SENTENZA N. 206
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale: a) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59); b) degli articoli 1; 3; 6; 8; 11; 13; 14; 15; 16 e 17 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 443 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali), promossi con due ricorsi della Regione Veneto, notificati il 19 maggio 1998 e il 28 dicembre 1999, depositati in cancelleria il 27 maggio 1998 e il 5 gennaio 2000 ed iscritti ai nn. 25 del registro ricorsi 1998 e 1 del registro ricorsi 2000.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 gennaio 2001 il Giudice relatore Valerio Onida;
uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 19 maggio 1998 e depositato il 27 maggio 1998 (r. ric. n. 25 del 1998) la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 76, 117, 118 e 119 della Costituzione, degli articoli 3, commi 1, 3 e 6; 7, commi 1, 2, lettera a, 3 e 8 lettera a; 9; 13; 18; 25, comma 2; 29 commi 1 e 2; 33; 41, comma 3; 44; 50, commi 2 e 3; 52, comma 1; 54; 58; 59; 63; 65; 66, comma 1, lettere b e c; 67, comma 1; 69, commi 1 e 2; 75; 77; 80; 83; 85; 88; 92, commi 2 e 3; 93; 98; 99, comma 3, secondo periodo; 104; 106, comma 1; 107; 109, comma 2; 115; 118; 119; 120; 121, comma 1; 124; 129; 131, comma 2; 132; 137; 138, comma 2; 142; 146 e 156 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonchè dello stesso decreto legislativo nella sua interezza. La Regione ricorrente, premesso che numerose disposizioni del decreto impugnato presentano vizi di illegittimità costituzionale, ciò che, data la stretta connessione tra di esse, implicherebbe l’invalidità dello stesso decreto nella sua interezza, espone undici motivi di censura.
La prima questione, sollevata in relazione agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, ha ad oggetto gli articoli 3, comma 6; 7, commi 1, 2, lettera a, e 8, lettera a, limitatamente alle parole "l’individuazione del termine eventualmente differenziato, da cui decorre l’esercizio delle funzioni trasferite"; 50, commi 2 e 3 (commi peraltro ora abrogati dalla legge n. 50 del 1999); 63 e 138, comma 2, del decreto legislativo: disposizioni tutte che subordinano la decorrenza dei conferimenti, e dunque l’esercizio delle funzioni regionali, a provvedimenti amministrativi di cui non vi sarebbe certezza alcuna.
La Regione, in particolare, osserva che, a parte talune
decorrenze puntualmente definite (come "ad esempio" quelle previste
dagli artt. 115, comma 3; 130, commi 2 e 3; 144, comma
3), l'art. 7 del decreto legislativo prevede, con norma di carattere generale,
che le Regioni potranno esercitare le funzioni conferite solo a partire dal
momento che il Presidente del Consiglio dei ministri indicherà con uno dei
provvedimenti fondati sull'art. 7 della legge di delega, i quali dovrebbero
intervenire entro il 31 dicembre 1999 (art. 3, comma 6, del decreto legislativo
impugnato), e dovrebbero fissare l'inizio dell'esercizio delle funzioni per un
giorno non successivo al 31 dicembre 2000 (art. 7, comma 2, lettera a,
dello stesso decreto). Secondo la ricorrente, la fissazione della data di
trasferimento potrebbe in concreto mancare, senza che sia previsto alcun
meccanismo che consenta di realizzare una forma di conferimento automatico. Non
gioverebbero, a tale scopo, nè
il comma 10 dell'art. 7 del decreto impugnato, il quale stabilisce che, se lo
Stato non adotta i provvedimenti di attuazione, la Conferenza unificata può
predisporre gli schemi degli atti ed inviarli al Presidente del Consiglio, poichè all’iniziativa della Conferenza non segue
necessariamente alcuna concreta fissazione di date; nè
l’ultimo comma dello stesso art.
La Regione ricorrente sostiene dunque che, stando alle norme del decreto legislativo impugnato, la generalità delle funzioni non sarebbe stata affatto conferita, e che anche per il futuro non vi sarebbe alcuna certezza di conferimento, in violazione della legge di delega n. 59 del 1997 che, agli articoli 1, comma 1, e 3, comma 1, lettera a, imponeva un trasferimento, sia pure graduale, di funzioni e compiti; e aggiunge che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità non impedirebbe al legislatore statale di fissare altri termini per l'esercizio delle funzioni conferite, con le forme e nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Costituzione.
La seconda questione, sollevata in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione e in relazione agli articoli 3 e 4 della legge di delega (articoli che porrebbero criteri direttivi a diretta tutela della posizione costituzionale e di autonomia delle Regioni), concerne numerose disposizioni che riservano allo Stato compiti e funzioni nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione e che, secondo la ricorrente, la legge di delega avrebbe voluto che fossero conferiti alle Regioni: l'art. 13 (artigianato); l'art. 44 (turismo ed industria alberghiera); l'art. 54 (urbanistica e lavori pubblici); l'art. 59 (edilizia residenziale pubblica); l'art. 69, comma 2 (protezione della natura e dell'ambiente); gli articoli 115; 118; 119; 120; 121, comma 1; 124 (in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera, e relativi personale e strutture); 129 (nelle parti in cui concerne i servizi sociali a favore della generalità dei soggetti, con esclusione, cioé, delle particolari categorie di persone indicate dall'art. 1, comma 3, della legge di delega); 142 (formazione professionale).
Pur riconoscendo che l’art. 3, comma 1, lettera a, della legge di delega ha demandato ai decreti legislativi il compito di individuare "tassativamente le funzioni e i compiti da mantenere in capo alle amministrazioni statali", la Regione sottolinea che la stessa legge ha stabilito che questa individuazione dovesse avvenire "ai sensi e nei limiti di cui all’art. 1". Tale articolo non introdurrebbe una clausola generale di riserva allo Stato di compiti di "interesse nazionale", ma prevederebbe singole – per quanto numerose - ipotesi, ora con l’esclusione dai conferimenti di intere materie (comma 3), ora con la esclusione di compiti astrattamente ricadenti nelle materie da conferire (comma 4). Ad avviso della Regione Veneto, sarebbe questa l’unica interpretazione dell’art. 1 della legge di delega che consente di attribuire un qualche significato al suo comma 4, dal momento che, se la riserva di compiti di "interesse nazionale" fosse implicita nel sistema ricavabile dall’art. 1, comma 2, le minuziose ipotesi disciplinate dal comma 4 risulterebbero prive di significato. Questo risultato interpretativo troverebbe poi conferma nei principi direttivi indicati dall’art. 4, comma 3, della stessa legge di delega, cioé nei principi di completezza (lettera b), di unicità e responsabilità dell’amministrazione (lettera e) e di omogeneità (lettera f). Le riserve statali censurate sarebbero dunque in contrasto anche con questi ultimi principi direttivi, mantenendo la separazione di funzioni omogenee, accanto alla pluralità delle amministrazioni competenti, con conseguente "annacquamento" delle responsabilità.
Con il terzo motivo del ricorso, analogamente, la Regione Veneto impugna, in riferimento agli articoli 76, 117, secondo comma, e 118 della Costituzione, le disposizioni del decreto legislativo che riservano allo Stato funzioni in materie non comprese nell’elenco di cui all’art. 117 della Costituzione. In tal senso, sono censurati gli articoli 18 e 29, comma 2 (per le parti in cui si riferiscono a funzioni concernenti le industrie e l’energia, diverse da quelle comprese nell’art. 1, comma 3, della legge di delega); 33; 65; 85; 93, 98 e 104 (questi ultimi tre per le parti in cui si riferiscono alle materie relative alle opere pubbliche, alla viabilità e ai trasporti di interesse "non regionale" ai sensi dell’art. 117 della Costituzione); 137 (per la parte in cui non riguarda gli ambiti indicati dall’art. 1, comma 3, lettera q, della legge di delega). La ricorrente sostiene che, pur in assenza di un puntuale fondamento costituzionale, l’attribuzione integrale dei compiti alle Regioni era imposta dall’art. 1 della legge di delega e dal principio di completezza di cui all’art. 4, comma 3, lettera b, della medesima legge.
La quarta questione, sollevata in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, ha ad oggetto, "tra gli altri", gli articoli 29, comma 1; 52, comma 1; 69, comma l; 77; 80; 83; 88; 107; 156 del decreto legislativo, che avrebbero riservato allo Stato "compiti di rilievo nazionale" senza osservare il procedimento di cui all'art. 1, comma 4, lettera c, della legge di delega, a norma del quale, al fine dell'individuazione dei predetti compiti, lo schema del decreto legislativo avrebbe dovuto essere predisposto previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome e, in mancanza dell'intesa, il Consiglio dei ministri avrebbe dovuto deliberare motivatamente in via definitiva su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri.
Secondo la ricorrente, nonostante che il preambolo del
decreto legislativo dia atto della raggiunta intesa, il procedimento seguito ai
fini dell'emanazione non avrebbe rispettato la legge di delega. In primo luogo,
non vi sarebbe stata alcuna "intesa" preliminare alla
adozione dello schema da parte del Governo, in quanto i compiti di
rilievo nazionale sarebbero stati inseriti direttamente nel testo approvato in
Consiglio dei ministri, e sull'intero testo sarebbe stato chiesto soltanto il
parere della Conferenza, secondo il disposto dell'art. 6 della legge di delega:
parere che sarebbe cosa diversa dall’intesa di cui all’art. 1, comma 4, della
medesima legge, sia per oggetto, sia per contenuto, sia per successione
temporale. In secondo luogo, nemmeno successivamente
alla predisposizione governativa dello schema sarebbe stata raggiunta la
necessaria "intesa" sui compiti di rilievo nazionale, come si
ricaverebbe da più passi del verbale della riunione della Conferenza
Stato-Regioni del 5 marzo
Con il quinto motivo del ricorso la Regione impugna, in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della
Costituzione, le disposizioni del decreto legislativo che attribuiscono
direttamente funzioni e compiti agli enti locali nelle materie comprese
nell’elenco dell’art. 117 della Costituzione, e "specificatamente"
gli articoli 41, comma
Con il sesto motivo del ricorso la Regione denuncia la violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione da parte degli articoli 3, comma 1, e 132, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo, i quali prevedono che le Regioni provvedano, entro il termine di sei mesi dall’emanazione dello stesso decreto, all’individuazione delle funzioni che richiedono l’esercizio unitario a livello regionale e di quelle da conferire agli enti locali. Il termine sarebbe irragionevolmente breve, e tale da ledere nel suo complesso l’autonomia organizzativa, legislativa ed amministrativa regionale, e da rendere pressochè inevitabile l’intervento sostitutivo dello Stato. L’irragionevolezza del termine sarebbe provata da vari elementi. Innanzitutto dalla vastità ed eterogeneità delle materie interessate dal decreto legislativo, per l’emanazione del quale lo stesso Governo ha ottenuto la proroga del termine inizialmente previsto dalla legge di delega. Inoltre, dalla circostanza che, poichè il termine di sei mesi decorre dalla emanazione del decreto impugnato, avvenuta il 31 marzo 1998, una parte di esso era già trascorsa al momento in cui la Regione ha avuto conoscenza ufficiale del testo a seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale in data 21 aprile. Ancora, dal fatto che esso non terrebbe alcun conto degli adempimenti richiesti ai fini del completamento del procedimento legislativo regionale (in particolare, per la Regione Veneto, degli adempimenti richiesti dall’art. 55 dello statuto regionale, che prevede la consultazione degli enti interessati alla delega di funzioni, consultazione che si aggiunge a quella imposta dall’art. 4, comma 1, della legge di delega).
Per il caso in cui si ritenesse che la fissazione del termine sia imposta dall’art. 4, comma 5, della legge di delega, la ricorrente chiede che la Corte sollevi dinanzi a sè la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione in riferimento agli stessi parametri e motivi indicati in relazione alle norme delegate.
Con il settimo motivo di ricorso la Regione denuncia la violazione dell’art. 119 della Costituzione da parte dell’art. 7, comma 3, del decreto legislativo, a termini del quale alle Regioni e agli enti locali sono "attribuiti beni e risorse corrispondenti per ammontare a quelli utilizzati dallo Stato per l’esercizio delle medesime funzioni e compiti prima del conferimento", tenendosi conto, tra l’altro, "dei beni e delle risorse utilizzati dallo Stato in un arco temporale pluriennale, da un minimo di tre ad un massimo di cinque anni" (lettera a). Tale disposizione é ritenuta lesiva dell’autonomia finanziaria regionale, anche per effetto dell’assoluta indeterminatezza dei "criteri" indicati alle lettere b e c dello stesso comma 3 censurato, che non consentirebbero di determinare con sufficiente certezza di quali risorse sarà possibile disporre, essendo rimessa al Governo la scelta sia dell’arco temporale, sia dell’anno-base per il calcolo. La lesione dell’art. 119 della Costituzione, precisa la Regione, non potrebbe essere esclusa dall’orientamento della Corte costituzionale per il quale spese di modesta entità che lo Stato faccia gravare senza copertura sulla finanza regionale non potrebbero compromettere l’autonomia dell’ente, in quanto nel caso di specie le dimensioni dei conferimenti sarebbero comunque tali da importare l’impiego di risorse molto ingenti.
Con l’ottavo motivo di ricorso la Regione denuncia nuovamente la violazione dell’art. 119 della Costituzione, ma questa volta da parte dell’art. 3, comma 3, del decreto legislativo, in rapporto all’art. 7 dello stesso decreto, ai sensi del quale la Regione, entro il 30 settembre 1998, dovrebbe attribuire agli enti locali i mezzi necessari a coprire gli oneri derivanti dall’esercizio delle funzioni trasferite, "nel rispetto dell’autonomia organizzativa e regolamentare" degli stessi enti. L’autonomia finanziaria regionale sarebbe lesa in quanto non si vedrebbe da quali fonti la Regione potrebbe trarre le necessarie risorse, posto che alla Regione beni e mezzi saranno attribuiti solo da provvedimenti governativi da adottarsi ai sensi dell’art. 7 dello stesso decreto legislativo e dell’art. 7 della legge di delega.
La nona censura concerne il mancato riordinamento delle strutture e la mancata individuazione delle modalità di trasferimento del personale, aspetti che sarebbero sostanzialmente rimessi ai provvedimenti amministrativi di cui all’art. 7 della legge di delega. Ricorda la Regione che con l’art. 3, comma 1, lettere d ed e, della legge di delega, il Parlamento aveva imposto al Governo di provvedere alla soppressione, trasformazione o accorpamento delle strutture centrali e periferiche interessate dal conferimento, oltre che di individuare le modalità e le procedure per il trasferimento del personale statale; e che la norma di delega conteneva un rinvio ai provvedimenti amministrativi di cui all’art. 7 della legge di delega, ma soltanto per quanto attiene alle modalità della soppressione delle strutture. Fatte salve alcune eccezioni ("ad esempio", quelle di cui agli artt. 50, comma 1; 92, comma 4; 96, comma 2, 106, comma 2; 134), il legislatore delegato avrebbe, secondo la Regione, sostanzialmente omesso di provvedere.
La Regione rileva che il testo del decreto contiene varie
norme con le quali il Governo pretende, in violazione gli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, di autodelegarsi
il potere legislativo quali gli articoli 7, comma 4, e 9 (disposizioni, queste,
che dispongono "rinvii generali": per il personale ai provvedimenti
di cui all’art. 7 della legge di delega, per le strutture anche, con richiamo
ritenuto "fuori luogo", ai decreti previsti dagli articoli 10 e 11
della medesima legge); nonchè - a titolo di esempio
di disposizioni di "rinvio al futuro" - gli articoli 58; 67, comma 1;
75; 92, commi 2 e 3; 106, comma 1; 109, comma 2, e
La ricorrente ritiene che le omissioni legislative rilevate non implicano tanto che il decreto legislativo impugnato sia solo una attuazione parziale della delega, ma concretano piuttosto un illegittimo esercizio del potere delegato, in considerazione della strettissima connessione esistente tra le "parti" qui considerate della delega. L'indicazione delle strutture oggetto del riordinamento, come pure quella del personale da trasferire, sarebbero da ritenere essenziali, nell'impianto della legge n. 59 del 1997, per dare concretezza ai "conferimenti", e la loro mancanza renderebbe viziato l'intero esercizio della delega.
La decima censura, sempre riferita agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, riguarda la mancata individuazione nel decreto legislativo delegato di strumenti di raccordo e cooperazione. La Regione osserva che l'art. 3, comma 1, della legge di delega obbligava il Governo a prevedere procedure e strumenti di raccordo che consentano la collaborazione e l'azione coordinata tra enti locali, tra Regioni e tra i diversi livelli di governo e di amministrazione (lettera c); le modalità per l'avvalimento da parte dello Stato di uffici regionali e locali (lettera f); il conferimento a particolari strutture organizzative di funzioni che non richiedono l'esercizio esclusivo da parte delle Regioni e degli enti locali (lettera g). Tali principi, con alcune limitate eccezioni (v. ad esempio l'art. 111, comma 1, del decreto legislativo), non sarebbero stati attuati dal decreto impugnato, mentre l’individuazione di tali strumenti di raccordo avrebbe indotto, secondo la Regione, a non operare quei ritagli di materia a favore dello Stato di cui alle precedenti censure.
Con l’undicesima ed ultima censura la Regione impugna, per violazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione, l'art. 25, comma 2, lettera g, del decreto legislativo n. 112 del 1998, il quale stabilisce che il procedimento amministrativo in materia di autorizzazione all'insediamento di attività produttive dovrà essere disciplinato con uno o più regolamenti, i quali devono prevedere che, ove il progetto contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico, si possa ricorrere alla conferenza di servizi, la cui determinazione (se vi é accordo sulla variazione dello strumento) costituisce proposta di variante, sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale. Tale previsione é censurata in quanto lesiva della competenza regionale in materia di urbanistica, poichè esproprierebbe la Regione del potere di concorrere alla definizione dell'assetto urbanistico.
2. – Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni sollevate dalla Regione Veneto siano dichiarate inammissibili o comunque infondate, e osservando quanto segue in relazione a ciascuna di esse.
La prima questione sarebbe innanzitutto inammissibile per difetto di interesse al ricorso, dovendosi escludere che le disposizioni censurate abbiano oggi (al momento della loro impugnazione da parte della Regione) una portata lesiva. Al riguardo sarebbe sufficiente rilevare che tali disposizioni sono poste proprio a salvaguardia dell'esito dei conferimenti con l'ulteriore disposizione di chiusura (art. 3, comma 6, del decreto legislativo impugnato), secondo la quale "i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'art. 7 della legge 15 marzo 1997, n. 59, sono comunque emanati entro il 31 dicembre 1999": l’interesse al ricorso potrebbe se mai divenire concreto solo successivamente a quella data.
La questione sarebbe comunque infondata nel merito, in quanto i procedimenti previsti dalle disposizioni censurate sarebbero finalizzati proprio ad assicurare la certezza della emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio per rendere operativi i conferimenti; e ciò in piena conformità con l’art. 7 della legge di delega, che demanda al decreto del Presidente del Consiglio il compito di attuare i decreti legislativi sui conferimenti con le scadenze temporali e le modalità dagli stessi previsti mediante puntuale individuazione e conseguente trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative ai diversi enti territoriali. La ratio della norma delegante sarebbe evidente: i decreti legislativi devono provvedere unicamente al conferimento delle funzioni, mentre con l'ulteriore fase demandata all'atto del Presidente del Consiglio si deve dare attuazione e rendere operative competenze di cui già sono titolari gli enti territoriali in virtù dei decreti legislativi di conferimento. L’atto del Presidente del Consiglio, in altri termini, sarebbe consequenziale all’avvenuto trasferimento di funzioni, e concreterebbe un’attività essenziale ma puramente esecutiva. Pertanto, risulterebbe infondata la censura concernente l’incertezza circa l’effettivo conferimento, come si evince anche dalla previsione del termine del 31 dicembre 1999 per l'emanazione dei decreti del Presidente dei Consiglio. In ipotesi, certo, tale termine potrebbe scadere inutilmente; ma soltanto allora il provvedimento delegato diverrebbe oggetto di censura, e non già perchè il legislatore delegato abbia ora reso incerti i conferimenti, bensì ed unicamente perchè non attuerebbe la delega entro il termine previsto.
La seconda questione sarebbe infondata. L’Avvocatura premette, in proposito, che la legge di delega ha rimesso alla competenza statale da un lato i "compiti di rilievo nazionale" in alcune materie (art. 1, comma 4, lettera c), dall'altro la cura della promozione dello sviluppo economico, la valorizzazione dei sistemi produttivi e la promozione della ricerca applicata, definiti interessi pubblici primari, che lo Stato e gli altri enti locali assicurano nell'ambito delle rispettive competenze (art. 1, comma 6): le due fattispecie normative, pur avendo una struttura differenziata, convergerebbero per le finalità, da rinvenire nella tutela dei valori che esigono interventi diretti dello Stato. I "compiti di rilievo nazionale" si riferirebbero infatti a materie astrattamente suscettibili di regolamentazione anche da parte delle autonomie territoriali, e proprio per evitare problemi interpretativi su materie di competenza potenzialmente interferente, il legislatore delegante avrebbe demandato ai decreti legislativi la individuazione dei compiti suddetti, da predisporre previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, quale organo di concertazione e composizione dei rispettivi interessi, ma anche di tutela nei confronti dello Stato-apparato, in quanto espressivo degli interessi appartenenti allo Stato-comunità. Ai sensi dell'art. 1, comma 6, della legge di delega, d’altra parte, lo Stato sarebbe chiamato a tutelare interessi pubblici primari, ma nell'ambito della propria competenza: ed anche in questo caso, e per le stesse ragioni di certezza giuridica, la legge di delega avrebbe demandato ai decreti legislativi l’individuazione tassativa delle funzioni e dei compiti da mantenere in capo alle amministrazioni statali (art. 3, comma 1, lettera a). Le censure della Regione risulterebbero infondate, dal momento che tutte le disposizioni impugnate sarebbero conformi alle due fattispecie normative descritte dalla legge di delega, e il richiamo agli ulteriori criteri direttivi, stabiliti dall'art. 4, comma 3, della legge di delega, sarebbe inconferente, in quanto tali ultimi criteri sarebbero indirizzati al legislatore delegato ai fini del conferimento delle funzioni alle autonomie territoriali e non già per quanto residua alla competenza dello Stato.
In relazione alla terza questione, ritenuta parimenti infondata anche sulla base delle medesime osservazioni svolte in relazione alla precedente questione, l’Avvocatura erariale preliminarmente osserva che é privo di fondamento lo stesso presupposto dal quale muove la Regione Veneto, secondo cui la legge di delega avrebbe imposto i conferimenti alle Regioni pur in assenza di un puntuale fondamento costituzionale, dal momento che, vigendo una Costituzione rigida, le competenze assegnate allo Stato e alle Regioni non sarebbero "disponibili" se non nei limiti e con le modalità previsti dalla Costituzione. Ed infatti la nuova disciplina sui conferimenti si fonderebbe su ben individuati parametri costituzionali, puntualmente richiamati dall'art. 1, comma 1, della legge di delega (artt. 5, 118 e 128 della Costituzione) e dall'art. 4, comma 1, della stessa legge (art. 117 della Costituzione).
Inoltre, l’esame specifico delle disposizioni impugnate
dimostrerebbe che esse sono tutte avvalorate dalle relative norme
costituzionali. Per quanto riguarda l'art. 18 del
decreto legislativo, in materia di industria, il legislatore delegato avrebbe
operato in coerenza con l'art. 118, secondo comma, della Costituzione,
mantenendo la competenza allo Stato per gli aspetti della materia non
localizzabili in ambito regionale (essendo preminente dare attuazione al
principio di completezza di cui all'art. 4, comma 3, lettera b, della
legge delega) e conferendo, con lo strumento della delega, tutte le altre
funzioni alle Regioni. Le stesse considerazioni varrebbero per l'art. 29, comma 2, del decreto, in materia di ricerca, produzione,
trasporto e distribuzione di energia, e per l'art.
Il quarto motivo di ricorso sarebbe inammissibile, poichè i rilievi della Regione assumerebbero la natura di doglianze di mero fatto. Il decreto legislativo risulterebbe infatti emanato sulla base di un procedimento conforme ai requisiti di forma prescritti dalla Costituzione e in osservanza dei limiti ulteriori posti per l'esercizio della delega: l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni in ordine all'individuazione dei compiti di rilievo nazionale sarebbe stata acquisita, come descritto nel preambolo, in quanto l'atto legislativo produrrebbe effetti unicamente per tutto ciò che in esso é affermato.
La quinta censura sarebbe invece infondata, in quanto sarebbe errata l’interpretazione dell'art. 4, comma 1, della legge di delega sulla quale si fonda il ricorso regionale: in osservanza del principio di sussidiarietà cui l'intera riforma si ispira (art. 1 della legge di delega), infatti, si imporrebbe al legislatore delegato di utilizzare tutte le potenzialità insite nel sistema costituzionale delle autonomie, secondo cui le funzioni amministrative connesse a materie regionali debbono essere esercitate "normalmente in via di delega da comuni e province", nell’intento di assicurare maggiore avvicinamento di queste funzioni alle realtà locali. L’art. 4, comma 2, della legge di delega stabilisce bensì che nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione le Regioni conferiscono alle Province, ai Comuni e agli altri enti locali tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale, ma nella connessione organica e funzionale degli articoli 117 e 118 della Costituzione, secondo la difesa statale, tale disposizione non vieterebbe al legislatore delegato l'utilizzazione del primo comma dell'art. 118, e dunque la diretta attribuzione agli enti territoriali di alcune funzioni in materie proprie delle Regioni. Questa interpretazione sarebbe confermata dal criterio dell’art. 3, comma 1, lettera b, della stessa legge di delega, che prevede che siano indicati, tra gli altri, i compiti da conferire agli enti locali, territoriali o funzionali ai sensi degli articoli 128 e 118, primo comma, della Costituzione.
La sesta censura sarebbe inammissibile o comunque infondata. Inammissibile, perchè le doglianze sulla eccessiva brevità del termine assegnato alle Regioni per il conferimento agli enti locali involgerebbero questioni di fatto, attenendo ad eventuali difficoltà materiali per lo svolgimento di compiti prescritti dalla legge, e si risolverebbero in affermazioni apodittiche e comunque tardive. Infatti, il termine di sei mesi, già prescritto dalla legge di delega (art. 4, comma 5), sarebbe stato meramente riprodotto dal decreto legislativo attraverso il richiamo della norma delegante. La richiesta regionale che la Corte sollevi di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale della legge di delega, dunque, sarebbe un mero espediente per eludere i termini del ricorso in via principale.
La censura sarebbe in ogni caso infondata nel merito, in quanto la ratio sottesa alle disposizioni dettate dal legislatore delegante presupporrebbe la "contestualità logica" dei conferimenti dallo Stato alle Regioni e da queste agli enti locali minori, che si evincerebbe dai criteri dettati dall’art. 3, comma 1, della legge di delega, ed in particolare dal principio di sussidiarietà. Tale contestualità logica sarebbe sancita proprio dall’art. 3 del decreto legislativo, là dove esige che il procedimento di conferimento agli enti locali avvenga secondo i principi stabiliti dall’art. 4, comma 3, della legge di delega. In quest’ottica di salvaguardia della effettività e completezza dei conferimenti delineati dalla legge di delega si giustificherebbe anche l’intervento sostitutivo del Governo, con effetti provvisori, nell’ipotesi in cui le Regioni non provvedano nel termine prescritto.
La settima questione, sollevata in relazione all’art. 119 della Costituzione, sarebbe infondata. Secondo la difesa erariale, infatti, a causa dell’andamento fluttuante dei cicli finanziari di entrata e di spesa, il legislatore delegato ha dovuto, per i beni e le risorse utilizzate dallo Stato, fissare un arco temporale pluriennale, da un minimo di tre anni ad un massimo di cinque, precedente la data dell'attribuzione alle Regioni e agli enti locali: ciò al fine di calcolare le risorse disponibili in un periodo di tempo sufficientemente attendibile per un utilizzo a regime ed idoneo a dare la massima certezza possibile alla quantità di beni e risorse da trasferire. La certezza delle risorse da trasferire, inoltre, sarebbe provata dalle disposizioni di cui all’art. 7, comma 3, lettere d (recte: b) e c, che impongono di tenere conto dell’andamento complessivo delle spese finali iscritte nel bilancio dello Stato e dei contenuti dei documenti di programmazione economico-finanziaria approvati dalle Camere.
Anche l’ottava questione, sollevata sempre in relazione all’art. 119 della Costituzione, sarebbe infondata, dal momento che nell'attuazione della disposizione impugnata si dovrebbe necessariamente tenere conto dell'intero sistema delineato dal legislatore delegante e delegato. La previsione in base alla quale la legge regionale di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo, debba essere adottata da ciascuna Regione, ai sensi dell'art. 4, commi 1 e 5, della legge di delega, entro sei mesi dalla emanazione del decreto legislativo, e debba determinare in conformità al proprio ordinamento le funzioni amministrative che richiedono l'unitario esercizio a livello regionale, provvedendo contestualmente a conferire tutte le altre agli enti locali, discenderebbe direttamente dai principi di cui alla legge n. 142 del 1990 e, in particolare, dal principio di sussidiarietà. Il richiamo ai commi 1 e 5 dell'art. 4 della legge di delega, infatti, non lascerebbe dubbi sul fatto che oggetto della norma impugnata sono i compiti e le funzioni già di competenza regionale nelle materie di cui all'art. 117 della Costituzione, che non richiedono un unitario esercizio a livello regionale: in ordine a tali compiti e funzioni le Regioni sarebbero già titolari di beni e risorse, e sarebbe quindi possibile dare contestuale operatività ai conferimenti, come previsto appunto dalla disposizione impugnata. Una conferma a contrario si evincerebbe dall’art. 7, comma 1, lettera d, del decreto impugnato, che espressamente prevede che "in caso di delega regionale agli enti locali, la legge regionale attribuisce ai medesimi risorse finanziarie tali da garantire la congrua copertura degli oneri derivanti dall'esercizio delle funzioni delegate, nell'ambito delle risorse a tale scopo effettivamente trasferite dallo Stato alle Regioni".
Infondato sarebbe anche il nono motivo di censura, in quanto la questione si baserebbe su una errata interpretazione sia della legge di delega che del decreto legislativo. L’Avvocatura premette che l’art. 3, comma 1, lettera d, della legge n. 59 del 1997 demanda ai decreti legislativi previsti dal precedente art. 1 di procedere al riordino delle strutture centrali e periferiche interessate dal conferimento "con le modalità e nei termini di cui all'art. 7, comma 3", che a sua volta dispone che al riordino si provvede, con regolamento, entro novanta giorni dalla adozione di ciascun decreto di attuazione di cui al comma 1 dello stesso articolo 7 (ovvero dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di puntuale individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle Regioni ed agli enti locali). In ottemperanza a quanto dispone la legge di delega, il legislatore delegato ha stabilito (art. 9) che al riordino delle strutture centrali e periferiche si provvede "con i decreti previsti dagli articoli 7, 10 e 1l della legge 15 marzo 1997, n. 59". Pertanto, risulterebbe evidente la consequenzialità della procedura di riordino delle strutture centrali e periferiche, da attuarsi solo dopo avere proceduto alla individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle autonomie territoriali. Solo successivamente a questa operazione, che rende concreti e certi nella misura i conferimenti, sarebbe possibile – secondo l’Avvocatura – procedere con altrettanta certezza al riordino con i diversi strumenti previsti dagli artt. 7, 10 e 11 della legge di delega.
Analoga argomentazione viene richiamata per l'individuazione delle modalità e delle procedure per il personale da trasferire di cui all'art. 3, comma 1, lettera d, della legge di delega.
Infine, per quanto riguarda le disposizioni del decreto legislativo con le quali la ricorrente Regione asserisce che il legislatore delegato avrebbe proceduto ad una indebita autodelega, l’Avvocatura rileva che per casi specifici il decreto delegato ha anticipato il riordino con norme singolari, compiendo una scelta consentita nell’ambito della discrezionalità spettante al Governo.
La difesa statale ritiene anche infondata la decima questione, relativa alla mancata individuazione degli strumenti di raccordo e cooperazione. La lettura sistematica delle disposizioni del decreto legislativo impugnato confermerebbe che il principio di leale collaborazione, in diversa guisa e con molteplici strumenti, é stato assunto come base essenziale per i conferimenti, divenendo principio informatore del nuovo assetto dei rapporti fra i soggetti coinvolti, come dimostrerebbe il ruolo attribuito alla Conferenza Stato-Regioni ed alla Conferenza Stato-città. Quanto al principio di avvalimento, esso costituirebbe, per disposto della legge di delega, criterio sussidiario per l'esercizio del potere delegato, occorrente solo nelle ipotesi in cui vi siano difficoltà giuridiche ad attuare compiutamente il principio di sussidiarietà; e, poichè il principio di sussidiarietà ha guidato l'intera stesura normativa del decreto delegato, gli spazi disciplinati mediante il principio di avvalimento risulterebbero residuali.
Anche l’ultima questione sarebbe infondata, in quanto proposta in termini perentori ed "assolutistici", proprio in un campo, quello dell’autorizzazione all’insediamento di attività produttive, in cui l'articolazione degli interessi e delle competenze é particolarmente complessa. Secondo l’Avvocatura il procedimento previsto non risulterebbe lesivo della competenza regionale, in quanto la Regione partecipa alla conferenza di servizi di cui all’art. 25, comma 2, lettera g, del decreto legislativo e solo se vi é il suo accordo la determinazione costituisce proposta di variante allo strumento urbanistico.
3. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, fissata per il 4
aprile
Quanto al primo motivo di ricorso, concernente la mancanza di certezza nei conferimenti di funzioni, in violazione della legge di delega, la Regione, nel ribadire che il decreto impugnato, violando la legge di delega, non avrebbe operato alcun concreto trasferimento di funzioni, ad eccezione di quelli previsti dalle poche norme richiamate nel ricorso, afferma che tale conclusione é confermata dal disposto dell’art. 2, lettera b, del decreto legislativo correttivo n. 443 del 1999, di modifica dell’art. 19, comma 12, del decreto legislativo impugnato. Quest’ultima disposizione, concernente le incentivazioni alle imprese, disponeva che le Regioni subentrassero alle amministrazioni statali nelle convenzioni dalle medesime stipulate "ed in vigore alla data di emanazione del presente decreto legislativo e stipulando, ove occorra, atti integrativi alle convenzioni stesse per i necessari adeguamenti", con ciò singolarmente presupponendo una competenza regionale a partire dalla emanazione del decreto n. 112. La Regione rileva che il decreto correttivo ha invece disposto che le Regioni subentreranno nelle convenzioni "in vigore alla data di effettivo trasferimento e delega delle funzioni disposte dal presente decreto legislativo": con la conseguenza che fino a quella data rimangono competenti le amministrazioni statali.
Inoltre, la Regione osserva che in base all’art. 7 della legge di delega i previsti decreti del Presidente del Consiglio dei ministri dovevano servire unicamente "alla puntuale individuazione" dei beni e delle risorse da trasferire, e dunque i mezzi economici in questione avrebbero dovuto essere complessivamente già indicati dai decreti legislativi di trasferimento, e cita, quale esempio di un modo corretto di operare, il decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463, recante norme di attuazione dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, con il quale si é provveduto a conferire contestualmente funzioni, mezzi e personale. Al contrario il Governo, adottando le norme impugnate, avrebbe rinviato ai successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri il compito di attuare direttamente la delega legislativa.
In relazione al secondo motivo di
ricorso, la memoria regionale, riprendendo l’impostazione del ricorso
introduttivo, ribadisce che la legge di delega avrebbe indicato un criterio di
lettura delle materie regionali assolutamente ampio e favorevole alle Regioni,
secondo il quale nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione il
Governo avrebbe dovuto trattenere in capo allo Stato solo i compiti previsti
dalla legge stessa. Tale interpretazione della legge di delega avrebbe trovato,
secondo la memoria regionale, significativa conferma
nella previsione dell’art. 1, comma 2, della legge 16 giugno 1998, n. 191, che,
integrando l’art. 1, comma 3, della legge n. 59 del
Anche in relazione al terzo motivo
del ricorso la difesa regionale insiste sull’illegittimità delle disposizioni
impugnate, nelle parti in cui pongono riserve di funzioni a favore dello Stato
non riconducibili a puntuali titoli giustificativi posti dalla legge di delega.
In materia di energia rimarrebbero prive di fondamento in particolare le riserve
di cui all’art. 18 del decreto legislativo impugnato,
lettere a, b, d, e, i, m, n, o;
molte di esse, inoltre, sarebbero riserve "in bianco", e
vanificherebbero così l’obbligo di tassatività, in quanto non definirebbero
esattamente la funzione trattenuta, ma farebbero riferimento ad aspetti non
ulteriormente qualificati di "interesse nazionale". Anche in materia
di energia molte delle riserve puntuali a favore dello Stato sarebbero di ardua
giustificazione, quali quelle dell’art. 29, lettere f,
g, l, n, o. La stessa formulazione dell’art. 85 attesterebbe poi che in materia di rifiuti niente sia
stato delegato dallo Stato. Quanto all’art. 93 del
decreto legislativo, la Regione ammette che le funzioni di cui al comma 1,
lettera c, possono trovare corrispondenza nell’art. 1, comma 4, lettera b,
della legge di delega, ma esclude che altrettanto possa dirsi per le riserve di
cui alle lettere f e g, o per quelle previste dall’art.
Sul quarto motivo di ricorso, la Regione afferma che spetta alla Corte costituzionale appurare "il fatto" della mancata intesa in Conferenza Stato-Regioni sui compiti di rilievo nazionale, eventualmente facendo uso dei poteri istruttori; e che, comunque, il motivo di ricorso sarebbe ammissibile, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale, in quanto la Corte costituzionale avrebbe già in passato sindacato il procedimento di formazione dei decreti legislativi, anche per ciò che attiene alla avvenuta acquisizione di pareri o altri atti endoprocedimentali, imposti da norme costituzionali o dalle leggi di delega.
Sulla quinta censura, la difesa regionale afferma che, in base alla legge di delega, nelle materie regionali il Governo non era abilitato ad attuare direttamente l’ultima parte del primo comma dell’art. 118 della Costituzione. Ciò risulterebbe sia dall’art. 4, commi 1 e 2, della legge di delega, sia dal successivo comma 5, che rinvia all’art. 3 della legge n. 142 del 1990, il quale, attraverso il richiamo all’art. 118, primo comma, della Costituzione, prevede che spetta alla Regione individuare i compiti di interesse esclusivamente locale da attribuire a province e comuni; sia, anche, dall’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 142 del 1990 e della stessa legge di delega fornita dalla Corte costituzionale.
Quanto alla sesta censura, la Regione, replicando alle due eccezioni di inammissibilità proposte dalla difesa erariale, ricorda, quanto alla prima, che già in passato la Corte costituzionale ha valutato nel merito la congruità di un termine assegnato alle Regioni per esprimere un parere; e, quanto alla seconda, che la questione non sarebbe stata sollevata tardivamente, poichè l’art. 3 del decreto legislativo avrebbe novato la fonte precedente (l’art. 4, comma 5, della legge di delega), ponendo esso direttamente la norma impugnata.
Con riguardo alla settima questione, la ricorrente insiste per il suo accoglimento, affermando, fra l’altro, che la legge di delega (artt. 4, comma 3, lettera i, e 7, comma 1, ultimo periodo), conformemente all’art. 119 della Costituzione, avrebbe posto come principio non il trasferimento di quanto speso dallo Stato, ma di quanto é congruo rispetto alle competenze che alle Regioni sono conferite; e ribadisce che l’art. 7, comma 3, del decreto legislativo comunque non consentirebbe di stabilire di quali risorse le Regioni potranno disporre per svolgere le funzioni conferite.
Quanto all’ottava questione, la difesa regionale precisa che essa é logicamente subordinata al mancato accoglimento della settima censura, in quanto se non fosse incostituzionale che lo Stato non abbia operato i trasferimenti economici necessari, allora sarebbe illegittimo che il medesimo Stato li imponga alle Regioni a favore degli enti locali. Osserva poi che se fosse vera l’interpretazione dell’art. 3, comma 3, del decreto legislativo fornita dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui oggetto di conferimento da parte delle Regioni nei confronti degli enti locali sarebbero solo i compiti e le funzioni dell’art. 117 della Costituzione di cui le Regioni sono già titolari, allora si dovrebbe dire che esclusivamente quei compiti e funzioni siano oggetto del potere sostitutivo dello Stato, e ciò rileverebbe in sede di giudizio nei confronti del decreto legislativo n. 96 del 1999, pure impugnato dalla Regione Veneto, con cui lo Stato ha esercitato il potere sostitutivo.
Con riferimento al nono motivo di ricorso, in primo luogo la Regione ribadisce la propria legittimazione a far valere la violazione del principio della legge di delega che imponeva di provvedere al riordino delle strutture statali, in quanto tale violazione, essendo una delle cause dei ritardi nell’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 7 della legge di delega, si sarebbe tradotta nella violazione dei connessi criteri concernenti il trasferimento delle funzioni alle Regioni; e, in secondo luogo, ricorda che la sua contestazione riguarda la circostanza che il Governo non abbia provveduto, con lo stesso decreto legislativo impugnato, a riordinare nella sostanza le strutture statali, come sarebbe stato invece necessario per individuare funzioni, beni e personale da trasferire.
Quanto al decimo motivo di ricorso, la Regione precisa che gli "strumenti di collaborazione", che il decreto legislativo non avrebbe individuato, in violazione della legge di delega, sono quelli che, senza disconoscere la spettanza delle competenze, e lasciando inalterata la distinzione delle responsabilità, consentono ai diversi enti di coordinare la loro azione.
La Regione insiste anche per l’accoglimento dell’ultimo motivo del ricorso e, ricordando che l’art. 25, comma 2, del decreto legislativo la esproprierebbe delle competenze che le spettano in materia urbanistica, aggiunge che tale disposizione la vincolerebbe, tra l’altro, al rispetto di una fonte governativa regolamentare, alla quale non potrebbe essere tenuta in assenza di puntuali titoli giustificativi.
Nel concludere la memoria, la Regione ribadisce che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto legislativo impugnato, a causa della loro centralità nel sistema delineato dal Governo, non potrebbe non travolgere l’intero decreto; e insiste nelle sue richieste, pur dichiarandosi consapevole del rischio che tale declaratoria rallenti il processo di attuazione e sviluppo del disegno costituzionale delle autonomie.
4. – Con ricorso notificato il 28 dicembre 1999 e depositato il 5 gennaio 2000 (r. ric. n. 1 del 2000) la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, degli articoli 1; 3; 6; 8; 11; 13; 14; 15; 16 e 17 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 443 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali). Il decreto legislativo n. 443 sarebbe affetto, secondo la Regione, in parte dai medesimi vizi evidenziati nei confronti del decreto legislativo n. 112 del 1998 dalla stessa Regione Veneto con il ricorso iscritto al r. ric. n. 25 del 1998, di cui sopra, in parte da vizi diversi. Le censure sono suddivise in cinque motivi.
La prima censura investe l’intero decreto legislativo, nei riguardi del quale la Regione denuncia la violazione dell'art. 76 della Costituzione, per avere il Governo adottato disposizioni "correttive" in assenza del relativo presupposto giustificativo.
La Regione ricorda che il decreto legislativo impugnato é stato emanato sulla base dell'art. 10 della legge di delega n. 59 del 1997, come risultante dalle modifiche di cui all'art. 1, comma 11, della legge 16 giugno 1998, n. 191, all'art 9, comma 6, della legge 8 marzo 1999, n. 50, e all'art. 1 della legge 29 luglio 1999, n. 241. Secondo la difesa regionale, la disposizione di delega conterrebbe, oltre a quelli puntualmente indicati, anche un ulteriore limite, implicito ma necessitato, secondo il quale le "correzioni" e le "integrazioni", che il Governo intende apportare ai decreti base, devono trovare fondamento e giustificazione in esigenze e fatti obiettivi insorti e verificatisi dopo l'esercizio del potere attribuito in via principale. Solo in tal modo si riuscirebbe a dare un senso alla distinta previsione, nella legge di delega, di un termine per l'emanazione di uno o più decreti legislativi di disciplina della materia, e di un ulteriore termine per le norme correttive: e se così non fosse, a parere della ricorrente, le norme correttive altro non sarebbero che il frutto di una delega esercitata fuori termine, la quale porterebbe con sè l’effetto di rendere "precario" il decreto base. La Regione afferma che nel caso di specie non sarebbe rinvenibile nè nel decreto nè aliunde una qualche esigenza obbiettiva per l’adozione del decreto correttivo, e le correzioni non sarebbero comunque state imposte dalla pratica applicazione del decreto n. 112 del 1998, posto che esso sarebbe tuttora "carta straccia" per la perdurante mancanza dei trasferimenti, da parte dello Stato, delle risorse finanziarie necessarie. L’elusione del termine della delega sarebbe dunque l'unica giustificazione delle norme del decreto legislativo n. 443 del 1999 impugnate dalla Regione.
La seconda censura investe alcune disposizioni del decreto legislativo che riservano allo Stato compiti e funzioni, e precisamente: l’art. 1, che modifica l’art. 18 del decreto legislativo n. 112 del 1998, mantenendo alla competenza statale "la definizione di norme in materia di metrologia legale" e "la omologazione di modelli e strumenti di misura"; l’art. 8, che modifica l’art. 48 del decreto legislativo n. 112 del 1998, mantenendo alla competenza statale le funzioni concernenti la promozione e il sostegno alla costituzione di consorzi tra piccole e medie imprese industriali, commerciali e artigiane, qualora tali consorzi abbiano carattere multiregionale; e l’art. 11, di modifica dell’art. 104 del decreto legislativo n. 112 del 1998, nella parte in cui mantiene alla competenza statale le funzioni relative agli esami per i conducenti di unità da diporto nautico e al rilascio di patenti, di certificati di abilitazione professionale, patenti nautiche e di loro duplicati e aggiornamenti. Nei riguardi di queste disposizioni, la Regione denuncia la violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione.
La difesa regionale ricorda che l’art. 3,
comma 1, lettera a, della legge n. 59 del
La Regione insiste in particolare sulla censura relativa all’art. 11, che modifica l’art. 104 del decreto legislativo n. 112 del 1998: il ri-trasferimento allo Stato della funzione non si spiegherebbe, in quanto alle province rimangono varie funzioni che implicano controlli tecnici su autoscuole e scuole nautiche, oltre che esami per il riconoscimento dell’idoneità dei relativi istruttori (art. 105, lettere a e c del decreto legislativo n. 112); inoltre, proprio la modifica della legge di delega di cui alla legge n. 191 del 1998 confermerebbe che tutte le funzioni ricadenti nella materia dei trasporti avrebbero dovuto essere trasferite, con la sola eccezione dei "trasporti aerei, marittimi e ferroviari di interesse nazionale".
La terza censura investe le disposizioni del decreto
legislativo impugnato che secondo la Regione avrebbero riservato allo Stato
"compiti di rilievo nazionale" senza osservare il procedimento
stabilito dalla legge di delega, violando così gli articoli 76,
117 e 118 della Costituzione. Si tratta dell’art.
In primo luogo, dall’art. 3 del decreto legislativo n. 281 del 1997 si evincerebbe che per il raggiungimento dell’intesa é necessario l’assenso di tutti i presidenti delle Regioni, e la circostanza sarebbe confermata dall’art. 2, comma 2, dello stesso decreto, il quale consente che solo per alcune deliberazioni, diverse da quella relativa all’intesa, l’assenso sia espresso dalla maggioranza dei presidenti "componenti la Conferenza Stato-Regioni, o da assessori da essi delegati a rappresentarli nella singola seduta". Nelle due sedute di cui si discute, al contrario, non erano affatto presenti tutti i presidenti delle Regioni, e dunque non sarebbe stata sancita una valida intesa.
In secondo luogo, nella seduta del 25 giugno (e dunque nella seduta in cui sono state esaminate tutte le disposizioni impugnate con il presente motivo di ricorso, ad eccezione dell’art. 16, lettera c, del decreto correttivo, che introduce il comma 3-ter dell’art. 115 del decreto base), essendo presenti solo 7 presidenti e 4 assessori, la deliberazione non avrebbe potuto neanche essere assunta a maggioranza dei componenti, che sono 22.
In terzo luogo, il testo dell’art. 3 del decreto legislativo correttivo, che modifica l’art. 29, comma 2, lettera b, del decreto base, sarebbe diverso da quello sul quale si sarebbe formata l’intesa (la modifica dell’art. 29 riserva allo Stato le funzioni relative alle determinazioni inerenti l’importazione, l’esportazione e lo stoccaggio di energia "limitatamente allo stoccaggio di metano in giacimento", mentre il testo dell’intesa prevedeva che tali funzioni fossero riservate "limitatamente allo stoccaggio di metano in giacimento, allo stoccaggio di oli minerali di capacità superiore a mc. 80.000 e di gas di petrolio liquefatti di capacità superiore a mc. 400").
Infine, non varrebbe ad escludere i vizi procedimentali appena esposti la considerazione che richiedendo, ai fini dell’intesa, l’unanimità o la maggioranza assoluta delle Regioni, si impedirebbe al Governo di esercitare il potere delegato: sia l’art. 2, comma 4, lettera c, della legge n. 59 del 1997, sia l’art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 281 del 1997, infatti, prevedono e consentono che, in mancanza dell’intesa, il Consiglio dei ministri deliberi motivatamente in via definitiva. Nel caso di specie, tuttavia, tale circostanza non si sarebbe verificata.
La quarta censura ha ad oggetto l’art. 16 del decreto legislativo correttivo, nella parte in cui, aggiungendo il comma 3-ter all’art. 115 del decreto legislativo n. 112 del 1998, stabilisce che l’esercizio delle funzioni – statali e regionali – di cui ai commi 3 e 3-bis dello stesso articolo, in materia di tutela della salute, "é regolato sulla base di modalità definite con apposito accordo da approvare in Conferenza Stato-Regioni, ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 29 agosto 1997, n. 281". Tale disposizione, secondo la Regione, violerebbe gli articoli 117 e 118 della Costituzione, in quanto condizionerebbe l’esercizio di funzioni regionali ad accordi tra Governo e Regioni, ed in particolare subordinerebbe all’accordo in sede di Conferenza non solo le funzioni amministrative regionali, ma anche la stessa attività legislativa delle Regioni; e violerebbe anche l’art. 76 della Costituzione, in quanto l’art. 2, comma 2, della legge n. 59 del 1997 fa espressamente salva la potestà normativa delle Regioni e degli enti locali per quanto attiene alla "disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti amministrativi conferiti".
La quinta ed ultima censura riguarda l’art. 6 del decreto legislativo correttivo, che modifica l’art. 40, comma 1, del decreto legislativo n. 112 del 1998, conservando allo Stato anche "l’attività regolamentare in materia di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e di commercio dei pubblici esercizi, d’intesa con le Regioni". La disposizione, nel riservare allo Stato l’"attività regolamentare", e cioé la funzione complessiva di disciplina normativa nella materia, sarebbe incostituzionale sia per violazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione, sia per eccesso di delega, in relazione all’art. 2, comma 1, della legge n. 59 del 1997.
E infatti, se si ritiene che la materia del commercio sia propria delle Regioni in quanto ricompresa nella locuzione "fiere e mercati" di cui all’art. 117 della Costituzione (come lascerebbe intendere il legislatore delegato all’art. 41, comma 2, lettera d, laddove dispone che siano trasferite alle Regioni le funzioni amministrative concernenti le competenze già delegate ai sensi dell’art. 52, comma 1, del d.P.R. n. 616 del 1977, e cioé anche le funzioni relative "ai pubblici esercizi di vendita e consumo di alimenti e bevande"), il legislatore non avrebbe potuto prevedere che l’attività normativa ed amministrativa delle Regioni fosse vincolata a fonti regolamentari statali. Ma se anche si ritenesse che tali compiti siano delegati, il divieto di condizionarli a fonti subprimarie dello Stato deriverebbe quanto meno dal secondo periodo dell’art. 2, comma 1, della legge di delega, il quale demanda direttamente alle Regioni "il potere di emanare norme attuative ai sensi dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione": potere che sarebbe invece negato dal legislatore delegato con la disposizione censurata.
5. – Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che il ricorso della Regione Veneto sia dichiarato inammissibile e comunque infondato, e producendo alcuni documenti.
Quanto al primo motivo del ricorso introduttivo, l’Avvocatura dello Stato afferma che le disposizioni correttive, costituendo esercizio della funzione legislativa delegata al Governo, non hanno bisogno di un ulteriore presupposto giustificativo, e si caratterizzano rispetto a quelle inizialmente emanate con il decreto base solo perchè presuppongono queste ultime e si pongono rispetto ad esse in funzione integrativa o correttiva, secondo le valutazioni del Governo delegato; nè si potrebbe dire violato l’art. 76 della Costituzione, in quanto anche le disposizioni correttive, come espressamente previsto dall’art. 10 della legge n. 59 del 1997, devono essere poste nel rispetto dei medesimi criteri e principi, e adottate con le stesse procedure previste per gli originari decreti legislativi, ed entro il tempo limitato prefissato a tal fine dalla legge.
Con riferimento al secondo motivo, l’Avvocatura erariale afferma che dalle disposizioni della legge di delega invocate dalla Regione, lette in correlazione con l’art. 2 della stessa legge, si desume che il criterio per determinare la spettanza delle funzioni é proprio quello del rilievo nazionale dell’interesse investito dalla funzione. Ma anche a volere ritenere che il principio posto dal legislatore delegante sia piuttosto quello della dimensione delle funzioni, e quindi della loro estensione nell’ambito territoriale della collettività interessata, non sarebbe ravvisabile il vizio di eccesso di delega. Infatti: l’aggiunta all’art. 18 del decreto legislativo n. 112 del 1998 mirerebbe a garantire uniformemente – in un’ottica non localizzabile nel territorio regionale e per la tutela dell’interesse dell’intera collettività – la fede pubblica in ogni tipo di rapporto economico; anche la modifica all’art. 48 risponderebbe alla finalità di riservare allo Stato le funzioni dirette alla promozione e al sostegno di consorzi tra piccole e medie imprese industriali, aventi carattere multiregionale e quindi non localizzabili nel territorio di una singola Regione; la modifica all’art. 104, infine, sarebbe conforme ai principi della legge di delega e coerente con la previsione di cui alla lettera t del medesimo art. 104, secondo cui sono mantenute allo Stato le funzioni attinenti alla disciplina e alla sicurezza della navigazione da diporto e alla sicurezza della navigazione interna.
In ordine alla terza questione sollevata dalla Regione Veneto, la difesa statale afferma che sulle disposizioni denunciate si sarebbe formata l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni nelle sedute del 25 giugno e del 1° luglio 1999, e in quest’ultima data sarebbe stato acquisito anche il parere favorevole della Conferenza unificata, come risulterebbe dai verbali di quelle sedute, prodotti nel giudizio costituzionale. Osserva inoltre che la censura relativa ai vizi dell’esperito procedimento di intesa sarebbe inammissibile, in quanto la violazione delle norme del decreto legislativo n. 281 del 1997 non ridonderebbe comunque in una lesione dell’autonomia regionale; e questo tanto più che la legge di delega prevede che, in mancanza di intesa, spetti comunque al Consiglio dei ministri, su proposta dal suo Presidente, deliberare i decreti legislativi di conferimento delle funzioni.
Quanto al quarto motivo del ricorso introduttivo, l’Avvocatura erariale afferma che l’esercizio delle funzioni di verifica di conformità di cui ai commi 3 e 3-bis dell’art. 115 del decreto legislativo n. 112 del 1998, così come modificato dal decreto correttivo, é regolato sulla base di modalità definite in apposito accordo da approvare in Conferenza Stato-Regioni: il così previsto strumento di raccordo per l’esercizio di tali funzioni, quindi, non limiterebbe in alcun modo l’autonomia regionale, fermo restando che anch’essa deve essere esplicata nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria del settore (art. 115, comma 2, lettera c, del decreto n. 112).
Quanto al quinto motivo del ricorso introduttivo, avente ad oggetto l’integrazione all’art. 40, comma 1, del decreto legislativo n. 112 del 1998, disposta dal decreto correttivo in accoglimento di puntuale richiesta espressa nel documento elaborato congiuntamente da Regioni, ANCI, UPI e UNCEM allegato al parere della Conferenza unificata del 1° luglio del 1999, l’Avvocatura dello Stato sostiene che tale integrazione, lungi dal configurare una compressione della competenza regionale, costituirebbe un limite all’attività regolamentare dello Stato in materia di attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e di commercio in pubblici esercizi, disponendo che essa venga svolta d’intesa con le Regioni.
6. – In prossimità dell’udienza pubblica, fissata anch’essa in data 4 aprile 2000, hanno depositato memoria sia la Regione Veneto, sia il Presidente del Consiglio dei ministri, ed entrambe le parti hanno prodotto alcuni documenti.
La memoria regionale insiste, con le medesime argomentazioni, sulle censure già svolte nel ricorso introduttivo, aggiungendo solo alcune notazioni.
Quanto al terzo motivo del ricorso introduttivo, la Regione ricorda come la Corte costituzionale abbia in passato già svolto il controllo di costituzionalità sugli elementi dell’iter di formazione dei decreti legislativi, in relazione sia a norme costituzionali sia alla legge di delega. Secondo la Regione, il controllo da parte della Corte sulla esistenza degli elementi del procedimento deve poi estendersi alla loro validità e dunque, nel caso di specie, alla validità dell’intesa, secondo le norme che la regolano.
Quanto all’ultimo motivo del ricorso introduttivo, invece, la difesa regionale, richiamandosi integralmente all’atto introduttivo, ricorda che questa Corte avrebbe recentemente ribadito che vincoli all’esercizio delle funzioni regionali possono essere disposti solo con atto legislativo o – ricorrendone tutti i presupposti – attraverso l’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento: ipotesi che non ricorrerebbero in ordine all’art. 6 del decreto legislativo correttivo denunciato.
7. – Anche la memoria del Presidente del Consiglio si richiama a quanto già esposto nell’atto di costituzione e ribadisce le conclusioni già assunte.
In riferimento al secondo motivo del ricorso, l’Avvocatura osserva che il comma 2 dell’art. 1 della legge di delega – nel delimitare in positivo l'oggetto della delega –sancisce che il conferimento alle Regioni ed enti locali, nel rispetto del principio di sussidiarietà di cui all'art. 4, comma 3, lettera a, della stessa legge, concerne tutte le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità nonchè tutte le funzioni ed i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato. Sarebbe pertanto indubitabile che, anche al di fuori delle materie espressamente escluse dal conferimento ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge di delega ed in coerenza con il principio dell'unità della Repubblica di cui all'art. 5 della Costituzione, l’individuazione delle funzioni mantenute allo Stato rispetto a quelle conferibili alle Regioni ed agli enti locali sia determinata in base al criterio della dimensione delle funzioni stesse in correlazione alla dimensione delle rispettive collettività. Da ciò conseguirebbe che vadano comunque riservate allo Stato le funzioni intrinsecamente unitarie e infrazionabili, siccome riferibili all'intera collettività nazionale e come tali in sè insuscettibili di localizzazione territoriale particolare: quali sarebbero quelle mantenute allo Stato dagli articoli del decreto correttivo impugnati, che si connotano chiaramente per la loro dimensione ultraregionale.
Con riguardo al terzo motivo del ricorso introduttivo, l’Avvocatura erariale, ribadendo l’inammissibilità della questione, argomenta ulteriormente sulla sua infondatezza. Se pure dai verbali della Conferenza relativi alle sedute del 25 giugno 1999 e del 1° luglio 1999 risulta che, nonostante la regolare convocazione, erano alle stesse riunioni presenti solo alcuni presidenti (e assessori) delle Regioni, dal primo dei due verbali, tuttavia, emergerebbe che in quelle sedi venne esaminato e discusso il "documento delle Regioni sugli articoli dello schema di decreto legislativo" consegnato dal Presidente Mori (allegato al verbale del 25 giugno), nel quale i presidenti delle Regioni e delle province autonome, riuniti nella relativa conferenza, manifestavano la loro intesa su alcuni degli articoli qui in discussione, con richiesta di modifiche o integrazioni per altri articoli. Sul contenuto di tale "documento delle Regioni" si sarebbe del tutto validamente formata l'intesa espressa nella riunione del 25 giugno, integrata dalla intesa raggiunta su un’ulteriore disposizione sollecitata dalle stesse Regioni e formalizzata nella successiva riunione della Conferenza Stato-Regioni in data 1° luglio 1999. Pertanto, nonostante la mancata partecipazione di alcuni presidenti delle Regioni alle riunioni della Conferenza, pur regolarmente convocata, gli stessi avrebbero espresso in tal modo il loro assenso sugli articoli dello schema del decreto ora contestati dalla ricorrente.
Infine, l’Avvocatura dello Stato osserva che nella riunione della Conferenza unificata del 1° luglio 1999 – in relazione alla quale la Regione ricorrente non prospetta alcuna censura – sugli articoli in discussione fu espresso il parere favorevole, richiesto dall'art. 6 della legge di delega, sulla base di un documento elaborato congiuntamente dalle Regioni, dall'ANCI, dall'UPI e dall'UNCEM (verbale del 1° luglio 1999 e relativo allegato): documento nel quale viene fatto inequivoco e ripetuto riferimento alla già raggiunta intesa nella Conferenza Stato-Regioni.
8. – All’esito dell’udienza pubblica del 4 aprile 2000, la Corte costituzionale ha pronunciato l’ordinanza 11 – 15 maggio 2000, con cui, riuniti i giudizi instaurati dai due ricorsi della Regione Veneto di cui si é riferito (r. ric. nn. 25 del 1998 e 1 del 2000), ha considerato che il quarto motivo del primo ricorso e il terzo motivo del secondo ricorso sono fondati su censure riguardanti l’affermata mancanza o l’invalidità dell’intesa nella Conferenza Stato-Regioni, e ha conseguentemente ritenuto opportuno acquisire in via istruttoria gli elementi di fatto relativi alle modalità con le quali si é proceduto, da parte del Governo e dei presidenti delle Regioni, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, alla elaborazione e all’esame dei decreti legislativi impugnati, con particolare riguardo all’intesa prevista per la identificazione dei compiti di interesse nazionale di cui all’art. 1, comma 4, lettera c, della legge n. 59 del 1997.
9. – In ottemperanza all’ordinanza della Corte sia la Regione Veneto che il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato abbondante documentazione, e la Regione ha depositato anche una relazione illustrativa del materiale istruttorio.
Secondo la Regione, dai verbali della Conferenza Stato-Regioni e della conferenza dei presidenti, e dagli altri atti depositati, si ricaverebbe quanto segue.
In primo luogo, tanto il Governo quanto le Regioni avrebbero costantemente presupposto che – secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 4, lettera c, della legge n. 59 del 1997 e dall’art. 3 del decreto legislativo n. 281 del 1997 – l’organo competente ad esaminare l’intesa fosse esclusivamente la Conferenza Stato-Regioni, e che l’intesa dovesse essere puntualmente formalizzata in uno specifico provvedimento.
In secondo luogo, l’intesa relativa al decreto legislativo n. 112 del 1998 sarebbe stata raggiunta nel corso della seduta del 25 marzo 1998, benchè l’art. 89, comma 1, lettera b, e l’art. 109 del decreto coincidano solo in parte con i corrispondenti articoli 86 e 105 dell’intesa. Tuttavia, tale intesa sarebbe inesistente, in quanto nella seduta non sarebbero state rappresentate nè direttamente nè indirettamente tutte le Regioni, ed in ogni caso sarebbe mancata anche la possibilità di deliberare a maggioranza, in quanto alla Conferenza partecipavano, su 22 componenti, solo 10 Regioni o Province autonome.
In terzo luogo, l’intesa relativa al
decreto legislativo n. 443 del 1999 sarebbe stata raggiunta, come già detto nel
ricorso introduttivo, in parte nel corso della seduta del 25 giugno 1999 – benchè essa non possa ritenersi raggiunta sull’art. 3,
nella parte in cui modifica l’art. 29, comma 2, lettera b, del decreto
legislativo n.
Ancora, la Regione precisa che gli incontri di carattere tecnico (i c.d. tavoli tecnici) che hanno preceduto alcune sedute della Conferenza Stato-Regioni, a cui hanno partecipato rappresentanti di livello politico delle Regioni e delle amministrazioni statali interessate, sono state riunioni del tutto informali, senza la verbalizzazione dei relativi lavori, aventi carattere assolutamente preparatorio rispetto ai lavori della conferenza.
Quanto poi ai verbali della conferenza dei presidenti, la Regione rileva che fin dalla prima riunione numerosi presidenti avrebbero rilevato il mancato rispetto della procedura relativa alla previa intesa sullo schema di decreto legislativo; che tale conferenza si sarebbe sempre limitata a formulare propri pareri complessivi e proposte di modifica, e che mai si sarebbe espressa su un articolato normativo compiuto, da sottoporre all’intesa della Conferenza Stato-Regioni.
Quanto infine alla posizione della Regione Veneto, la difesa regionale rileva che essa non era rappresentata nelle sedute della Conferenza Stato-Regioni del 5 e 19 marzo 1998, del 25 giugno e del 1° luglio 1999, mentre il Presidente della Regione era presente alla seduta del 25 marzo 1998, pur assentandosi anticipatamente.
10. – Nell’imminenza della nuova udienza fissata per il 16 gennaio 2001, la Regione Veneto ha depositato una memoria con la quale, richiamati integralmente i motivi e le argomentazioni esposti nei ricorsi introduttivi, nelle memorie e nella relazione di accompagnamento al materiale istruttorio depositato, si sofferma esclusivamente su due temi.
Con riferimento al primo, secondo, terzo e quinto motivo del ricorso n. 25 del 1998 e al secondo motivo del ricorso n. 1 del 2000, la Regione analizza la più recente giurisprudenza costituzionale sul sindacato di costituzionalità in relazione all’art. 76 della Costituzione, da cui si evincerebbe che la Corte può dichiarare incostituzionali le disposizioni di un decreto legislativo indipendentemente da ogni considerazione sulla legittimità costituzionale dello stesso, sotto il profilo dei contenuti; e che la legge di delega va interpretata sistematicamente e in modo da rendere minimo lo spazio della discrezionalità governativa, pena la sua incostituzionalità.
Con riferimento al settimo e all’ottavo motivo del ricorso n. 25 del 1998, la Regione richiama le disposizioni dell’art. 52 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), affermando che a nessuna di esse potrebbe essere attribuita una qualche portata di "sanatoria" dei vizi del decreto legislativo n. 112 del 1998: tutte anzi presupporrebbero il sistema dei conferimenti delineato dalla legge di delega e dal decreto legislativo. Piuttosto, nota la difesa regionale, il comma 1 di tale articolo, laddove certifica che alla data del 31 dicembre 2000 non sarebbe stata ancora completata la procedura di mobilità del personale, costituirebbe la riprova, a posteriori, che il Governo non avrebbe attuato la delega nei termini previsti, ed inoltre deporrebbe in favore della fondatezza della censura avanzata in via subordinata con l’ottavo motivo del primo ricorso.
11. – In vista della medesima udienza ha depositato una memoria anche il Presidente del Consiglio dei ministri il quale, richiamato quanto già esposto negli atti di costituzione e nella memoria, si sofferma esclusivamente su due questioni.
In relazione al primo motivo del primo ricorso, l’Avvocatura erariale insiste sulla piena corrispondenza alla legge di delega, che prevede la gradualità dei conferimenti e impone l’effettività dell’esercizio delle funzioni e dei compiti trasferiti, del sistema, previsto dal decreto legislativo n. 112 del 1998, dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di individuazione e trasferimento delle risorse.
In relazione al quarto motivo del primo ricorso e al terzo motivo del secondo ricorso, la difesa statale ribadisce che nel corso delle riunioni della Conferenza Stato-Regioni sarebbe stata raggiunta l’intesa su tutti i "compiti di rilievo nazionale" da trattenere in capo allo Stato. La soluzione del problema, secondo l’Avvocatura dello Stato, va impostata in termini sostanziali, in coerenza con la natura e le attribuzioni della Conferenza Stato-Regioni, quale organismo collettivo di rappresentanza delle Regioni nell’ambito di procedimenti di concertazione con lo Stato: verificando quindi se, a prescindere dall’osservanza di puntuali adempimenti formali, peraltro non prescritti da nessuna disposizione di legge, vi sia stata comunque l’espressione di un assenso riferibile ai presidenti delle Regioni e delle Province autonome componenti di tale organismo, rimanendo ininfluente il mero fatto, ricorrente nella prassi, che alcuni dei componenti della conferenza, pur ritualmente convocati, abbiano ritenuto di non partecipare di persona a tali riunioni. La difesa statale analizza poi i verbali delle riunioni, dai quali si evincerebbe l’avvenuto perfezionamento dell’intesa, e conclude che da tali verbali risulterebbe chiaramente che i presidenti e gli assessori regionali abbiano sempre parlato non quali rappresentanti del proprio ente, ma unitariamente per conto e in nome della totalità delle Regioni, agendo sempre come portatori delle istanze collettive e della volontà di tutti i componenti della Conferenza, anche al di là di ogni irrilevante formale delega o procura da parte dei presidenti non partecipanti alla seduta. Aggiunge, ancora, che dalla documentazione depositata dalla Regione emergerebbe che le posizioni assunte nella Conferenza Stato-Regioni dai presidenti e dagli assessori regionali trovano il loro puntuale e corrispondente riferimento nelle previe relative delibere della conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome, tutte approvate all’unanimità. La difesa erariale termina la sua memoria ricordando che gli schemi di entrambi i decreti legislativi impugnati sono stati sottoposti all’esame della conferenza unificata, che ha reso pareri positivi ai sensi dell’art. 6 della legge di delega: e tali pareri positivi si configurerebbero come conferma o ratifica della volontà di intesa con lo Stato ai sensi dell’art. 1, comma 4, lettera c, della legge di delega.
Considerato in diritto
1. – La Regione Veneto ha sollevato due serie di questioni di legittimità costituzionale: il primo ricorso (r. ric. n. 25 del 1998) investe molte disposizioni del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonchè lo stesso decreto legislativo nella sua interezza; il secondo ricorso (r. ric. n. 1 del 2000) investe varie disposizioni del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 443 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali), nonchè lo stesso decreto nella sua interezza.
I due giudizi, concernendo l’uno il decreto legislativo che disciplina il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge n. 59 del 1997, l’altro il decreto legislativo contenente disposizioni correttive e integrative del primo, in attuazione della delega di cui all’art. 10 della stessa legge n. 59 del 1997, possono essere riuniti per connessione oggettiva, per essere decisi con unica pronunzia.
2. – Con il primo degli undici motivi cui é affidato il ricorso avverso il d.lgs. n. 112 del 1998 la Regione ricorrente lamenta che il decreto impugnato contenga disposizioni le quali renderebbero "incerti i conferimenti" di funzioni, in quanto stabiliscono che le funzioni conferite potranno essere esercitate solo a partire dal momento che sarà indicato con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri previsti dall’art. 7 della legge n. 59 del 1997, e destinati ad individuare i beni e le risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire, a ripartirle tra le Regioni e tra Regioni ed enti locali, e ad operare i conseguenti trasferimenti. Da tali disposizioni deriverebbe che la generalità delle funzioni non sarebbe stata affatto conferita, e anche per il futuro non vi sarebbe alcuna certezza di conferimento: onde sarebbe rimasta non attuata la delega che imponeva un trasferimento, sia pure graduale, ma non incerto nel suo stesso avverarsi. Sarebbero perciò illegittime, per violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, le disposizioni che subordinano la decorrenza dei conferimenti ai provvedimenti amministrativi di cui all’art. 7 della legge n. 59 del 1997, e cioé gli articoli 3, comma 6, e 7, commi 1, 2, lettera a, e 8, lettera a (quest’ultima limitatamente alle parole "l’individuazione del termine, eventualmente differenziato, da cui decorre l’esercizio delle funzioni conferite"); l’incostituzionalità si estenderebbe poi agli articoli 50, commi 2 e 3 (peraltro oggi abrogati dall’art. 9 della legge n. 50 del 1999), 63 e 138, comma 2. Tuttavia la ricorrente impugna altresì l’intero decreto, sostenendo che le disposizioni ora richiamate sono così "centrali" nell’economia del medesimo, che la loro caduta non potrebbe non implicare quella dell’intero provvedimento legislativo.
3. – La questione così sollevata é inammissibile.
Con essa, infatti, da un lato sembrerebbe chiedersi di eliminare, mediante la pronuncia di questa Corte, i condizionamenti temporali imposti ai conferimenti di funzioni, conseguendo così l’effetto di rendere questi ultimi operativi già con l’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dai provvedimenti che individuano e trasferiscono le risorse (data la evidente impossibilità di conseguire con una pronuncia di illegittimità costituzionale l’effetto di trasferire risorse alla Regione): risultato peraltro paradossale, e chiaramente in contrasto con la legge di delega, che postula – correttamente – la contemporaneità fra inizio dell’esercizio delle nuove funzioni e disponibilità delle risorse relative (cfr. art. 3, comma 1, lettera b, della legge n. 59 del 1997, ove si prevedono i conferimenti di funzioni e la "conseguente e contestuale attribuzione e ripartizione" delle risorse, nonchè la gradualità del conferimento entro un periodo di tre anni, "assicurando l’effettivo esercizio delle funzioni conferite").
Dall’altro lato la stessa Regione ricorrente, evidentemente consapevole della necessaria contestualità dell’operatività dei conferimenti e del passaggio delle risorse, impugna il decreto nella sua interezza, e sostiene che le disposizioni richiamate – che demandano l’attuazione dei conferimenti a decreti del Presidente del Consiglio – sarebbero così "centrali" nell’economia del provvedimento che la loro caduta non potrebbe non implicare quella dell’intero atto: con ciò postulando un risultato contrario a quello della anticipazione dell’effettività dei conferimenti, e cioé la caduta delle stesse norme che tali conferimenti dispongono.
La perplessità della domanda e la contraddittorietà della prospettazione della ricorrente rendono pertanto inammissibile la censura proposta.
4. – Procedendo nell’esame delle censure di carattere più generale, mosse con i due atti introduttivi, conviene esaminare il primo motivo del ricorso avverso il decreto legislativo n. 443 del 1999. Con esso la ricorrente lamenta un uso scorretto della delega, di cui all’art. 10 della legge n. 59 del 1997, per la adozione di disposizioni correttive ed integrative dei decreti legislativi di conferimento di funzioni, adottati ai sensi dell’art. 1 della stessa legge; e impugna pertanto, sotto questo profilo, l’intero decreto n. 443.
Secondo la ricorrente, la delega in questione potrebbe essere utilizzata solo per far fronte a esigenze e fatti sopravvenuti, e non per eludere il termine della delega principale, come invece si sarebbe fatto con il decreto impugnato.
5. – La questione é infondata.
L’art. 10 della legge n. 59 del 1997, come varie altre leggi di delega, conferisce al Governo la possibilità di esercitare nuovamente la potestà delegata, entro un ulteriore termine decorrente dalla entrata in vigore dei decreti legislativi con i quali si é esercitata la delega "principale", ai fini di correggere – cioé di modificare in qualche sua parte – o di integrare la disciplina legislativa delegata, ma pur sempre nell’ambito dello stesso oggetto, nell’osservanza dei medesimi criteri e principi direttivi operanti per detta delega "principale", e con le stesse garanzie procedurali (pareri, intese). Siffatta procedura si presta ad essere utilizzata soprattutto in occasione di deleghe complesse, il cui esercizio può postulare un periodo di verifica, dopo la prima attuazione, e dunque la possibilità di apportare modifiche di dettaglio al corpo delle norme delegate, sulla base anche dell’esperienza o di rilievi ed esigenze avanzate dopo la loro emanazione, senza la necessità di far ricorso ad un nuovo procedimento legislativo parlamentare, quale si renderebbe necessario se la delega fosse ormai completamente esaurita e il relativo termine scaduto. Nulla induce a far ritenere che siffatta potestà delegata possa essere esercitata solo per "fatti sopravvenuti": ciò che conta, invece, é che si intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate già emanate, e non già in funzione di un esercizio tardivo, per la prima volta, della delega "principale"; e che si rispettino pienamente i medesimi principi e criteri direttivi già imposti per l’esercizio della medesima delega "principale".
Nel suo insieme, il decreto legislativo n. 443 del 1999 non si discosta da questi criteri di utilizzo della delega "correttiva".
6. – Con il secondo e con il terzo motivo del ricorso avverso il decreto legislativo n. 112, la Regione censura le disposizioni che, a suo avviso, riserverebbero allo Stato compiti e funzioni che la legge di delega avrebbe invece imposto di conferire alle Regioni. Il secondo motivo riguarda materie che la ricorrente asserisce di competenza propria delle Regioni, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, e investe gli articoli 13 (artigianato), 44 (turismo e industria alberghiera), 54 (urbanistica e lavori pubblici di interesse regionale), 59 (edilizia residenziale pubblica), 69, comma 2 (protezione della natura e dell’ambiente), 115, 118, 119, 120, 121, comma 1, 124 (assistenza sanitaria e ospedaliera), 129 (servizi sociali, nelle parti concernenti i servizi sociali a favore della generalità dei soggetti), 142 (formazione professionale). Il terzo motivo a sua volta riguarda altre materie, ed investe gli articoli 18 e 29, comma 2 (industria ed energia, per le parti diverse da quelle contemplate dall’art. 1, comma 3, della legge di delega), 33 (miniere e risorse geotermiche), 65 (catasto, servizi geotopografici e conservazione dei registri immobiliari), 85 (gestione dei rifiuti), 93, 98 e 104 (rispettivamente in materia di opere pubbliche, viabilità e trasporti diversi da quelli di interesse regionale), 137 (istruzione scolastica, per la parte non contemplata dall’art. 1, comma 3, lettera q, della legge di delega).
Secondo la ricorrente, il decreto legislativo avrebbe preteso di riservare allo Stato compiti ritenuti di "interesse nazionale", anche al di fuori delle materie escluse dal conferimento ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge di delega, e dei compiti esclusi ai sensi dell’art. 1, comma 4, della stessa legge. Le riserve in esame sarebbero estranee alle esclusioni previste dalla delega, e sarebbero in contrasto con i principi di completezza, di responsabilità e di unicità dell’amministrazione, e di omogeneità, sanciti dall’art. 4, comma 3, della legge n. 59 del 1997: onde esse violerebbero i criteri della delega.
7. – Le censure sono inammissibili.
La ricorrente afferma genericamente che le disposizioni che riservano compiti e funzioni allo Stato avrebbero per presupposto una lettura erronea della delega, la quale non autorizzerebbe a trattenere in capo allo Stato compiti e funzioni in nome di un non specificato "interesse nazionale", ma solo le funzioni espressamente escluse ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 1 della legge n. 59 del 1997. Tuttavia la censura non é poi articolata e motivata in relazione alle singole, numerose e disparate disposizioni che vengono impugnate, per argomentare che esse riserverebbero allo Stato compiti e funzioni le quali, secondo i criteri della delega, avrebbero invece dovuto, a giudizio della ricorrente, essere conferiti alle Regioni e agli enti locali. In tal modo risulta impossibile valutare la fondatezza della censura in relazione alle singole funzioni riservate allo Stato, specie tenendo conto che molte delle disposizioni impugnate toccano indubbiamente anche materie ed aspetti astrattamente riconducibili proprio agli stessi criteri di esclusione che, come la stessa ricorrente ricorda, sono stati adottati dalla legge di delega: così, ad esempio, ai compiti di rilievo nazionale per la tutela dell’ambiente (art. 1, comma 4, lettera c, della legge n. 59 del 1997), per ciò che riguarda le censurate riserve di funzioni in materia di urbanistica e di protezione della natura e dell’ambiente o di gestione dei rifiuti (artt. 54, 69, comma 2, 85 del decreto); per la tutela della salute (art. 1, comma 4, lettera c, cit.), per quanto riguarda le riserve in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera (artt. 115, 118, 119, 120, 121, comma 1, 124 del decreto); in tema di energia (art. 1, comma 4, lettera c, cit.), per quanto riguarda le riserve di funzioni in materia di energia (artt. 29, comma 2, 33 del decreto); o ancora ai compiti relativi alle grandi reti infrastrutturali di interesse nazionale (art. 1, comma 4, lettera b, della legge n. 59 del 1997), per quanto riguarda le riserve in materia di opere pubbliche e viabilità (artt. 93, 98 del decreto).
Le domande così sottoposte alla Corte non danno luogo a specifiche questioni sulla conformità delle disposizioni del decreto alla legge di delega: come tali, esse non sono ammissibili.
8. – Le questioni sollevate con il secondo motivo del secondo ricorso investono gli articoli 1, 8 e 11 del d.lgs. n. 443 del 1999, che avrebbero trattenuto in capo allo Stato funzioni e compiti – rispettivamente in tema di metrologia legale e strumenti di misura, di consorzi tra piccole e medie imprese, e di esami per conducenti di unità di diporto nautico e di patenti nautiche - che invece, secondo la legge di delega, avrebbero dovuto essere conferiti alle Regioni, con ciò violando gli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione.
9. – Le questioni non sono fondate.
L’art. 1 del decreto impugnato modifica l’art. 18 del d.lgs. n. 112, aggiungendo ai compiti conservati allo Stato dal comma 1, lettera c, del decreto base (determinazione dei campioni nazionali di unità di misura e conservazione dei prototipi nazionali del chilogrammo e del metro) gli ulteriori compiti di "definizione di norme in materia di metrologia legale" e di "omologazione di modelli di strumenti di misura".
Si tratta di compiti del tutto omogenei a quelli già individuati dal decreto base, ed evidentemente estranei, da un lato, "alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo" delle comunità territoriali, nonchè alle funzioni e compiti amministrativi "localizzabili nei rispettivi territori", cioé a quelle funzioni e compiti che, in base all’art. 1, comma 2, della legge di delega, erano destinati ad essere conferiti alle Regioni e agli enti locali, "nell’osservanza del principio di sussidiarietà"; dall’altro lato, riconducibili ai compiti "preordinati ad assicurare l’esecuzione a livello nazionale degli obblighi derivanti dal Trattato sull’Unione europea e dagli accordi internazionali" in materia di strumenti di misura e controllo metrologico (cfr., ad esempio, il d.P.R. n. 798 del 1982, di attuazione della direttiva CEE n. 71/316, e il d.lgs. n. 517 del 1992, di attuazione della direttiva CEE n. 90/384), a loro volta esclusi dal conferimento ai sensi dell’art. 1, comma 4, lettera e, della legge di delega.
L’art. 8 del d.lgs. n. 443 del 1999 esclude dalle funzioni conferite alle Regioni dall’art. 48, comma 1, lettera b, del decreto base, relative alla "promozione e al sostegno alla costituzione di consorzi tra piccole e medie imprese industriali, commerciali e artigiane", quelle relative ai consorzi "a carattere multiregionale".
Le funzioni di promozione e di sostegno dei consorzi in questione sono riconducibili ai compiti comuni in tema di "promozione dello sviluppo economico" e di "valorizzazione dei sistemi produttivi", che l’art. 1, comma 6, della legge di delega individua come "interessi pubblici primari che lo Stato, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti locali assicurano nell’ambito delle rispettive competenze": il carattere multiregionale dei consorzi può giustificare, in base all’apprezzamento del legislatore delegato, la loro esclusione dall’area dei compiti rimessi in esclusiva agli enti territoriali in funzione della loro riconducibilità agli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità e alla loro localizzabilità nei rispettivi territori (art. 1, comma 2, della legge di delega).
L’art. 11, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 443 modifica l’art. 104, comma 1, del decreto base, che elenca le funzioni mantenute in capo allo Stato in materia di trasporti, estendendo i compiti statali in tema di esami per conducenti di veicoli a motore e loro rimorchi a quelli "per unità di diporto nautico"; e parimenti aggiungendo, ai compiti statali in tema di rilascio di patenti e di certificati di abilitazione professionale e loro duplicati e aggiornamenti, i compiti concernenti il rilascio di patenti nautiche e relativi duplicati e aggiornamenti.
La conservazione in capo allo Stato dei compiti predetti, evidentemente omogenei a quelli già riservati allo Stato dal testo originario dell’art. 104 del decreto base, si giustifica in quanto essi incidono sulla materia della "sicurezza pubblica", esclusa, a norma dell’art. 1, comma 3, lettera l, della legge di delega, dal conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli enti locali.
10. – Con il quarto motivo del primo ricorso e con il terzo
motivo del secondo ricorso la ricorrente censura le disposizioni dei decreti
impugnati che stabiliscono i compiti "di rilievo nazionale" riservati
allo Stato ai sensi dell’art. 1, comma 4, lettera c,
della legge n. 59 del
Il profilo di censura relativo al mancato assenso all’intesa di tutti i presidenti delle Regioni, e comunque all’assenza, nella seduta della Conferenza in cui l’intesa venne sancita, della maggioranza dei presidenti, é avanzato dalla ricorrente anche riguardo al d.lgs. n. 112 del 1998, ma solo nella memoria depositata in vista dell’udienza del 16 gennaio 2001, quindi tardivamente. Tale profilo é stato invece tempestivamente prospettato, nel secondo ricorso, a proposito del d.lgs. n. 443 del 1999.
11. – Le questioni, nei loro termini generali, e salvo quanto si dirà a proposito dell’art. 3 del d.lgs. n. 443 del 1999, non sono fondate.
L’art. 1, comma 4, lettera c, della legge di delega dispone che restino esclusi dal conferimento alle Regioni e agli enti locali "i compiti di rilievo nazionale del sistema di protezione civile, per la difesa del suolo, per la tutela dell’ambiente e della salute, per gli indirizzi, le funzioni e i programmi nel settore dello spettacolo, per la ricerca, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia". Ai fini dell’individuazione dei compiti di rilievo nazionale, gli schemi di decreti legislativi dovevano essere "predisposti previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano"; in mancanza dell’intesa, il Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto deliberare motivatamente in via definitiva su proposta del Presidente del Consiglio.
L’istruttoria disposta da questa Corte con l’ordinanza 11-15
maggio
a) per quanto riguarda il d.lgs. n. 112 del 1998, lo schema originario del decreto fu predisposto dal Governo e sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni ai fini del raggiungimento dell’intesa sulla individuazione dei compiti di rilievo nazionale da riservare allo Stato; le Regioni, pur rilevando che l’intesa avrebbe dovuto precedere e non seguire la predisposizione dello schema, affrontarono il merito della disciplina in esame, elaborando tra l’altro un proprio documento e chiedendo e ottenendo che il decreto contenesse anche le disposizioni in materia di spettacolo, assenti nell’originario schema governativo; le posizioni delle Regioni vennero concordate, all’unanimità dei presenti, nell’ambito della conferenza dei presidenti delle Regioni, che si riuniva, con la presenza maggioritaria dei suoi membri, in vista delle sedute della Conferenza Stato-Regioni; la discussione avvenne su tutte le materie cui si riferiscono i compiti di rilievo nazionale individuati nel decreto, e sfociò nell’intesa definitivamente sancita, sul testo dei relativi articoli dello schema di decreto legislativo, nella seduta della Conferenza del 25 marzo 1998, alla quale tutti i presidenti delle Regioni e delle Province autonome risultavano regolarmente invitati, mentre risultavano presenti i rappresentanti di 10 Regioni e Province autonome; nessuna posizione di dissenso rispetto al testo definitivo dell’intesa risulta essere stata espressa da rappresentanti regionali, in particolare della Regione ricorrente, nell’ambito della Conferenza, nè, peraltro, al di fuori di essa nei rapporti fra le Regioni ed il Governo;
b) per quanto riguarda il d.lgs. n. 443 del 1999, le modifiche al decreto base furono tutte sottoposte alla Conferenza Stato-Regioni, che sancì formalmente l’intesa – sempre sulle formulazioni testuali delle disposizioni del decreto legislativo poi approvato – nella seduta del 25 giugno 1999 (con la presenza dei rappresentanti di 11 Regioni e Province autonome) in relazione agli articoli 3, 13, 14, 15 e 17, nonchè all’art. 16, limitatamente alle lettere a e b del comma 1, e nella seduta del 1° luglio 1999 (con la presenza dei rappresentanti di 12 Regioni e Province autonome) in relazione alla lettera c del comma 1 dell’art. 16, introdotta su richiesta delle Regioni, ad integrazione – proposta nel corso della seduta – dell’intesa già raggiunta nella precedente seduta, come ulteriore modificazione dell’art. 115 del decreto base, nel quale tale lettera introduce il comma 3-ter; anche in questo caso l’intesa fu preceduta da deliberazioni, prese all’unanimità dei presenti, della conferenza dei presidenti delle Regioni, e nessun dissenso risulta essere stato manifestato da alcuna delle Regioni, e in particolare dalla ricorrente, sui testi definitivi dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, nè, peraltro, al di fuori di essa nei rapporti fra Regioni e Governo. Risulta parzialmente difforme dal testo dell’intesa raggiunta l’art. 3 del decreto legislativo.
12. – Ciò premesso in punto di fatto, non può, in primo luogo, essere condivisa la tesi della ricorrente, secondo cui la procedura seguita sarebbe in contrasto con l’art. 1, comma 4, lettera c, della legge di delega, in quanto il Governo predispose lo schema originario del decreto n. 112 senza previamente raggiungere l’intesa sulla individuazione dei compiti di rilievo nazionale da trattenere in capo allo Stato. Vero é, infatti, che sullo schema originariamente proposto dal Governo non era stata sollecitata e raggiunta l’intesa, ma ciò che conta é che tale intesa sia stata richiesta e raggiunta, nella Conferenza Stato-Regioni, prima che si intraprendessero le ulteriori tappe del procedimento prescritto (pareri della Conferenza Stato, Regioni, città e autonomie locali, e delle commissioni parlamentari, deliberazione definitiva del Governo), così che le Regioni abbiano avuto modo di esprimere le proprie posizioni e di pervenire o meno all’intesa, sulla base di un effettivo confronto con le posizioni del Governo, nella sede della Conferenza Stato-Regioni: ciò che, come si é visto, é in fatto accaduto.
Nemmeno può consentirsi con la ricorrente circa la necessità che l’assenso sia espresso, in sede di formalizzazione dell’intesa, dai presidenti di tutte le Regioni e Province autonome componenti della Conferenza Stato-Regioni. L’art. 3, comma 2, del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 – unica disposizione che regola il procedimento per le intese sancite nella Conferenza Stato-Regioni – stabilisce che "le intese si perfezionano con l’espressione dell’assenso del Governo e dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano". Esso non può intendersi, conformemente alla sua ratio e ad una interpretazione congruente con il principio di leale collaborazione, nel senso che l’assenza di alcune Regioni, al limite anche di una sola, pur regolarmente convocate, alla riunione della Conferenza, non accompagnata da alcuna espressione di dissenso, eventualmente manifestata anche fuori della sede della conferenza, possa inficiare l’assenso delle Regioni e dunque impedire il perfezionamento dell’intesa.
Ma non può neanche accogliersi la tesi sostenuta in via subordinata dalla ricorrente, secondo cui sarebbe quanto meno necessario l’assenso della maggioranza assoluta delle Regioni i cui presidenti sono membri della Conferenza. La regola dell'assenso espresso dalla unanimità o almeno dalla maggioranza assoluta della componente regionale della Conferenza é stabilita, dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 281 del 1997, limitatamente all’adozione degli atti di cui alle lettere f, g e i del comma 1 dello stesso articolo, vale a dire per la determinazione dei criteri di riparto fra le Regioni di risorse finanziarie, per l’adozione dei provvedimenti attribuiti dalla legge alla Conferenza, e per la nomina, nei casi previsti dalla legge, dei responsabili di enti od organismi strumentali all’esercizio di funzioni concorrenti tra Governo e Regioni; nonchè – ai sensi del successivo comma 8 del citato art. 2 – per la deliberazione degli indirizzi per l’uniforme applicazione dei "percorsi diagnostici e terapeutici" di cui all’art. 1, comma 28, della legge n. 662 del 1996, dei protocolli di intesa dei progetti di sperimentazione gestionale del servizio sanitario, di cui all’art. 9-bis del d.lgs. n. 502 del 1992, e degli atti già di competenza dei soppressi organismi a composizione mista Stato-Regioni. Si tratta, come si vede, di ipotesi in cui la Conferenza esercita competenze decisorie come collegio deliberante.
Diverso é il caso delle intese, previste dall’art. 2, comma 1, lettera a, e regolate dall’art. 3 del d.lgs. n. 281 del 1997. La Conferenza non opera qui come collegio deliberante, ma come sede di concertazione e di confronto, anzitutto politico, fra Governo e Regioni - queste ultime considerate quale componente complessiva e unitaria, ancorchè rappresentativa di interessi e di opinioni eventualmente, in partenza, differenziate - , confronto volto a raggiungere, ove possibile, una posizione comune. Decisivo, a questo riguardo, é che esso si svolga, in conformità al principio di leale collaborazione, con modalità idonee a consentire a ciascuna delle due componenti di esprimere le proprie posizioni, di valutare le posizioni dell’altra parte e di elaborare e proporre soluzioni su cui concordare (cfr. sentenza n. 379 del 1992).
Nell’assenza – giustificabile d’altra parte alla luce dei sopra descritti caratteri dell’intesa – di ulteriori regole formali che disciplinino il modus procedendi della Conferenza e pongano requisiti di numero legale e di maggioranza, l’intesa non può dirsi mancata una volta che (come in effetti, secondo quanto si é detto, nella specie é accaduto) tutte le Regioni siano state messe in grado di partecipare effettivamente alla ricerca e alla definizione dell’accordo e di concorrere al raggiungimento del medesimo, o invece di impedirlo, e non siano stati manifestati dissensi sulla posizione comune raggiunta, come formalmente sancita nella Conferenza.
13. – In relazione al decreto legislativo n. 112 del 1998, la ricorrente, nella relazione di accompagnamento dei documenti prodotti a seguito dell’istruttoria disposta da questa Corte, afferma che l’art. 89, comma 1, lettera b (concernente le funzioni trasferite in materia di dighe) e l’art. 109, comma 2 (concernente le strutture statali soggette a riordino) sono difformi dal testo dell’intesa sancita nella Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 25 marzo 1998. Tuttavia – a parte il rilievo che detti articoli non sono stati specificamente impugnati nel ricorso, ma al più potrebbero ritenersi oggetto della generica censura di assenza della previa intesa sui compiti di rilievo nazionale, mossa con il quarto motivo del ricorso – non si tratta di divergenze tali da inficiare la conformità del decreto all’intesa prescritta in tema di individuazione dei compiti di rilievo nazionale da conservare alla competenza statale.
Invero:
a) la difformità relativa all’art. 89, comma 1, lettera b, é puramente formale e non incide sulla sostanziale individuazione dei compiti di rilievo nazionale. Infatti il testo del decreto include, fra le funzioni trasferite, quelle relative "alle dighe non comprese in quelle indicate all’articolo 91, comma 1 " (cioé diverse da quelle aventi le caratteristiche tecniche di cui all’art. 1, comma 1, del d.l. n. 507 del 1994, che detto art. 91, comma 1, del decreto, in conformità dell’intesa, conserva alla competenza dello Stato), anzichè "alla vigilanza sulla realizzazione e l’esercizio delle dighe di ritenuta di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1 novembre 1959, n. 1363" (come risultava nel testo oggetto di intesa): la variazione appare determinata dalle esigenze di coordinamento con il testo – conforme all’intesa – dell’art. 91, comma 1, e non modifica la portata rispettiva delle funzioni conferite e di quelle conservate in capo allo Stato;
b) la difformità relativa all’art. 109, comma 2, riguarda la mancata inclusione – nel testo finale – del dipartimento dei servizi tecnici nazionali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri fra le strutture per le quali si prevede il riordino ai sensi degli articoli 11 e 12 della legge n. 59 del 1997, cioé in base alla delega specifica per la riorganizzazione delle strutture amministrative nazionali. Ma, com’é evidente, si tratta di tema estraneo alla individuazione – unico oggetto dell’intesa prevista dalla legge di delega - dei compiti di rilievo nazionale da trattenere in capo allo Stato, in deroga al principio del conferimento alle Regioni e agli enti locali, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 4, lettera c, della legge di delega.
14. – In relazione al d.lgs. n. 443
del 1999, sulla base delle considerazioni sopra svolte (al n. 12), potrebbe
porsi uno specifico interrogativo circa la validità dell’intesa sancita dalla
Conferenza, nella seduta del 1° luglio 1999, concernente l’introduzione, nel
testo dell’art. 115 del d.lgs. n. 112 del 1998, del nuovo comma 3-ter, ad
integrazione delle modifiche allo stesso art. 115 su cui era stata sancita
l’intesa nella seduta del 25 giugno
15. – Deve invece essere esaminato, sempre riguardo al d.lgs. n. 443 del 1999, il profilo di censura prospettato dalla ricorrente là dove essa rileva che l’art. 3 del d.lgs. n. 443 del 1999, modificativo dell’art. 29, comma 2, lettera b, del d.lgs. n. 112 del 1998, é stato approvato dal Governo in un testo parzialmente diverso da quello risultante dall’intesa sancita nella Conferenza Stato-Regioni.
L’art. 29 del decreto base determina le funzioni e i compiti conservati allo Stato in materia di ricerca, produzione, trasporto e distribuzione di energia. In particolare, la lettera b del comma 2, nel testo originario, conservava in capo allo Stato le funzioni amministrative concernenti "le determinazioni inerenti l’importazione, l’esportazione e lo stoccaggio di energia". Il testo dell’art. 3 dello schema di decreto modificativo e integrativo, sul quale intervenne l’intesa nella seduta della Conferenza del 25 giugno 1999, prevedeva (oltre ad una modifica della lettera l del comma 2 dello stesso art. 29, trasfusa integralmente nel testo del d.lgs. n. 443 del 1999, e che qui non viene in considerazione), l’aggiunta, nel citato testo della lettera b, dopo le parole "stoccaggio di energia", delle seguenti parole: "limitatamente allo stoccaggio di metano in giacimento, allo stoccaggio di oli minerali di capacità superiore a mc. 80.000 e di gas di petrolio liquefatti di capacità superiore a mc. 400". Nel testo finale del decreto legislativo, invece, l’aggiunta é limitata alle parole "limitatamente allo stoccaggio di metano in giacimento". In sostanza, mentre il decreto base conservava allo Stato per intero le determinazioni inerenti allo stoccaggio di energia, la modifica recata dal decreto correttivo prevede una limitazione di tali competenze rimaste in capo allo Stato: secondo l’intesa dette competenze avrebbero comunque dovuto essere più ampie di quelle poi effettivamente rimaste allo Stato in base al decreto n. 443, concernendo, oltre allo stoccaggio di metano in giacimento, altresì lo stoccaggio, in quantità superiori a date soglie, degli oli minerali e dei gas di petrolio liquefatti. Queste ultime funzioni sono state invece escluse, nel testo definitivo, dalla competenza statale, risultando dunque, in definitiva, più ampia la sfera delle funzioni conferite alle Regioni ai sensi dell’art. 30, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 112, secondo cui "sono delegate alle Regioni le funzioni amministrative in tema di energia (…) che non siano riservate allo Stato ai sensi dell’articolo 29 o che non siano attribuite agli enti locali ai sensi dell’articolo 31".
16. – La questione, sotto questo specifico profilo, é fondata.
La modifica introdotta nel decreto base dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 443 é infatti difforme dall’intesa raggiunta, e dunque perviene ad una definizione dell’area dei compiti di rilievo nazionale, conservati in capo allo Stato, diversa da quella concordata. Poichè il Governo non ha motivato specificamente tale difformità dal testo dell’intesa, essa dà luogo a violazione dell’art. 1, comma 4, lettera c, della legge n. 59 del 1997, e dunque, indirettamente, a violazione dell’art. 76 della Costituzione.
Nè si potrebbe obiettare che la modifica introdotta dal Governo é ampliativa, e non restrittiva, delle funzioni conferite alle Regioni, rispetto al testo su cui si raggiunse l’intesa: infatti la garanzia dell’intesa riguarda non solo l’ampiezza minima dei conferimenti convenuti, ma più in generale il riparto delle funzioni risultante dalla individuazione dei compiti di rilievo nazionale trattenuti in capo allo Stato, anche tenendo conto del fatto che, nella specie, le funzioni delegate alle Regioni ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 112 possono comportare oneri finanziari, come risulta implicitamente dallo stesso art. 30, comma 2, che vincola le Regioni a statuto ordinario a destinare, "per far fronte alle esigenze di spesa relative alle attività di cui al comma 1", cioé alle attività delegate, una percentuale minima dell’1 per cento delle disponibilità conseguite annualmente ai sensi dell’art. 3, comma 12, della legge n. 549 del 1995 (vale a dire del gettito della quota dell’accisa sulla benzina attribuita alle Regioni stesse).
Poichè la pronuncia di questa Corte non può, all’evidenza, conseguire l’effetto di ripristinare la corrispondenza fra il testo su cui é intervenuta l’intesa e il testo legislativo emanato, inserendo in quest’ultimo ulteriori ipotesi di compiti riservati allo Stato nel campo dello stoccaggio di energia, l’accoglimento della censura deve condurre alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 443 del 1999, ripristinando così, per questa parte, il testo originario del d.lgs. n. 112 del 1998, che la disposizione censurata aveva inteso modificare.
17. – Con il quinto motivo del primo ricorso la ricorrente lamenta la violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione ad opera delle disposizioni del d.lgs. n. 112 del 1998 che attribuiscono direttamente funzioni e compiti agli enti locali sub-regionali nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione, e specificamente degli articoli 41, comma 3, 66, comma 1, lettere b (peraltro poi soppressa dall’art. 9 del d.lgs. n. 443 del 1999) e c, 99, comma 3, secondo periodo, 131, comma 2, 132: non si tratterebbe, infatti, di compiti di interesse esclusivamente locale, e sarebbe comunque violato il criterio di cui all’art. 4, comma 1, della legge di delega, secondo cui nelle materie dell’art. 117 della Costituzione l’attribuzione delle funzioni avrebbe dovuto essere operata a favore delle Regioni, alle quali sarebbe poi spettato valutare la necessità di conferimento delle stesse a livello locale.
18. – La questione non é fondata.
La legge di delega attribuiva al Governo, in termini assai ampi, il compito di procedere a conferire "alle Regioni e agli enti locali, ai sensi degli articoli 5, 118 e 128 della Costituzione, funzioni e compiti amministrativi". Il legislatore delegato era dunque autorizzato ad impiegare tutti gli strumenti di decentramento funzionale contemplati dalla Costituzione, dal trasferimento e dalla delega a favore delle Regioni, all’attribuzione diretta a favore degli enti locali; e infatti l’art. 3, comma 1, lettera b, della stessa legge prevedeva che con i decreti legislativi delegati fossero, fra l’altro, "indicati, nell’ambito di ciascuna materia, le funzioni e i compiti da conferire alle Regioni (…) o da conferire agli enti locali territoriali o funzionali ai sensi degli articoli 128 e 118, primo comma, della Costituzione..": dove il richiamo all’art. 118, primo comma, non può che riferirsi alle funzioni "di interesse esclusivamente locale" che la legge della Repubblica può attribuire direttamente agli enti locali proprio nelle materie di cui all’art. 117 della Costituzione (cfr. sentenza n. 408 del 1998, n. 3 del considerato in diritto).
L’ulteriore principio sancito dall’art. 4, comma 1, della legge di delega, secondo cui "nelle materie di cui all’articolo 117 della Costituzione, le Regioni, in conformità ai singoli ordinamenti regionali, conferiscono alle province, ai comuni e agli altri enti locali tutte le funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale" (mentre gli altri compiti e funzioni decentrati vengono conferiti a Regioni, comuni e altri enti locali con i decreti legislativi delegati: art. 4, comma 2, della stessa legge), ha per un verso una portata più ampia, concernendo tutte le funzioni comunque facenti capo alle Regioni nelle materie di loro competenza propria, comprese quelle già ad esse intestate; per altro verso ha una portata direttiva di massima, nel senso della spettanza alle Regioni del compito di procedere, nelle materie medesime, alla ripartizione di funzioni fra di esse e gli enti locali, ma non può intendersi come preclusivo dell’impiego, da parte del legislatore delegato, dello strumento della attribuzione diretta di compiti agli enti locali ai sensi dell’art. 118, primo comma, della Costituzione.
Nel procedere alla individuazione dei compiti ritenuti di "interesse esclusivamente locale" da attribuire agli enti locali il medesimo legislatore delegato godeva di ampia discrezionalità, nell’osservanza dei criteri generali indicati dall’art. 4, comma 3, della legge di delega (sussidiarietà, completezza, efficienza ed economicità, responsabilità e unicità dell’amministrazione, omogeneità, adeguatezza, differenziazione): nè la ricorrente adduce una specifica dimostrazione del fatto che i compiti, o taluni dei compiti, attribuiti agli enti locali dal decreto legislativo non rivestano carattere di interesse esclusivamente locale, o che la loro attribuzione agli enti locali sia in contrasto con i predetti criteri generali.
19. – La ricorrente censura, con il sesto motivo del primo ricorso, gli articoli 3, comma 1, e 132, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 112, secondo i quali, entro sei mesi dall’emanazione del decreto, ciascuna Regione doveva determinare le funzioni richiedenti l’unitario esercizio a livello regionale e conferire tutte le altre agli enti locali, adottando la legge regionale di "puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate ai comuni ed agli enti locali e di quelle mantenute in capo alle Regioni stesse". Sarebbero violati gli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione per la irragionevole brevità del termine imposto alle Regioni, tale da lederne l’autonomia e da rendere pressochè inevitabile l’intervento sostitutivo dello Stato previsto dall’art. 4, comma 5, secondo periodo, della legge n. 59 del 1997.
20. – La questione é inammissibile.
Il termine di sei mesi dalla emanazione del decreto legislativo, assegnato alle Regioni per l’adozione della legge di "puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate agli enti locali e di quelle mantenute in capo alla Regione stessa", é espressamente stabilito dall’art. 4, comma 5, primo periodo, della legge di delega. Il legislatore delegato non ha fatto altro, a tale proposito, che richiamare e ripetere la prescrizione della legge di delega.
La censura non può dunque utilmente appuntarsi sul decreto delegato. Nè può accogliersi la richiesta subordinata della ricorrente, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 5, della legge di delega, per violazione degli indicati medesimi parametri costituzionali, poichè si farebbe luogo in tal modo ad una inammissibile elusione del termine assegnato alle Regioni dall’art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1948 per la impugnazione delle leggi statali.
21. – Il settimo motivo del primo ricorso solleva questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 119 della Costituzione, dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 112, ove si prevedono i criteri di attribuzione alle Regioni e agli enti locali di beni e risorse finanziarie "corrispondenti per ammontare a quelli utilizzati dallo Stato per l’esercizio delle medesime funzioni e compiti prima del conferimento", stabilendo che, ai fini della relativa quantificazione, si tenga conto "dei beni e delle risorse utilizzati dallo Stato in un arco temporale pluriennale, da un minimo di tre ad un massimo di cinque anni" (lettera a), "dell’andamento complessivo delle spese finali iscritte nel bilancio statale nel medesimo periodo di riferimento" (lettera b), e "dei vincoli, degli obiettivi e delle regole di variazione delle entrate e delle spese pubbliche stabiliti nei documenti di programmazione economico-finanziaria, approvati dalle Camere, con riferimento sia agli anni che precedono la data del conferimento, sia agli esercizi considerati nel bilancio pluriennale in vigore alla data del conferimento medesimo" (lettera c). La lesione lamentata discenderebbe dalla indeterminatezza dei criteri indicati, essendo rimessa al Governo la scelta dell’arco temporale e dell’anno da assumere come base per il calcolo, e potendo esso utilizzare i criteri a loro volta indeterminati di cui alle citate lettere b e c.
22. – La questione non é fondata.
Il criterio fondamentale individuato per la determinazione delle risorse da trasferire é, in conformità all’art. 3, comma 1, lettera b, della legge di delega (che prevede, insieme al conferimento delle funzioni, la "conseguente e contestuale attribuzione e ripartizione" dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative), quello della attribuzione di beni e risorse "corrispondenti per ammontare a quelli utilizzati dallo Stato per l’esercizio delle medesime funzioni e compiti prima del conferimento": criterio logico ed obiettivo, volto ad evitare squilibri fra compiti e risorse, o un aggravio della finanza pubblica per effetto del decentramento delle funzioni. Gli indici contemplati per la quantificazione delle risorse da attribuire tendono a realizzare tale principio di corrispondenza, attraverso un riferimento meno meccanico di quello (utilizzato in occasione di precedenti trasferimenti di funzioni) alle sole cifre stanziate nei capitoli pertinenti dell’ultimo bilancio dello Stato, e tenendo conto della dinamica della spesa nel tempo in rapporto anche agli altri indici dell’economia, utilizzati al fine della programmazione finanziaria dello Stato.
Nessuna lesione dell’autonomia finanziaria delle Regioni può perciò discendere da tale definizione di criteri di quantificazione: mentre eventuali lesioni che discendessero da una cattiva applicazione degli stessi potrebbero, se del caso, essere fatte valere in sede di sindacato sui decreti del Presidente del Consiglio, cui l’art. 7, comma 1, della legge di delega e lo stesso art. 7, comma 3, del decreto legislativo impugnato affidano la puntuale individuazione delle risorse da trasferire.
23. – Anche con l’ottavo motivo del primo ricorso la
ricorrente lamenta la lesione dell’art. 119 della Costituzione, ad opera dell’art. 3, comma
24. – La questione non é fondata, in quanto le norme impugnate non possono intendersi nel senso, paventato dalla ricorrente, di imporre un trasferimento di risorse da parte della Regione, a favore degli enti locali, anticipato rispetto alla attribuzione delle stesse da parte dello Stato alla Regione medesima.
In realtà la ripartizione delle risorse trasferite dallo
Stato fra Regione ed enti locali non può che seguire la ripartizione delle
funzioni e dei compiti: questo é il criterio di fondo
cui si ispirano sia la legge di delega, sia il decreto delegato. E’ dunque
evidente che la individuazione delle risorse spettanti
agli enti locali deve conseguire, da un lato, alla ripartizione delle funzioni,
parzialmente rimessa alla legge regionale, dall’altro lato alla individuazione
da parte dello Stato dell’insieme delle risorse trasferite in conseguenza dei
conferimenti di funzioni e di compiti. Ed infatti
l’art. 7, comma 8, del d.lgs. n. 112 prevede che siano i decreti del Presidente
del Consiglio dei ministri, di cui all’art. 7 della legge n. 59 del
Il principio di congruità delle risorse trasferite rispetto alle funzioni conferite a ciascun livello vale sia per la ripartizione di risorse effettuata da parte dello Stato sulla base degli accordi fra Governo, Regioni ed enti locali, sia per le ulteriori risorse trasferite agli enti locali dalle Regioni in relazione ad ulteriori conferimenti di funzioni.
25. – Con il nono motivo del primo ricorso la Regione Veneto lamenta che il decreto legislativo impugnato abbia omesso quasi del tutto di provvedere alla soppressione, trasformazione o accorpamento delle strutture statali interessate dal conferimento di funzioni e compiti, come previsto dall’art. 3, comma 1, lettera d, della legge di delega, nonchè alla individuazione delle modalità e delle procedure per il trasferimento del personale statale, come previsto dall’art. 3, comma 1, lettera e, della stessa legge, rinviando invece a successivi provvedimenti del Governo. La omissione di tali adempimenti comporterebbe non già un parziale esercizio della delega, ma un illegittimo esercizio della stessa, posto che l’indicazione delle strutture oggetto del riordino e del personale da trasferire sarebbe essenziale per dare concretezza ai conferimenti di funzioni. Sarebbero dunque violati gli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione.
26. – La questione non é fondata.
Al riordino delle strutture statali interessate dal conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli enti locali é previsto che si debba provvedere, ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge di delega, "con le modalità e i criteri di cui al comma 4-bis dell’art. 17 della legge 31 agosto 1988, n. 400", introdotto dall’art. 13, comma 1, della stessa legge n. 59 del 1997: cioé con regolamenti di organizzazione, sulla base dei principi fissati con atto legislativo. Specifici interventi di riordino di strutture centrali, da attuare con decreti legislativi, sono poi previsti come oggetto di una autonoma delega dall'art. 11 della stessa legge n. 59 del 1997.
Non contrasta perciò con la legge di delega il disposto dell’art. 9 del d.lgs. n. 112 del 1998, secondo cui al riordino delle strutture che svolgevano le funzioni e i compiti oggetto del decreto medesimo, ed eventualmente alla loro soppressione o al loro accorpamento, "si provvede con i decreti previsti dagli articoli 7, 10 e 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59".
Quanto poi al trasferimento del personale statale, la legge di delega prevede che i decreti legislativi individuino modalità e procedure per detto trasferimento (art. 3, comma 1, lettera e), e demanda ai provvedimenti attuativi di cui all’art. 7 della stessa legge il compito di individuare puntualmente, fra l’altro, il personale da trasferire e di ripartirlo tra le Regioni e fra queste e gli enti locali (art. 7, comma 1). Apposite norme statuenti regole sostanziali in materia, in particolare per quanto riguarda l’inquadramento e il trattamento giuridico ed economico del personale trasferito, sono contenute nell’art. 7, commi 4, secondo periodo, 5 e 6, del decreto impugnato. A sua volta lo stesso art. 7, al comma 8, specifica le procedure da seguire per la elaborazione dei decreti attuativi a cui é affidata, fra l’altro, "la definizione dei contingenti complessivi, per qualifica e profilo professionale, del personale necessario per l’esercizio delle funzioni amministrative conferite e del personale da trasferire" (lettera c). Il pur largo rinvio ai provvedimenti attuativi di cui all’art. 7 della legge di delega per la (ulteriore) "individuazione delle modalità e delle procedure di trasferimento", nonchè "dei criteri di ripartizione del personale" (art. 7, comma 4, dello stesso decreto legislativo), non contrasta dunque con i criteri della delega e non inficia l’efficacia del previsto meccanismo di conferimento di funzioni e compiti e di conseguente trasferimento delle risorse, comprese quelle di personale.
27. – Con il decimo motivo del primo ricorso la ricorrente lamenta che il decreto impugnato abbia omesso di attuare le prescrizioni della legge di delega relative alla individuazione di procedure e strumenti di raccordo per la collaborazione e l’azione coordinata fra diversi livelli di governo (art. 3, comma 1, lettera c, della legge n. 59 del 1997), alla previsione di modalità e condizioni per l’avvalimento da parte dello Stato di uffici regionali e locali (art. 3, comma 1, lettera f), e per il conferimento a particolari strutture organizzative di funzioni che non richiedano l’esercizio esclusivo da parte delle Regioni e degli enti locali (art. 3, comma 1, lettera g). La mancanza, nel decreto legislativo, salve limitate eccezioni, di tali previsioni violerebbe ancora una volta gli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione.
28. – La questione é inammissibile.
Le norme della legge di delega invocate come parametro interposto hanno carattere solo facoltizzante, nel senso che esse consentivano al legislatore delegato di prevedere, là dove fosse ritenuto necessario od opportuno, strumenti di raccordo, ipotesi di avvalimento di uffici, o la creazione di particolari strutture organizzative, senza però imporre l’uso di tali strumenti o istituti a proposito di oggetti o materie determinate. La stessa ricorrente ammette che in taluni casi, che sarebbero limitati, il legislatore delegato ha utilizzato siffatte previsioni, ma il fatto che esso non abbia ritenuto opportuno di farvi ricorso più largamente, od in altre ipotesi, non può dar luogo a censure di legittimità costituzionale. Per altro verso, la ricorrente non specifica quali sarebbero le disposizioni del decreto legislativo viziate sotto questo profilo, onde la censura si palesa inammissibile anche per la sua genericità.
29. – Con l’ultimo motivo del primo ricorso la Regione ricorrente censura, per violazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione, l’art. 25, comma 2, lettera g, del d.lgs. n. 112 del 1998. La disposizione demanda ad uno o più regolamenti la disciplina del procedimento in materia di autorizzazione all’insediamento di attività produttive, stabilendo che essi debbono prevedere che, nel caso in cui il progetto sia in contrasto con uno strumento urbanistico, si possa ricorrere alla conferenza di servizi, la cui determinazione, se vi é accordo sulla variante, costituisce proposta di variante, sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale.
Secondo la ricorrente tale previsione lede la competenza regionale in materia urbanistica, espropriando la Regione del potere di concorrere a definire l’assetto urbanistico.
30. – La questione é fondata.
Secondo le regole generali oggi risultanti dall’art. 14-quater della legge 7 agosto 1990, n. 241, come sostituito dalla legge n. 340 del 2000, e già prima dall’art. 14, comma 3-bis, della stessa legge nel testo modificato dalla legge n. 127 del 1997, la conferenza di servizi può adottare una determinazione positiva sul progetto, non conforme allo strumento urbanistico generale, anche quando vi sia dissenso di taluna delle amministrazioni partecipanti, e dunque anche, in particolare, della Regione. In tale ipotesi, la previsione secondo cui la proposta di variante può essere approvata definitivamente dal consiglio comunale, senza l’ulteriore approvazione regionale, equivale a consentire che lo strumento urbanistico sia modificato senza il consenso della Regione, con conseguente lesione della competenza regionale in materia urbanistica.
Nè può valere, a far ritenere
salvaguardata tale competenza, il richiamo al disposto dell’articolo 14, comma 3-bis, della legge n. 241 del 1990,
introdotto dall’art. 17 della legge n. 127 del 1997, che attribuiva fra l’altro
al Presidente della Regione, previa delibera del consiglio regionale, il potere
di disporre la sospensione della determinazione di conclusione positiva del
procedimento, adottata dall’amministrazione procedente a seguito della
conferenza di servizi. A parte ogni altra considerazione, infatti, detta
disposizione non é più in vigore, a seguito della riformulazione degli articoli
da
Deve pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui prevede che, ove il progetto di insediamento contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico, la determinazione della conferenza di servizi costituisce, anche nell’ipotesi di dissenso della Regione, proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale.
31. – L’art. 16 del d.lgs. n. 443 del 1999 é impugnato, con il quarto motivo del secondo ricorso, nella parte in cui introduce nell’art. 115 del decreto base (concernente la ripartizione delle competenze in materia di tutela della salute) il comma 3-ter, ove si dispone che "l’esercizio delle funzioni di cui ai commi 3 e 3-bis [concernenti la verifica di conformità alla normativa di strutture e attività sanitarie, di sostanze e prodotti] é regolato sulla base di modalità definite con apposito accordo da approvare in Conferenza Stato-Regioni, ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281". Esso violerebbe gli articoli 117 e 118 della Costituzione, in quanto condizionerebbe l’esercizio di funzioni regionali, e la stessa attività legislativa delle Regioni, ad accordi con il Governo.
32. – La questione non é fondata, non avendo la norma impugnata la portata ad essa attribuita dalla ricorrente.
L’art. 115, comma 2, del d.lgs. n. 112, elencando le funzioni e i compiti amministrativi conferiti alle Regioni in materia di tutela della salute, contempla fra questi "la verifica della conformità rispetto alla normativa nazionale e comunitaria di attività, strutture, impianti, laboratori, officine di produzione, apparecchi, modalità di lavorazione, sostanze e prodotti, ai fini del controllo preventivo, salvo quanto previsto al comma 3 del presente articolo, nonchè la vigilanza successiva, ivi compresa la verifica dell’applicazione della buona pratica di laboratorio".
A sua volta il comma 3 dello stesso
articolo stabiliva che il conferimento delle funzioni di verifica della
conformità di cui al comma
In attuazione di tale previsione, l’art. 16
del d.lgs. n. 443 del
Ha poi inserito un comma 3-ter – la disposizione qui impugnata – ai sensi del quale "l’esercizio delle funzioni di cui ai commi 3 e 3-bis é regolato sulla base di modalità definite con apposito accordo da approvare in Conferenza Stato-Regioni, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281".
Tale ultimo comma fu aggiunto, come si é prima ricordato (sopra, n. 11), al testo già oggetto di intesa nella Conferenza Stato-Regioni, che conteneva solo il comma 3-bis, a seguito dell’intesa integrativa raggiunta nella seduta della Conferenza del 1° luglio 1999, su specifica richiesta delle Regioni.
Esso non può intendersi nel senso che subordini all’accordo con il Governo in Conferenza Stato-Regioni l’esercizio delle funzioni di verifica di conformità conferite alle Regioni dall’art. 115, comma 2, lettera c, del d.lgs. n. 112: comma, quest’ultimo, che non é infatti richiamato dal comma 3-ter. Piuttosto deve intendersi, nonostante la formulazione non perspicua, nel senso che sulla base dell’accordo, e quindi con la partecipazione decisionale delle Regioni nella Conferenza, sono disciplinate le modalità di esercizio delle funzioni di verifica di conformità attribuite alla competenza degli organi centrali dal comma 3-bis, mentre il richiamo anche al comma 3 si spiega per il fatto che é in tale comma, già presente nel testo originario del decreto, che si rinviava espressamente ad un decreto integrativo la individuazione dei compiti da conservare allo Stato in questa materia. L’accordo fra Governo e Regioni dovrà dunque concernere la individuazione degli "aspetti della salute di rilievo nazionale" che delimitano le funzioni di verifica di conformità attribuite allo Stato, e la determinazione delle modalità di esercizio di tali funzioni statali in quanto interferenti con le funzioni di verifica che, nella stessa materia, sono attribuite alle Regioni: ferma restando, evidentemente, la possibilità per lo Stato di intervenire anche in quest’ultimo ambito, con gli strumenti a sua disposizione, quale l’eventuale esercizio, ove previsto, della funzione di indirizzo e coordinamento a tutela di interessi unitari.
33. – L’ultimo motivo del secondo ricorso investe l’art. 6 del d.lgs. n. 443 del 1999, che aggiunge all’art. 40, comma 1, del decreto base – ove si individuano le funzioni e i compiti conservati allo Stato in materia di fiere e mercati e di commercio – la lettera f, concernente "l’attività regolamentare in materia di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e di commercio dei pubblici esercizi, d’intesa con le regioni".
La ricorrente lamenta la violazione degli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, in quanto si vincolerebbe l’attività normativa e amministrativa delle Regioni all’osservanza di norme regolamentari statali, il che sarebbe precluso sia che si consideri la materia in questione oggetto di competenza propria delle Regioni, sia che la si consideri materia delegata.
34. - La questione é fondata.
La materia di cui si discute – somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e commercio dei pubblici esercizi – non rientra nell’ambito delle competenze costituzionalmente proprie delle Regioni.
Ancorchè, infatti, l’art. 41 del medesimo d.lgs. n. 112 del 1998, al comma 1, lettera d, disponga il trasferimento alle Regioni delle "competenze già delegate ai sensi dell’articolo 52, comma primo, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616", e fra queste rientrino quelle relative "ai pubblici esercizi di vendita e consumo di alimenti e bevande" (lettera a di detto art. 52, primo comma), sta di fatto che l’art. 39 dello stesso decreto legislativo n. 112 tiene distinte le funzioni amministrative relative alla materia "fiere e mercati", rientrante nell’elenco dell’art. 117 della Costituzione, da quelle relative alla materia – estranea invece a detto elenco – del "commercio", nel cui ambito sono espressamente comprese, fra l’altro, "l’attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti" e "l’attività di commercio dei pubblici esercizi" (cfr. sentenza n. 205 del 2001).
Non trattandosi di materia di competenza propria delle Regioni, non sarebbe di per sè costituzionalmente illegittima la previsione di un esercizio da parte dello Stato della potestà di emanare regolamenti di esecuzione della legge statale (cfr. legge 25 agosto 1991, n. 287, il cui art. 12 prevede l’emanazione di un regolamento interministeriale di esecuzione, che non risulta ancora emanato).
Tuttavia, nella specie, occorre tener conto che la legge di delega (art. 2 della legge di delega n. 59 del 1997, richiamato espressamente dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1998) – riprendendo una clausola generale già presente nell’art. 7, primo comma, del d.P.R. n. 616 del 1977 – stabilisce in via generale che nelle materie diverse da quelle di competenza propria delle Regioni, ma oggetto di conferimenti di funzioni amministrative alle stesse, "spetta alle Regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione" (comma 1, seconda parte); e che "in ogni caso, la disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti amministrativi conferiti (…) é disposta, secondo le rispettive competenze e nell’ambito della rispettiva potestà normativa, dalle Regioni e dagli enti locali" (comma 2).
Con tale previsione generale di attribuzione alle Regioni di una potestà normativa di attuazione della legislazione statale contrasta la riserva allo Stato, non già di singoli compiti esclusi dal conferimento, bensì, genericamente, della "potestà regolamentare" (benchè da esercitarsi "d’intesa con le Regioni"), in una singola materia o submateria – quella dei pubblici esercizi di vendita e consumo di alimenti e bevande – compresa fra quelle in cui vi é conferimento di funzioni amministrative alle Regioni (art. 41, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 112 del 1998), ancorchè non rientrante fra quelle elencate nell’art. 117 Cost. Non si tratterebbe infatti di una potestà destinata ad esplicarsi in ordine ad aspetti della materia rimasti alla competenza dello Stato (cfr. sentenza n. 159 del 2001), ma di una generale potestà normativa diretta a integrare e specificare la disciplina della legislazione statale – cioé a darvi attuazione – proprio nella materia oggetto di conferimento alle Regioni: dunque di una funzione normativa di attuazione coincidente con quella che, in base alla legge di delega, é attribuita a queste ultime.
Nè potrebbe ritenersi che la potestà attribuita allo Stato sia di carattere suppletivo, riguardi cioé l’emanazione di norme regolamentari destinate ad avere efficacia solo fino a quando la Regione non adotti, nella stessa materia, proprie norme di attuazione (come ritenuto in altra occasione, rispetto ad un regolamento statale in materia analoga, dalla sentenza n. 165 del 1989). Infatti il contesto in cui é inserita la norma in esame, volta ad integrare l’elenco delle funzioni "conservate allo Stato", e quindi escluse dal conferimento alle Regioni e agli enti locali (art. 3, comma 1, lettera a, della legge n. 59 del 1997), in materia di commercio, e la stessa previsione di una attività regolamentare statale da esercitarsi "d’intesa con le Regioni", impediscono di riconoscere alla norma stessa la portata riduttiva che sarebbe propria di una attribuzione di potestà normativa solo suppletiva.
La disposizione impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con i principi della delega, e quindi con l’art. 76 della Costituzione.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui prevede che, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale, anche quando vi sia il dissenso della Regione;
b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 443 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali);
c) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1, lettera f, del decreto legislativo n. 112 del 1998, aggiunta dall’art. 6 del decreto legislativo n. 443 del 1999;
d) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 6; 5, commi 2 e 3; 7, commi 1, 2, lettera a, e 8, lettera a; 50, commi 2 e 3; 63; 138, comma 2, del decreto legislativo n. 112 del 1998, nonchè dello stesso decreto legislativo nella sua interezza, sollevata, in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione, nonchè in relazione agli articoli 1, comma 1, e 3, comma 1, lettera a, della legge 15 marzo 1997, n. 59, dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 25 del 1998);
e) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale del decreto legislativo n. 112 del 1998 sollevata, in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della
Costituzione, nonchè in relazione agli articoli 3,
comma 1, lettere c, f, g, della legge n. 59 del 1997,
dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 25 del 1998);
f) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni del predetto decreto legislativo n. 112 del 1998, sollevate, in riferimento alle norme sotto indicate, dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 25 del 1998):
- articoli 13, 44, 54, 59, 69, comma
2, 115, 118, 119, 120, 121, comma 1, 124, 129,
- articoli 18, 29, comma 2, 33, 65,
85, 93, 98, 104,
- articoli 3, comma 1, e 132, comma 1, primo periodo, in riferimento agli articoli 76, 117 e 118 della Costituzione;
g) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto legislativo n. 112 del 1998, sollevate, in riferimento alle norme sotto indicate, dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 25 del 1998):
- articoli 29, comma 1, 52, comma 1,
69, comma 1, 77, 80, 83, 88, 107,
- articoli 41, comma 3, 66, comma 1,
lettere b e c, 99, comma 3, secondo periodo, 131, comma 2,
- articolo 7, comma
- articolo 3, comma
- articoli 7, comma 4, 9, 58, 67,
comma 1, 75, 92, commi 2 e 3, 106, comma 1, 109, comma 2,
h) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 443 del 1999 – intero testo – sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 1 del 2000);
i) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto legislativo n. 443 del 1999, sollevate, in riferimento alle norme sotto indicate, dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe (r. ric. n. 1 del 2000):
- articoli 1, 8,
- articoli 13, 14, 15, 16,
- art. 16, comma 1, lettera c, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Valerio ONIDA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2001.