della
pubblica amministrazione (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 125 del 2010).
La questione non è fondata.
La tutela dei diritti della persona ha conosciuto negli ultimi anni una
complessa evoluzione, con particolare riferimento alla portata e all’ampiezza
del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla loro lesione.
Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell’art.
2059 cod. civ. – nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto
nei casi previsti dalla legge – si riteneva che la legge richiamata fosse
esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il
profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale – inteso come danno morale
subiettivo (sentenza
n. 184 del 1986) – era, pertanto, necessario che la condotta posta in
essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.
La successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 233 del
2003) e anche della Corte di cassazione (Cass., Sezioni unite, sentenza 11
novembre 2008, n. 26972) – dopo avere spostato il centro dell’analisi sul
danneggiato, e dunque sui profili restitutori, e dopo avere identificato
l’esatta natura del danno non patrimoniale come avulsa da qualunque forma di
rigidità dommatica legata all’impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni
– ha allargato le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale,
affermando che esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di
tutti gli altri requisiti richiesti ai fini del perfezionamento della
fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti dal
legislatore, quando viene leso un diritto della persona costituzionalmente
tutelato. In definitiva, l’attuale sistema della responsabilità civile per
danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non
patrimoniale ex art. 2059 cod. civ.,
è, pertanto, essenzialmente un sistema bipolare.
Inoltre, per quanto attiene specificamente alla responsabilità per
violazione dell’immagine dell’ente pubblico, deve rilevarsi, in linea con
quanto affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, che
il relativo danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha
valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell’art. 2059 cod.
civ. D’altra parte, il riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte
dei conti, alla patrimonialità del danno stesso – in ragione della spesa necessaria
per il ripristino dell’immagine dell’ente pubblico – deve essere inteso come
attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e non alla
individuazione della natura giuridica di esso.
Né può ritenersi che l’inquadramento della responsabilità per la lesione
del diritto all’immagine dell’ente pubblico nell’ambito della responsabilità
amministrativa, devoluta alla giurisdizione contabile della Corte dei conti,
possa condurre ad una diversa qualificazione della peculiare forma di responsabilità
disciplinata dalla norma ora censurata.
Nondimeno, deve rilevarsi che la responsabilità amministrativa presenta,
per le ragioni già esposte, una struttura ed una funzione diverse da quelle che
connotano la comune responsabilità civile. Non si può, pertanto, lamentare,
come fanno taluni giudici a quibus,
la violazione dell’art. 2 Cost., evocando l’elaborazione giurisprudenziale che
ha avuto riguardo a tale forma di responsabilità per violazione di diritti costituzionalmente
protetti della persona umana.
Identificato, infatti, il danno derivante dalla lesione del diritto
all’immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa
ha di sé in conformità al modello delineato dall’art. 97 Cost., è
sostanzialmente questa norma costituzionale ad offrire fondamento alla
rilevanza di tale diritto.
Né varrebbe richiamare, data la specialità della relativa norma e la ratio che ne ha giustificato
l’introduzione nel sistema, quanto stabilito dall’art. 69 del decreto
legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n.
Quanto esposto non significa che non sia possibile riconoscere
l’esistenza di diritti "propri” degli enti pubblici e conseguentemente
ammettere forme peculiari di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso
in cui i suddetti diritti vengano violati. Ma tale riconoscimento deve
necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della
conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di
assicurare il prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli
uffici della pubblica amministrazione (sentenza n. 172 del
2005). In questa prospettiva, non è manifestamente irragionevole ipotizzare
differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche
mediante forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a
fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti
rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
Sulla base delle suindicate considerazioni, la norma censurata non può
ritenersi in contrasto con l’art. 2 Cost., in quanto la peculiarità del diritto
all’immagine della pubblica amministrazione, unitamente all’esigenza di
costruire un sistema di responsabilità amministrativa in grado di coniugare le
diverse finalità prima richiamate, può giustificare una altrettanto particolare
modulazione delle rispettive forme di tutela.
14.— Secondo taluni giudici remittenti, sarebbe violato, altresì, l’art.
24 Cost., in quanto la previsione contenuta nella disposizione censurata si
risolverebbe in una limitazione del diritto della pubblica amministrazione di
agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (reg. ord. n. 44 e
n. 145 del 2010). Tale parametro costituzionale viene evocato, in alcune
ordinanze (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), unitamente all’art. 113
Cost., che non ammette «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di
diritti ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa». Secondo,
poi, l’ordinanza n. 125 del 2010, l’art. 24 Cost. sarebbe violato, in quanto
«l’irrazionale e macchinoso "doppio binario”» (giudice contabile, ricorrendo i
presupposti previsti dalla norma censurata, e giudice ordinario negli altri
casi) inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico ministero, «con
una presumibile minore tutela dell’erario, in carenza di un organo dotato di
strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici
certo non possono disporre».
La questione non è fondata.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che la garanzia
apprestata dall’art. 24 Cost. «opera attribuendo la tutela processuale delle
situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano
riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel
contenuto del diritto al quale serve, e si modella sui concreti lineamenti che
il diritto riceve dall’ordinamento» (ex
multis, sentenze n. 453 e n. 327 del 1998).
Pertanto, una volta ritenuto che sia esente dai prospettati vizi di
costituzionalità la configurazione ricevuta, nel caso in esame, dalla specifica
situazione giuridica qui in rilievo, non è ravvisabile alcun vulnus alle conseguenti modalità di
tutela processuale.
Per analoghe ragioni non è fondata la censura riferita all’art. 113 Cost.
15.— La lesione del quarto comma dell’art. 81 Cost. ad opera della norma
censurata è prospettata da taluni giudici a
quibus, in quanto non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria
«della minore entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero
dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata» (in particolare, reg.
ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Anche tale questione non è fondata.
La norma costituzionale evocata, prevedendo che la «legge che importi
nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte», è, nella
specie, inconferente, in quanto l’art. 81 Cost. «attiene ai limiti al cui
rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria,
ma non concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della
disciplina della responsabilità amministrativa» (sentenze numeri 371 e 327 del 1998).
In ogni caso non può ritenersi che una astratta limitazione del risarcimento
del danno spettante alla pubblica amministrazione, determinando una possibile
minore entrata, comporti «nuove o maggiori spese». In altri termini, non è
possibile porre una equiparazione fra «nuova o maggiore spesa» ed il mancato
risarcimento di danni cagionati ad una pubblica amministrazione (sentenza n. 46 del
2008). Del resto, non potendosi procedere alla quantificazione delle minori
entrate, essendo tale diminuzione eventuale e comunque connessa a variabili
concrete non determinabili a priori, non sarebbe neanche possibile, come
sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato nelle sue difese, prevedere
la necessaria copertura finanziaria.
16.— Alcune ordinanze di
remissione evocano, sia pure sotto diversi angoli prospettici, talora in
connessione con l’art. 54, l’art. 97 Cost. per lamentarne la violazione. In
particolare, si
osserva che, sebbene il buon andamento e l’imparzialità non costituiscano il «fondamento costituzionale
della tutela dell’immagine pubblica», la «stretta relazione tra l’immagine pubblica e l’agire
corretto»
e la circostanza che essi costituiscono «criteri cui deve essere
improntata l’azione amministrativa affinché il prestigio pubblico non venga
leso»,
comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente
indebolisce il diritto sostanziale dell’amministrazione ad agire, attraverso i
propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente» (reg. ord. n. 24 del 2010).
In altre ordinanze si assume che la norma impugnata violi l’evocato parametro
costituzionale in quanto: a) «determina un’alterazione della funzionalità degli
enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente
fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni» (reg. ord. n. 25 e n. 26
del 2010); b) «contraddice» il principio di imparzialità «che si risolve
essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale» e per «
gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta sull’organizzazione della
pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta potenzialità
operativa ed efficienza nella cura dell’interesse pubblico» (reg. ord. n. 145 del 2010);
c) favorisce «l’irresponsabilità dei dipendenti pubblici, non più soggetti al
giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti in caso di
comportamenti illeciti causativi di danno all’immagine dell’ente di riferimento
al di fuori delle ipotesi di reato» (reg. ord. n. 125 del 2010);
d) da un lato, «indebolisce l’efficacia deterrente del giudizio di
responsabilità; dall’altro, come nella presente fattispecie ed in ipotesi
similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a carico dell’erario per
l’attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere l’"integrale” risarcimento
del danno all’immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte di
un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le
ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II del libro II del codice
penale che altre fattispecie delittuose» (reg. ord. n. 44 del 2010).
Anche tali questioni non
sono fondate.
L’art. 97 Cost. impone la costruzione, sul piano legislativo, di un
modello di pubblica amministrazione che ispiri costantemente la sua azione al
rispetto dei principi generali di efficacia, efficienza e imparzialità. Si
tratta di regole che conformano, all’"interno”, le modalità di svolgimento
dell’attività amministrativa.
È indubbio come sussista una stretta connessione tra la tutela
dell’immagine della pubblica amministrazione e il rispetto del suddetto
precetto costituzionale. Può ritenersi, infatti, che l’autorità pubblica sia
titolare di un diritto "personale” rappresentato dall’immagine che i consociati
abbiano delle modalità di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell’imparzialità.
Tale relazione tendenzialmente esistente tra le regole "interne”, improntate al
rispetto dei predetti canoni, e la proiezione "esterna” di esse, giustifica il
riconoscimento, in capo all’amministrazione, di una tutela risarcitoria.
Il legislatore, nell’esercizio non manifestamente irragionevole della sua
discrezionalità, ha ritenuto che tale tutela sia adeguatamente assicurata
mediante il riconoscimento del risarcimento del danno soltanto in presenza di
condotte che integrino gli estremi di fatti di reato che tendono proprio a
tutelare, tra l’altro, il buon andamento e l’imparzialità dell’azione
amministrativa. In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la
tutela risarcitoria nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte
che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza costituzionale,
di funzionamento dell’attività amministrativa, sono suscettibili di recare un vulnus all’immagine
dell’amministrazione, intesa, come già sottolineato, quale percezione esterna
che i consociati hanno del modello di azione pubblica sopra descritto.
Sotto altro profilo, neppure può ritenersi che una modulazione del
giudizio di responsabilità, che tenga conto dei diversi interessi in gioco,
possa in qualche modo incidere negativamente sulle regole di efficienza,
efficacia e imparzialità dell’azione amministrativa.
17.— In alcune ordinanze si assume anche la violazione dell’art. 103,
secondo comma, Cost., in quanto non sarebbe consentito «escludere
apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad
ipotesi specifiche di responsabilità rientranti tradizionalmente e
genericamente nella materia della contabilità pubblica» (reg. ord. n. 25, n. 26
e n. 27 del 2010). Si assume, inoltre, la violazione del primo comma dell’art.
25 Cost., non essendo possibile distogliere la controversia dal giudice
naturale «successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di
attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di
giurisdizione» (reg. ord. n. 25 del 2010; reg. ord. n. 24 e n. 125 del 2010,
ove si evocano, contestualmente, gli artt. 125 e 103 Cost.).
La questione non è fondata.
Il secondo comma dell’art. 103 Cost. prevede che
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la puntuale
attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di
responsabilità amministrativa», non operando automaticamente in base al
disposto costituzionale, è rimessa alla discrezionalità del legislatore
ordinario (da ultimo sentenza n. 46 del
2008).
Nel caso in esame va osservato – come si è già chiarito − che il
legislatore non ha neanche inteso attribuire la cognizione di talune
fattispecie di responsabilità amministrativa ad una diversa autorità
giudiziaria, essendosi limitato a conformare, su un piano sostanziale, la
disciplina di un particolare profilo della responsabilità amministrativa dei
pubblici dipendenti (sentenza n. 371 del
1998).
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione dell’art. 25 Cost., é sufficiente
rilevare come non sia
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile l’intervento in giudizio dei signori
G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R.;
1) dichiara inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto,
del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga
di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102,
come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni
correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con
modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, sollevate, in riferimento, da un lato, nel complesso,
agli artt. 3, 24, primo comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103,
secondo comma, e 111 della Costituzione, dall’altro, agli artt. 3, 24, 25 e 97
Cost., rispettivamente dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale per
2) dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge
n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost.,
dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per
3) dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge
n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento nel complesso agli artt. 3, 24, 103
Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per
4) dichiara inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del
decreto-legge n. 78 del 2009, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto
il profilo della disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico ed
amministratori dello stesso, dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per
5) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del
decreto-legge n. 78
del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 54,
77, 81, 97, 103, e 113 Cost., dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali
per le Regioni Calabria, Campania, Lombardia e Toscana, nonché dalla sezione
giurisdizionale per
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 dicembre
2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alfonso QUARANTA , Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2010.