SENTENZA N. 118
ANNO 1963
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 23, ultimo comma, e 26, primo e secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1962 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra Galbusera Giovanni ed il fallimento della "Società Industria Confezioni e Maglierie Ferba", iscritta al n. 142 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 252 del 6 ottobre 1962.
Udita nella camera di consiglio del 5 marzo 1963 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli.
Ritenuto in fatto
Il giudice delegato al fallimento della "Industria Confezioni e Maglierie Ferba - Società di fatto", con decreto 19 aprile 1961, notificato il 4 maggio 1961, ingiungeva a Giovanni Galbusera, associato in partecipazione della Società fallita, di versare al curatore la somma di lire 5.899.744, quale residuo dei conferimenti da lui dovuti nei limiti delle perdite a suo carico, a norma degli artt. 77 e 150 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare).
Contro tale provvedimento il Galbusera proponeva opposizione, con atto di citazione notificato il 18 maggio 1961, nelle forme previste dagli artt. 633 e segg. del Cod. proc. civile.
Il curatore, nel chiedere che l'opposizione fosse dichiarata inammissibile o infondata, eccepiva preliminarmente la tardività di essa, perché non proposta nel termine di tre giorni, ai sensi dell'art. 26 della legge fallimentare.
Il Tribunale di Venezia, con ordinanza 22 giugno 1962, rilevava che il citato art. 26, primo comma, in quanto prevede l'esperibilità del reclamo entro tre giorni dalla data del decreto, prescindendo da qualsiasi pubblicità di questo, o dalla sua comunicazione agli interessati, rende impossibile e di estrema difficoltà la proposizione del reclamo stesso e quindi l'esercizio dell'azione a tutela dei diritti; rilevava inoltre che il secondo comma dello stesso articolo e l'ultimo comma dell'art. 23, in quanto configurano il provvedimento del Tribunale fallimentare come decreto, lo sottraggono a qualsiasi gravame, escludendo così il ricorso in cassazione per violazione di legge. Il Tribunale, quindi, sollevava d'ufficio la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, ultimo comma, e 26, primo comma, nella parte che dice: "entro tre giorni dalla data del decreto", e secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, in riferimento agli artt, 24, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
L'ordinanza, ritualmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri, veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 6 ottobre 1962, n. 252.
Non essendosi costituita nessuna delle parti, la causa veniva decisa in camera di consiglio, ai sensi degli artt. 26, comma secondo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Considerato in diritto
L'ordinanza del Tribunale di Venezia ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23 e 26 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c. d. legge fallimentare), sulla base di una interpretazione del detto decreto secondo la quale le disposizioni contenute negli articoli indicati si applicherebbero, oltre che ai provvedimenti ordinatori, anche ai provvedimenti decisori del giudice delegato, incidenti comunque su diritti soggettivi.
Ritiene la Corte di non poter condividere questa interpretazione della legge fallimentare e degli articoli impugnati.
Il decreto 16 marzo 1942 contiene una disciplina del fallimento, la quale, mentre si ispira alle particolari esigenze delle procedure concorsuali, si inquadra nel sistema dell'ordinamento giuridico e trova in questo i suoi limiti. In particolare, la tutela degli interessi generali, a cui é diretta la speciale procedura fallimentare, si integra e si armonizza, nell'unità dell'ordinamento con la tutela dei diritti soggettivi garantiti dal diritto comune.
Sulla base di tali premesse va considerata la disposizione dell'art. 26 della legge fallimentare, relativa al reclamo al Tribunale contro i decreti del giudice delegato, da proporre entro tre giorni dalla data.
La norma si collega ai poteri di direzione amministrativa del fallimento, attribuiti al giudice delegato dal precedente art. 25, e si ispira, da una parte, all'esigenza di rendere possibile, nell'interno dell'amministrazione fallimentare, una revisione dei provvedimenti del giudice, eventualmente lesivi degli interessi del reclamante; dall'altra, all'esigenza di rapidità delle operazioni fallimentari. Ciò spiega il carattere esecutorio attribuito al provvedimento del giudice, la brevità del termine per ricorrere e l'esaurirsi del reclamo nell'ambito della procedura fallimentare.
Non si può, invece, ritenere che la norma dell'art. 26 si riferisca a provvedimenti emessi dal giudice delegato nell'esercizio di funzioni di cognizione, aventi per oggetto diritti soggettivi.
Ciò é escluso sia dalla stessa struttura del reclamo da essa previsto, sia dalle forme e dalle garanzie di tutela dei diritti soggettivi, assicurate dal l'ordinamento generale. Quanto alla struttura del reclamo, é da notare che é legittimato a proporlo "chiunque vi abbia interesse"; che é deciso in camera di consiglio, con decreto per il quale non si richiede motivazione; infine, che non sospende l'esecuzione: elementi, questi, che, normalmente, non sono propri - secondo il nostro ordinamento - dei rimedi destinati alla tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi.
D'altra parte, l'applicazione dell'art. 26 ai provvedimenti del giudice delegato che decidono su diritti soggettivi porterebbe a una decadenza dall'esercizio dell'impugnativa di essi nel predetto termine di tre giorni, decorrenti dalla data del provvedimento, indipendentemente dalla effettiva conoscenza di esso da parte dell'interessato. Ora, non soltanto la brevità del termine renderebbe eccessivamente difficile l'esercizio della tutela del diritto, sopra tutto per chi al momento della emanazione del decreto sia ancora fuori della procedura fallimentare (caso dell'associato in partecipazione), ma la mancanza di ogni garanzia di pubblicità, o, comunque, di conoscenza del provvedimento stesso da parte del terzo interessato potrebbe, di fatto, rendere addirittura impossibile l'esperimento del ricorso: si avrebbe, cioé, l'incongruità del decadere dall'impugnativa di un provvedimento lesivo di un diritto prima di averne avuto conoscenza, sia legale che di fatto. Tutto ciò contrasterebbe con i principi che esigono la congruità dei termini di decadenza, in generale (arg. ex art. 2965 del Cod. civ.); con i principi che stabiliscono la decorrenza dei termini delle impugnazioni dalla conoscenza dell'atto impugnabile, e quanto meno dal fatto che l'emanazione di esso sia stata portata nella sfera di conoscibilità degli interessati all'impugnativa (artt. 326, 327 cpv. del Cod. proc. civ.); con i principi, infine, che, vogliono assicurata la effettività dell'esercizio del diritto di difesa (
sentenza di questa Corte n. 93 del 1962).É perciò da escludere che la tutela pubblicistica degli interessi generali, a cui si informa la disciplina della procedura fallimentare e che tende a imprimere a questa caratteri di rapidità e di scioltezza, possa portare a situazioni nelle quali si abbia, non già una limitazione o un affievolimento dei diritti soggettivi, ma addirittura l'impossibilità di una loro tutela giurisdizionale.
Va, pertanto, riconosciuto che esattamente la giurisprudenza e la dottrina dominanti hanno ritenuto che l'art. 26 della legge fallimentare non si applica ai provvedimenti decisori del giudice delegato, incidenti su diritti soggettivi, quale il provvedimento previsto dall'art. 77 della stessa legge (ingiunzione all'associato in partecipazione di versare la parte ancora dovuta dei conferimenti, nel limite delle perdite a suo carico): provvedimento che é, conseguentemente, impugnabile con opposizione, secondo le norme del diritto comune (art. 645 del Cod. proc. civile).
Né possono trarsi argomenti contrari all'interpretazione qui esposta dagli artt. 242 e 258 della legge, a cui fa riferimento l'ordinanza. Trattasi, infatti, di norme transitorie, le quali disponevano che le forme del procedimento stabilite dalla legge stessa si applicavano anche ai fallimenti in corso (art. 242), e che, nei giudizi contro i soci per i versamenti ancora dovuti, la causa veniva rimessa dal Tribunale al giudice delegato, perché questi provvedesse nei termini dell'art. 150 (art. 258). Ma é chiaro che le procedure stabilite dalla nuova legge si applicavano ai fallimenti in corso nei limiti ad esse propri, e che la rimessione al giudice delegato dei giudizi in corso per versamenti dei soci non implicava che il provvedimento da lui emesso a termini dell'art. 150 non potesse essere impugnato con la comune opposizione ai decreti ingiuntivi, se questa impugnabilità discende dal sistema. Anzi, potrebbe dirsi che la norma transitoria conferma questa impugnabilità, perché altrimenti le parti sarebbero state private, in pendenza del giudizio, della garanzia del procedimento comune: vale a dire, lo jus superveniens, peggiorando la posizione processuale delle parti, avrebbe ridotto la tutela dei loro diritti soggettivi.
In base alle esposte considerazioni, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 della legge fallimentare si rivela infondata, in quanto la norma di esso che prevede il reclamo al Tribunale contro i provvedimenti del giudice delegato entro il termine di tre giorni dalla data non si applica alle impugnative dei provvedimenti decisori dello stesso giudice, e pertanto non é in contrasto con l'art. 24, primo comma, della Costituzione. Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, si può assumere la violazione dell'art. 24 della Costituzione solo quando il legislatore abbia limitato la difesa processuale di un diritto da esso stesso attribuito o riconosciuto (sentenza n. 57 del 1962).
Per le stesse ragioni deve ritenersi non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 26, secondo comma, e dell'art. 23, ultimo comma, della stessa legge fallimentare, in riferimento all'art. 111, secondo comma, della Costituzione in quanto dalla esposta interpretazione dell'art. 26, primo comma, discende che le norme del secondo comma di esso e dell'ultimo comma dell'art. 23 non si applicano ai predetti provvedimenti decisori del giudice delegato.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, ultimo comma, e 26, primo e secondo comma, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, recante norme sulla disciplina del fallimento, in riferimento agli artt. 24, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1963.
GASPARE AMBROSINI, PRESIDENTE
GIUSEPPE CHIARELLI, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 9 luglio 1963.