SENTENZA N.42
ANNO 1981
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Avv. Leonetto AMADEI, Presidente
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionali dell'art. 26, in relazione all'art. 25, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) promossi con ordinanze 8 febbraio 1975 della Corte di cassazione e 30 luglio 1975 del tribunale di Firenze, rispettivamente iscritte ai nn. 215 e 611 del registro ordinanze 1975 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 181 del 9 luglio 1975 e n. 51 del 25 febbraio 1976.
Visti gli atti di costituzione della Società Vanelli Macchine, dell'Istituto Mobiliare Italiano e dell'I.N.P.S.;
udito, nell'udienza pubblica del 29 ottobre 1980, il Giudice relatore Antonino De Stefano;
uditi gli avvocati Maria Luisa Zavattaro Ardizzi per la Societa Vanelli Macchine, Giuseppe Ferri per l'Istituto Mobiliare Italiano e Gianni Romoli per l'I.N.P.S.
Considerato in diritto
l. Le questioni sottoposte alla Corte dalle due ordinanze, della Corte di cassazione, Sezioni unite civili, e del tribunale di Firenze, sono sostanzialmente identiche, e pertanto i relativi giudizi vengono riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. Il thema decidendum può essere enunciato nei seguenti termini: se sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con l'art. 24 della Costituzione l'art. 26 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267, < Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa >), in relazione all'art. 23 della stessa legge, nella parte in cui assoggetta a reclamo al collegio del tribunale, regolandolo nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell'attivo.
Ben vero che i provvedimenti di rimessione delineano la questione, nel motivarne la non manifesta infondatezza, con più ampio riferimento ai < provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato nelle controversie su diritti soggettivi attribuite alla cognizione e decisione di esso nelle ipotesi tipiche previste dalla legge > (ordinanza della Corte di cassazione), ed ai < provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato sulle controversie su diritti soggettivi > (ordinanza del tribunale di Firenze). Ma questa Corte, nei cui compiti rientra- come affermato dalla sua giurisprudenza (da ultimo sentenze nn. 137
e 151 del 1980)-precisare l'oggetto della questione sottoposta al suo esame, considera, secondo quanto esplicitamente risulta dalle stesse ordinanze, che nel giudizio pendente innanzi alla Corte di cassazione il provvedimento, contro il quale era stato esperito il reclamo di cui all'art. 26 della legge fallimentare, era il decreto con il quale il giudice delegato, tenuto conto delle osservazioni dei creditori, < stabilisce il piano di riparto, rendendolo esecutivo > (art. 110, ultimo comma, della stessa legge); e che nell'altro giudizio a quo, pendente innanzi al tribunale di Firenze, il reclamo era stato proposto dal curatore del fallimento contro il decreto con il quale il giudice delegato, in sede di riparto dell'attivo, aveva disposto che il pagamento ai creditori ammessi al passivo per prestazioni di lavoro subordinato alle dipendenze dell'impresa fallita, fosse effettuato senza operare alcuna ritenuta a titolo di acconto dell'i.r.p.e.f. dovuta dai percipienti.Ritiene, pertanto, la Corte, che la questione di Legittimità costituzionale del reclamo previsto dall'art. 26 in parola, non debba essere trattata con riferimento a qualsiasi provvedimento decisorio del giudice delegato (cerchia alquanto eterogenea), ma debba essere puntualmente circoscritta nei termini sopra indicati, e cioè con riferimento ai provvedimenti decisori che il giudice delegato adotta, ai sensi degli articoli 110 segg. della legge fallimentare, in sede di ripartizione dell'attivo.
3. Preliminarmente occorre esaminare l'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza della sollevata questione, opposta - nel giudizio instaurato a seguito dell'ordinanza della Corte di cassazione-dalla difesa dell'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), sia nell'atto di costituzione che alla pubblica udienza.
L'I.N.P.S., come esposto in narrativa, obietta che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 della legge fallimentare, essendo basata sull'asserito contrasto con l'art. 24 della Costituzione, non poteva venir sollevata se non con riferimento < alla parte reclamante, il cui diritto a difesa potrebbe essere compromesso dalle limitazioni dell'art. 26 >; mentre, nel caso di specie, < reclamante era l'I.N.P.S. e non l'I.M.I., ed il fatto stesso che il reclamo sia stato accolto dimostra che il diritto a difesa del reclamante è stato tutelato > Ma in punto di rilevanza il giudice a quo ha diffusamente motivato, deducendo che, qualora la questione fosse riconosciuta fondata, il provvedimento impugnato dovrebbe essere cassato senza rinvio, con l'assorbimento di ogni altra censura, mentre, nella ipotesi della non fondatezza, il primo motivo del ricorso dell'Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.) dovrebbe essere disatteso. Per quanto in particolare concerne il ricorso incidentale della ditta Vanelli, la sollevata questione sarebbe poi rilevante in modo più specifico, con riferimento peculiare alla disposizione dell'impugnato art. 26, che individua nella < data del decreto >, a prescindere dalla effettiva conoscenza di questo da parte dell'interessato, il dies a quo di decorrenza del termine di tre giorni, utile per la proposizione del reclamo: termine che nella specie la parte non ha rispettato. Sicché, ove la questione fosse dichiarata non fondata, la Corte di cassazione dovrebbe rilevare d'ufficio la preclusione formatasi sul decreto del giudice delegato per mancanza di tempestiva impugnazione, con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso successivamente proposto.
La Corte ritiene che gli argomenti addotti dalla difesa dell'I.N.P.S. a sostegno della eccezione di irrilevanza, trovino nella motivazione del provvedimento di rimessione puntuale ed esauriente confutazione. É poi appena il caso di osservare che la questione sollevata dalla Corte di cassazione nei confronti dell'art. 26 della legge fallimentare non investe solo il previsto termine di tre giorni e la sua decorrenza dalla data del decreto del giudice delegato, ma anche la regolamentazione del procedimento nel suo complesso, il che non riguarda, ovviamente, il solo reclamante ma tutte le parti interessate.
In proposito devesi richiamare la costante giurisprudenza del questa Corte (da ultimo, sentenza n. 174 del 1980), secondo la quale il giudizio sulla rilevanza di una questione di legittimità costituzionale rientra nella primaria competenza del giudice a quo. La cui motivazione sul punto è suscettibile di sindacato soltanto < qualora risulti chiaramente viziata nell'impostazione e nel procedimento, e ne derivi, pertanto, l'evidente esclusione del carattere di necessaria pregiudizialità della soluzione della questione di legittimità rispetto alla decisione del merito > (sentenza n. 19 del 1978), il che non ricorre nel caso in esame.
L'eccezione di inammissibilità va dunque respinta, avendo il giudice a quo motivato sulla rilevanza in modo specifico e adeguato.
4. La questione è fondata.
Giova, in proposito, prender le mosse dalla sentenza di questa Corte n. 118 del 1963, alla quale ripetutamente fan richiamo i provvedimenti di rimessione. In quell'occasione il giudice a quo-investito della opposizione ad un decreto del giudice delegato che, in applicazione degli artt. 77 e 150 della legge fallimentare, aveva ingiunto ad un associato in partecipazione di versare la parte ancora dovuta dei conferimenti, nei limiti delle perdite a suo carico-aveva dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 23, ultimo comma, e 26, primo comma, nella parte che recita: < entro tre giorni dalla data del decreto >, e secondo comma, della legge medesima, in riferimento agli artt. 24* primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
Ma la Corte dichiarò non fondata la questione, ritenendo che le disposizioni impugnate dovessero necessariamente interpretarsi nel senso che il meccanismo, da esse delineato, non fosse applicabile ai provvedimenti, come quello allora contestato, < emessi dal giudice delegato nell'esercizio di funzioni di cognizione, aventi per oggetto diritti soggettivi >: ciò essendo escluso < sia dalla stessa struttura del reclamo... sia dalle forme o dalle garanzie di tutela dei diritti soggettivi, assicurate dall'ordinamento generale >. L'opposta interpretazione data dal giudice a quo avrebbe invero condotto, ad avviso della Corte, a situazioni nelle quali si sarebbe verificata < non già una limitazione o un affievolimento dei diritti soggettivi, ma addirittura l'impossibilità di una loro tutela giurisdizionale >.
Sennonché, le Sezioni unite della Corte di cassazione alle quali il ricorso dell'I.M.I. è stato deferito ai sensi dell'art. 374, comma secondo, del codice di procedura civile, trattandosi di questione di diritto già decisa in senso difforme dalle Sezioni semplici nella loro ordinanza, richiamando giurisprudenza < largamente prevalente >, hanno invece ritenuto esperibile il reclamo ex art. 26 anche nelle controversie su diritti soggettivi tipicamente attribuite dalla Legge al giudice delegato; ed hanno affermato che, nella specie, il decreto di approvazione del piano di riparto rientra appunto in una delle ipotesi tipiche, in cui sono al giudice delegato attribuiti dalla legge poteri cognitori e decisori in controversie su diritti soggettivi, senza che sia insieme previsto uno specifico mezzo di gravame, dovendo pertanto riconoscersi che contro il decreto medesimo è esperibile il reclamo in parola. La medesima interpretazione delle denunciate norme viene posta a base dell'ordinanza del tribunale di Firenze, che in proposito fa puntuale riferimento all'ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Gli stessi orientamenti interpretativi, del resto, risultano più volte ribaditi e nettamente preponderanti nella giurisprudenza successiva alle ordinanze di rinvio.
Non v'ha allora dubbio che, in tal modo interpretate ed applicate, le disposizioni impugnate vivono nella realtà concreta in modo incompatibile con il precetto dell'art. 24 della Costituzione.
5. Suffraga la pronuncia di fondatezza della sollevata questione innanzi tutto la natura decisoria dei provvedimenti che il giudice delegato adotta in sede di ripartizione delle attività fallimentari, in applicazione degli artt. 110 e seguenti della legge fallimentare. Oggetto della cognizione del giudice e, infatti, l'ordine tra i vari creditori, quale disciplinato dal l'art. 111, integrato dagli artt. 2777-2783 del codice civile, come modificati dalla legge 29 luglio 1975, n. 426, in materia di privilegi. Ben vero che il riparto ha per presupposto le situazioni consolidatesi nella procedura di accertamento del passivo, ma ciò non toglie al decreto di esecutività del riparto quel carattere di novità, consistente nell'accertamento dell'or dine tra i creditori concorsuali, in difetto del quale l'ammissione al passivo non legittima alla collocazione sulle somme disponibili.
Si verte, dunque, nell'ambito di diritti soggettivi, la cui tutela è resa impossibile, o quanto meno estremamente difficile, dalla eccessiva brevità del termine (appena < tre giorni >) previsto dall'art. 26 per l'esperimento del reclamo; nonché dalla sua decorrenza < dalla data del decreto >, indipendentemente dalla conoscenza di esso da parte dell'interessato. Con il che resta evidentemente vulnerato come già sottolineato nella ricordata sentenza di questa Corte n. 118 del 1963 il diritto di difesa costituzionalmente garantito, il cui effettivo esercizio postula appunto che il termine di decadenza dall'impugnazione sia congruo, e che decorra dal momento in cui l'interessato all'impugnativa abbia avuto notizia della emanazione dell'atto impugnabile, o quanto meno tale notizia abbia attinto un livello di conoscibilità da parte dell'interessato medesimo.
La stessa < struttura > del procedimento di reclamo ex artt. 23 e 26, inoltre, non assicura adeguata tutela giurisdizionale ai diritti soggettivi coinvolti nella ripartizione delle attività fallimentari. Significativa, al riguardo, è soprattutto la sommarietà del contraddittorio propria di siffatto procedimento, essendo previsto che il tribunale investito del reclamo abbia soltanto la facoltà, e non l'obbligo, di sentire in camera di consiglio le parti; e ciò come giustamente rileva la Corte di cassazione dopo una prima fase cognitoria innanzi al giudice delegato < parimenti, quando non maggiormente, sommaria >. Né di minor rilievo appare la forma del provvedimento che definisce il procedimento di reclamo: decreto, per il quale come rilevato dalla sentenza n. 118 del 1963 < non si richiede motivazione >.
Per le suesposte considerazioni la Corte ritiene che la disposizione dettata dall'art. 26 della legge fallimentare, in relazione all'art. 23 della stessa legge, nella parte in cui, secondo l'accolta interpretazione, prevede la esperibilità del reclamo al tribunale fallimentare contro i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto, regolandolo nel modo ivi previsto, contrasti con l'art. 24 della Costituzione, in quanto non vengono adeguatamente garantiti né l'effettivo esercizio dell'azione in giudizio, né la difesa della parte nel corso del procedimento; e pertanto ne va dichiarata la illegittimità costituzionale.
Quale sia, poi, il rimedio che il vigente ordinamento appresta - una volta escluso il reclamo come strutturato dall'art. 26 in relazione all'art. 23-per la tutela dei diritti soggetti; vi che si assumano lesi dai suddetti provvedimenti adottati dal giudice delegato in materia di piani di riparto delle attività fallimentari, è questione ermeneutica che non compete a questa Corte risolvere. Sempre che il legislatore non ritenga poi di por mano ad un opportuno riassetto della intera materia delle procedure concorsuali, traendo occasione dalle segnalazioni che la Corte gli ha rivolto con le sentenze nn. 152 e 155 del 1980 a proposito di altre disposizioni della stessa legge.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 26, in relazione all'art. 23, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui assoggetta al reclamo al tribunale, disciplinato nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell'attivo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/03/81.
Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI
Giovanni VITALE – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 23/03/81.